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Isaac Asimov: "In che  modo le persone trovano delle nuove idee?"

Presumibilmente, il processo di creatività, qualunque cosa sia, è essenzialmente eguale  in tutti i rami di applicazione, quindi l’evoluzione di una nuova forma d’arte, un nuovo “gadget”, un principio scientifico nuovo… hanno tutti dei fattori in comune. Quello che ci interessa di più è la “creazione” di un nuovo principio scientifico o una nuova applicazione di una vecchia, ma possiamo concordare su questo punto.
Nota di Arthur Obermayer, amico dell’autore:

Lavoravo  come scienziato alla Allied  Research Associates di Boston nel 1959, una filiale del MIT inizialmente coinvolto nello studio sugli effetti delle armi nucleari sulle  strutture dei aeromobili. La società avviò un progetto denominato dall’acronimo GLIPAR per conto della Advanced Research Projects Agency. Il mandato era di trovare gli approcci più creativi possibili per la creazione di un sistema di difesa anti missili balistici. Il governo si era reso conto che qualunque cifra avesse speso per migliorare ed implementare la tecnologia esistente, essa sarebbe comunque rimasta inadeguata. Volevano che noi ed altri soggetti esterni ci mettessimo a pensare a soluzioni assolutamente al di fuori dei schemi normali.
All’inizio del mio coinvolgimento nel progetto, ho suggerito che Isaac Asimov, un mio amico, sarebbe stato una persona giusto per questo progetto. Egli ha mostrato interesse ed è venuto ad alcune delle riunioni. Però, alla fine decise di non partecipare poiché avrebbe dovuto avere accesso ad informazioni segrete e  classificate, e sentiva che questo avrebbe limitare la sua libertà di espressione.
Comunque, prima di partire, scrisse un saggio sulla creatività come unico contributo al progetto. Il suo saggio non fu mai ne pubblicato né utilizzato al di fuori del nostro piccolo gruppo. Quando, di recente, mi capitò di ritrovalo mentre facevo la cernita di alcuni vecchi archivi, lo trovai pertinente oggi come era allora. In fatti descrive il processo creativo e la natura di persone creative insieme con il tipo di ambiente che favorisce la creatività.

    

Parlando di Creatività

In che  modo le persone trovano delle nuove idee?

