La sostenibilità non è una moda, consumatori sempre più attenti

Presentata a Roma da Assorel l’indagine Swg sui comportamenti ambientali in Italia

Per il 90% degli italiani è importante che un’impresa si occupi di salvaguardare l’ambiente e il 78% dei consumatori è disposto a pagare di più per acquistare i prodotti di un’azienda impegnata sul fronte ambientale. La sostenibilità non è una moda ma un valore, per cittadini e aziende. Lo rileva l’indagine sui comportamenti ambientali degli italiani, effettuata da Swg per Assorel su un campione di 1.500 persone, presentata oggi al convegno “La comunicazione ambientale, fattore immateriale della sostenibilità e della crescita”.
Per oltre i due terzi dei consumatori, rileva la ricerca, l’impegno ambientale di un’azienda è un fattore che pesa nella scelta dei prodotti e dei servizi e nell’acquisto i cittadini chiedono di essere informati sulle buone pratiche di sostenibilità delle aziende produttrici. Ma quali sono le fonti da cui le persone prendono queste informazioni? Prima fra tutte il web (56%), seguita dal Tv (48%), giornali (27%) e radio (13%).
L’indagine, inoltre, rileva che il 74% degli italiani non giudica lo sviluppo sostenibile e la difesa dell’ambiente una moda o un tema dell’élite culturale, ma lo inserisce tra i valori fondamentali. Un fattore capace, quindi, di incidere profondamente sulle motivazioni di acquisto.
Il 68% delle persone chiede che la riconoscibilità ambientale sia messa bene in evidenza sui prodotti (e non solo pubblicizzata in tv o su internet) e anche se in tempi di crisi il driver dominante resta il costo (46%), l’impegno ambientale di un’azienda è premiato ed è diventato, per il 79% degli italiani, uno stimolo a preferirla. Il 78% si dice disposto a spendere di più per acquistare prodotti o servizi d’imprese attente a non inquinare e a tutelare territorio e ambiente.
Non solo aziende: anche il singolo cittadino deve fare la sua parte. Per custodire l’ecosistema è richiesto un forteimpegno individuale (53%), una maggiore volontà di governi e amministrazioni (50%), nonché comportamenti più virtuosi da parte delle imprese (43%).
L’83% degli intervistati sottolinea che solo i singoli, con le loro micro-azioni individuali, possono dare un contributo reale alla salvaguardia dell’ambiente e l’85% degli intervistati ritiene insufficienti e troppo scostanti i comportamenti ambientalisti degli italiani.
Ma quali sono le abitudini ‘green’ degli italiani? Il 65% evita di gettare materiali inquinanti negli scarichi; il 59% rispetta l’ambiente urbano; il 52% limita i livelli della temperatura del riscaldamento; il 51% fa la raccolta differenziata e il 48% è attento a non sprecare acqua. Un po’ più di disattenzione la incontriamo, invece, nell’uso razionale dei detersivi (31%), nell’uso di materiali ecosostenibili (16%), nell’attenzione al tipo e quantità di imballaggi (16%).
Non mancano vere distrazioni, come l’abitudine di tenere accesi, anche se in stand by, gli apparecchi (35%); lasciare sempre inserito il caricabatteria del cellulare nella presa (21%); lasciare il televisore acceso anche se nessuno lo guarda (14%).
Maggiore attenzione è riservata ai grandi vettori di consumo: il 57% evita di lasciare i caloriferi accesi quando non è in casa; il 73% non apre le finestre quando ha il condizionatore acceso; il 59% non fa partire la lavatrice o la lavastoviglie con poco carico.
Buone notizie arrivano dal fronte della raccolta differenziata: il 57% mette da parte carta e plastica, il 55% separa il vetro, mentre sull’umido siamo ancora al 44%. Pile esaurite e medicinali scaduti hanno rispettivamente un impegno da parte del 36 e 33%della popolazione.
Il tema su cui gli italiani proprio non riescono a cambiare è l’uso dell’auto o dello scooter. Il 62% usa l’auto tutti i giorni, mentre il 75% degli italiani non utilizza o usa solo saltuariamente i mezzi pubblici. Car sharing e car pooling sono per una pura minoranza (3%), mentre la bicicletta per spostarsi in città (non per le gite domenicali) è preferita solo dal 18% delle persone.


Digital Putin e la fabbrica dei Troll

Lo “Zar Putin” sta riuscendo a dare un nuovo significato alle parole “propaganda politica digitale”, come conferma una straordinaria inchiesta del quotidiano inglese “The Guardian”[1], che ha fatto molto discutere.

Come ci racconta il cronista Shaun Walker, tirando le fila di un’operazione di “infiltrazione” durata parecchi mesi, in un business center di San Pietroburgo, in Via Savuskina, lavorano centinaia di diligenti quanto giovani “precari digitali”, attivi 24 ore su 24 su due turni di dodici ore a gruppo: sono “troll”[2] di professione, pagati 45.000 rubli al mese – il corrispettivo di 800 euro al mese, con punte di 1.200 euro/mese – per intervenire sistematicamente su chat, thread di Facebook, o nello spazio commenti dei principali digital media, pubblicando messaggi provocatori, irritanti, fuori tema o semplicemente senza senso, con l’obiettivo di disturbare la comunicazione, fomentare gli animi, e indirizzare la propaganda e il consenso politico.

SI tratta della Internet Research Agency (IRA), gestita da Yevgeny Prigozhin, l’oligarca e capo del gruppo Wagner, la nota compagnia militare privata russa, spesso accusata di aver cercato di interferire attraverso campagne sui social e profili fake nella politica degli Usa e di altri Paesi, e i cui giovani blogger hanno un unico mandato: creare Corpi Digitali attivi sul web, “nutrirli” di contenuti al fine di aumentarne i follower, e poi tramite essi inondare le più visitate pagine internet di lodi per il Presidente Putin, “disturbando” sistematicamente – anche con attacchi duri, volgari o ingiuriosi – qualunque utente esprima critiche alla leadership Russa o alle strategie nazionaliste di Mosca.

