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Nelle aziende italiane dipendenti poco coinvolti: le scelte sbagliate che riducono engagement e motivazione

L’engagement dei collaboratori è un fattore di successo per le aziende: ha conseguenze positive su redditività, soddisfazione dei clienti, innovazione, costruzione dei brand e gestione delle crisi. E tuttavia il livello medio dell’engagement dei collaboratori delle grandi aziende italiane è di 3,5 su una scala da 1 a 5: un dato che indica che c’è ancora molto da fare nel nostro paese, soprattutto perché più coinvolgimento significa più motivazione e, quindi maggiore produttività.
Questo, in sintesi, è ciò che emerge dalla prima indagine scientifica sul tema dell’engagement in azienda mai condotta in Italia: realizzata dall’Università IULM, la ricerca ha coinvolto un campione di 375 imprese rappresentativo delle aziende italiane con più di 500 dipendenti per valutare se e come i dipendenti vengono motivati attraverso strategie e azioni di “coinvolgimento” attivo nella vita dell’azienda.
I risultati peggiori nelle aziende di proprietà italiana
“I risultati”, dice Alessandra Mazzei, responsabile scientifico del Working Group Employee Communication dello IULM, “indicano che nelle grandi aziende italiane il livello di engagement è appena sufficiente e peggiora nelle aziende di proprietà italiana, quelle che adottano strategie di riduzione dei costi, che operano solo a livello nazionale e che non sono quotate”. Come a dire, spiega, che la maggiore competizione induce le aziende a prendersi più cura dei propri collaboratori.
Le cause del “disengagement”
“Il disengagement”, prosegue la Mazzei, “cresce quando le relazioni con i collaboratori sono trascurate, la gestione delle risorse umane non valorizza talenti e aspettative ed esiste in azienda un diffuso senso di ingiustizia organizzativa. Tra le principali cause del disengagement ci sono inoltre l’incoerenza e l’arroganza del management, tema questo che chiama in causa in primo luogo i vertici aziendali”.
Cosa si intende con coinvolgimento
Ma cosa si intende esattamente con “engagement”? La prima criticità emerge già in questa prima definizione: l’indagine è stata condotta sui manager che si occupano specificatamente di favorire il coinvolgimento dei collaboratori, i quali ritengono che la componente più importante dell’engagement sia la connessione psicologica ed emozionale del dipendente con l’azienda e i suoi valori. Invece, dicono i ricercatori, gli studi scientifici hanno evidenziato che l’engagement è rilevante se genera nel dipendente comportamenti proattivi, cioè motivazione ad azioni per contribuire concretamente al successo dell’azienda.
Il ruolo della comunicazione (incluse le convention)
Secondo gli intervistati, l’engagement si genera principalmente attraverso due strumenti: la comunicazione e la gestione organizzativa delle risorse umane. In termini di comunicazione interna, le pratiche ritenute più importanti sono la comunicazione a cascata (cioè quella top-down, che parte dai vertici e arriva a tutti i collaboratori) e le convention, seguite da strumenti quali newsletter, blog e email. Da sola la comunicazione interna non è però una leva sufficiente per coinvolgere le persone: entra quindi in gioco il ruolo dei capi diretti con temi quali il dialogo manager-collaboratori, i gruppi di progetto, le conversazioni informali per raccogliere il feedback dei collaboratori. In particolare, lo studio ha indagato le pratiche volte a creare un clima di comunicazione aperta che stimoli i collaboratori a suggerire nuove idee, esprimere critiche costruttive e segnalare fatti controversi, e i manager hanno evidenziato la rilevanza della politica della “porta aperta” e delle policy che proteggono i collaboratori da ritorsioni e discriminazioni. Sono considerati invece poco rilevanti, ai fini dell’engagement, i social media interni.
