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Papa Karol Wojtyla “Il più grande comunicatore del secolo”

Il dott. Valls – era nel Suo Studio medico, l’orologio segnava le 12:45, aveva appena visitato l’ultimo paziente della mattinata e si accingeva ad andare a pranzo. Il seguito della giornata si preannunciava tranquillo: qualche altra visita, un appuntamento presso la sede della Stampa Estera in Italia – il Dottore aveva la passione per il giornalismo – cena in famiglia, ma prima magari una preghiera nella cappella sulla strada tra lo Studio e casa.
La segretaria entrò nella sua stanza con il viso pallido e visibilmente turbata: “Dottore, è arrivata una chiamata per Lei. Dal Vaticano. La vogliono a pranzo…”. Valls rispose sorridendo: “Ma chi? Sarà uno scherzo, sicuramente! Richiami la Santa Sede, scopra che succede…”.
La segretaria rientrò dopo 5 minuti, confermando che la chiamata era autentica. “A che ora?”. “Tra 45 minuti Dottore. Pare che la attenda il Papa in persona”. A quel punto anche Valls sbiancò in viso…
Meno di un’ora dopo il medico era nelle Sacre Stanze, e mangiava con il Papa, che si rivolse a Lui dicendo: “So che Lei è una persona stimata: mi deve aiutare. Io voglio sapere: come possiamo comunicare meglio al mondo intero i valori – spirituali ma anche umani – dei quali siamo depositari?”. Ecco com’è iniziata la collaborazione tra Giovanni Paolo II e Joaquin Navarro Valls, di professione medico, e giornalista per passione, che per 22 anni governò la comunicazione della Santa Sede in tutto il mondo. “Il Papa quel giorno – ha dichiarato Valls recentemente in un’intervista a RAI 1 – mi disse ‘ho bisogno di Lei, la prego di riflettere su questo. Può anche prendersi del tempo per pensarci, diciamo fino a domani mattina…’. Vi confesso avevo molti, troppi dubbi, ma… come potevo dire di no al Papa?”.
In ogni caso, proprio il tema della comunicazione – e a che livello! – è stato al centro del primo colloquio tra il più amato Pontefice della storia della Chiesa e l’uomo che lo rappresentò nei confronti dei mass-media – e quindi del mondo – per l’intero pontificato.
La forza comunicativa straordinaria di Papa Wojtyla era emersa con chiarezza già nel suo primo discorso, dal balcone dell’insediamento: “Questo discorso proverò a farlo nella Vostra lingua… nella nostra lingua italiana… vorrà dire che se sbaglio mi corigerete…” (l’errore è nel discorso originale, fatto dal Pontefice a braccio). L’applauso scoppiò fragoroso in piazza e nel mondo intero, a qualcuno vennero i brividi e scesero le lacrime, e nacque immediato l’amore tra la gente comune e il modo di comunicare snello, diretto e appassionato del Cardinale polacco.
L’opera di Navarro Valls si concentrò da subito sulla necessità di rinnovamento del modo di gestire le media-relations della Chiesa Cattolica, peraltro in perfetta sintonia con gli spunti forniti dal Pontefice stesso, che con la Sua impronta particolare e modernissima spesso “scavalcava” lo stesso portavoce in termini di capacità di innovazione, rompendo gli schemi e spiazzando i mediatori della comunicazione di tutti i paesi del mondo.
E’ impossibile comprendere il “taglio” di Wojtyla se non partendo dal quotidiano. Navarro Valls racconta le “fughe” del Papa per andare… a sciare! “Il Papa – ha dichiarato Valls – mi faceva chiamare, e mi diceva ‘Oggi ci prendiamo qualche ora di pausa’. Allora dovevo organizzare un’auto, senza targa del Vaticano: salivamo l’autista, io, il Papa e il Suo segretario personale. Dietro, un’auto di appoggio, sempre anonima, e ci tuffavamo nel traffico romano all’ora di punta…vi lascio immaginare che situazione! Arrivavamo al casello, pagavamo il pedaggio, e io avevo una paura che ci riconoscessero…! L’unico tranquillo era Lui. Poi, arrivati sul posto, il Papa sciava per circa 4 ore, poi rientravamo alla Santa Sede…”
Lo stile di comunicazione del Papa nel suo “privato”, con i collaboratori, era congruente con lo stile “pubblico”, in un’assoluta corrispondenza di stile, molto rara tra personaggi notissimi come Wojtyla. Valls conferma che non esistevano distonie: “Come era in pubblico, come lo vedevate Voi, era anche in privato, quindi per Lui era assai facile comunicare”. L’assenza di “sovra-strutture” rendeva al Pontefice assai facile entrare in sintonia diretta con la gente, “Quando parlava, avevi la sensazione che si stesse rivolgendo proprio a te, personalmente”, ricorda l’ex portavoce Vaticano.
Una grande capacità strategica e di governo delle complessità, unità a una straordinaria sobrietà: “Una sera a cena portai al Pontefice una copia fresca di stampa del TIME, che lo ritraeva in copertina come uomo dell’anno. Lui la guardò, e la posò sul tavolo, rovesciata. Parlammo del più e del meno mentre mangiavamo, poi quando finimmo Lui si alzò, e la lasciò sul tavolo. Gliela porsi di nuovo, e lui la prese e la mise sotto il braccio, sempre dandogli pochissima importanza, mentre a me pareva un gran risultato sotto il profilo della comunicazione pubblica. Mi azzardai allora a chiedergli: ‘Santo Padre… forse non le piace la fotografia?’. E lui mi rispose, con un bellissimo sorriso: ‘No, il problema è che forse mi piace troppo’…”
La sofferenza è stata la cifra di una parte significativa di quel Pontificato, tanto che Valls ama ripetere che ‘L’enciclica più bella Wojtyla l’ha scritta non con le parole su un foglio, ma con la vita che ha vissuto”. Il Papa ha “comunicato” al mondo anche mediante il suo sguardo malato, in un periodo di forte relativismo etico. Questo Suo voler restare al governo della Chiesa Universale anche in condizioni di fortissimo disagio psico-fisico rese complesso anche il lavoro di Valls.
In particolare negli ultimi 2 mesi di vita del Santo Padre, Valls scelse di dare un’informazione ancor più completa del solito, in perfetta consonanza con un Pontificato che non aveva mai nascosto nulla: due conferenze stampa al giorno, puntuali, una al mattino e una al pomeriggio, per aggiornare la stampa mondiale sulla situazione del Pontefice. Un unico momento di esitazione, quando un giornalista della stampa estera domandò a Valls: “Dal punto di vista strettamente personale, come vede Lei questa situazione del Papa?”. Valls rallentò il suo abituale eloquio immediato e snello, ebbe un’esitazione, gli occhi gli si velarono di lacrime, e rispose con parole di circostanza, visibilmente emozionato. Una relazione professionale ed umana – quella tra Valls e Wojtyla – che ha costituito il vero tandem vincente del XX° secolo: dai concerti rock in presenza del Papa, al crollo del muro di Berlino, frutto di un lavoro incessante durato oltre 10 anni, dalla visita al Lìder Màximo a Cuba all’incontro con i pellerossa, con tanto di Papa che indossa davanti ai giornalisti il tradizionale copricapo di piume del Sioux.
“Quando per la prima volta incontrammo Gorbachov – racconta Valls – il capo dell’URSS era agitato, quasi a chiedersi che tipo di atteggiamento avrebbe dovuto tenere con il Papa. Wojtyla invece era in una stanza, e pregava. C’era tensione nell’aria. Un’ora dopo, a colloquio in corso, entrai, e tutto era rilassatissimo. Il Papa ‘comunicava’ nel senso più alto del termine. Posso garantirvi che era una persona emozionante, l’avete visto tutti, ma di persona emozionava ancora di più”.
“Alle 21:37 di oggi, due aprile, il nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo II è tornato alla Casa del Padre”. Questo l’annuncio dato al mondo. L’ultimo sguardo, due ore prima di lasciare definitivamente il corpo, Wojtyla lo riservò proprio a Jioaquin Navarro Valls.
Il portavoce del più grande comunicatore del secolo ricorda così quel momento: “Uno sguardo carico di significato, ci siamo guardati a lungo e abbiamo ripercorso nella mente, in silenzio, quei vent’anni di avventure in giro per il mondo. Lui soffriva, era evidente. Ma era anche straordinariamente lucido”.
Come la Sua comunicazione, che rivoluzionò l’ingessato protocollo della Chiesa e insegnò alla Santa Sede a parlare direttamente alle folle di tutto il mondo.
 