Presumibilmente, il processo di creatività, qualunque cosa sia, è essenzialmente eguale  in tutti i rami di applicazione, quindi l’evoluzione di una nuova forma d’arte, un nuovo “gadget”, un principio scientifico nuovo… hanno tutti dei fattori in comune. Quello che ci interessa di più è la “creazione” di un nuovo principio scientifico o una nuova applicazione di una vecchia, ma possiamo concordare su questo punto.
Un modo di studiare la questione sarebbe  quello di considerare le grandi idee del passato per capire come sono state generate. Sfortunatamente, il metodo usato per generarle non è mai chiaro nemmeno ai loro creatori.
Ma che fare se la medesima idea capace di scuotere il mondo venisse in mente a due uomini, indipendentemente e contemporaneamente?  Forse i fattori in essa ci illuminerebbero. Prendiamo la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, creata in modo indipendentemente da Charles Darwin e Alfred Wallace. Hanno molto in comune  in quanto entrambi hanno viaggiato in largo e in lungo, osservando specie di piante e animali, e il modo in cui differivano da luogo a luogo. Entrambi  erano determinati a trovare una spiegazione per questo ed entrambi fallirono fino a quando non lessero “Essay on Population” di Malthus. Allora entrambi capirono come la nozione di sovrappopolazione e la “cernita” (che Malthus applicò al genere umano) sarebbero stato in linea con una dottrina di evoluzione per selezione naturale (se applicata alle specie in generale).
Fu ovvio, quindi, che quello che è necessario non è solo un buon background culturale in un determinato campo, ma anche la capacità di creare un nesso fra “A e B” che, normalmente,  non sembrano essere connessi  fra di loro.
Senza dubbio, la prima metà del 19° secolo testimoniò numerosi naturalisti che studiavano per capire come le diverse specie differivano fra di loro. Molti avevano letto Malthus. Forse alcuni avevano fatto entrambe le cose. Ma quello di cui c’era bisogno era qualcuna che avesse letto Malthus, studiato le specie e forse capace di fare un collegamento trasversale.
Questo è il punto cruciale, ed una caratterista rara che a trovarsi. Una volta che il collegamento trasversale è stato trovato, diventa tutto ovvio. Si dice che T. H. Huxley, dopo aver letto On the Origin of Species, esclamò “che stupido da parte mia non averci pensato”.
Però, perché non ci aveva pensato? La storia del pensiero umano sembrerebbe portarci a pensare che vi è una certa difficoltà nel formulare un’idea, perfino quando tutti i fatti sono spiattellati davanti a noi. Ci vuole una certa audacia per fare un collegamento trasversale. Un qualsiasi collegamento trasversale che non richiede audacia dovrebbe essere messo in atto subito e da molti… e si sviluppa non come una “nuova” idea ma come un semplice rimescolatura  di una vecchia.
Sembra che solo dopo un certo tempo, una qualsiasi idea nuova diventi “ragionevole”. All’inizio, di solito sembra proprio irragionevole. Sembrava il culmine dell’irragionevolezza pensare che il mondo fosse rotondo invece di piatto, o che si muovesse la terra e non il sole, o che oggetti hanno bisogno di una forza per fermarsi quando sono in movimento, e cosi via…
Chiunque disposto a prendere di petto la ragione, l’autorità e il pensiero unico, deve necessariamente essere una persona che possiede una forte sicurezza di se. Siccome questo tipo di persona appare piuttosto raramente, deve allora per forza sembrare eccentrico(almeno in quello) confronto tutto gli altri.
Di conseguenza, la persona a cui è più probabile che vengano nuove idee, è una persona con una buona preparazione culturale nel campo specifico, ed uno che per abitudine non bada alle convenzioni. Essere comunque un poco pazzoide non è una condizione, di per se, soddisfacente.
Una volta trovate le persone giuste, la domande è: desiderate che queste persone discutano il problema insieme o preferireste informare ogni uno del problema e lasciarli lavorare isolati?
Il mio pensiero è che, per quanto riguarda la creatività, è necessario lasciali isolati. La persona creativa è, in ogni caso, sempre li che ci lavora.  La sua menta fa il giocoliere con l’informazione, senza sosta, perfino quando non è consapevole  (il famoso esempio di Kekule che calcola la strutture del benzene mentre dorme è un esempio ben noto).
La presenza di altri non può far altro che inibire il processo, visto che la creazione è imbarazzante. Per ogni buon idea che venga in mento vi sono centinaia o diecimila idee sciocche, che chiaramente, non si desidera condividere.
Ciònonostante, potrebbe essere una buon idea far incontrare queste persone per motivi che vano al di la della creazione stessa.
Non esistono due persone che replichino esattamente i depositi mentale l’uno dell’altro. Uno potrebbe conoscere A e non B, e pur conoscendo entrambi gli elementi potrebbero avere comunque idee diverse sull’argomento.
Inoltre, tale informazione potrebbe non  essere composta di voci individuali “A e B”, ma magari di combinazioni di A e B,  che prese da sole non sono significative o sufficienti. Comunque, se uno menziona l’insolita combinazione di A e B e un’altra combinazione di A e C , potrebbe darsi che la combinazione di A-B-C, che nessuno delle due aveva contemplato da solo, potrebbe divenire una soluzione.
