1

Olio di palma e strumenti retorici: il caso Ferrero

Qualche tempo fa, si è cominciato a parlare di una (presunta) pericolosità dell’olio di palma. Le maggiori industrie dolciarie italiane lo hanno tolto dagli ingredienti dei loro prodotti, ma con un’eccezione: la Ferrero ha deciso di distinguersi, compiendo una scelta opposta e perciò ha manifestato l’intenzione di continuare ad utilizzarlo.
Lo ha fatto con un’efficace campagna di comunicazione, attuata pure con l’organizzazione di eventi. Come riportato dal quotidiano economico-finanziario Il Sole 24 Ore, Alessandro D’Este, amministratore delegato della Ferrero Commerciale Italia, ha dichiarato: “Vogliamo far parlare gli esperti per la responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri consumatori”. Nello stesso articolo si può leggere: “Non è vero che l’olio di palma produce alla salute danni diversi dagli altri oli e grassi (Elena Fattore, Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri). Non è vero che viene danneggiato l’ambiente, se si usa l’olio di palma certificato secondo gli standard più severi (Chiara Campione, Greenpeace)” (1).
In uno spot, intitolato “Ferrero. Da 70 anni la qualità prima di tutto”, come avviene nella migliore pubblicità, si ricorre agli strumenti della retorica, come quello di ordine affettivo, l’ethos, cioè “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio”. Infatti “quali che siano i suoi argomenti logici, essi non hanno alcun potere senza questa fiducia” (2).
A parlare è la società, per bocca di alcuni suoi dipendenti, i quali trasmettono al pubblico cinque messaggi:
“Eravamo una piccola famiglia. Se in 70 anni siamo diventati un grande successo italiano nel mondo è perché da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”.
“Preserviamo i profumi del cacao con una lavorazione nata da un’esperienza di decenni”
“Come tutti gli oli vegetali di qualità, il nostro olio di palma è sicuro. Proviene da frutti spremuti freschi e da fonti sostenibili ed è lavorato a temperature controllate, perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
“E le nocciole? Tostate all’ultimo per esaltarne gli aromi”.
“Perché, sì, lo sappiamo. Ogni scelta che facciamo in questa famiglia, sarà anche per la tua. E per la mia”.
Sul piano strutturale, il motivo centrale, ossia il procedimento che svolge la funzione di principio organizzatore di un testo, è la sua costruzione circolare, dovuta all’epanadiplosi, ovvero alla ripetizione, all’inizio e alla fine e quindi in una posizione di peculiare rilievo, del concetto dell’azienda come una famiglia. Esso rimanda all’idea di persona, che, secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “introduce un elemento di stabilità. Qualsiasi argomento sulla persona ha come fondamento questa stabilità: la si presuppone, interpretando l’atto in funzione della persona”. Tuttavia “la stabilità della persona non è mai del tutto sicura: certe tecniche linguistiche contribuiranno ad accentuare l’impressione di permanenza” (3).
Perciò il commercial della Ferrero contiene espressioni-chiave, come “in 70 anni”, “da sempre”, “un’esperienza di decenni”. In tal modo si crea un senso di affidabilità, di estrema importanza per l’immagine di un’industria e vi contribuisce pure l’occorrenza per tre volte della parola “qualità”.
Già nel titolo si trova un vero e proprio luogo comune, che, nonostante il suo frequente impiego in pubblicità, conserva sempre la sua forza persuasiva: quello dell’ordine, basato sulla “superiorità dell’anteriore sul posteriore” (4) (“Da 70 anni […]”). Evidentemente nessuno fra i concorrenti può vantare un simile primato.
Ed eccoci passati pertanto allo strumento retorico di carattere razionale, il logos, contraddistinto dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e che “concerne l’argomentazione propriamente detta del discorso” (5).
Il primo messaggio è incentrato sulla relazione causa (“da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”) – effetto (“siamo diventati un grande successo italiano nel mondo”).