Con Internet è andato tutto storto

Il co-fondatore di The Pirate Bay Peter Sunde spara a zero sui giganti della tecnologia e su quello che internet è diventato: “I governi dovrebbero fare qualcosa”


Credere in qualcosa fino in fondo, e poi trovarsi con un pugno di mosche in mano: sembra che alcuni dei protagonisti della rete, di quelli che ci credevano quando erano in pochi a farlo, stiano gettando la spugna. Dopo Evan Williams — ex presidente e Ceo di Twitter, che aveva affidato al New York Times un poco speranzoso “internet non funziona più” — arriva Peter Sunde, co-fondatore di The Pirate Bay, ad alzare le mani.

È andato tutto storto

“Il punto non è quello che accadrà in futuro, ma quello che sta succedendo adesso”, ha detto in un’intervista a The Next Web, durante la quale ha attaccato duramente il Ceo di Facebook: “Abbiamo centralizzato tutti i nostri dati a un ragazzo chiamato Mark Zuckerberg, che è fondamentalmente il più grande dittatore del mondo, visto che non è stato eletto da nessuno”. Non solo: anche lui è nelle mani della politica. “Trump ha di fatto il controllo sui dati in possesso di Zuckerberg, quindi ci siamo già.
Tutto ciò che potrebbe andare storto è già andato storto e non credo che ci sia un modo per arginarlo”.
Il problema è stato “tradire” la missione iniziale della rete: “Internet è stato creato per decentralizzare, e invece continuiamo a centralizzare ai livelli più alti di internet”.
La riprova, secondo lui, starebbe nel fatto che negli ultimi 10 anni quasi tutte le tecnologie emergenti sono state acquistate dai grandi cinque:Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook. Il mercato, poi, si è spostato da un modello basato sul prodotto, a un modello basato sulprodotto virtuale (porta ad esempio Airbnb, Uber, Alibaba). Tutto questo, per Sunde, si chiama centralizzazione, rischio che correrebbero anche le tecnologie più promettenti in arrivo, come le macchine che si guidano da sole: “Chi le possiede e chi possiede le informazioni su dove possiamo o non possiamo andare?”
Dovrebbe esserci una discussione più accesa e più etica in merito a tecnologia e proprietà, dice il pioniere del Torrent. L’unico modo in cui possiamo fare qualsiasi differenza è limitare i poteri di queste società, ma purtroppo l’UE o gli Stati Uniti non sembrano avere alcun interesse a farlo”. Tuttavia, una via d’uscita ci sarebbe, e potrebbe essere quella di un’azione dei singoli governi, che pian piano potrebbero, sempre secondo le sua tesi, indirizzare gli enti sovra nazionali in una diversa direzione.
In tutta questa nuova economia della rete, i big data giocano un ruolo importantissimo e delicato: secondo Sunde, le aziende li sfruttano, dando indietro qualcosa, come i servizi e una buona comunicazione.

“I big data e le grandi multinazionali del Tabacco sono simili, in un certo senso. Prima non ci siamo resi conto di quanto fosse pericoloso il tabacco, ma ora sappiamo che provoca il cancro. Non sapevamo che i big data avrebbero potuto diventare così importanti, ma ora lo sappiamo. Allo stesso modo, abbiamo basato le nostre vite sui big data, e ora non possiamo smettere”.