Welfare aziendale e smart working considerati poco efficaci
Per quanto riguarda la gestione delle risorse umane, le pratiche che le aziende considerano più efficaci per generare engagement sono job rotation e mobilità orizzontale (cioè spostare periodicamente i dipendenti in settori diversi a parità di retribuzione), il job posting interno e la formazione per lo sviluppo delle competenze personali. Elementi più innovativi di welfare aziendale, quali convenzioni per servizi alla persona, palestre aziendali, offerte per la famiglia sono invece considerati poco importanti ai fini motivazionali. E ancor meno lo sono, secondo le aziende, lo smart working, le iniziative di corporate social responsibility che coinvolgono i collaboratori e i programmi di diversity management.




Discutere sui social senza arrivare allo scontro (ma nemmeno censurarsi) è possibile?

Su ilLibraio.it un estratto da “La disputa felice. Dissentire (senza litigare) sui social network, sui media e in pubblico”, l’attualissima guida di Bruno Mastroianni

Bruno Mastroianni, filosofo e giornalista, è consulente per i social media de “La grande Storia” di Rai 3. Ricercatore e docente di Teoria generale della comunicazione, da sempre si occupa di comunicazione sui social network. Con l’aiuto dei migliori principi della retorica, del media training e della comunicazione di crisi, nel suo ultimo libro La disputa felice. Dissentire (senza litigare) sui social network, sui media e in pubblico offre una guida sintetica per imparare a sostenere il proprio punto di vista davanti all’altro che non è d’accordo: senza giungere allo scontro ma nemmeno arrendersi alla cortesia diplomatica, all’asettico “politically correct”. Ne proponiamo un brano, per gentile concessione della casa editrice Franco Cesati.
la disputa felice
Nella discussione sui social, la maggior parte delle volte, il livello dell’incomprensione non è tanto nei contenuti in sé ma nelle differenze tra i modi di intendere la realtà degli interlocutori coinvolti.
L’ostilità, insomma, è un conflitto tra mondi che si riversa sulle persone: uno sente nelle affermazioni dell’altro la negazione di qualcosa in cui crede e che ha per lui valore intoccabile. Nelle discussioni accese accade qualcosa di simile a quello che succede nei confronti interreligiosi: quando si dialoga tra fedi, ciascun interlocutore sa bene che esiste una sfera – quella delle credenze della religione dell’altro – che non può essere messa in discussione, pena creare un effetto di mancanza di rispetto; occorre allora tenerla presente per discutere su altri aspetti, come le conseguenze sociali, morali, politiche, di quelle credenze. In tutti i casi di confronto tra visioni del mondo, la sfera delle certezze dell’altro è un punto di partenza da accettare, per trovare un terreno comune e divergere invece sulle scelte concrete.
[…]
Ci si fa capire quando si è se stessi. Ci si fraintende quando si impersona qualcosa: un ruolo, una posizione, una difesa di ufficio a nome di un gruppo, di una prospettiva culturale, politica o religiosa. Sembra una considerazione banale e invece è il centro del disputare con l’intento di farsi capire dall’altro. Anni fa uscì un testo dal titolo quanto mai efficace: You Are the Message, ‘tu sei il messaggio’; ecco, oggi siamo ancora lì: essere se stessi davanti agli altri è l’unica via per poter stabilire una relazione autentica, unico modo perché si abbia una vera comunicazione. Comunicare, infatti, è possibile solo a partire da una interazione tra due o più soggetti che si riconoscono e si presentano per come sono veramente e quindi reciprocamente accessibili. Conoscersi è farsi riconoscere dall’altro e riconoscere l’altro.
Essere se stessi vuol dire affidarsi alle proprie risorse di comunicazione.