Si segue lo stesso schema nel terzo messaggio. Infatti, a sostegno della tesi (“il nostro olio di palma è sicuro”), si porta una prova, si fa un ragionamento, cioè si ricorre ad un argomento: quello che deriva, appunto, come ha scritto Olivier Reboul, dal “mostrare il valore dell’effetto a partire da quello della causa” (6), nella fattispecie costituita da “frutti spremuti freschi”, “fonti sostenibili”, lavorazione “a temperature controllate”.
Non a caso la creativa Annamaria Testa dà agli aspiranti copywriter il seguente consiglio: “Mettete in evidenza i nessi causali: le affermazioni pubblicitarie suonano sempre così vaghe e sfumate… Per questo conviene, non appena è possibile, avvitarle l’una all’altra con un bel legame causa-effetto, in modo che il risultato finale abbia un aspetto abbastanza solido” (7).
Inoltre l’opinione, espressa da quello che nel telecomunicato appare come un tecnico, viene rafforzata con l’argomento che consiste in “un’azione reciproca fra i fini che si perseguono e i mezzi messi in opera per attuarli” (8). Difatti l’ingrediente di cui si parla, è considerato “perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
L’aggettivo possessivo di prima persona plurale, ripetuto due volte (“nostro olio di palma” e “nostriprodotti”), svolge un’importante funzione, perché, attraverso di esso, si sottolinea una differenza rispetto alle altre aziende.
Secondo Perelman e Olbrechts-Tyteca, “l’argomentazione non potrebbe procedere di molto senza ricorrere a paragoni, nei quali diversi oggetti siano posti a confronto per essere valutati l’uno in rapporto all’altro” (9).
Tuttavia, in concreto, il raffronto non si attua direttamente, esplicitamente, come avviene nella pubblicità comparativa, ma indirettamente, implicitamente, per mezzo dell’allusione, che viene classificata fra le tecniche d’attenuazione, le quali “dànno un’impressione favorevole di ponderatezza, di sincerità e concorrono a distogliere dall’idea che l’argomentazione sia un espediente, un artificio” (10).
Invero tale figura retorica consiste nel dire una cosa (“il nostro olio di palma è sicuro”) per farne intendere anche un’altra più profonda e nascosta, che non si vuole dichiarare apertamente e quindi si sottintende e comunque si evoca: i competitor evidentemente non possono offrire la stessa garanzia, in quanto si sono affrettati a stampare sulle loro confezioni la dicitura “senza olio di palma”.
Ma è difficile dimenticare in un attimo che quella sostanza entrava nella composizione dei loro dolci fino a poco tempo prima. E dunque, in qualche modo, la loro decisione di rinunciarvi si configura come il riconoscimento di un errore, l’ammissione di una colpa, con un danno alla propria reputazione e una perdita di credibilità. Per di più si avvia un altro meccanismo argomentativo, quello del precedente, che consiste nel presumere come possibile la persistenza in avvenire di ciò che si è verificato in precedenza: nel nostro caso, chi ha sbagliato in passato, potrebbe farlo pure in futuro. Tutto ciò è in relazione con il pathos, lo strumento retorico di ordine affettivo con il quale l’emittente del messaggio tende a provocare vari sentimenti nel ricevente: nella fattispecie, la Ferrero cerca di suscitare sfiducia verso le altre industrie dolciarie.
La distinzione della Ferrero nei riguardi dei concorrenti rimanda ad un tópos. Ne hanno parlato – li citiamo ancora una volta – Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca: “Al limite, il luogo della qualità giunge alla valorizzazione dell’unico che […] è uno dei cardini dell’argomentazione”. Effettivamente “è ciò che ci sembra unico, che diviene per noi prezioso”, giacché il suo valore “può essere espresso contrapponendolo al comune”. Perciò diventa “degno di nota e piace anche alla moltitudine” (11).
Qualcuno si chiederà se, al momento della sua ideazione, gli autori dello spot fossero consapevoli della presenza di simili elementi e del loro legame di complementarità. Ovviamente non siamo in grado di dare una risposta. Tuttavia, come ha ricordato Olivier Reboul, “esiste una retorica spontanea, un’attitudine a persuadere per mezzo della parola che forse non è innata – non entriamo in questa discussione – ma che non è dovuta nemmeno a una formazione specifica; e poi una retorica che si insegna […] e che serve a formare dei venditori o degli uomini politici, a insegnare loro ciò che altri venditori, altri uomini politici sembrano sapere naturalmente” (12).
 