Di propaganda politica se ne è sempre fatta, si potrebbe replicare, questa non è che la Sua versione “2.0”. Vero: ma ciò che colpisce in questo caso è l’ampiezza dell’intervento – pervasivo, su tutte le pagine Facebook e su tutte le bacheche di media digitali al di sopra di un certo livello di accessi, ovunque nel mondo – nonché il “basso profilo” degli addetti: non funzionari dei servizi segreti o del Ministero dell’informazione, ma un vero e proprio “esercito di troll” – quanti uffici del genere vi saranno in Russia…? – con strategie più simili a quelle di un’agenzia di relazioni pubbliche – dai metodi assai discutibili – che non a quelle di un team di esperti governativi in contro-informazione.
Gli infiltrati di “The Guardian” hanno avuto contatti con più di un “lavoratore digitale a cottimo”: tutti sono stati concordi nel descrivere un ambiente di lavoro “formale, molto serio, diretto da una disciplina inflessibile, con decurtazioni dallo stipendio per chiunque non raggiungesse un certo numero di post al giorno”. Nei quattro piani del palazzo, i numerosi uffici – ognuno di 20 persone più 3 coordinatori – sono suddivisi per lingue, per zone di influenza, per tipologia di testate sulle quale lavorare. Il ruolo dei coordinatori è anche quello di vigilare affinchè nessuno si allontani dalla linea ideologica indicata dai “mandanti” governativi, che è ben specificata nei briefing che i blogger trovano ogni mattina sulla loro scrivania: lodare il Presidente Putin per un certo accordo internazionale, attaccare chiunque sia vicino al governo nazionale ucraino, infangare l’immagine di questo o quell’altro leader occidentale, oppure qualche giorno dopo congratularsi con Lui se per qualche ragione ciò diviene strumentale ai progetti di propaganda di Mosca. Uno scenario Orwelliano, da “1984 virtuale”[3], con ragazzi reclutati mediante inserzioni molto generiche su giornali, come ha confermato dopo l’inchiesta del Guardian anche il sito indipendente russo “Sobaka”, e assunti dopo colloqui assai superficiali, previa però la sottoscrizione di stringenti impegni alla riservatezza, e sempre pagati in contanti al fine di non lasciare alcuna traccia bancaria.

L’azione dei troll stipendiati da Mosca è in ogni caso assai pervasiva: si sostanzia nella creazione di profili Facebook o account Twitter, Corpi Digitali con identità fittizie, che hanno come primo obiettivo quello di raggiungere un numero adeguato di followers. “Dobbiamo – dopo aver attivato dei proxy[4] per nascondere la reale posizione geografica del nostro computer – scrivere post normalissimi, di quelli che chiunque può leggere ogni giorno su un profilo Facebook di un proprio ‘amico virtuale’, del tipo ‘la migliore ricetta della torta di mele’, ‘i 10 castelli più belli da visitare in Europa’, ‘la musica più di tendenza’, o ancora ‘la spiaggia migliore dove passare le vacanze’, e poi – ogni tanto – inserire dei messaggi ‘politicamente orientati’. Questo è ciò che facciamo all’inizio. Quando poi la nostra pagina o profilo ha raccolto abbastanza adepti, allora procediamo attivandoci per delle ‘incursioni’ nelle aree dei commenti dei principali quotidiani, o anche di pagine Facebook istituzionali dove vi sono dibattiti interessanti per la Russia, come ad esempio – in questo periodo – la situazione a Kiev e in Ucraina”.

I Corpi Digitali dei blogger-troll procedono come segue: uno pubblica un post nel quale si lamenta di un problema, magari con un link di approfondimento, e altri due – subito, o poco dopo – entrano nella conversazione “animandola”. Di li in avanti, ottenere l’attenzione di altri utenti è una passeggiata di piacere. Ogni “mandato ad agire” include una “conclusione” che il team deve raggiungere quel giorno, in termini di orientamento della pubblica opinione, di trasformazione di un post ostile alla Russia in “post neutrale” o addirittura, laddove possibile, favorevole, etc.

Questi Corpi Digitali sono anche stati dotati di alcuni utili “accessori”, per aiutarli nel loro impegno virtuale: un data-base di migliaia di fotografie scaricabili con un click che rappresentano leader europei in situazioni ridicole o imbarazzanti, a volte appositamente ritoccate con Photoshop, un altro con fotografie adatte a ben ritrarre il Presidente Putin, nonché una specie di “wikipedia” patriottica russa con versioni ideologicamente addomesticate di ogni evento internazionale degno di nota.

I trend-topic sono Putin, da sostenere ad ogni costo e in qualunque forma efficace, la crisi Ucraina, l’omosessualità – descritta come negativa e in contrasto con i valori fondanti della famiglia tradizionale come la intende la Chiesa Ortodossa – e ovviamente la delegittimazione di qualunque leader occidentale abbia assunto posizioni “critiche” sul Cremlino.

“La sera al mio rientro a casa – ha dichiarato uno dei ragazzi avvicinato dai reporter – vedevo in televisione le stesse notizie alle quali avevo lavorato, confezionate nello stesso modo, secondo lo stesso modello narrativo. Alla fine – dato che passavo intere giornate sommerso dalla spazzatura – ho cominciato a temere per il mio equilibrio mentale, e ho preferito licenziarmi. Continuare ad alimentare odio, giorno dopo giorno, alla fine ti mangia l’anima, e rischi di incominciare a crederci sul serio”.

La cosa se vogliamo curiosa è che mentre The Guardian infiltrava due suoi giovani reporter nel palazzo di San Pietroburgo, il periodico russo “Novaja Gazeta” faceva la stessa identica cosa, scoprendo tra l’altro che una delle coordinatrici delle “stanze” è una agente che in passato si era infiltrata in diverse testate indipendenti russe spacciandosi per oppositrice del regime.

Interessante anche l’esperimento di un redattore del sito “Look and Me”, che ha creato un proprio Corpo Digitale, postando poi commenti a favore della linea del Cremlino, contro i liberali, i gay, gli ucraini e gli americani, e a favore della Russia, della civiltà euroasiatica e della famiglia tradizionale. Rapidamente, le sue bacheche si sono popolate di post di altri utenti, a sostegno dei suoi, con un engagement altissimo e lunghe discussioni con centinaia di profili. Per la maggior parte, neanche a dirlo, fake: Corpi Digitali scatenati, in viaggio da un server all’altro, desiderosi di “vivere” e di prendere voce raccontando la loro personale – e inautentica – visione della storia.

(*) Nota: questo articolo è tratto da un capitolo del libro “Il Sex Appeal dei Corpi Digitali: seduzione, matrimoni e divorzi, amplessi, prostituzione, stupri, cannibalismo e malattie genetiche ereditarie dei nostri Digital Body”, disponibile in formato cartaceo e eBook.
[1] una sintesi dell’inchiesta è consultabile alla URL http://www.theguardian.com/world/2015/aug/18/trolls-putin-russia-savchuk
[2] per una definizione di “troll”, potete consultare Wikipedia alla voce https://it.wikipedia.org/wiki/Troll_(Internet)
[3] il riferimento è allo straordinario capolavoro dello scrittore George Orwell, dal titolo “1984” https://it.wikipedia.org/wiki/1984_(romanzo) dove si illustrano le strategie di propaganda e i repentini “cambi di posizionamento” dettati da opportunità a brevissimo termine
[4] un “server intermediario” https://it.wikipedia.org/wiki/Proxy