Allora, certi incontri informali tra creativi hanno lo scopo non tanto di favorire l’invenzione di nuove idee quanto piuttosto quello di istruire I partecipanti sui fatti e in modo da rendere possibile la combinazione dei fatti, teorie e pensieri vaganti.
Ma come si può convincere le persone creative che fare questo sia giusto? In primis, ci devo essere calma, una sensazione di agio e di generale permissività. Il mondo in generale disapprova la creatività, ed essere creativi in  pubblico può essere addirittura esecrabile.  Perfino speculare in pubblico desta preoccupazione. Quindi, l’individuo deve avere la sensazione che non riceverà obiezioni dagli altri intorno a se.
Se solo una persona presente non mostra simpatia o comprensione con le sciocchezze che sicuramente uscirebbero nella sessione congiunta, gli altri si congelerebbero.  Quello che non mostra accettazione potrebbe essere una miniera di informazioni, ma il male che fa, annullerebbe  tutto quanto di positivo avrebbe potuto dare. Quindi, a me sembrerebbe necessario che tutte le persone in un una sessione creativa dovrebbero essere disponibili a sembrare schiocchi ed a ascoltare anche gli altri quando sembrano altrettanto.
Se solo un singolo elemento nella sessione ha una reputazione superiore agli altri o è più articolato nell’eloquio, o ha una personalità più dominante, allora potrebbe prendere il commando della conferenza e cosi facendo ridurrebbe gli altri a poco più che passivi ed obbedienti esecutori. L’individuo di per se potrebbe essere molto prezioso, ma tante vale che lavori da solo in quanto in un gruppo neutralizza gli altri.
Molto probabilmente il numero ottimale di individui in un gruppo creativo non sarebbe molto alto. Oserei dire poco più di 4 o 5.  Un gruppo più ampio potrebbe raggruppare un maggior quantità di informazioni, ma ci sarebbe tensione a causa dell’attesa di parlare,  il che può essere molto frustrante. Sarebbe una buona idea fare più riunioni in cui gli invitati siano diversi ogni volta, piuttosto che una plenaria.  Anche se ciò significherebbe una certa ripetizione, la ripetizione stessa non è di per se, un male. A contare non è che tanto quanto viene detto a queste conferenze, bensì quello che le esse stimolano nei partecipanti, per i giorni successivi agli incontri.
Dovrebbe regnare un atmosfera di informalità e giovialità, l’uso dei nomi primi, lo  scherzo, una sorta di atmosfera rilassato dove nessuno si prende sul serio, sono essenziali, non tanto di per se, tanto quanto per favorire la disponibilità ad essere coinvolti nella follia della creatività. A questo scopo credo che un incontro in casa di qualcuno o in un ristorante sia più consono che in una sala conferenza.
Il fattore che inibisce più di tutto è molto probabilmente il senso di responsabilità. Le idee più grandi, nei secoli, sono venute da persone che non erano pagate per averle, ma che lavoravano come insegnanti o impiegati di brevetti o persone con posti di bassa responsabilità. Le grande idee erano conseguenze casuali.
La sensazione di colpevolezza quando una persona non pensa di meritare lo stipendio perché non ha avuto una idea grandiosa è, seconda me, il modo sicuro per assicurarsi che nessuna grande idee verrà nemmeno nel prossimo futuro.
La vostra azienda potrebbe quindi decidere di organizzare dei party per creativi usando il denaro del governo. Ma solo l’idea che membri del congresso – o il pubblico in generale – possano venire a sapere che scienziati scherzano, raccontano barzellette sporche e altre sciocchezze usando denaro pubblico, fa  sudare freddo. Infatti, lo scienziato medio ha sufficienza coscienza pubblica da non accettare questo metodo di lavoro, anche se molto probabilmente nessuno lo verrà mai a sapere.
Suggerirei che ai membri venissero assegnati dei compiti palliativi – tipo commissionare brevi testi o riassunti delle loro conclusioni, o risposte brevi a problemi suggeriti – e che tali incarichi siano retribuiti, per l’importo che spetterebbe loro per la partecipazione agli incontri informali cui sono invitati.  Questo significherete che I festeggiamenti sarebbero ufficialmente non pagati ed anche quello renderebbe l’atmosfera notevolmente  rilassata.
Non sono dell’opinione che tali feste dovrebbero essere lasciate “libere”. Ci dovrebbe essere qualcuno responsabile che gioco un ruolo equivalente ad uno psicoanalista. Come lo percepisco io, uno psicoanalista, che fa le domande corrette (e tolto quello non  interferisce quasi per nulla), fa in modo che il paziente discuta del suo passato in un modo tale modo da facilitare una nuova prospettiva  partendo dal suo punto di vista.
Ed è in modo analogo che l’arbitro della sessione di festeggiamenti dovrebbe stare seduto, mescolato agli altri, facendo domande acute, facendo i commenti necessari, riportando tutti con dolcezza di nuovo al punto. Visto che l’arbitro non saprà quale domanda acuta fare, quale commento sia necessario, ne quale è il punto, il suo compito è lungi dall’essere facile.
Se gli scienziati sono completamente rilassati, liberi di ogni responsabilità e stanno discutendo qualcosa di interessante, e per loro natura sono persone non convenzionali, allora  saranno gli partecipanti stessi a creare modi per stimolare le discussioni.
Published with permission of Asimov Holdings.
 