NOTE
(1) JACOPO GILIBERTO, <Ferrero si schiera in difesa dell’olio di palma>, in Il Sole 24 ore, 28 ottobre 2016 (in sito web).
(2) OLIVIER REBOUL, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 21 e 69.
(3) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, pp. 318-319.
(4) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 101. La parola “luogo” è la traduzione del termine greco tópos. Il suo plurale, tópoi, indicava originariamente le sedi, dove sono conservati gli argomenti (nel senso di prove, ragionamenti). Ancora oggi si fa dunque riferimento alla loro presenza nella memoria collettiva.
(5) OLIVIER REBOUL, op. cit., pp. 36 e 70.
(6) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 211.
(7) ANNAMARIA TESTA, La parola immaginata, Pratiche, 1992, p. 138.
(8) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 296-297.
(9) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 262.
(10) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 503.
(11) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 97-98.
(12) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 20.




Le bolle informative nell’oceano digitale

Ho affrontato il tema assai attuale delle fake news in un recente articolo per addetti ai lavori, Le fake news non sono la malattia del XXI secolo, pubblicato sul mio blog, concludendo che la disinformazione non è “il problema del XXI secolo”, bensì è solo il sintomo di un malessere assai più profondo, che affonda le radici nell’ormai cronica mancanza di fiducia dei cittadini verso i mass-media tradizionali e – in senso più esteso – verso le istituzioni in generale.

Andiamo con ordine, ripercorrendo il senso di una conversazione che ho avuto ieri con l’amico e collega giornalista Luca Yuri Toselli.

Velocità e modalità della comunicazione contemporanea

Vorrei brevemente riflettere sulle forti correlazioni tra velocità e modalità della comunicazione contemporanea, e in particolare sulle bolle informative annegate nell’oceano digitale della post-verità, sommerse dalle onde dell’analfabetismo di ritorno, che lambiscono le spiagge dell’informazione alla quale tutti noi quotidianamente attingiamo attraverso i nostri device.
Torniamo per un istante ai bei tempi che furono. In Liguria, il Signor Crotti ti affittava la casa al mare, e, se glielo chiedevi, ti calava dal terzo piano, con una cordicella, un cestello di vimini con 25 gettoni del telefono, per il controvalore di 5.000 lire. Andavi in cabina e provavi a chiamare tuo papà; se era in casa tutto ok, parlavi da Diano Marina a Torino, sennò dovevi riprovare 24 ore dopo.
Ancor prima c’era la lettera scritta su carta spessa, pergamena prima e canapa poi. La spedivi, quando trovavi il tizio sul cavallo che andava nelle Marche, e gli chiedevi se magari poteva fare una deviazione fino a Recanati, e Leopardi riceveva la tua lettera, che forse aspettava con ansia, e poi la rileggeva ancora, e ancora, e rifletteva, e dopo qualche settimana rispondeva, e dopo due mesi sapevi com’era finita la storia. Ma andava bene così, era quello l’unico mezzo, non desideravi altro, l’attesa faceva parte del gioco. Era il 1820.
Oggi, c’è la doppia spunta su WhatsApp. Se vedi che lei/lui ha letto dopo due o tre secondi, ma non ti risponde entro un paio di minuti, scatta il dramma, quasi la depressione, e giù di cortisolo, l’ormone dello stress.
È questa, appunto, la tribù di WhatsApp, che a scuola non si pone domande perché ha già tutte le risposte. Impara delle date, in base ai “programmi ministeriali”, vittorie, sconfitte, formule, elenchi… deve saper ripetere, non deve imparare a costruire il futuro. Soprattutto, non è stimolata a contestualizzare, a chiedersi com’era quel mondo di Leopardi, o il mondo di Seneca, o quello di Lorenzo il Magnifico. Quei mondi per loro non esistono, semplicemente: cosa esiste sulla traccia temporale prima di me?… Nulla, ovvio. Per chi è nato dopo il 2004 – e oggi inizia il Liceo – non è mai esistito un mondo senza Facebook. Il mondo è Facebook, perché Facebook è sempre esistito.