Alla GUNA il bilancio diventa Social

Lo scrivono clienti e dipendenti
La società milanese inaugura una piattaforma all’insegna della trasparenza. Su progetti, fatturato, assunzioni e licenziamenti. Spiega il fondatore: «Sarà un hub aperto e così potremo individuare le inefficienze»
Un bilancio aziendale trasparente, redatto dai dipendenti, costantemente aggiornato e pubblicatosu un sito web. Si chiama Social Hubed è la nuova e insolita sfida di Guna, società milanese che produce e vende farmaci omeopatici e di medicina biologica. Totalmente italiana e quarta al mondo nel suo settore con un fatturato che nel 2013 ha superato i 57 milioni di Euro (increscita dell’11,3% rispetto a un anno prima), questa realtà ha già fatto parlare di sè per iniziative particolari e un po’ fuori dagli schemi. Prima fra tutte il progetto «No patent», con il quale alcuni anni fa Guna ha reso noto che dall’intera gamma di farmaci di propria produzione erano state eliminate tutte le procedure di protezione brevettuale. Dunque da allora immette ogni nuovo prodotto sul mercato in modalità «copyleft», cioè consultabile e «copiabile» da chiunque. Strategia molto rara, per non dire unica, nel settore farmaceutico.
Obiettivo: partecipazione via web
Se «No patent» ha l’obiettivo di incoraggiare l’innovazione e la ricerca continua, la nuova piattaforma di bilancio integrato punta a migliorare nel medio termine la responsabilità aziendale di ognuno: «Grazie alla piattaforma verranno facilmente individuate sacche di inefficienza – spiega il fondatore di Guna Alessandro Pizzoccaro – da trattare non in ottica punitiva ma migliorativa. L’obiettivo è che il nuovo Social Hub entri nel quotidiano».
La piattaforma, che verrà lanciata ufficialmente domani, si basa sul concetto di partecipazione. Saranno i dipendenti stessi a compilarne periodicamente (e obbligatoriamente) moduli e tabelle, per rendere pubblico lo stato del loro settore e dei progetti che stanno portando avanti. Tutto sulla linea della trasparenza, valore aziendale imprescindibile. Dalla produzione, al fatturato, alle assunzioni, ai licenziamenti, fino all’impatto ambientale tutto sarà reso pubblico. Un sistema di «educazione» e condivisione interna che porta anche i dipendenti ad «autodenunciare» le loro carenze o mancanze: «In un’area, per esempio – prosegue il titolare – c’è un progetto fermo da due anni perchè le risorse sono impegnate in altro e non riescono a portarlo avanti. L’hanno comunicato loro stessi»
Le onlus sono coinvolte
Nell’aggiornamento della piattaforma saranno coinvolti anche gli stakeholder dell’azienda, dai clienti alle onlus delle quali Guna finanzia progetti, a cui verranno chiesti dei report periodici. Il nuovo sistema mira anche a far conoscere la società all’esterno. Per questo motivo il sito permette percorsi guidati in base agli interessi professionali o in base al tempo a disposizione per navigarlo. Non solo: l’azienda ha creato «Decidi Tu» un progetto  per coinvolgere maggiormente gli utenti nella conoscenza del mondo Guna. Per tre mesi, chi navigando individuerà almeno dieci «tracce» disseminate nel testo del bilancio avrà diritto a indicare uno dei progetti illustrati sul Social Hub al quale destinare un budget stanziato dall’azienda. Oppure proporre una nuova causa sociale alla quale destinare un nuovo budget per l’anno successivo.


EPIGENETICA E AZIENDE: UNA CORRELAZIONE POSSIBILE?