Conosci i tuoi prodotti

È una cosa assai comune criticare i Social media dal punto di vista dell’utente-consumatore, ma in realtà gli User sono il vero il “soggetto” di business delle società che gestiscono i social media: impacchettati e venduti – loro, più i dati che li riguardano – agli inserzionisti.
Noi tutti partiamo dal presupposto di non essere dei “Prodotti” e ci connettiamo a Facebook con l’intento di poterci esprimere liberamente e sentire cosa dicono i nostri amici, mentre in realtà entriamo in una “sala degli specchi”, che riflettono – artatamente – le nostre convinzioni in modo totalmente autoreferenziale. Come già scrissi in passato, gli utilizzatori dei social media non capiscono quando è il momento di fermarsi, quando gli strumenti li irretiscono e istupidiscono. Dovrebbero inoltre fare una valutazione “costi benefici”, prima di concedere tutti i propri dati personali in cambio della gratuità di un servizio.
Considerando ciò, sto iniziando a pensare che gli utenti “apprezzino” il fatto di diventare essi stessi un prodotto. Grazie ai servizi che i social media offrono – come ad esempio mappare le proprie connessioni, ammassare dati personali, la chimera di raggiungere la propria audience personalizzata, permettere modi preconfezionati di espressione, algoritmi che suggeriscono in modo mirato cosa leggere, comprare, sapere etc. – essi sostengono il processo di trasformazione da “utilizzatore” a “commodity” insito nel pacchetto. Un po come la salsiccia dell’hot-dog, che si spalma da sola il ketchup addosso. Questa “auto commoditificazione” non intacca la considerazione che l’utente ha di se, anzi, la rende più accettabile. Io, come prodotto, sono automaticamente deresponsabilizzato in certi miei comportamenti, e ho una visione più semplificata e diretta di me stesso. Solo vedendoci come “prodotti”, possiamo riconoscere noi stessi come meritevoli di attenzione e di riconoscimento in una società e una cultura che è consumistica e capitalistica.
Siamo intrinsecamente e ideologicamente indotti ad amare i beni di consumo, e quindi spontaneamente desideriamo esserlo anche noi, divenendo così meritevoli di amore attenzione e considerazione da parte di noi stessi e degli altri, come ad esempio la gratificazione del ricevere “Like” (ai nostri post, ndt). In una cultura consumistica, i prodotti perdono velocemente la loro “amabilità” (da lovability, capacità di ottenere affezione, ndt) e divengono quindi inutili, obsoleti, spazzatura. Il consumismo è la incessante creazione di nuovi bisogni e nuovi prodotti per soddisfarli, in un ciclo infinito che alimenta la crescità dell’economia. Io “cresco” e miglioro in misura di quanto sono sempre più capace di comprare e possedere, quindi devo ampliare il mio potenziale per esprimermi – consumando – sempre più, o fallirò come individuo.
La crescita personale nel capitalismo diviene quindi la possibilità crescente di accumulare beni, e l’evoluzione è quindi una continua insoddisfazione e rifiuto di accontentarsi. E questo si riflette anche sulla percezione del se: tutto ciò che già so di me non è interessante, ciò che conta è solo ciò che scopro nuovamente di me, ciò che ancora di nuovo voglio consumare o possedere. Quindi, il “se” come prodotto, ogni qual volta cessa di essere affascinante, ha bisogno di essere rivitalizzato divenendo nuovamente familiare, conosciuto, compreso. Noi amiamo noi stessi quando siamo “novità”, e perdiamo appeal quando diventiamo un bene già posseduto e già visto. Vogliamo scoprire sempre di noi nuovi lati che ci rendano nuovamente desiderabili, da consumare e godere. Solo questo ci rende “marketabili” (in grado di avere mercato, ndt). Il nostro desiderio di noi stessi ci spinge a renderci rinnovati, “repackaged”, per avere sempre nuovo appeal.
I social media nutrono la contraddizione di riuscire ad essere autentici solo quando noi risultiamo “sorprendenti” ai nostri stessi occhi; ci offrono modi per “consumare” noi stessi ogni volta come fossimo nuovi; gli algoritmi sono studiati per suggerirci nuove identità nelle quali calarci; ampliano la nostra capacità di desiderare, e affinarci all’idea che ci facciamo di essere desiderabile. Ciò che hai colto, consumato e rimesso in rete, viene purificato e riproposto per generare nuovi desideri e un nuovo te. Gli algoritmi di Facebook fanno questo: processano i nostri dati e ci ripresentano in una nuova più appetibile “confezione”. Noi apriamo la scatola, e ci stupiamo di ritrovarci così “nuovi” e allettanti. Ma è una scatola che continua a illuderci, e a nutrire le nostre illusioni, e a trarre nutrimento da esse.




La scuola costruita con le bottiglie di plastica

Sono già 61 gli edifici realizzati in EcoBricks, i mattoni ricavati dai rifiuti non biodegradabili.

Sono già 61 le scuole realizzate con EcoBricks, i “mattoni” ecologici che altro non sono se non bottiglie di plastica riempite di rifiuti non biodegradabili, in appena 69 mesi (meno di 6 anni).
L’idea è nata grazie all’inventiva dell’attivista Susana Heisse e all’attività della fondazioneHug It Forward, il cui scopo è «promuovere l’educazione e la consapevolezza dando alle comunità dell’America Latina la possibilità di costruire “scuole di bottiglie“».
Gli edifici così realizzati hanno una struttura in cemento armato, ma tutte le pareti adoperano, al posto dei mattoni, bottiglie di plastica piene di altri rifiuti che, se non venissero utilizzate in questo modo, finirebbero nelle discariche.
Il tutto viene poi coperto di cemento, intonacato e dipinto, nascondendo le bottiglie alla vista e restituendo una parete che non si discosta per nulla, almeno all’apparenza, da una parete di mattoni.
Grazie a Susana Heisse, invece, è nato un nuovo modo per riciclare la plastica che offre anche un’opportunità alle comunità più povere: una scuola costruita con le bottiglie ha infatti costi di realizzazione inferiori rispetto a una costruita con i metodi tradizionali; inoltre è educativa, in quanto la sua stessa esistenza impartisce un importante insegnamento sul rispetto per l’ambiente.
C’è poi un altro vantaggio, sottolineato da Hug It Forward: la costruzione di questi edifici coinvolge l’intera comunità, che così sente come proprie le scuole.