Il cervello è fatto per dimenticare

Cancella le informazioni irrilevanti per fare scelte intelligenti


Il cervello e’ fatto per dimenticare: lo fa costantemente, per cancellare i ricordi inutili e dare spazio a quelli piu’ rilevanti che servono a prendere decisioni sagge e intelligenti, in modo da adattarsi meglio alla realta’ che cambia. Lo dimostra uno studio pubblicato su Neuron dai neuroscienziati dell’Universita’ di Toronto, in Canada, i cui risultati trasformano radicalmente il concetto di memoria: non piu’ definita come la capacita’ di conservare il maggior numero di informazioni nel tempo, alla Pico della Mirandola, ma come l’abilita’ di saper dimenticare le cose superflue.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana, che gia’ da qualche anno ha cominciato a farsi strada nel campo delle neuroscienze con un numero crescente di studi che hanno acceso i riflettori sull’importanza del dimenticare, e non solo del ricordare. Passando in rassegna la letteratura scientifica piu’ recente, “abbiamo trovato molte prove che dimostrano l’esistenza di meccanismi che promuovono la perdita di ricordi e che sembrano essere differenti rispetto a quelli coinvolti nell’immagazzinamento delle informazioni”, spiega uno degli autori dello studio, Paul Frankland.
Uno dei meccanismi individuati, ad esempio, serve a indebolire o eliminare le connessioni fra i neuroni che custodiscono il ricordo. C’e’ poi anche un secondo meccanismo che consiste nella produzione di nuovi neuroni nella centralina della memoria, l’ippocampo: quando si integrano nei circuiti li rimodellano e sovrascrivono sui vecchi ricordi, rendendoli meno accessibili. Quest’ultimo fenomeno potrebbe spiegare perche’ i bambini, che continuano a produrre nuovi neuroni nell’ippocampo, finiscono per dimenticare tante cose. Sebbene possa sembrare un controsenso che il cervello spenda tante energie per dimenticare, in realta’ lo fa per eliminare vecchie informazioni fuorvianti e per non perdersi in dettagli inutili, secondo gli stessi principi che regolano l’apprendimento anche nel campo dell’intelligenza artificiale.




TGLFF – Lovers Festival, Torino 2017

Recentemente concluso il TLGFF, ora Lovers” Festival di Torino, una panoramica su questa edizione, con intervista al regista Andrea Meroni, autore del documentario “Ne avete di finocchi in casa?”
Ascolta il servizio:




L'ERA DEI ROBOT E LA FINE DEL LAVORO

Un bene o un male per l’umanità?
 
È un giorno qualunque, nell’era dei robot, e il lavoratore tipo esce di casa per recarsi in ufficio. Le macchine, per strada, si guidano da sole. Il traffico pure: si dirige da sé. Lo sguardo può dunque alzarsi sopra la testa, dove, come ogni giorno, droni consegnano prodotti e generi alimentari di ogni tipo – oggi, per esempio, il pranzo suggerito dal frigorifero “intelligente”.
Sul giornale – quel che ne resta – gli articoli sono firmati da algoritmi. Giunto alla pagina finanziaria, il nostro si abbandona a un sorriso beffardo: il pezzo, scritto da un robot, parla delle transazioni finanziarie compiute, in automatico, da altri algoritmi.
Entrato in fabbrica, poi, l’ipotetico lavoratore di questo futuro (molto) prossimo si trova ancora circondato dall’automazione; per la produzione, ma anche per l’organizzazione, la manutenzione, perfino l’ideazione del prodotto: a dirci cosa piace ai clienti, del resto, sono ancora algoritmi. Quel che mi resta, pensa ora senza più sorridere, è coordinare robot, o robot che coordinano altri robot. Finché ne avranno bisogno.
Ma per quanto ancora? Per rispondere, basta tornare al presente. Nei giorni scorsi, l’intelligenza artificiale di Google chiamata ‘AlphaGoha umiliato il campione Lee Sedol in uno dei giochi più complessi, astratti, e dunque tipicamente umani – così pensavamo – mai esistiti: il millenario Go.
Secondo gli esperti, sbalorditi, alcune mosse hanno esibito un comportamento non solo “creativo”, ma in un caso, secondo Wired, addirittura geniale in un modo del tutto incomprensibile a giocatori in carne e ossa. Peggio: il campione battuto dalla versione precedente di quella intelligenza sintetica ora scala le classifiche proprio grazie a ciò che sta imparando dalla macchina. E questo, dicono a Google, è solo l’inizio. Quando si parla di automazione, robot e lavoro, dunque, la questione ci riguarda tutti – senza distinzione tra operai, impiegati, intellettuali o manager d’azienda. Nessuno è più immune dal rischio di vedersi sostituito da una macchina.
Dice un sondaggio appena pubblicato dal Pew Research Center che gli interpellati statunitensi ne sono consci: due terzi immaginano che, entro i prossimi 50 anni, gran parte delle occupazioni attualmente svolte da esseri umani finiranno per essere assegnate a computer e intelligenze artificiali. Il rischio è tuttavia che pecchino di ottimismo quando aggiungono di ritenere – e in massa, l’80% – che «il loro lavoro rimarrà in buona parte immutato e continuerà a esistere nella forma attuale» tra mezzo secolo.
Sempre più analisi, infatti, sottolineano che lo scenario potrebbe essere presto ben diverso. Secondo i ricercatori di Oxford, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, il 47% dei lavori negli Stati Uniti è già arischio computerizzazione – e un ulteriore 13% vi si potrebbe aggiungere, nota McKinsey, quando le macchine diverranno capaci di “comprendere” e processare davvero il linguaggio naturale. Per l’Europa, poi, le percentuali ottenute rielaborando quei dati sono perfino più elevate.
Da qui le profezie di sventura. Per il docente della Rice University, Moshe Vardi, per esempio, entro i prossimi 30 anni i robot potrebbero portare a tassi di disoccupazione superiori al 50%. «Se le macchine sanno fare tutto», chiede Vardi, «che resta agli umani?»
Qualche istituzione se l’è chiesto. La Commissione britannica per ‘Impiego e Competenze’, per dirne una, ne ha ricavato un rapporto intitolato ‘The Future of Work: Jobs and Skills in 2030’. Uno studio che, fin dall’inizio, sottolinea come sul tema si sia passati dalla promessa di orari di lavoro ridotti e di più tempo libero, alla realtà in cui lavoro e tempo libero finiscono per confondersi, troppo spesso senza che sia più possibile distinguerli. Altri soggetti istituzionali, invece, devono ancora cominciare a problematizzare la questione. E sarebbe ora lo facessero, governo e sindacati in testa. A partire dall’Italia, dove manca qualunque elaborazione. E, di conseguenza, è inutile chiedersi se siano stati previsti e valutati i diversi scenari possibili; figurarsi le relative proposte di soluzione in termini di policy-making.