L’economia ha da sempre avuto, perlomeno nei primi periodi del suo sviluppo come scienza, uno stretto legame con la psicologia, basti ricordare che fu proprio Adam Smith a scrivere un importante testo[1] che descriveva come i principi psicologici potessero influire sul comportamento individuale e poi collettivo.
Anni fa, scrivevo – nell’incipit di un mio articolo sul rapporto tra biopsicologia e qualità del lavoro in azienda[2], materia nella quale Adriano Olivetti fu maestro – che Francois Michelin, l’uomo che portò la sua fabbrica di pneumatici a essere leader mondiale assoluta nel proprio settore, in una straordinaria intervista rilasciata in età già avanzata affermava: “ ‘tagliare pietre’ e ‘costruire cattedrali’, ancorché atti simili, sono in realtà azioni ben diverse”.
Come sempre in questi casi, i confini tra la frase pronunciata dall’81enne fondatore della dinastia imprenditoriale francese e l’agiografia costruita dall’ufficio stampa della nota multinazionale, sono più labili di quanto si possa pensare, ma una cosa mi sento di affermare con certezza, confortato dalla scienza: “pensare al futuro”, dando concretezza alle proprie passioni e ai propri sogni, costruendo costantemente nuovi scenari, giova non solo al business, ma anche alla qualità dell’esistenza delle persone e la loro aspettativa di vita. Non in astratto, ma concretamente, dal punto di vista biochimico, ormonale e neurologico.
Se dicessimo che interessarsi del ruolo delle aziende all’interno della società, della responsabilità che esse hanno verso i propri stakeholders, e di come rendere più sostenibile – tramite la propria azione imprenditoriale – lo sviluppo del pianeta, allunga anche l’esistenza di chi se ne occupa, in termini di aspettativa di vita, strapperemmo nella migliore delle ipotesi un sorriso ironico d’incredulità al nostro interlocutore; se poi cercassimo di convincere un imprenditore che la sua vita sarà realmente più breve – nel senso che morirà prima, o il suo indice di salute peggiorerà comunque più velocemente – in quanto Lui si sta disinteressando dell’effetto delle sue azioni sulla società che lo circonda, premendo troppo sul pedale del profitto e del mercato, forse otterremo una reazione di disappunto ancora più brusca.
In questo breve saggio dimostreremo invece che queste ipotesi sono tutt’altro che fantasiose, e che la scienza ha qualcosa di assai interessante da dire al riguardo.
In un articolo per la rivista on-line “Fisica Quantistica”, Marcello Andriola, Antropologo Cognitivo presso l’Università di Firenze, evidenzia come in senso lato l’intelligenza possa essere intesa come la capacità di ogni organismo di adattarsi e sopravvivere nel proprio ambiente.
A differenza di altre specie animali pure molto “performanti”, come ad esempio virus e batteri, l’Uomo oltre ad essere un agente modificatore dell’ambiente naturale è l’unico essere vivente che opera costantemente come agente modificatore di un altro tipo di ambiente, quello culturale, nel quale è costantemente immerso e con il quale interagisce. Questo condiziona – sia positivamente che negativamente – l’evoluzione della specie ma anche di singoli gruppi umani, e le aziende non fanno certo eccezione. Da alcuni anni, questo tipo di interazioni sono oggetto di studio e di tentativi di misurazione.
Da quando nel 1996 lo psicologo americano Daniel Goleman ha descritto l´intelligenza emotiva, ovvero l’insieme di capacità complesse legate alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie e altrui emozioni, si sono rapidamente moltiplicate vere e proprie mappe mentali e sistemi di valutazione per misurare il bagaglio di “competenza emotiva” nella vita privata come nel mondo del lavoro. Diversi cacciatori di teste tengono conto tanto del Q.E. – Quoziente Emotivo – quanto del Q.I. – Quoziente Intellettuale – consapevoli che del valore profondo dell´emotività, il cui governo – e ciò include la valorizzazione delle relazioni con gli altri e con l’ambiente – permette non solo di saper riconoscere le proprie emozioni e i loro effetti, ma anche di dominare i propri stati d´animo e gestire i rapporti con comprensione ed empatia, alla ricerca di una “ricomposizione ideale” tra ragione e sentimento.
Prova ne sia che – come ricorda sempre Andriola – anche Albert Einstein si era pronunciato sul punto, affermando: “Noi viviamo in una sorta di prigione che ci separa dagli altri, e il nostro compito deve essere quello di allargare il raggio della nostra empatia”. Oggi come oggi, infatti, si parla di “competenza emotiva” come del fulcro di ogni capacità di leadership degna di questo nome. Siamo tuttavia ben lontani da un approccio meramente “new-age”: questo settore è da tempo ormai dominio delle neuroscienze, che indagano come l’intelligenza emotiva sia in relazione con la quantità e qualità di connessioni fra corteccia prefrontale e sistema limbico, connessioni che vanno ben oltre la regolazione delle emozioni. Le connessioni fra l’amigdala e le strutture limbiche affini e la neocorteccia sono infatti al centro di quelli che possiamo definire come “gli accordi di cooperazione fra pensiero e sentimento”, e risultano fondamentali per valutare l’attitudine dell’individuo a condizionare positivamente l’ambiente che lo circonda. Il sistema limbico ha complesse interazioni nervose e biochimiche con la corteccia cerebrale, ed è fondamentale per regolare i comportamenti istintivi, distinguere i ricordi positivi e negativi selezionati dall’ippocampo e dall’amigdala, e presiedere la memoria, l´attenzione, l´apprendimento e le emozioni, nonché l’eccitazione sessuale, la rabbia, l’ansia e il rilassamento.
Questa visione, ad esempio, classifica l’apprendimento non più solo come un processo statico, legato ad esempio a frasi dette da un relatore o alle parole scritte in un libro, legato solamente al piano cognitivo e slegato dall’esperienza dell’individuo nel proprio ambiente, bensì come un processo che include ogni emozione positiva o negativa che proviamo, anche inconsapevolmente. Come ci ricorda l’enciclopedia online Wikipedia, lo psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi riflettendo sul ruolo fondamentale dell’empatia nei processi di apprendimento, ha focalizzato la sua attenzione su quello che ha definito “flusso di coscienza”: “il vivere l’atto in sé, nello scorrere piacevole delle emozioni che un’azione suscita, completamente immersi nella situazione”. Riuscire a “sintonizzarsi” con un flusso di coscienza permette quindi di realizzare un processo di apprendimento più coinvolgente ed efficace, tale da realizzare appieno il concetto di “team-building”.
E se consideriamo che – come ho ricordato – l’intelligenza emotiva coinvolge anche la promozione della crescita emotiva e intellettuale dei singolo, del gruppi – aziende incluse – e della specie, comprendiamo l’importanza dello studio approfondito dell’epigenetica, la parte della biologia molecolare che studia le mutazioni genetiche e la trasmissione di caratteri ereditari non attribuibili solo e direttamente alla sequenza del DNA, ma anche alle interazioni uomo/ambiente. E’ provato dalle conquiste dell’evoluzione che l’essere umano sia in grado di influenzare significativamente ciò che lo circonda, ma in quale misura – e quanto in profondità – l’ambiente è viceversa in grado di influenzare concretamente l’Uomo?
Procedendo con ordine, cercando conferme alla nostra tesi del “canale di influenza a due vie”, e – come per ogni approccio scientifico che si rispetti – analizziamo un esperimento, svolto, neanche a dirlo, sui topi.  Come ci racconta il giornalista Uwe Jean Heuser dalle pagine del quotidiano tedesco “Die Zeit”[3], due economisti hanno condotto uno studio in cui era in gioco la vita di un topo, tentando di dimostrare la correlazione eventualmente esistente tra mercato e senso morale dei singoli individui. Il lavoro – svolto dall’equipe del Prof. Armin Falk, del Center for Economics and Neuroscience dell’Università di Bonn e pubblicato dalla rivista scientifica statunitense “Science” – ha avuto esiti davvero interessanti: l’attenzione ossessiva al mercato distrugge l’etica, o perlomeno spinge l’uomo a porla in secondo piano. La ricerca muoveva da una domanda: perchè gli esseri umani sono disposti a calpestare i valori morali? L’ipotesi è che vi siano spinti dal mercato, che stabilisce una distanza tra le persone e le conseguenze delle loro decisioni.
Chi pensa ai campi allagati in Asia quando compra dei mobili in legno pregiato? Chi conosce le persone che cuciono in condizioni indegne una maglietta, che poi noi in occidente compriamo volentieri a basso costo? Sono prodotte a migliaia di chilometri di distanza, quindi quando mai ci poniamo domande su chi e come le ha cucite?
Nell’esperimento i partecipanti dovevano decidere se in un mondo basato sulla legge della domanda e dell’offerta erano disposti a fare qualcosa di eticamente censurabile secondo la morale comune in cambio di denaro. In pratica, hanno dovuto scegliere tra una somma di denaro e la sopravvivenza di un topo: accettando i soldi, il topo sarebbe stato ucciso; rinunciando al guadagno, l’équipe di Falk avrebbe pagato il laboratorio per il mantenimento dell’animaletto. Per due giorni e mezzo, duecento computer portatili e mille studenti sono stati coinvolti – a rotazione, e in forma anonima – nell’esperimento: alcuni sceglievano da soli tra etica e denaro, interagendo con il computer, mentre altri agivano in un circuito dove ognuno di loro recitava a turno la parte del venditore o dell’acquirente. Il primo caso era elementare: ogni partecipante doveva decidere tra un guadagno di dieci euro e la condanna a morte di un topo, oppure tra la rinuncia al denaro e la sopravvivenza del topo. Nell’altro caso, ai venditori era affidato un topo, mentre i compratori avevano venti euro a disposizione ciascuno, e le due parti potevano “trattare” sulla vita del topo: se raggiungevano un accordo, il venditore riceveva il pagamento pattuito, mentre il compratore tratteneva il resto dei venti euro a sua disposizione se riusciva a strappare un prezzo inferiore.
Il risultato del test è stato che, quando dovevano scegliere da soli, i partecipanti hanno optato nel 45% dei casi per il denaro condannando a morte il topo, mentre nelle “trattative di mercato” la proporzione di coloro che sceglievano il denaro e facevano così morire il topo è salita al 75%, il prezzo medio è stato di 6,40 euro e ha continuato a scendere man mano che l’esperimento veniva ripetuto. Alla fine i venditori sacrificavano i topi in media per meno di cinque euro. Nella situazione di mercato, quindi, l’etica aveva meno influenza che nelle decisioni individuali, e a quanto pare la situazione è degenerata ulteriormente con il passare del tempo. Solo alcuni venditori hanno incrociato le braccia subito dopo la presentazione, e si sono rifiutati di accettare qualunque accordo che condannasse a morte il topo.
Inoltre, non tutti i gruppi si sono comportati allo stesso modo: è stato fatto anche un test d’intelligenza, e chi ha ricevuto un punteggio maggiore in esso si è riscontrato che ha avuto anche un comportamento morale più corretto. Ma queste differenze – come rivela l’interessante studio di economia comportamentale[4] di Falk – sbiadiscono di fronte all’osservazione che molti mettono da parte la morale quando possono risparmiare o guadagnare un po’ di soldi protetti dall’anonimato del mercato: se gli altri lo fanno, il peso della trasgressione sembra limitato, la violazione appare socialmente accettata, e il concetto di responsabilità diventa molto presto evanescente.
Chi di noi non è contro il lavoro minorile e il maltrattamento degli animali? Eppure, nel nostro ruolo di consumatori non ci poniamo domande, ignoriamo questi valori e comprano giocattoli di plastica economica o carne da allevamenti massivi nei discount, e non prestiamo attenzione al campanello d’allarme dell’etica. Ma se concetti come questi sono poco influenti nel nostro quotidiano di cittadini, perché allora dovrebbe prestarci attenzione un imprenditore, che ha nel mercato e nel guadagno il proprio faro?
Come dicevo, la risposta a questa domanda è – forse – nuovamente nella scienza. Adriano Olivetti – vero e proprio pioniere dell’impresa “sostenibile” aveva iniziato un percorso di analisi clinica con Cesare Musatti, di indirizzo freudiano, per proseguirlo poi con Ernst Bernhard, caposcuola degli junghiani in Italia. Entrambi questi psicoanalisti, di grande fama e indubbie capacità, ebbero un’influenza non trascurabile nell’indirizzare il pensiero di Olivetti, tanto che già nel lontano 1943 nacque il primo Centro specializzato in psicologia del lavoro, che divenne il più autorevole e innovativo riferimento per la psicologia industriale in Italia fino alla fine degli anni ’70. Da allora, molto si è scritto sul rapporto tra ambiente lavorativo e benessere psichico del singolo, anche se un campo che – come spiegavo nel mio saggio “Human Social Responibility” – è a tutt’oggi ancora poco esplorato da noi comunicatori e relatori pubblici è quello del rapporto tra introduzione di preoccupazioni di carattere etico nella vita d’impresa, capacità di “creare futuro” da parte del singolo individuo, ed equilibrio psicologico suo e della comunità in cui vive.