Il sub-pianeta Facebook

Facebook è un sub-pianeta, un pianeta più piccolo della Terra – ha solo 2 miliardi di abitanti, non 7 miliardi, e poi non emette passaporti – ma ha tutto quello che serve a un pianeta per essere tale. Per alcuni, come ho detto, è l’unico mondo.
Ci si informa, lì sopra. Il wall è l’autorevolezza: per nonna Tina, che abitava a Vallunga, frazione di Piea d’Asti, era vero “perché l’hanno detto in TV”; per loro è vero “perché è su Facebook”, né più né meno. I siti di fake news, come Il fatto Quotidaino, Skynews24 o Lagazzettadellasera sono eguali alla BBC o a qualunque altro mass-media. Se non hai la percezione della complessità del mondo, tutto è semplice. E se non è semplice, lo riduci tu a semplicità: perché così puoi capirlo facilmente.
Oggi allo straordinario Museo Mimara, a Zagabria, inquadrando una Madonna con bambino di scuola pisana vecchia di oltre 800 anni, l’algoritmo di Zuckerberg mi ha suggerito di taggare i due volti, quello dell’Immacolata e quello di Gesù… Sono scoppiato a ridere. E se la giuria divina dovesse giudicare il ragazzo di White Plains, per questo lo condannerebbe: un misto di eccesso di velocità, iper-semplificazione ai limiti dell’idiozia, e incapacità totale di comprendere il contesto. E i nostri ragazzini gli vanno dietro sulla medesima lunghezza d’onda: il vero problema, per il nostro Paese, composto da una percentuale sempre maggiore di analfabeti funzionali e di ignoranti di ritorno, non è tanto la corruzione, i terremoti, o le violenze sui minori, bensì è l’incapacità di saper distinguere. Per il popolo del web – anzi, per il popolo – ha ragione chi dice cose semplici e che garantiscono di guadagnare con pochissimi punti la patente dell’“avere ragione”.

Concludiamo, facendo un altro piccolo salto indietro nel tempo, fino al 1933: non era colpa mia, era colpa degli Ebrei. E quant’era liberatorio, avere qualcuno a cui dare la colpa. Non dovevi leggere i libri: potervi bruciarli. Oggi per certi versi ci risiamo, non è cambiato nulla. Solo che le norme anti-incendio sono più rigide e non si possono più fare falò in piazza. E allora li fanno sul web, i falò, dove un burino leader movimentista, che fa il saluto fascista e si tuffa nel Tevere gelido perché è un “gesto maschio”, ha lo stesso ascendente di un ricercatore che ha due lauree e tre dottorati. E va bene così, nessuno si stupisce.
Se il livello è questo, allora, importiamo 10 milioni di negri dall’Africa: sono ignoranti, ma almeno lo sappiamo, sia noi che loro. È il Piano Kalergi…? Magari, purtroppo quello era un “fake”. Perché se fosse vero, molto probabilmente, perlomeno, quei 10 milioni prenderebbero senza mezzi termini a schiaffi i propri figli dicendogli: “Tu studia, così non resterai ignorante come una capra come me”. E forse – alla lunga – avremmo un mondo migliore.