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Le aziende cinesi puntano su Csr, così vola la reputazione dei brand

La responsabilità sociale d’impresa fa bene al contesto in cui opera un’azienda, rafforza il rapporto con i dipendenti e con la comunità e a guadagnarci è anche la reputazione del brand. Ed è così che le aziende cinesi che operano all’estero, puntano sempre di più sulla responsabilità sociale. Lo rileva il rapporto pubblicato dal Center for China and Globalization (CCG), secondo il quale in molte aziende è cresciuto l’approccio che porta a una cooperazione win-win con le comunità locali, utilizzando strategie di sviluppo aziendale.
Un esempio? “Nella costruzione della ferrovia Nairobi-Mombasa, ci siamo dedicati alla protezione ambientale e della fauna selvatica – dichiara Wen Gang, vicepresidente della China Communication Construction – Ad esempio, abbiamo costruito passaggi abbastanza alti per permettere alle giraffe di migrare attraversando la ferrovia”. Le imprese cinesi hanno inoltre adottato gradualmente la localizzazione nelle operazioni estere.
Il gruppo cinese HeSteel (HBIS), una delle maggiori aziende siderurgiche cinesi, considera la localizzazione d’oltremare come un concetto importante.
“Crediamo che solo perseguendo la localizzazione culturale, promuovendo l’occupazione locale e condividendo i vantaggi con le comunità locali, sia possibile avere successo nel mondo globale”, dichiara Yu Yong, presidente del gruppo Hbis.
Sarà anche per questo che la reputazione dei brand e l’influenza delle imprese cinesi all’estero sono aumentate negli ultimi anni. Secondo quanto rileva il di CCG, il 43% delle 2.922 aziende intervistate, considera la promozione dell’influenza del brand come leva fondamentale per lo sviluppo a livello globale. Le piccole e medie imprese private hanno partecipato anche al mercato estero, con un volume totale di investimenti di 154,9 miliardi di dollari Usa in 395 casi nel 2016.




Luca Poma: la più bella delle epidemie, un’epidemia di consapevolezza

Luca Poma è giornalista, scrittore e Professore in Relazioni Pubbliche Avanzate all’Università LUMSA di Roma. Ha svolto un interessante intervento al Convegno sulla Libertà di Cura organizzato da AsSIS a Firenze un mese fa. Prendendo spunto da quell’intervento gli abbiamo posto alcune domande

La libertà di cura, la gestione progettuale della salute, passa anche attraverso un’informazione completa e corretta sui temi sanitari? E’ in qualche modo condizionata dal grado di “verità” che caratterizza i turbinosi flussi di comunicazione, spesso digitale, dei giorni nostri…?

Per tentare di rispondere a questa domanda, e anche per non centrare in modo ossessivo il dibattito solo sul tema dei vaccini, è certamente utile esaminare alcuni “casi”, occasioni di visibilità e di confronto/scontro mediatico che hanno coinvolto ad esempio il settore delle medicine non convenzionali negli ultimi mesi, un settore spesso nell’occhio del ciclione per le polemiche alimentate dalla voglia delle persone di curarsi in modo più olistico e meno invasivo e dell’ostilità verso questo differente paradima di salute. Casi davvero “illuminanti” circa il rapporto tra sistema dei mass-media, cittadini e libertà.

Ad esempio, immenso clamore nel settore ha suscitato la pubblicazione di “un nuovo studio scientifico australiano” – così recitavano i pennivendoli italiani – che avrebbe detto, l’ennesima volta, “la parola fine sull’omeopatia”: una metanalisi di una serie di studi che inequivocabilmente dimostravano che etc. etc. Ebbene, una banalissima azione di fact cheking ha dimostrato che:

  • non si trattava di uno studio scientifico in quanto non è mai stato pubblicato da nessuna rivista scientifica indicizzata;

  • si trattava di un’analisi già ampiamente pubblicizzata in passato, semplicemente ripresa nuovamente dai mass-media a caccia di notizie e di polemiche;

  • la ricerca in ogni caso non ha apportato alcun elemento innovativo o prova significativa nel più ampio panorama della letteratura scientifica, e – come vari esperti hanno denunciato – parrebbe gravata da pregiudizio editoriale;

  • il (presunto) articolo del British Medical Journal che riprendeva la ricerca semplicemente non era un articolo del BMJ, bensì un post su un Blog che il BMJ ospita. Blog gestito da chi? Dall’autore della ricerca Australiana, che evidentemente “se le canta e se le suona” da solo…

E’ assodato che esiste una campagna contro le medicine “altre” che non rispettano i canoni commerciali e promuovono altri stili di cura. E che questo si basa sulla circolazione di notizie false o tendenziose.