Se è vero che esiste un ben preciso rapporto che lega le neuroscienze alla vita d’impresa, dovremmo ora essere pronti per un altro “salto quantico”. L’ipotesi di ricerca che seguo da anni è che – se è vero che siamo tutti, individui e aziende, parte di una rete sociale articolata – il livello di sanità mentale e di benessere di un gruppo umano non può prescindere dal grado di sanità mentale e di benessere del singolo, ed esso è a sua volta in strettissima correlazione con la sua capacità di immaginare scenari futuri, o – per dirla alla Michelin – di “costruire cattedrali”. Verifichiamo se – e in quale misura – è vero.
Anna Oliverio Ferraris, ricercatrice di grande esperienza, Professore alla Sapienza di Roma e autrice – tra le sue numerose pubblicazioni – del bel manuale “Le età della mente”, ci racconta come siano stati pubblicati a profusione studi sugli aspetti negativi e patologici dell’umore – depressioni, disturbi bipolari, psicosi, eccetera – mentre sono rarissimi quelli sugli stati “positivi”: tutta la tradizionale ricerca psicobiologica ruota intorno all’infelicità umana, mentre il tema della felicità e dei meccanismi che la generano – sia essa la felicità di un singolo che di un’intera comunità – sono da sempre sorprendentemente trascurati, quasi fossero vittima di una qualche preclusione ideologica: forse generata, ipotizza la Oliverio Ferraris, da una matrice per certi versi “utilitarista” della psicologia anglosassone, la quale prevede che la felicità sia frutto del mero raggiungimento di “obiettivi” e abbia quindi un‘origine prevalentemente “esterna” all’essere umano.
In realtà, le più recenti ricerche paiono dimostrarci che la genetica, le dinamiche neurochimiche e cerebrali e l’ambiente, sono variabili molto più strettamente interdipendenti di quanto fino a non troppo tempo fa si era ipotizzato. Autorevoli studi confermano che le persone ottimiste e tendenzialmente felici hanno una più elevata attività cerebrale nel lobo prefrontale sinistro, una zona della corteccia coinvolta negli stati umorali. Inoltre gli stessi studi confermano che i loro livelli di anticorpi sono sempre più elevati che non nei soggetti depressi o tristi, e che quindi i “creativi-ottimisti” riescono a resistere meglio agli attacchi esterni di batteri e virus. In definitiva, sono “più sani”, sia psicologicamente che fisicamente, quindi – tendenzialmente – vivranno più a lungo.
Il problema che si pone casomai è se tali manifestazioni delle funzioni cerebrali, differenti tra soggetti ottimisti, propensi a “creare futuro”, e soggetti pessimisti, per i quali “non c’è futuro”, siano la causa o l’effetto: una diversa attività dei neurotrasmettitori causa la felicità, o una persona in quanto felice ha una più elevata attività corticale? A questa domanda la psichiatria in tanti anni di ricerca non ha ancora saputo dare risposta, ma quella che è ormai indiscussa è invece la stretta correlazione tra piano fisico e piano mentale: gli ottimisti prestano più attenzione ai segnali positivi – sia concreti che immateriali – che provengono dall’ambiente che li circonda, e nel farsi influenzare dai fattori ambientali privilegiano questi ultimi, rispetto ai segnali negativi.
La psicobiologia ha dimostrato che alcune aree del sistema nervoso centrale esercitano un ruolo importante sugli stati umorali dell’individuo, che valuta la situazione in cui si trova, i messaggi provenienti dall’ambiente e le aspettative derivanti dai rapporti sociali e professionali, definendo poi ogni scenario in termini positivi o negativi, e reagendo con un differente grado di apprensione o di capacità di rispondere allo stress a seconda di una molteplicità di fattori, tra i quali spiccano certamente il temperamento, i fattori cognitivi e l’interpretazione della realtà.
Tutti questi fattori sono indiscutibilmente condizionati anche dalla nostra esperienza: da quel bagaglio di sensazioni ed emozioni che costituiscono i mattoni con i quali “costruiamo” il nostro vissuto. Il cervello è infatti un organo estremamente plastico ed è impegnato in una continua metamorfosi, in un inarrestabile processo di ridefinizione, dall’infanzia alla vecchiaia: ad esempio, anche in un organismo adulto, la mappa somatosensoriale si modifica con riguardo ai vari cambiamenti di informazione provenienti dalla periferia e dall’esterno.
Emilia Costa, Professore emerito di Psichiatria dell’Università “La Sapienza” di Roma e ricercatrice di fama in Italia e nel mondo, nel suo saggio “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento”, conferma che il sistema nervoso simpatico e vegetativo – un tempo ritenuto “passivo esecutore” del sistema nervoso centrale, e successivamente invece riqualificato come un sistema interconnesso con il cervello e funzionalmente interdipendente, in grado di operare entro certi limiti anche in autonomia – raccoglie impulsi sensitivi dagli organi del corpo umano a contatto con l’ambiente, inclusi quegli stimoli che non raggiungono il livello discriminativo di coscienza. Questo sistema nervoso esprime in termini somatici la nostra condizione psicoemotiva, garantendo un “controllo sulla risposta allo stimolo”, mediante un feedback basato sul rilascio e sul metabolismo di ormoni, neurotrasmettitori, endorfine e altri mediatori chimici.
Gli studi più recenti hanno recuperato mediante un modello di casualità circolare un messaggio d’integrazione tra i maggiori apparati che regolano gli equilibri all’interno dell’organismo e le sue relazioni con l’esterno: un’intensa e continua “immersione” in un ambiente ricco di stimoli positivi e costantemente proiettato a immaginare “scenari futuri”, nell’interesse della migliore sopravvivenza del maggior numero di stakeholders e quindi dell’intero pianeta – influenzerà le memorie semantiche dell’individuo, il mantenimento in buono stato delle quali è un efficace indice di controllo per verificare lo stato reale di invecchiamento di ogni persona.
A tutto ciò, è bene aggiungere altro, con riguardo agli ultimi sviluppi delle ricerche scientifiche: il nostro destino non è inciso solo nel Genoma, ma muta grazie alle buone o cattive abitudini. Ciò potrebbe significare che un’elevata propensione all’etica e al prendersi cura di ciò che ci circonda può entrare anche a far parte del nostro patrimonio genetico ereditario, e quindi essere trasmesso ai nostri figli?
Come ci spiega il giornalista scientifico Marco Pivato in un suo articolo[5], l’influenza dell’ambiente nello sviluppo della specie ha un peso ben superiore a quanto fino ad oggi si è sospettato. Il team guidato dallo svedese Lars Olov Bygren, specialista di medicina preventiva al Karolinska Institute, ha cominciato a studiare[6] l’influenza degli stili di vita sul cervello in un campione di 12.000 individui, scoprendo che i comportamenti influiscono sulle istruzioni dei geni e, addirittura, su come questi possano essere ereditati: “Gli stili di vita – spiega il Professore – influenzano l’espressione genica, il destino non è del tutto scritto nei geni, ma dipende anche dalla “modulazione” dell’azione dei geni stessi. Pur possedendo solo circa 25.000 geni, il nostro Genoma è in grado di produrre centinaia di migliaia di proteine: ogni gene può in una certa misura “scegliere” quale proteina sintetizzare, “e la scelta – spiega Pivato nel suo articolo – dipende anche dai segnali chimici che il gene riceve dall’esterno, indotti proprio dagli stili di vita individuali”.
Il campione a disposizione di Bygren per i suoi studi era composto da individui selezionati per particolari attitudini alla lettura, interessi per la musica, il cinema, il teatro e la cultura in generale. L’esperimento ha individuato come queste attività culturali migliorino la salute del cervello e in ultima analisi l’organismo in generale, favorendo il processo mediante il quale le cellule staminali nelle aree del cervello primitivo si differenziano in nuovi neuroni, che a loro volta formano nuove sinapsi. Se infatti viviamo un evento negativamente emozionante, e quindi “stressante” per il cervello, l’ormone cortisolo media un processo che porta alla fortissima impressione di quell’evento nella memoria. “Ecco perché – semplifica il Professore – tutti ci ricordiamo cosa stavamo facendo l’11 settembre 2001…”.
L’effetto “anabolizzante” della “cultura” sul cervello può aumentare l’aspettativa di vita anche di decine d’anni: “La generazione di nuove sinapsi – continua Bygren – contrasta l’insorgenza del morbo di Alzheimer e aumenta in generale la capacità di gestire al meglio tutto il sistema nervoso periferico e quindi la funzionalità degli organi, mantenendoli in buona salute”.
In definitiva, aggiungo io, il cervello, proprio come un muscolo, se sollecitato in positivo ben conserva e potenzia le sue funzioni, e “costruire scenari futuri” prendendosi cura della società che ci circonda, integrando strategicamente preoccupazioni di carattere etico nella vita d’impresa, è sicuramente un attività assai creativa.
Ma c’è altro: i cromosomi non sono l’unico veicolo per la trasmissione dei caratteri, e il Prof. Bygren lo spiega con una similitudine: “Le conseguenze della ‘fame da cibo’ si trasmettono con le stesse regole della ‘fame da cultura’. Le donne incinte che si alimentano correttamente trasmettono segnali chimici che favoriscono uno sviluppo virtuoso del feto così come quelle che si alimentano intellettualmente trasmettono segnali chimici utili allo sviluppo del sistema nervoso nella fase embrionale”.
Ma attenzione: proprio perché l’espressione genica è modulata dagli stili di vita, una volta al mondo, i geni “buoni” vanno coltivati altrimenti la loro espressione è inibita. Così, se parliamo di creatività e di cultura, la stimolazione cognitiva dev’essere promossa nel nascituro e perpetuata nella crescita e con l’avanzare dell’età, “affinché i geni che promuovono il differenziamento delle staminali in neuroni e sinapsi rimangano accesi”, riferisce il ricercatore.
Gli imprenditori realmente interessati al futuro della società della quale la loro azienda è parte integrante, è più facile che sviluppino strategie cognitive che consentono loro di ipotizzare e padroneggiare “da protagonisti” con estrema disinvoltura gli scenari futuri, aggiornando continuamente i propri schemi mentali, e questo – dai dati scientifici in nostro possesso – ha un ruolo nella loro capacità di risolvere problemi complessi e influenzare anche dimensioni, plasticità e funzionalità della loro mappa cerebrale, in un continuo stimolo virtuoso del rapporto esistente tra interazioni sociali, estensione dello spazio di controllo dell’individuo, intensità delle afferenze ambientali e strutturazione anatomico-biochimico-cerebrale. Come ci ricorda la Prof. Costa, infatti, “un ambiente ricco di stimolazioni positive fa aumentare lo spessore corticale delle cellule, migliora l’attività modulatrice degli impulsi nervosi e conseguentemente le prestazioni comportamentali”.
Concludendo, questa disamina ci riporta direttamente al senso di un altro mio lavoro[7], laddove affermavo che persino i Veda indiani – scritti migliaia di anni fa –  indicavano tutti noi come parti di “un Uno unico, interdipendenti l’uno dall’altro”, connessi, al di la delle distanze, molto più strettamente di quanto si possa sospettare… Potremmo allora parlare – oggi più che mai, e con il conforto della scienza – dell’esistenza di una “suprema rete neurale”: la rete complessa che a livello planetario pone in relazione ognuno di noi con l’altro, ogni istituzione con un’altra istituzione, ogni azienda con le altre aziende, e tutti questi elementi organicamente tra loro.
In definitiva, continuo a esserne convinto, “sintonizzarci” meglio, più armonicamente, più efficacemente, con questa rete neurale, mentre operiamo per creare scenari futuri positivi, non potrà che migliorare il grado di benessere e sanità mentale nostro, del nostro team lavorativo, della comunità alla quale apparteniamo, e quindi – come pezzi di un enorme puzzle – del pianeta intero.
Un paradigma ancora in buona parte da codificare, ma del quale possiamo facilmente intuire l’immenso potenziale in termini di rinnovamento creativo della nostra consapevolezza di comunicatori e relatori pubblici.
 