Olio di palma e strumenti retorici: il caso Ferrero

Qualche tempo fa, si è cominciato a parlare di una (presunta) pericolosità dell’olio di palma. Le maggiori industrie dolciarie italiane lo hanno tolto dagli ingredienti dei loro prodotti, ma con un’eccezione: la Ferrero ha deciso di distinguersi, compiendo una scelta opposta e perciò ha manifestato l’intenzione di continuare ad utilizzarlo. Lo ha fatto con un’efficace campagna di comunicazione, attuata pure con l’organizzazione di eventi. Come riportato dal quotidiano economico-finanziario Il Sole 24 Ore, Alessandro D’Este, amministratore delegato della Ferrero Commerciale Italia, ha dichiarato: “Vogliamo far parlare gli esperti per la responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri consumatori”. Nello stesso articolo si può leggere: “Non è vero che l’olio di palma produce alla salute danni diversi dagli altri oli e grassi (Elena Fattore, Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri). Non è vero che viene danneggiato l’ambiente, se si usa l’olio di palma certificato secondo gli standard più severi (Chiara Campione, Greenpeace)” (1).
In uno spot, intitolato “Ferrero. Da 70 anni la qualità prima di tutto”, come avviene nella migliore pubblicità, si ricorre agli strumenti della retorica, come quello di ordine affettivo, l’ethos, cioè “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio”. Infatti “quali che siano i suoi argomenti logici, essi non hanno alcun potere senza questa fiducia” (2).
A parlare è la società, per bocca di alcuni suoi dipendenti, i quali trasmettono al pubblico cinque messaggi:
“Eravamo una piccola famiglia. Se in 70 anni siamo diventati un grande successo italiano nel mondo è perché da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”.
“Preserviamo i profumi del cacao con una lavorazione nata da un’esperienza di decenni”
“Come tutti gli oli vegetali di qualità, il nostro olio di palma è sicuro. Proviene da frutti spremuti freschi e da fonti sostenibili ed è lavorato a temperature controllate, perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
“E le nocciole? Tostate all’ultimo per esaltarne gli aromi”.
“Perché, sì, lo sappiamo. Ogni scelta che facciamo in questa famiglia, sarà anche per la tua. E per la mia”.
Sul piano strutturale, il motivo centrale, ossia il procedimento che svolge la funzione di principio organizzatore di un testo, è la sua costruzione circolare, dovuta all’epanadiplosi, ovvero alla ripetizione, all’inizio e alla fine e quindi in una posizione di peculiare rilievo, del concetto dell’azienda come una famiglia. Esso rimanda all’idea di persona, che, secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “introduce un elemento di stabilità. Qualsiasi argomento sulla persona ha come fondamento questa stabilità: la si presuppone, interpretando l’atto in funzione della persona”. Tuttavia “la stabilità della persona non è mai del tutto sicura: certe tecniche linguistiche contribuiranno ad accentuare l’impressione di permanenza” (3).
Perciò il commercial della Ferrero contiene espressioni-chiave, come “in 70 anni”, “da sempre”, “un’esperienza di decenni”. In tal modo si crea un senso di affidabilità, di estrema importanza per l’immagine di un’industria e vi contribuisce pure l’occorrenza per tre volte della parola “qualità”.
Già nel titolo si trova un vero e proprio luogo comune, che, nonostante il suo frequente impiego in pubblicità, conserva sempre la sua forza persuasiva: quello dell’ordine, basato sulla “superiorità dell’anteriore sul posteriore” (4) (“Da 70 anni […]”). Evidentemente nessuno fra i concorrenti può vantare un simile primato.
Ed eccoci passati pertanto allo strumento retorico di carattere razionale, il logos, contraddistinto dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e che “concerne l’argomentazione propriamente detta del discorso” (5).
Il primo messaggio è incentrato sulla relazione causa (“da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”) – effetto (“siamo diventati un grande successo italiano nel mondo”).