Certamente sì. Un’altra sfacciata bugia, l’ultima in ordine cronologico, di chi fa della manipolazione dei fatti una “regola”, è la clamorosa “fake news” secondo la quale le medicine complementari “sarebbero in crisi”, vero e proprio mantra con il quale i soliti noti hanno asfissiato i massmedia negli ultimi due anni, laddove invece il già citato Rapporto Italia 2017 Eurispes, reso noto recentemente, conferma che l’Italia è in linea con le tendenze europee sull’aumento della fiducia nei confronti di questi paradigmi medici. Secondo poi i dati del Consozio UE CAMbrella, magistralmente rapprentato per l’Italia dal Dott. Paolo Roberti di Sarsina, in Europa non meno di 100 milioni di persone fanno regolarmente uso di prestazioni sanitarie di medicine non convenzionali a livello preventivo e curativo, e – con una crescita del + 6,7% rispetto ai dati del 2012, i: l 21,2% della popolazione italiana utilizza attualmente – anche solo saltuariamente – medicinali non convenzionaliper curarsi o ritrovare il naturale equilibrio omeostatico dell’organismo al fine di alzare le barriere immunitarie e prevenire le malattie.
Insomma, non una di queste prese di posizione critiche, che pure hanno goduto di buona stampa, si è rivelata men che faziosa e totalmente inconsistente. Interessante anche notare l’assenza completa di repliche, perché – come nel caso del presunto “crollo” delle prescrizioni MNC – la tecnica è sempre la medesima: si mette in giro sui mass-media una fake-news, e quando essa viene clamorosamente smentita, invece di fare ammenda o giustificarsi o perlomeno partecipare a un sano contraddittorio, si “sparisce”, cambiando argomento. Ho citato questi esempi per far riflettere su quanto sia poco onesto intellettualmente l’atteggimento di questi signori, veri e propri “sacerdoti della morale scientifica”.

E’ in voga l’Evidence Based Medicine, la medicina che pretende di essere basata su risultati evidenti e sperimentabili. Tu dici che l’EBM è un dogma. Ce lo puoi spiegare?

Quante volte abbiamo sentito dire: “…la scienza dice che”, “è ridicolo, non è provato scientificamente”,  “se è scritto su PubMed è così! ”, etc…? Bene, diamo qualche dato sull’EBM sempre dal punto di vista della comunicazione.

  • almeno il 50% degli studi pubblicati nel settore delle biotecnologie non è ripetibile, e questa potrebbe essere una stima ottimistica. Nel 2012 – ricorda un articolo di “Nature” – i ricercatori dell’azienda biotecnologica “Amgen” hanno scoperto non senza sorpresa che erano in grado di replicare solo 6 dei loro 53 studi oncologici definiti “fondamentali”;
  • sulla base delle risultanze di una verifica pubblicata su “Nature Reviews Drugs Discovery”, la multinazionale Bayer è riuscita a ripetere solo il 25% di 67 esperimenti altrettanto importanti, sui quali aveva in parte basato le richieste di approvazione alla messa in commercio di una serie di farmaci;
  • un’ulteriore ricerca ha dimostrato che – nel decennio 2000/2010 – circa 000 pazienti hanno partecipato a test clinici basati su studi che poi sono stati “ritrattati” a causa di errori o procedure inappropriate;
  • l’allora direttrice del British Medical Journal, Dr. sa Fiona Goodle azzardò pochi anni fa un provocatorio ma significativo test: inviò a 200 revisori della rivista, l’uno all’insaputa dell’altro, un articolo contenente – volutamente – 8 errori di analisi e interpretazione: non solo nessuno dei 200 esperti individuò tutti gli errori, ma la desolante media degli errori individuati si fermò a 2;
  • il biologo e giornalista scientifico John Bohannon ha fatto un altro test, inviando a ben 304 riviste scientifiche indicizzate uno studio sugli effetti di alcuni licheni sulle cellule cancerogene, firmandosi con uno pseudonimo. Ebbene, l’intero studio era totalmente inventato, conteneva errori di progettazione evidenti, e addirittura risultava redatto da un ricercatore di un’Università inesistente. Clamoroso: 157 riviste scientifiche (più della metà) accettarono di pubblicarlo;
  • l’Università di Edimburgo, ha esaminato nel dettaglio inchieste e sondaggi svolti all’interno della comunità accademica nel ventennio 1988-2008: un poco rassicurante 2% dei ricercatori ha ammesso “di aver falsificato i dati”, mentre il 28% di essi ha confessato di “conoscere personalmente colleghi che hanno utilizzato metodi discutibili durante la progettazione o l’esecuzione dei loro esperimenti”.

Questo significa che l’EBM è da gettare nel cestino? Ma certo che no. Significa solamente che dobbiamo essere ben consapevoli dei suoi limiti.