 
Breve bibliografia scientifica:

  • Bygren, L.O. et al; “Transgenerational response to nutrition, early life circumstances and longevity”, European Journal of Human Genetic, 2007
  • Bygren, L.O. et al; “Are variations in rates of attending cultural activities associated with population health in the United States?”, BMC Public Health 2007, 7:226
  • Ciarrochi, J., Forgas, J.P. Mayer, J.D., “Emotional intelligence in everyday life, Psychology Press, Taylor & Francis Group, 2001
  • Costa, E; “Il cervello e la mente: dal neurone al comportamento” – in “La Formazione in Psichiatria e Psicologia Clinica”, di Emilia Costa e Maria Di Giusto – CIC Edizioni Internazionali, Roma 2004;
  • Costa, E et al., “Dallo stress psicosociale alla malattia” – Psiche Donna – Vol. 4, n. 3, CIC Edizioni Internazionali, Roma 2003;
  • Costa, E; “La comunicazione efficace, ovvero il contrario del Brain Washing”– CIC Ed. Internazionali, Roma 2001;
  • Davidson R. J. et al, “Approach-withdrawall and Cerebral asymmetry: emotional expression and brain physiology”, in “Journal of Personality and Social Psychology” – 58(2), 1990, pag. 330-341;
  • Diener E., “Subjective well-being: the science of happiness and a proposal for a national Index”, in “American Psycologist” – 55, 2000, pag. 34-43;
  • Falk, Armin, “The Systematic Place of Moral in Markets Respons”, Science, 341, 714, 2013
  • Malvestito M.G., Costa, E; “Le politiche economico–aziendali di prevenzione e di contrasto” – in Prevenire il Mobbing – Giappichelli, Torino 2005;
  • Mecacci, L; “Industria e psicologia: Adriano Olivetti” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
  • Michelin, F; “La cattedrale di Michelin”, intervista pubblicata sul periodico Avvenire in data 23/04/2008 pag. 31, e ripubblicata sulla newsletter del sito Creatoridifuturo.it in data 23/02/09;
  • Murphy, K; “A Critique Of Emotional Intelligence”, Lawrence Erlbaum Associates, Publishers, London, 2004
  • Musatti C, et al., “Psicologi in fabbrica: la psicologia del lavoro negli stabilmenti Olivetti” – Einaudi, Torino 1980;
  • Oliverio Ferraris, A;“Le età della mente” – Edizioni BUR, Milano 2004;
  • Pizzoccaro, A; “La felicità interna lorda: dai paradigmi del XX secolo alla vera misura del benessere”, in “Etica anticirisi”, edito dal Centro Studi della Fondazione Banca Europa, 2009;
  • Poma, L; “Reti Neurali complesse: nuovi strumenti per la CSR” – Ferpi News, 2009;
  • Poma, L; “Human Social Responsibility: una nuova prospettiva per la CSR”, Ferpi News, Milano, 2010
  • Pugno, M; “Economia, autonomia e benessere personale” – in Psicologia contemporanea, edita da Giunti, Milano Nov. Dic. 2010 n° 222;
  • Salovey, P, Sluyter, D.; “Emotional development and Emotional Intelligence: educational implications”, New York, Basic Books, 1997
  • Smith, A; “The Theory of Moral Sentiments”, Università di Glasgow, Regno Unito, 1759