Si segue lo stesso schema nel terzo messaggio. Infatti, a sostegno della tesi (“il nostro olio di palma è sicuro”), si porta una prova, si fa un ragionamento, cioè si ricorre ad un argomento: quello che deriva, appunto, come ha scritto Olivier Reboul, dal “mostrare il valore dell’effetto a partire da quello della causa” (6), nella fattispecie costituita da “frutti spremuti freschi”, “fonti sostenibili”, lavorazione “a temperature controllate”.
Non a caso la creativa Annamaria Testa dà agli aspiranti copywriter il seguente consiglio: “Mettete in evidenza i nessi causali: le affermazioni pubblicitarie suonano sempre così vaghe e sfumate… Per questo conviene, non appena è possibile, avvitarle l’una all’altra con un bel legame causa-effetto, in modo che il risultato finale abbia un aspetto abbastanza solido” (7).
Inoltre l’opinione, espressa da quello che nel telecomunicato appare come un tecnico, viene rafforzata con l’argomento che consiste in “un’azione reciproca fra i fini che si perseguono e i mezzi messi in opera per attuarli” (8). Difatti l’ingrediente di cui si parla, è considerato “perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
L’aggettivo possessivo di prima persona plurale, ripetuto due volte (“nostro olio di palma” e “nostri prodotti”), svolge un’importante funzione, perché, attraverso di esso, si sottolinea una differenza rispetto alle altre aziende.
Secondo Perelman e Olbrechts-Tyteca, “l’argomentazione non potrebbe procedere di molto senza ricorrere a paragoni, nei quali diversi oggetti siano posti a confronto per essere valutati l’uno in rapporto all’altro” (9).
Tuttavia, in concreto, il raffronto non si attua direttamente, esplicitamente, come avviene nella pubblicità comparativa, ma indirettamente, implicitamente, per mezzo dell’allusione, che viene classificata fra le tecniche d’attenuazione, le quali “dànno un’impressione favorevole di ponderatezza, di sincerità e concorrono a distogliere dall’idea che l’argomentazione sia un espediente, un artificio” (10).
Invero tale figura retorica consiste nel dire una cosa (“il nostro olio di palma è sicuro”) per farne intendere anche un’altra più profonda e nascosta, che non si vuole dichiarare apertamente e quindi si sottintende e comunque si evoca: i competitor evidentemente non possono offrire la stessa garanzia, in quanto si sono affrettati a stampare sulle loro confezioni la dicitura “senza olio di palma”.
Ma è difficile dimenticare in un attimo che quella sostanza entrava nella composizione dei loro dolci fino a poco tempo prima. E dunque, in qualche modo, la loro decisione di rinunciarvi si configura come il riconoscimento di un errore, l’ammissione di una colpa, con un danno alla propria reputazione e una perdita di credibilità. Per di più si avvia un altro meccanismo argomentativo, quello del precedente, che consiste nel presumere come possibile la persistenza in avvenire di ciò che si è verificato in precedenza: nel nostro caso, chi ha sbagliato in passato, potrebbe farlo pure in futuro. Tutto ciò è in relazione con ilpathos, lo strumento retorico di ordine affettivo con il quale l’emittente del messaggio tende a provocare vari sentimenti nel ricevente: nella fattispecie, la Ferrero cerca di suscitare sfiducia verso le altre industrie dolciarie.
La distinzione della Ferrero nei riguardi dei concorrenti rimanda ad un tópos. Ne hanno parlato – li citiamo ancora una volta – Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca: “Al limite, il luogo della qualità giunge alla valorizzazione dell’unico che […] è uno dei cardini dell’argomentazione”. Effettivamente “è ciò che ci sembra unico, che diviene per noi prezioso”, giacché il suo valore “può essere espresso contrapponendolo al comune”. Perciò diventa “degno di nota e piace anche alla moltitudine” (11).
Qualcuno si chiederà se, al momento della sua ideazione, gli autori dello spot fossero consapevoli della presenza di simili elementi e del loro legame di complementarità. Ovviamente non siamo in grado di dare una risposta. Tuttavia, come ha ricordato Olivier Reboul, “esiste una retorica spontanea, un’attitudine a persuadere per mezzo della parola che forse non è innata – non entriamo in questa discussione – ma che non è dovuta nemmeno a una formazione specifica; e poi una retorica che si insegna […] e che serve a formare dei venditori o degli uomini politici, a insegnare loro ciò che altri venditori, altri uomini politici sembrano sapere naturalmente” (12).
 