 Alle origini del cyber-lavoro

E dire che il problema si pone in questi esatti termini, anche a livello mediatico e di massa, fin dagli anni ’60. «L’automazione è davvero qui, i posti di lavoro diminuiscono», scriveva – echeggiando le cronache odierne – la prima pagina di Life del 13 luglio 1963. Attenti, ammoniva il settimanale: “siamo al punto di non ritorno per tutti”.

L’attualità della provocazione sconcerta. Significa che, mezzo secolo più tardi, il problema rimane lo stesso: non abbiamo imparato a capire se, passato il bivio, si è imboccata davvero la strada che conduce a un mondo di lavoratori umani sostituiti in massa dalle macchine, se la stiamo per prendere, o se piuttosto sono solamente le preoccupazioni infondate di nuovi “luddisti” intenti a spaccare gli algoritmi e le intelligenze artificiali della “quarta rivoluzione industriale” – invece dei telai meccanici delle precedenti.
Non stupisce dunque che, mentre si moltiplicano studi accademici, ricerche, volumi divulgativi e scientifici, resoconti giornalistici, interventi di analisti e leader di vecchi e nuovi colossi economici sul tema, sia un’analisi del 1964 a delimitare i contorni della domanda che ci poniamo oggi, su quale sia il reale impatto dell’automazione sul lavoro. È quella che un apposito gruppo di studio, l’Ad Hoc Committee, pubblicò nel rapporto intitolato ‘The Triple Revolution’. Pagine attuali, troppo attuali.
 Oggi come allora, infatti, si può dire di essere in presenza di una “rivoluzione” – chiamata all’epoca della “cybernazione” – la cui esistenza è dovuta interamente alla “combinazione dei computer con macchine che si autoregolano automaticamente”. Il risultato? “Un sistema dalla capacità produttiva pressoché illimitata”, che richiede tuttavia “sempre meno lavoro umano”. A meno che non ci sia “una reale comprensione” del fenomeno, concludevano gli autori di quel visionario rapporto, “potremmo stare consentendo l’emergenza di una comunità efficiente e disumanizzata senza alternative”.
Il padre della cibernetica, Norbert Wiener, ne aveva già scritto in forma di profezia nel 1949, sulNew York Times. Come ricorda Martin Ford in ‘Rise of the Robots’, secondo Wiener il dominio delle macchine avrebbe potuto condurre a una «rivoluzione industriale di assoluta crudeltà», capace di ridurre il valore del lavoro al punto di rendere impossibile trovare un prezzo a cui fosse conveniente, per il datore di lavoro, assumere un essere umano in carne e ossa. Dalla piena occupazione, si potrebbe dire, siamo passati alla prospettiva di una “piena automazione”. Con un mercato per la robotica destinato a passare dai circa 27 miliardi di dollari attuali ai 67 previsti tra un decennio, potrebbe presto diventare ben più di una provocazione.

Se anche il lavoro finisse, non sarebbe utopia

Davvero un mondo – come quello immaginato già da Oscar Wilde – in cui all’uomo non resta che tempo libero è un’utopia? Per Vardi è piuttosto il suo contrario, una distopia. La lezione dell’opera di Carel Kapek che diede i natali, a inizio Novecento, alla parola “robot” non fa che confermarlo. Ciò che si presenta con le fattezze di un paradiso edonistico, nel suo seminale ‘R.U.R.’ (1920) si rivela infatti presto essere un inferno disumano. La promessa è di uno dei protagonisti, Domin: i robot “produrranno talmente tanto grano, stoffe e molto altro, da poter dire che le cose non avranno più alcun valore”.

È l’antenato dell’odierna “era dell’abbondanza”, in cui “ognuno potrà prendere ciò di cui ha bisogno. Non ci sarà più miseria”. Insomma, il problema di Life è risolto alla radice. Perché sì, gli uomini “resteranno senza lavoro. Ma poi non ci sarà più bisogno di lavorare per nessuno. Tutto verrà fatto dalle macchine vive. L’uomo farà solo ciò che più gli piace. Vivrà solo per perfezionarsi”.

Il sogno è però in realtà un incubo. A spiegarlo, nell’opera, è l’architetto Alquist, dopo avere appreso che in un tale mondo le donne finiscono per non mettere più figli al mondo:

Perché non è più necessario il dolore, perché l’uomo non deve fare più nulla, tranne godere… Oh, che paradiso maledetto è questo! (…) non c’è niente di più terribile che dare alla gente il paradiso in terra.

Se anche gli ottimisti avessero ragione, insomma, e si lavorasse sempre meno (come vorrebbe Larry Page di Google) fino a non lavorare più, avremmo dei grossi problemi con il senso delle nostre esistenze. E sì, anche senza coinvolgere l’idea di un “governo dei robot”, come nella finzione di Capek o nei foschi presagi di Stephen Hawking («lo sviluppo di una completa intelligenza artificiale potrebbe segnare la fine della razza umana»).

La tecnologia crea o distrugge lavoro?

Qui i pericoli sollevati dagli scettici sono ben più concreti. Il rischio è di trovarci molto presto ad abitare un mondo in cui i “robot” causeranno tassi di disoccupazione insostenibili e senza precedenti nella storia umana, distruggendo i lavori ripetitivi e manuali così come le professioni intellettuali, e lasciando l’umanità schiava della tecnologia e dei suoi creatori. Come insegna la storia delle forme di repressione, non sempre è necessaria la violenza – in questo caso, di un Terminator – per governare il mondo. Bastano l’astuzia di un HAL 9000 o, più banalmente, di qualche buona rete neurale: ovvero, proprio del tipo di intelligenza artificiale che sconfigge i campioni di Go, riconosce oggetti e azioni nelle nostre foto e video “taggandoli” da sé, e un domani vicino o lontano guiderà le vetture di Uber.