[1]The Theory of Moral Sentiments”, Adam Smith, Università di Glasgow, Regno Unito, 1759
[2] “Human Social Responsibility: una nuova prospettiva per la CSR”, Ferpi News, Milano, 2010
[3] Was ist Ihnen das Leben dieses Maus wert?”, Die Zeit, Germania, 2013, traduzione in italiano su “Internazionale”, n. 1005, giugno 2013
[4] per approfondimenti divulgativi: http://it.wikipedia.org/wiki/Finanza_comportamentale
[5] per approfondimenti divulgativi: http://it.wikipedia.org/wiki/Epigenetica
[6] “Il gene sente come vivi”, di Marco Pivato, Tuttoscienze, Editrice La Stampa, Torino, 2011
[7] Nuovi strumenti per la CSR: dalla tradizionale mappa degli stakeholders alla rete neurale complessa”, Ferpi News, Milano, 2008

 


Vodafone. Parole, parole, parole

Impazzano le offerte estive con tariffe “imperdibili” per i nostri smartphone, ma il testo del ritornello di Parole, parole, la vecchia canzone di Mina che fece da colonna sonora per l’estate 1972, sarebbe più appropriato del brano dei Boyzone You can’t hurry love scelto dalla Vodafone per la campagna pubblicitaria ambientata sulle spiagge 2015.
Quanto è ampia la distanza tra le dichiarazioni ufficiali e il trattamento realmente riservato al cliente, per i grandi player della telefonia mobile? Sul bilancio di sostenibilità del gruppo inglese, leader mondiale e con oltre 30 milioni di clienti in Italia, si leggono frasi come queste: “Investire nel sociale (…) per fare ‘rete’ con un ruolo sempre più attivo e accrescere nella società il valore della responsabilità collettiva”, oppure “La cultura di Vodafone è orientata a sviluppare valore condiviso grazie a un modello aperto verso tutti i propri interlocutori”, ovviamente inclusi clienti e comunità del territorio, precisa in un altro passaggio il vertice dell’azienda. O – ancora – si precisa come Vodafone sia impegnata a “creare relazioni favorevoli ponendo particolare attenzione all’ascolto e al dialogo”, e che “l’ascolto del cliente avviene mediante l’uso di diversi strumenti utili a garantire una customer experience sempre positiva”. Sempre positiva, secondo loro, si badi bene.
Chi non ha avuto qualche problema con un gestore di telefonia mobile? Siete riusciti sempre a risolverli velocemente, in modo efficace, grazie una relazione aperta, basata sulla responsabilità, sulla fiducia, sull’ascolto e sul dialogo? Dite la vostra, ma non prima di aver letto questa intervista a Luca Yuri Toselli, coordinatore nazionale di Giù le mani dai bambini, una onlus che opera da dieci anni in tutta Italia, e il cui nome non richiede ulteriori commenti circa l’importanza della propria missione.
 