NOTE

(1) JACOPO GILIBERTO, <Ferrero si schiera in difesa dell’olio di palma>, in Il Sole 24 ore, 28 ottobre 2016 (in sito web).
(2) OLIVIER REBOUL, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 21 e 69.
(3) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, pp. 318-319.
(4) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 101. La parola “luogo” è la traduzione del termine greco tópos. Il suo plurale, tópoi, indicava originariamente le sedi, dove sono conservati gli argomenti (nel senso di prove, ragionamenti). Ancora oggi si fa dunque riferimento alla loro presenza nella memoria collettiva.
(5) OLIVIER REBOUL, op. cit., pp. 36 e 70.
(6) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 211.
(7) ANNAMARIA TESTA, La parola immaginata, Pratiche, 1992, p. 138.
(8) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 296-297.
(9) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 262.
(10) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 503.
(11) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 97-98.
(12) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 20.




2 italiani su 3 disposti a pagare di più se l’azienda è responsabile e sostenibile

Fare Csr non è solo strategia aziendale, ma una leva di acquisto da parte di consumatori sempre più attenti. Pagnoncelli: “Ripensato il modello di consumo”.

La Responsabilità sociale d’impresa non più solo una vetrina per le imprese. Adottare un modello di sviluppo sostenibile sul lungo periodo si rivela essere un vero e proprio modello di business, che migliora la reputazione e i risultati economici e finanziari.
È quanto emerge dall’ultima ricerca Ipsos “La Corporate social responsibility vista da opinione pubblica e imprese”, presentata in occasione dell’evento organizzato da Autogrill a Milano, “Autogrill 10 – Ten Years of Sustainability Looking at the Future. Business and Sustainability: Opportunities and Developments”, tenutosi per celebrare i 10 anni di Responsabilità sociale d’impresa del gruppo.
Nonostante il termine “Corporate social responsibility (Csr)” sia ancora poco conosciuto, in particolare qui da noi, il 43 per cento del campione intervistato afferma che quest’ultima influisce sugli acquisti. Percentuale che raggiunge il 64 per cento tra coloro che si dichiarano conoscitori di queste tematiche.
“I consumatori hanno adottato delle strategie di adattamento alla crisi ripensando il loro modello di consumo”, spiega Nando Pagnoncelli presidenteIpsos. “Alcuni fenomeni che fino a qualche anno fa erano solo di nicchia, ora si stanno diffondendo sempre di più. Ma soprattutto sono i temi dell’ambiente, del futuro, della sostenibilità ad emergere con grande forza”. I consumatori tornano ad avere un ruolo fondamentale quindi, in grado di influenzare le politiche aziendali, in particolare dei grandi gruppi, che già da tempo hanno sperimentato le pratiche dedicate alla Csr.
consumatori
“Tutto questo inevitabilmente va ad impattare sulle strategie aziendali, che devono tener in considerazione il cambiamento profondo del paradigma di consumo da parte dei cittadini, ma anche dei temi ambientali, energetici, e quelli legati agli sprechi”, continua Pagnoncelli. Ma Corporate social responsibility significa anche sostenibilità sociale all’interno dell’azienda. Per l’87 per cento degli intervistati (dipendenti), la Csr è importante sul luogo di lavoro, mentre il 46 per cento delle imprese dichiara che le iniziative di Csr hanno migliorato il clima all’interno dell’azienda.
“Le aziende che sono in grado di dimostrare quanto sappiano valorizzare e rispettare i dipendenti, assumere giovani, sono aziende che sono considerate in termini positivi dal punto di vista reputazionale”, conclude Pagnoncelli. “E la reputazione ha un ritorno importante in termini di profitto, perché rende le aziende più credibili, in grado di trattenere i talenti e in grado di resistere ai momenti di crisi”.