Vuol dire fuggire da proiezioni superbe della propria competenza, delle proprie capacità, della bontà dei propri argomenti. Quando uno entra nell’ottica di essere semplicemente se stesso, di solito riesce a essere interessante e comprensibile. Spesso quando interveniamo in dibattiti pubblici sentiamo crescere un senso di rivalsa e ci lasciamo andare all’aggressività, alla spocchia, alle prevaricazioni sull’altro, per avere ragione. Sui social tale effetto si accentua: il leone da tastiera che è dentro di noi si fa sentire perché scrivere guardando uno schermo può far dimenticare che dall’altro lato c’è un’altra persona che legge. Si crea quindi un effetto psicologico simile a quello dell’anonimato che, grazie alla distanza, accentua le reazioni e allenta i freni inibitori.
È un modo di procedere che compromette la comprensione. In quei momenti invece, presentarsi per quello che si è può dare fiato alla discussione. Al leone che crediamo di essere va opposto il gattino che siamo in realtà. Facendo così non si perde autorevolezza nel confronto ma si guadagna (tra l’altro i gattini sul web sono uno dei contenuti che vanno per la maggiore).
Non percepirsi infallibili, non pensare di avere sempre e solo argomenti incontrovertibili, riconoscere quando l’altro è più convincente (per lo meno farlo dentro di sé), rende più autorevoli e apprezzabili.
Il clima da conversazione costante dei social ci richiama ad avere la mentalità di chi sa “pubblicare in bozza”: parlare e proporre temi ammettendo che ci sarà sempre qualcuno che ne sa di più e che, con le sue idee, potrà contribuire ad arricchire il pensiero.
Si tratta di:
-muoversi anzitutto dal proprio perimetro, attenersi a ciò che riteniamo vero perché vagliato personalmente;
-parlare solo se abbiamo davvero qualcosa da aggiungere a ciò che stanno dicendo gli altri;
-separare ciò che viene dalle nostre personali impressioni da ciò che è nei dati, nei fatti e negli argomenti fondati;
-non ripetere cose di altri non messe alla prova fino in fondo.
È uno sforzo di umiltà: tracciare il proprio perimetro realistico di competenza per esporre le proprie possibilità in modo sincero, esplicitando i propri pensieri, le proprie aspirazioni, i propri bisogni, senza trucchi. Sostanzialmente significa esporsi all’altro.
Chi aggredisce è perché di solito non vuole esporsi, non accetta i suoi limiti e quindi, per difendersi, fa quello che farebbe qualsiasi essere vivente di fronte al pericolo: si nasconde. Ci sono molti modi di nascondersi in una conversazione:
-dietro ai principi: ad esempio quando usiamo espressioni come “su questo tema non si può discutere perché è sbagliato in sé”, “la verità va difesa”, ecc.;
-dietro a un ruolo: “io insegno questa materia da 10 anni”, “io sono un professionista”, “io sono riconosciuto come…”, ecc.;
-dietro a un’autorità riconosciuta: “lo dice la Costituzione”, “lo dice il Vangelo”, “lo dice l’Europa”;
-dietro alle proprie reazioni emotive: “non voglio discutere con te perché quello che dici mi offende”.
Tutte strategie per frapporre qualcosa tra noi e l’altro che ci metta in una posizione più sicura che, non riguardando il merito del discorso, solleva dal doversi confrontare pienamente. Lo sforzo di essere se stessi, invece, fa rimanere sul tema circoscrivendo il proprio peso e ammettendo i propri limiti. Tra l’altro, ciò mette nelle condizioni di accettare i limiti dell’interlocutore nell’interazione.
Se uno è disposto a riconoscere la propria aggressività, l’amor proprio, la tendenza a prevaricare, la troverà accettabile e non così strana quando gli si presenterà da parte dell’altro. Ciò favorirà un clima più sereno nel disinnescare eventuali ostilità perché ci farà considerare la vulnerabilità da cui tutti siamo affetti al momento di confrontarci.
Questo sforzo di circoscrivere, ridurre e personalizzare è alla portata di tutti: chiunque può parlare per lo meno dal suo punto di vista. Chiunque, per il solo fatto di aver vissuto qualcosa o averlo sperimentato, ha diritto a prendere parola in modo rilevante sul tema.