Toselli, siete clienti Vodafone?
Sì, dal 2008, abbiamo una piccola ram aziendale (rete aziendale mobile)per mantenere in contatto telefonico i responsabili della onlus. Siamo piccoli clienti, sviluppiamo un traffico medio di circa 10mila euro all’anno.
Non poco per essere una onlus…
Diamo un servizio di “ascolto” alle famiglie con bambini con problemi psicologici e di comportamento, e richiamiamo sempre noi, perché non desideriamo gravare sul bilancio di famiglie che sono già in difficoltà. Abbiamo inoltre delle Sim “dati” che ci consentono di essere sempre connessi anche sul web.
Pagate sempre puntualmente?
Sì, sempre puntuali, per noi è un servizio essenziale, perché i nostri addetti devono sempre essere raggiungibili. A volte questo tipo di bambini si agita a scuola, possono essere aggressivi per se stessi e per gli altri, dobbiamo intervenire subito, dando consigli sul da farsi, quindi non possiamo mai essere irreperibili, la prima cosa che facciamo come pagamento sono sempre le bollette del telefono.
Però una volta non avete pagato…
Vero, una volta, nel 2009: perché Vodafone continuava ad addebitarci i bolli su ogni bolletta, mentre noi come Onlus siamo esenti per legge, e anche ad addebitarci una serie di servizi sulla sim che però non avevamo mai richiesto. Abbiamo chiesto più volte di smetterla con questi addebiti impropri, non ci hanno mai risposto, e allora alla fine ci siamo rifiutati di pagare una bolletta, eravamo esausti da questa implicita arroganza e assenza di dialogo. Anche perché noi viviamo grazie al denaro affidatoci dai donatori, dalla collettività, non si può scherzare con queste cose.
E Vodafone cosa ha fatto?
Ci dissero che tutti i servizi erano stati da noi richiesti alla firma del contratto, e quindi che l’alternativa era o pagare o il distacco immediato della linea. Per fortuna avevamo conservato la nostra copia del contratto, e siamo andati in causa, prima con un ricorso al Corecom (Comitato regionale per le telecomunicazioni) e poi dal giudice di Pace.
Come è andata la causa?
Nei colloqui iniziali tra avvocati e nella fase d’istruttoria della causa, Vodafone ha continuato a sostenere che noi avevamo richiesto tutti i servizi. A quel punto abbiamo esibito la nostra copia dell’iniziale modulo d’ordine.
E cosa c’era scritto?
Nessuno dei servizi da noi contestati era stato richiesto: le caselle dove apporre le crocette erano tutte in bianco. Avevamo ragione noi. La cosa assurda è che Vodafone a quel punto ha fatto come se niente fosse, e si è detta disponibile a bonificare il maltolto. Cioè: hanno mentito sapendo di mentire, e poi quando è stato dimostrato che erano in malafede hanno fatto marcia indietro come se nulla fosse accaduto.
Voi avete accettato la transazione?
No, perché avevamo scritto molte volte, all’inizio chiedendo di esaminare la posizione e siamo sempre stati ignorati: a quel punto siamo andati avanti, anche perché per fortuna avevamo una polizza assicurativa che ci rimborsava le spese legali. E alla fine della causa loro sono stati condannati a pagare la somma dovuta, più i danni. Ma il problema non è stato tanto quello. Sono stati i distacchi della linea…
Vi hanno staccato le linee in corso di causa?
Sì, tutte le sim. Ma non solo una volta: svariate volte. E ogni volta senza alcun preavviso. All’inizio pensavamo si trattasse di un dispetto, o di una “ripicca”. Magari. Pare sia un automatismo. Ogni tot giorni l’ufficio amministrativo – che non parla con quello legale – vedeva un sospeso, ovvero l’unica nostra fattura non pagata, che era oggetto di causa in Tribunale, e invece di attendere la decisione finale del Giudice, come avrebbero dovuto fare, staccavano tutte le linee senza preavviso, blackout per ore ed ore, o per un’intera giornata. Meno male che parlano di “fare rete” e “comunicare con i loro pubblici”: non comunicano neanche tra ufficio e ufficio.
Come avete reagito?
Ogni volta il nostro legale inviava una raccomandata via fax intimando la riattivazione delle linee, anche perché – a parte la fattura contestata in tribunale – noi abbiamo sempre pagato con puntualità, come facciamo tutt’ora a distanza di anni. A quel punto iniziava l’odissea, il tentativo di contattare il loro call center, ma era impossibile…
Perché?
Perché quando hai un distacco per morosità – o presunta morosità, nel nostro caso – non puoi più parlare con il Servizio Clienti normale, e quando tenti di metterti in contatto con l’ufficio amministrativo ti risponde un messaggio automatico che come unica opzione ti da la possibilità di segnalare gli estremi dell’avvenuto pagamento della bolletta arretrata. Ma non avevamo alcun estremo di pagamento da comunicare, perché quella singola vecchia bolletta del 2008 era oggetto di una causa in tribunale!
Poi le linee venivano sempre riattivate?
Sì, dopo un po’ di tempo, massimo il giorno dopo. I loro addetti si scusavano, ma invariabilmente dopo un po’ di tempo scattava di nuovo l’automatismo. Il blocco poteva essere evitato solo quando un loro addetto casualmente si rendeva conto dell’imminenza del distacco amministrativo, si prendeva a cuore la cosa, e la segnalava personalmente agli uffici competenti. E non c’è stato modo di fargli modificare le procedure, nonostante insistenti richieste e preghiere.
Per quanto tempo è andata avanti questa storia?
Almeno 4 anni, consecutivamente. Un vero incubo. Senza contare i problemi per i nostri volontari, con le comunicazioni troncate, anche mentre erano all’estero in missione per contatti con altre onlus, situazioni davvero difficili da gestire. Poi la causa in tribunale è stata vinta, ma i disagi anche in quel caso non sono cessati.
Nel senso che ci sono stati altri distacchi dopo la sentenza?
Certamente, perché fintanto che la sentenza non è stata notificata e Vodafone ha pagato un indennizzo chiudendo la posizione, vi sono stati altri distacchi. Poi, quando la questione dei bolli e dei servizi non richiesti è stata risolta grazie alla sentenza a nostro favore, abbiamo a quel punto chiesto conto dei distacchi avvenuti in tutti quegli anni.
Cosa hanno risposto?
Siamo veramente all’assurdo: ci hanno contattato telefonicamente rispondendo che “non c’era mai stato nessun distacco”. Nel contempo abbiamo ricevuto una loro lettera nella quale “pur non riconoscendo alcuna colpa”, ci offrivano “due sim internet a canone zero per un anno”.
Voi cosa avete fatto?
Anche se siamo nella condizione di Davide contro Golia, volevamo – e vogliamo – giustizia, quindi abbiamo deciso di depositare una nuova richiesta giudiziaria. Non ricordavamo però le date esatte dei distacchi, ed era indispensabile citarle nell’istanza. Un nostro collaboratore ha avuto un’idea geniale: ha pensato bene di telefonare al call center Vodafone, dal nostro ufficio, mettendo la chiamata in viva-voce per poter prendere appunti, ed è accaduto l’incredibile… il loro addetto del call center ingenuamente non solo ha confermato tutti i distacchi illeciti che avevano fatto, ma ci ha dettato lui stesso in modo circostanziato tutte le date in cui questi distacchi erano avvenuti.
Questo quando accadeva? E come state procedendo adesso?
Accadeva prima della pausa estiva. Ora c’è stata un’udienza dal giudice di Pace di Milano. Abbiamo fatto presente che siamo ben disponibili a chiudere la vicenda purché Vodafone rimborsi i danni e disagi che ha creato per i distacchi, ma soprattutto ammetta le proprie responsabilità. Siamo certi di non essere i soli ad aver subito questo tipo di abusi. Quale fiducia si può dare a un’azienda incapace di assumersi con chiarezza le proprie responsabilità, scusarsi con schiettezza e rimediare ai danni commessi in tempi ragionevoli?
 
Tutte le affermazioni contenute in questa intervista sono confermate da atti processuali. Vodafone Italia ha per correttezza ricevuto copia di questo testo prima della pubblicazione, e non ha ritenuto di commentarla.


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