Nutrire il pianeta, l’economia riparte dalla Csr


Nel corso della mattinata si sono susseguiti gli interventi di numerosi relatori, tra personalità istituzionali e rappresentanti del mondo imprenditoriale. «A Milano abbiamo sperimentato nuovi modelli economici che si collocano tra il mercato e la società» ha dichiarato in apertura l’assessore comunale alle Politiche per il Lavoro Cristina Tajani. Così come il capoluogo lombardo «in tutta l’Italia – ha proseguito il ministro plenipotenziario Fabrizio Petri – esistono realtà sociali importanti e soggiacenti che occorre far emergere con spirito di innovazione e competitività». Immaginare nuovi modelli di business è possibile soprattutto grazie alle partnership tra i settori del pubblico e del privato, le aziende, le ong e le piccole comunità dei Paesi in via di sviluppo. Tutti in campo per perseguire i propri interessi, ma con un’idea comune di futuro.
Un esempio virtuoso è rappresentato dal progetto Ramazzotti che prende il nome dal celebre amaro italiano, nato 200 anni fa da una ricetta a base di 33 erbe e spezie che lo avvicinano all’oriente. Un legame che ha spinto Pernod Ricard, con Positive Planet e l’agenzia federale tedesce Giz, a dare vita ad un progetto volto a favorire i coltivatori di spezie in India.  Le materie prime vengono acquistate da 500 dei 2 mila produttori locali della Cooperativa Pds Organic Spices in Kerala. L’iniziativa ha garantito agli agricoltori un reddito dignitoso e un programma di formazione agraria, commerciale e finanziaria. Il progetto, avviato nel 2010 da una sinergia, ha dato la possibilità a 100 agricoltori indiani di avere accesso ai mercati internazionali e di diversificare la loro produzione. E a 50 donne della comunità di essere coinvolte nella coltivazione del vetiver e nella produzione di manufatti per creare nuove fonti di reddito per le famiglie.

Tra le donne coinvolte nel progetto Betty Joseph, vincitrice dell’International Micro-Entrepreneurship Award 2014. Betty, con altre donne della comunità, ha iniziato a coltivare e lavorare il vetiver per fare cestini. «Ero solo una casalinga – ha raccontato – e all’inizio ho avuto difficoltà nel lavoro, ma adesso mi sento molto più sicura». Madre di tre bambini, adesso Betty riesce a contribuire al sostentamento della sua famiglia: «Vorrei poter mandare i miei figli a scuola per fare in modo che un giorno possano conquistarsi un buon posto in società. E vorrei che molte altre donne fossero coinvolte nel progetto, che imparassero a fare altre cose utili».
«La micro finanza – ha spiegato Attali – è solo un elemento di un sistema con cui vogliamo pensare alle nuove generazioni, formando le persone e preservando le risorse. L’economia non deve essere pensata come qualcosa di negativo. In Europa stiamo procedendo in direzione giusta. Possiamo fare molto di più, ma siamo solo all’inizio. La gente ricca – ha concluso – ha un interesse egoistico nell’aiutare gli altri. Ma essere altruisti è una cosa splendida. Dobbiamo fare in modo che diventi un’attitudine quotidiana»