Non tutti però concordano con gli allarmi. Una seconda via, al contrario, continua a indicare come destinazione un paradiso in cui le macchine e l’uomo collaborano e si integrano, aumentando le opportunità lavorative, moltiplicando efficienza e profitti, e garantendo un futuro in cui ozio, creatività e tenore di vita si coniugano al meglio. «Gli ultimi 200 anni», scrive per esempio l’analista di Deloitte, Ian Stewart, in ‘Technology and People: the Great Job-Creating Machine’, «dimostrano che quando una macchina rimpiazza un umano il risultato, paradossalmente, sono una crescita più rapida e, col tempo, occupazione in aumento».
Ma gli argomenti per sperare che il problema si risolva magicamente da sé, con una robotica mano invisibile, si assottigliano col passare del tempo. E se si considera poi che nemmeno delle soluzioni c’è traccia, si capisce perché sembri proprio di stare vivendo la «congiuntura storica che richiede un ripensamento radicale dei nostri valori e delle nostre istituzioni» di cui scriveva l’Ad Hoc Committee.
 E allora come è possibile quella “reale comprensione” manchi non solo nell’opinione pubblica, ma anche e soprattutto nei progetti della politica e delle forze sindacali – soggetti che non sembrano adeguatamente preparati a una sfida sistemica e dai contorni potenzialmente devastanti per milioni e milioni di cittadini come quella che ci troviamo invece ad affrontare?
E dire che le domande che la compongono sono fondamentali. Quanto è reale lo spettro della “disoccupazione tecnologica” coniata negli anni ’30 da John Maynard Keynes, e quali conseguenze avrà sulle vite di ogni singolo individuo, e per la società tutta? Quali forme di impiego sopravviveranno, quali ne sbocceranno e quali invece diverranno un retaggio del passato? E come cambia il significato della stessa parola “lavoro” quando si possono automatizzare perfino mansioni e compiti un tempo considerati dominio unico dell’umano?

 Quello che gli esperti non dicono

Rispondere è difficile, perché il progresso tecnologico avanza anche se non ne anticipiamo gli effetti. E perfino gli esperti sono divisi, esattamente in due. Si pensi al sondaggio che il Pew ha pubblicato ad agosto 2014, dopo averne interpellati quasi duemila: impossibile ricavarne un’indicazione che chiarisca il tragitto e, soprattutto, la meta. “Metà (48%)”, si legge tra i risultati, immagina per il 2025 “un futuro in cui robot e agenti digitali avranno rimpiazzato un numero significativo sia di colletti blu che di colletti bianchi”, con “un forte aumento nelle disuguaglianze di reddito, masse di persone di fatto non impiegabili, e rotture nell’ordine sociale”. L’altra metà (52%), invece, vede l’esatto opposto: “la tecnologia non distruggerà più posti di lavoro di quanti ne crea”.

Al netto delle percentuali, sono le argomentazioni degli esperti riportate dal Pew a destare perplessità. Perché i punti di contatto e consenso sono pochi, deboli e generici: sì, entro il prossimo decennio il concetto stesso di “lavoro” subirà una mutazione genetica, fino a significare qualcosa d’altro rispetto a oggi.

«Non avevamo mai visto niente di simile prima», ammette candidamente Eric Brynjolfsson del MIT

 E sì, il sistema educativo non sta facendo abbastanza per preparare la forza lavoro a uno shock che non è più del futuro (come in Toffler) né del semplice presente (come in Rushkoff), ma di un presente sempre automatizzato e condiviso. Ma è dell’impatto sull’occupazione che vogliamo sapere, del peso specifico concreto della robotizzazione delle fabbriche come delle mansioni cognitive, della trasformazione di trasporti e alloggi nei beni precari dei “volontari” della sharing economy, in valore da scambiare nel mercato del nuovo “capitalismo delle piattaforme”.
E su questo i pareri divergono al punto di diventare una (pur utile) guida all’argomentare pro e contro ogni scenario immaginabile, più che un modo per informare i policy-maker e il pubblico su che cosa sta realmente accadendo.

Nulla è come prima

Uno degli argomenti degli ottimisti è che non stiamo vivendo un’epoca senza precedenti, un “punto di non ritorno” mai raggiunto prima. Prendendo a esempio la storia delle rivoluzioni produttive, gli entusiasti dell’automazione sostengono che il problema si è già posto, e il capitalismo l’ha sempre risolto con la tecnologia nel ruolo di ciò che crea – piuttosto che distruggere – posti di lavoro. Gli analisti di Deloitte affermano per esempio di averlo dimostrato valutando l’evoluzione di 144 anni del mercato del lavoro in Inghilterra e Galles. E il risultato è che, lungi dall’essere in opposizione, tecnologia e lavoro sono potenti alleati – come dimostrato dagli aumenti occupazionali registrati nella medicina, nei servizi professionali e nell’area business. Anzi: negli ultimi 35 anni, scrivono, i settori maggiormente in crescita sono stati proprio quelli tecnologici.

Certo, “la storia dimostra che il processo è dinamico”. E sì, alcune occupazioni vanno in fumo. Ma il punto è che nuove tecnologie aprono nuovi mercati, e dunque nuove mansioni o anche solo nuovi compiti per quelle già esistenti – quando non nuovi interi settori dell’economia. Per questo il saldo sarebbe, dicono, positivo. Dall’altro, e in tutta risposta, è facile ribattere che quello induttivo potrebbe non essere un buon metodo per predire il comportamento umano in questo contesto: se una tecnologia ha creato posti di lavoro in passato, non è detto che la prossima debba fare altrettanto. C’è del determinismo senza giustificazione, nell’assumerlo; e nessuno degli ottimisti ne sembra immune.
 Sempre più dati e considerazioni analitiche, del resto, mostrano la fallacia di quell’assunto. Secondo gli economisti del MIT, Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee, siamo infatti al contrario in una ‘Seconda era delle macchine’ – come recita il titolo del loro più recente volume – caratterizzata proprio dal fatto che “ciò che è già stato” non è più una guida “particolarmente affidabile a ciò che sarà”. Se, come mi ha detto lo stesso Brynjolfsson in una intervista perl’Espresso “l’aumento aggregato di produttività e ricchezza è significativo”, a partire dagli anni ’80 quell’abbondanza non si traduce più in aumenti proporzionali nei tassi di occupazione e di salario.
Anzi, per i lavoratori statunitensi il reddito medio è addirittura sceso del 10% tra il 1999 e il 2011 – il tutto mentre quello dell’1% più ricco è raddoppiato. Più bounty, nel gergo dei due studiosi, non significa più spread; a dire: l’era dell’abbondanza non è l’era dell’uguaglianza. Questo disallineamento tra Pil e produttività in crescita, da un lato, e redditi e prospettive lavorative in calo, dall’altro, ha determinato negli ultimi decenni quello che gli autori chiamano ‘The Great Decoupling’, il “grande disaccoppiamento”.
«Non avevamo mai visto niente di simile prima», ammette candidamente Brynjolfsson all’Harvard Business Review. Il messaggio è chiaro: non basta mettere più macchine nell’economia per garantire che la tecnologia arrechi benefici all’intero corpo sociale. Il successo dell’automazione non è automatico, non per tutti.