Nel tuo ultimo libro “Salviamo Gian Burrasca”, edito da Terra Nuova Edizioni, tu tra le altre cose analizzi un caso di gravi manipolazioni nella diffusione di uno psicofarmaco rivelatosi assai pericoloso

Ti riferisci al caso della Paroxetina, e in particolare, il suo uso in età pediatrica; ci si chiede spesso quanto siano attendibili gli studi finanziati dalle case farmaceutiche o condotti da ricercatori che hanno avuto o hanno incarichi di consulenza presso aziende farmaceutiche. Nel caso della paroxetina e della GlaxoSmithKline, quanto emerso non è rassicurante, come ha spiegato la campagna Giù le mani dai bambini. A confermare la divulgazione di dati non corretti su efficacia e sicurezza del farmaco, utilizzato per il trattamento della depressione anche nei giovanissimi, è stato il British Medical Journal nel 2015 che ha confutato il cosiddetto “studio 329”, pubblicato nel 2001 a firma di 22 ricercatori e che originariamente pareva confermare l’appropriatezza d’uso di questa molecola nei casi di depressione. È emerso che «la ricerca fu redatta da Sally K. Laden, una ghostwriter pagata dalla casa farmaceutica che aveva finanziato la ricerca allo scopo di dimostrare l’efficacia della molecola» si legge nella nota stampa a suo tempo diffusa dalla Campagna. «Ci sono voluti poi 14 anni e la tenacia di validi ricercatori per ribaltare i risultati dello studio e dimostrare che la paroxetina aumenta il rischio di suicidio per i minori che la assumono».
«Dopo lo Studio 329 del 2001, le vendite della paroxetina e di altri psicofarmaci ad azione analoga subirono una fortissima impennata, grazie anche a prescrizioni di medici generici e pediatri, con il risultato che molti adolescenti subirono effetti negativi e alcuni morirono. La paroxetina divenne l’antidepressivo più venduto, con guadagni per centinaia di milioni di dollari e più di due milioni di ricette emesse ogni anno per i soli bambini e adole- scenti» ha commentato Paolo Migone, medico specializzato in psichiatria in Italia e in USA. «Mentre la GlaxoSmithKline continuava a utilizzare lo Studio 329 come dimostrazione dell’efficacia e sicurezza della paroxetina» ha aggiunto Migone, «già nel 2004 la Procura generale di New York denunciò la multinazionale per frode contro i consumatori per aver contraffatto i dati e diffuso informazioni false. La causa si concluse con un accordo: la GSK doveva pagare una multa e si impegnava a pubblicizzare sul suo sito internet i dati effettivi dello Studio 329. Successivamente, anche il Dipartimento di Giustizia americano denunciò la GSK per truffa nei confronti di Medicare e Medicaid, cioè le principali agenzie assicuratrici pubbliche che finanziano la sanità in America, in quanto aveva diffuso affermazioni false o fraudolente. La GSK si dichiarò colpevole e accettò di pagare 3 miliardi di dollari, ovvero la multa più alta comminata a un’azienda farmaceutica nella storia americana».
La GlaxoSmithKline fu quindi definitivamente condannata e obbligata a rendere noti i dati relativi alla paroxetina. Ma come lo fece è un altro capitolo ancora… La multinazionale pubblicò infatti oltre 77.000 pagine di resoconti clinici visibili solo in remoto a video, senza che i files potessero essere scaricati o stampati. Una scelta ridicola e dannosa. Il team guidato dal professor Jon Jureidini dell’Università di Adelaide ha successivamente identificato lo studio finanziato da GlaxoSmithKline come un esempio di un processo autorizzativo da rivedere e, utilizzando documenti in precedenza riservati, ha rianalizzato i dati originali e ha scoperto che quanto all’epoca fornito dalla casa farmaceutica era fortemente fuorviante e che il pericolo per i minori che utilizzano questo psicofarmaco è “clinicamente significativo”

Quali soluzioni intravedi per una comunicazione al servizio delle persone e per uno sviluppo della società?