C’è “lavoro” e lavoro

Chi ritiene che il rischio di una “disoccupazione tecnologica” strutturale e crescente sia concreto (anzi, una realtà), insomma, può andare oltre la semplice, banale constatazione per cui ci sarà sempre un lavoro che un umano può svolgere e una macchina no. A meno che la distinzione tra uomo e robot non perda di significato, non si vede perché dovrebbe essere altrimenti. Eppure anche in questo caso – limite, e irrealistico dato che nemmeno le nuove intelligenze artificiali sfiorano la coscienza – la replica è semplice: perché quel lavoro unicamente umano dovrebbe avere ancora valore nel futuro automatico? Perché, in altre parole, dovrebbe essere ancora “lavoro”?
Una macchina potrebbe svolgere una mansione differente per soddisfare lo stesso bisogno, che renda quella umana superflua o in ogni caso azzeri la possibilità di ricavarne un salario o una qualunque forma di compenso monetario.
Altro assunto ingenuo, eppure fatto proprio da metà degli esperti interpellati dal Pew, è che il sistema politico-legale si attrezzi in tempo utile degli strumenti d’azione necessari e sufficienti a reggere il peso della “rivoluzione”.
Al momento non se ne vedono, e le soluzioni restano piuttosto confinate al dominio delle analisi dei colossi mondiali della consulenza – da McKinsey in giù – e del mondo accademico e intellettuale. Può darsi che nel prossimo decennio le cose cambino sostanzialmente, certo, e i tentativi di regolamentare le vetture che si autoguidano di Google o la sharing economy cominciano a essere numerosi. Ma crederlo ora significa peccare di ottimismo circa la lungimiranza e la forza delle istituzioni per intervenire sull’insieme dei molteplici aspetti rivoluzionari introdotti dalle tecnologie di rete e dall’automazione nel dibattito pubblico.
E questo a maggior ragione se si considera che molti – da sempre più venture capitalist di Silicon Valley ad autori di sinistra radicale come Nick Srnicek e Alex Williams in ‘Inventing the Future. Postcapitalism and a World Without Work’, in ottica di libero mercato come in una prospettiva postmarxista – chiedono l’introduzione di serie e strutturate forme di sostegno del reddito per compensare gli effetti della robotizzazione di quasi tutto: con quali fondi, si potrebbero chiedere amministrazioni e governi sempre più al verde?

Come sopravvivere all’automazione

Ma come sarà il lavoro dell’era del tutto automatico? Quali occupazioni lo saranno ancora nel prossimo futuro e quali invece diverranno hobby o scompariranno? E soprattutto, e in via preliminare: se l’impatto della computerizzazione sul lavoro è un fatto assodato in letteratura, quale impatto ha avuto, sta avendo e avrà sui diversi strati sociali?

Inserisci nel campo di testo il tuo mestiere e scopri quale è la probabilità di essere sostituito da un robot nei prossimi 10 anni (LOL).
Quest’ultima è la domanda cruciale. E la risposta è chiara: i lavori della classe media si stanno svuotando, mentre quelli ad altissime competenze (cognitive) e bassissimo reddito (manuali), ai due estremi, si moltiplicano. Così sopravvivono le mansioni maggiormente creative e che richiedono speculazione intellettuale non sono attualmente replicabili da intelligenze artificiali e non lo saranno ancora per qualche tempo. All’altro capo dello spettro occupazionale, il paradosso di Moravec insegna che anche compiti che richiedono invece particolari competenze sensomotorie (per esempio, il tocco di uno chef o di un infermiere) possono essere molto onerose dal punto di vista computazionale, e dunque sono (al momento) più facilmente eseguibili da esseri umani.
Il risultato è quello che ben riassume il filosofo Michele Loi in ‘Technological Unemployment and Human Disenhancement’:

Da un lato, l’occupazione cresce per lavori altamente specializzati di tipo manageriale, professionale e tecnico; dall’altro, cresce anche nella preparazione dei cibi e nella ristorazione, per le pulizie e i lavori di manutenzione, nell’assistenza sanitaria personale e in numerose occupazioni nei servizi di sicurezza e protezione. In confronto, l’occupazione per le forme di lavoro routinarie con medie competenze è scesa costantemente in termini relativi negli ultimi tre decenni.

Insieme, c’è l’irruzione dell’economia della condivisione (sharing economy), che sta comportando il mutarsi di sempre più forme occupazionali in prestazioni occasionali, svolte non più da dipendenti assunti ma da freelance autonomi. Un esempio sono i piloti di Uber e gli affittuari di Airbnb, l’ariete di un fenomeno per cui i lavoratori diventano precari permanenti al servizio di piattaforme che, invece di impiegarli nel senso tradizionale del termine, li rendono beni condivisi nel tentativo di collegare domanda e offerta.
A questo le tutele per lavoratori e consumatori tuttavia diminuiscono. Per esempio, perché le piattaforme si dicono non responsabili di qualunque cosa accada ai loro “volontari” («siamo piattaforme tecnologiche – rispondono – non aziende di trasporti o albergatori»). Un recente editoriale del Los Angeles Times – intitolato ‘Your Job is about to Get Taskified’ – lo dice più chiaramente: «Dimenticatevi la rivolta dei robot e le preoccupazioni per l’automazione. Il problema immediato è l’”uberizzazione” del lavoro umano, la frammentazione delle occupazioni in compiti dati in appalto e lo smantellarsi dei salari in micropagamenti».
Certo, ordinare un passaggio con un click sullo smartphone è comodo. Ma il costo non si misura solo nel prezzo finale: è un’intera concezione del lavoro a mutare. I forzati e non del lavoro “uberizzato” hanno meno diritti delle loro controparti del “passato”, “reazionarie” o “luddiste” che siano. E i loro clienti, come dimostrano le diatribe per le molestie e gli abusi compiuti in tutto il mondo dai piloti reclutati da Uber con un procedimento tutt’altro che impeccabile, pure. Non si capisce per quale motivo questo dovrebbe essere considerato un bene: perché una app è più cooldi un taxi? Non è un argomento di cui un serio legislatore dovrebbe tenere conto.
 Ciò di cui invece dovrebbe tenere conto è che, in assenza di un intervento, la stima degli studiosi di Oxford per cui un lavoro su due è ad alto rischio di automazione entro i prossimi dieci-vent’anni è destinata a rivelarsi sbagliata per difetto. Scrivono infatti Frey e Osborne che attualmente «i lavori che includono compiti complessi in termini di percezione e manipolazione, che richiedono intelligenza creativa e sociale, difficilmente saranno rimpiazzati» in quello stesso lasso di tempo. La sostituzione robotica di facoltà così propriamente umane sarà difficile a causa di “colli di bottiglia ingegneristici”, e subirà dunque un rallentamento. Il punto tuttavia è che, una volta rimossi quegli impedimenti “tecnici”, non ci sarebbero limiti all’automazione, e dunque a pagare non saranno più solo i lavori della classe media.
Così, un 47% di occupazioni umane già oggi rimpiazzabili con macchine finirebbe per sembrare perfino desiderabile: se l’unica variabile per stabilire il tasso di computerizzazione del lavoro è il progresso tecnologico c’è da giurare la percentuale sia piuttosto destinata a lievitare, e di molto, nelle previsioni che verranno.
Perché? Prima di tutto, perché il costo della computazione, dice la storia, è diminuito negli ultimi decenni con tassi perfino di oltre il 60% anno su anno – è la legge di Moore, dopotutto. In secondo luogo, perché i progressi dell’intelligenza artificiale sono stati tali, e talmente rapidi, da trasformare l’idea di commercializzare vetture che si autoguidano da fantascienza in (quasi) realtà solo tra i primi Duemila e oggi.

Nella “industria 4.0”

Se fare un pilota digitale era più facile del previsto, ora però bisogna dirlo ai taxisti in rivolta perché sostituiti da un guidatore umano chiamato tramite smartphone oggi e da un algoritmo domani. Non solo: bisogna spiegare altrettanto a tutti gli altri interpreti in carne e ossa delle professioni che saranno travolte o trasformate da quella che il Boston Consulting Groupdefinisce “Industria 4.0”: la quarta rivoluzione produttiva, seguita a quelle del motore a vapore, dell’elettricità e delle forme di automazione introdotte negli anni ’70.
Entrare nel dettaglio qui è cruciale. Così anche il BCG guarda al 2025, come il Pew. Ma lo immagina per un paese solo, la Germania. Ed è importante: analizzare l’impatto dell’automazione su singole attività lavorative in un preciso contesto aiuta a meglio comprendere le voci che formano il saldo previsto in termini occupazionali. Nel rapporto ‘Man and Machine in Industry 4.0’, analizzando 40 “famiglie” occupazionali in 23 settori diversi dell’economia tedesca, gli analisti concludono che l’impatto dell’automazione sarà positivo, per 350 mila unità in un decennio. Ma se per gli scienziati dei dati e altre professioni legate all’informatica ci sarà un boom di poco inferiore al milione di nuovi posti di lavoro, quelli alla catena di montaggio e in altri settori della produzione vedranno una contrazione di oltre 600 mila lavoratori.
Anche per BCG, dopo il 2025 i tassi di automazione – e dunque di sostituzione di intelligenze umane con artificiali – saranno ulteriormente in crescita. Ma la domanda non riguarda solo il futuro remoto. Che senso hanno le stime appena descritte? Per capirlo, bisogna guardare di nuovo ai dettagli, a come sono composte. BCG assume una crescita della “Industria 4.0”, qualunque cosa essa sia esattamente, dell’1% e un tasso di implementazione dell’innovazione del 50%. Affinché il saldo positivo si realizzi, in ogni caso, si deve sperare che tutto questo si traduca in un aumento del fatturato delle imprese tedesche che abbracciano la nuova rivoluzione automatica tra l’1 e l’1,5%: solo così infatti le aziende manterrebbero sufficienti incentivi ad assumere più lavoratori di quanti vengono travolti dal progresso. Il tutto senza contare che non viene considerato che faranno quegli oltre 600 mila nuovi disoccupati: difficile con le loro competenze possano approfittare dei nuovi settori in crescita.
Inoltre, anche quando gli analisti sostengono che «gli impiegati con più anzianità potrebbero lavorare più a lungo» nel caso fossero aiutati, nelle loro mansioni quotidiane più faticose, da possenti robot, sembrano dimenticare una fondamentale domanda: perché non dovrebbero essere semplicemente rimpiazzati dalle tante menti – e corpi – più giovani in cerca di occupazione, o semplicemente da quegli stessi robot, una volta che siano in grado di rimpiazzarli? Non era forse una sostituzione necessaria – proprio “ciò che la tecnologia vuole”, come direbbe Kevin Kelly, il cofondatore della rivista Wired?

La società post-professioni

L’intero edificio degli ottimisti, poi, riposa sull’assunto che i lavori creativi, intellettuali, più impegnativi e redditizi, resteranno umani per tutto il futuro che è ragionevole prevedere attualmente. A scomparire, dicono, sono e saranno le mansioni che già oggi ci rendono simili a macchine, ripetitive e mal pagate – alienanti, si sarebbe detto in passato. Come riuscire per esempio altrimenti a creare le sinergie tra uomo e macchina che dovrebbero salvare il lavoro secondo Brynjolfsson e McAfee? E a che servirebbe la figura, tutta nuova e in ascesa secondo BCG, del “coordinatore di robot”, se questi ultimi potessero coordinarsi da soli, o anche i colletti bianchi fossero di silicio?