Non vorrei prenderla troppo alla lontana, ma vorrei citare alcune riflessioni tratte da un mio recente lavoro pubblicato su una rivista di settore. il Vangelo di Giovanni, scritto in tarda età, è la summa delle riflessioni che l’avevano segnato per tutta la vita, e dice: “In principio era il Verbo (Logos), e il Verbo era presso Dio, e il Verbo ERA Dio”. Il Verbo è anche Verità e Vita. Negli ultimi due millenni, tutta la ricerca di una dimensione spirituale dell’uomo, e quindi del senso e del valore della vita, del significato della morte, della nozione di bene e di male, ha ruotato attorno al sillogismo di Giovanni sul Verbo. La storia ha poi ampiamente dimostrato tutte le aberrazioni che la mente umana è stata capace di produrre “sfornando orrori”, e l’esperienza della cultura giudaico-cristiana non è certo stata da meno di tutte le altre, musulmana, buddista, induista; ma questo è un altro discorso. Ma la ricerca di una qualche Verità, è praticata – consciamente o meno – da chiunque, magari con rimozioni e negazioni immediate. Ecco allora dove voglio arrivare: anche chi non crede, non potrà negare che tra tutti i Valori dell’uomo, la Verità appare quello più centrale, sia per chi ha fede come per chi non ne ha. Volente o nolente, tutti – cittadini, medici, filosofi, scienziati, giudici, operatori dell’informazione – cerchiamo di “tendere verso la Verità”, operando scelte e compromessi continui, guidati purtroppo più dalla convenienza della vita terrena che non dalle categorie “alte” dello Spirito. Le società moderne si evolvono solo a condizione che sia dia per assodato che i fatti (A) devono essere descritti con equilibrio (B) devono essere documentati pubblicamente, e (C) devono tendere alla verità. Il concetto di “Verità dell’informazione” è infatti la base indispensabile dello Stato di diritto: dove non c’è verità, non vi è responsabilità politica – la responsabilità non è mai di nessuno, non si sa di chi sia – e quindi non vi è “salute dello Stato”, si ha uno Stato malato nel profondo, ed è questo il caso dell’Italia negli ultimi anni. Il dibattito allora conta se riesce – ricercando la Verità – a “far parlare i fatti”, per poi costruire in modo equilibrato le opinioni di ognuno, anche magari divergenti. Questo non sta accadendo ad esempio sulla questione vaccini. Ebbene, nel mondo della sanità e della medicina, c’è sistematica *negazione della Verità*

C’è disinformazione, non solo individuale, ma sempre più spesso organizzata, e persino “finanziata” da gruppi di pressione e di interesse?

Esatto. Nella medicina molti sono spinti non dall’interesse a guarire il malato, bensì dall’interesse a perpetuare la malattia, costruendo artatamente un paradigma di salute poggiato su bugie, su falsità, ma così ben “decorato” dal punto di vista estetico, da apparire l’unico paradigma possibile, o perlomeno l’unico percorribile: proprio quello che invece lo è meno e che sta condannando il pianeta al disastro e alla patologia cronica, e, in quanto cronica, data ormai serenamente per scontata. Dobbiamo prendere lezioni forse dall’arroganza da una certa medicina, con i suoi 250.000 morti all’anno per effetti collaterali a causa di farmaci somministrati con leggerezza o impropriamente e per malepratiche sanitarie? Dobbiamo prendere lezioni da quelle case farmaceutiche che per solo scopo di lucro immettono sul mercato psicofarmaci come la Paroxetina, consci del fatto che stimola idee suicidarie su bambini e adolescenti, e ostacolano poi deliberatemente la giustizia quando si scopre che gli studi scientifici alla base dell’autorizzazione alla messa in commercio erano stati manipolati? O forse dobbiamo prendere lezioni dall’Agenzia Italiana del Farmaco, che a distanza di 2 anni dalla questa scoperta agghiacciante, ammette candidamente in una corrispondenza con il Ministero della Salute italiano di “non aver ritenuto di far nulla” per allertare le famiglie relativamente a questo vergognoso scandalo? C’è voluto un nuovo Presidente dell’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, persona degnissima, per sbloccare la cosa, proprio poche settimane fa.
Lancio una provocazione: coloro che criticano chi pensa con la propria testa, facciano una ricerca scientifica importante, sugli abomini delle pratiche mediche mainstream, totalmente disumanizzate, e sui disastri perpetrati da questi signori che salgono in cattedra per poi dare il loro quotidiano e sistematico contributo alla distruzione dei delicati equilibri dell’ambiente nel quale tutti viviamo.

E’ necessario essere diversi?

Si. Dobbiamo passare oltre a quei processi cognitivi che vorrebbero una Verità soggettiva, prestata a questo o quell’interesse, deformata, alterata per le più diverse convenienze, e impegnarci a cercare, costruire, narrare, una Verità che in quanto oggettiva è lapalissiana, chiara, cristallina: ovvero che l’Uomo è al centro dei processi di salute, e la Medicina o è centrata sulla Persona o semplicemente non è Medicina; è vendita di prestazioni, è mercato, è un’altra cosa, e non ci interessa più, esce necessariamente dal perimetro dello sguardo del Medico.
Dobbiamo impegnarci con molta più energia per stimolare un “risveglio” di almeno qualche coscienza, generando – come mi ha insegnato anni fa il mio fraterno amico Dott. Paolo Roberti di Sarsina – la più bella delle epidemie, la più mirabile e straordinaria delle “malattie”: un’epidemia di consapevolezza, ed eventi come quello di oggi servono proprio a questo. Lavoriamo tutti assieme, tutto coloro che per i più diversi motivi credono nella necessità di raffermare la Verità, perché semmai riusciremo a raggiungere anche solo in parte questi obiettivi, potremo farlo solo essendo coesi.  E se vi riusciremo, ci sarà da andarne davvero fieri. Perché solo affermando queste Verità potremo dare un contributo a cambiare il mondo e a far crescere il Pianeta.