Il problema – per tutti – è che anche questa premessa è molto più debole di quanto sembri. Scrivono Richard e Daniel Susskind in ‘The Future of the Professions’:

La domanda (…) è se ci sarà disoccupazione tecnologica per le professioni nel lungo periodo. La risposta breve è ‘sì’. Non siamo stati in grado di reperire alcuna legge economica che possa assicurare in qualche modo un impiego ai professionisti in un contesto di macchine sempre più capaci. A ogni modo, resta incerta la dimensione della perdita di posti di lavoro.

Certo, la prospettiva di una società “post-professioni” si allunga sui prossimi decenni, non mesi o anni. Ma già oggi è utile ricordare che «sta a noi decidere come usare la tecnologia nelle professioni», perché alcuni fenomeni molto probabilmente sono qui per restare: macchine più capaci, device più pervasivi e umanità più connessa, per cominciare.
Ed ecco allora sorgere un importante imperativo morale, assente nelle prospettive deterministe: se siamo noi a dover dare forma al nostro futuro, non possiamo che farlo nell’ottica della responsabilità personale, e dunque «da un punto di vista etico». Affrontare l’era dei robot significa in altre parole andare oltre le famose tre leggi della robotica dello scrittore Isaac Asimov, e chiederci non tanto cosa deve poter fare e pensare una macchina ma anche e soprattutto cosa diventino le categorie morali in un mondo in cui l’uomo rischia di diventarne – anche per le mansioni intellettuali – un mero complemento e unicamente finché è necessario.
Non solo. L’analisi dei due studiosi è significativa perché specifica un altro aspetto, spesso trascurato, del rapporto tra automazione e lavoro. E cioè che una mansione, specie di un professionista, non è quasi mai composta di un singolo compito.
“Molte discussioni sulla disoccupazione tecnologica lo ignorano, assumendo che le mansioni lavorative siano composte di compiti unici. In realtà – si legge tra le conclusioni del volume – i sistemi (automatizzati, ndr) non tendono a privare del tutto le persone del loro lavoro. Piuttosto, sostituiscono particolari compiti per cui non c’è più bisogno di esseri umani. I posti di lavoro non svaniscono in un istante. Appassiscono gradualmente. Una intera mansione scompare solo se si perde l’intero insieme di compiti che la compone e non viene alimentato con nuovi compiti”.
Una recente indagine del World Economic Forum, che ha interpellato i dirigenti di 371 aziende che impiegano oltre 13 milioni di lavoratori in 15 diversi paesi, concorda: tra il 2015 e il 2020 si perderanno circa cinque milioni di posti di lavoro a causa della doppia rivoluzione dell’Internet delle cose – in cui tutti gli oggetti sono connessi – e dell’intelligenza artificiale, e un aspetto fondamentale sta proprio nella redistribuzione delle competenze richieste: “oltre un terzo” di quelle essenziali non sarà tra quelle attualmente richieste. Per non parlare del 52% di mansioni che richiederanno “abilità cognitive” oggi non previste.
Anche McKinsey, nello studio ‘Four Fundamentals of Workplace Automation’ (novembre 2015), sottolinea che saranno pochi i lavori«automatizzati interamente nel breve e medio termine» (il 5%). A essere automatizzate «saranno piuttosto alcune attività, che richiederanno la trasformazione di interi processi di business, e la ridefinizione delle mansioni svolte dai lavoratori». In particolare, il 60% delle mansioni vedrà automatizzato il 30% o più delle proprie attività costituenti.
La questione della disoccupazione tecnologica diventa così quella di misurare e comprendere la natura di queste ultime. Per il WEF l’AI avrà un impatto negativo sulla crescita, anche se non a livelli tali da motivare i timori di una rivolta sociale (-1,56%), nei prossimi cinque anni. Ma di nuovo, l’impatto aggregato varia da settore a settore: l’Internet delle cose porterà a un effetto positivo sulla creazione di posti di lavoro (3,54) nell’architettura e nell’ingegneria, ma negativo (e di molto: -8%) in lavori di manutenzione e installazione, così come (-6%) in lavori d’ufficio e amministrazione.

Rendere umano il lavoro, a prescindere dalla tecnologia

A cambiare è la natura stessa di quelle forme di lavoro. E allora non si può ignorare per esempio che, come sostiene David Autor, le occupazioni dei professionisti non possono essere facilmente spacchettate in diverse mansioni senza che ciò comporti una perdita di qualità. È quello che Loi chiama, con una terminologia presa a prestito dalla bioetica, human disenhancement, una prospettiva “tutt’altro che remota” in cui – con le parole dello stesso Autor e del collega David Dorn – «più lavoratori vedono il proprio lavoro degradato di quanti lo vedano migliorare».

Il problema del futuro del lavoro, in altre parole, non è solo questione di numeri. È anche e soprattutto una questione di conoscenza. E non solo del contesto tecnologico. Uno dei più interessanti contributi degli interpellati dal WEF è proprio, al contrario, che l’arrivo della “quarta rivoluzione industriale” vada compreso – in termini occupazionali – andando ben oltre la tecnologia.

Affrontare l’era dei robot significa in altre parole andare oltre le famose tre leggi della robotica dello scrittore Isaac Asimov.

I fattori determinanti sarebbero infatti la composizione demografica dei paesi emergenti, la nascita di una classe media in quegli stessi paesi, l’aumentato potere economico delle donne e la crescente instabilità del quadro geopolitico contemporaneo.
Quanto alla creatività, e allo spettro di una automazione del lavoro intellettuale che potrebbe raggiungere presto attività che occupano il 20% del tempo di un professionista, è McKinsey a ricordare come manchi già oggi, con o senza robot. Nel mercato USA, solo il 4% dei lavori richiede un impegno creativo. Quanto alla capacità di riconoscere ed esprimere emozioni, non sono solo i robot a essere in deficit: l’abilità è richiesta solo a poco più di un lavoratore statunitense su quattro. E anche questo è un trionfo della macchina sull’uomo.