Gran parte dei conflitti infatti non nasce tra le persone ma tra le differenze dei mondi da cui provengono le persone: atei discutono con religiosi, progressisti con conservatori, complottisti con scienziati rigorosi. Personalizzare è cercare di mantenere il confronto tra la persona che sta parlando e quella che risponde, senza far interferire in modo sproporzionato gli elementi di categoria, per rimanere il più possibile su ciò che si ha in comune (essere umani), al di là delle appartenenze che dividono.
La retorica sottolinea che l’autorevolezza di un discorso dipende soprattutto dal contenuto e dalle argomentazioni che si devono reggere in sé, il che è vero, ma va considerato che la cultura mediatica prima televisiva e poi digitale, nella dinamica “conversazionale” dei social network, ha di fatto spostato il peso sulla dimensione personale degli interlocutori. Esplicitare ciò che si pensa in prima persona e ciò che proviene dalla propria singolare esperienza è un punto di forza che facilita l’ascolto. È un segnale della propria buona volontà a procedere confrontandosi ad armi pari, dove ciascuno porta ciò che è suo, senza sentirsi in posizione preminente.
Quando ci si confronta, perfino quando si parla di questioni tecniche e specifiche, ciascuno è sempre disposto a entrare in relazione con l’uomo che c’è dietro le argomentazioni, i ruoli, le posizioni. […]
In aggiunta ci vuole un ingrediente di fondo che non può mai mancare quando ci si confronta: il senso comune. Il lavoro di rielaborazione dovrà il più possibile fare riferimento solo a ciò che può essere riconosciuto universalmente.
Tutte le fonti autorevoli classiche (il diritto, la letteratura scientifica in generale, le tradizioni, il catechismo, i libri sacri e religiosi) non sono spendibili di per sé, giacché la loro autorevolezza presuppone un accordo previo da parte dell’interlocutore. Per alcuni sono completamente discutibili, per altri possono essere persino motivo di opposizione pregiudiziale per il solo fatto di essere nominate: ad esempio per un non credente il catechismo, per un anarchico la costituzione, per un complottista la scienza, e così via.
Lo sforzo che occorre fare è allora quello di usare sempre argomenti razionali e di uso quotidiano per presentare le proprie posizioni. Non si tratta di congedare la cultura, la scienza o altre discipline assodate, ma di accettare di ricominciare da capo per convincere chi parte da punti di vista di rifiuto.
Occorre accettare, in ogni momento, di farsi carico dell’onere della prova davanti agli altri e non rifiutare nessuna delle obiezioni, anche quando si parla di cose assodate: ogni rilievo espresso in termini razionali è degno di risposta, ogni affermazione ha bisogno di essere comprovata da fatti, dati e ragionamenti. Quando ci si confronta pubblicamente, nessuno può sentirsi in una posizione di rendita dovuta al suo ruolo, alla sua popolarità o alla sua condizione sociale. La presenza di opposizione è il motore del discorso: deve far articolare più a fondo il ragionamento.
[…] Il criterio del senso comune presuppone insomma che si sia disponibili a riaprire le questioni ogni volta che sia necessario. Se ci sono nuovi elementi, vanno considerati nel rivedere il ragionamento. Se c’è bisogno di ripetere perché qualcuno è arrivato dopo o non ha seguito tutto il percorso, va fatto. Se un’incomprensione ha viziato la procedura, è necessario fare qualche passo indietro per ritornare ad affrontarla. Il criterio del senso comune si riallaccia poi anche alla presenza della maggioranza silenziosa di cui abbiamo parlato: se si è sui social o in un luogo aperto, se si è in una conferenza e si parla a più persone, così come quando si è intervistati dai media, occorre tenere presente quelli che ascoltano anche se non direttamente coinvolti. È uno sforzo simile a quello che fa chiunque scrive un testo: deve potersi immaginare chi leggerà e le sue reazioni per potersi esprimere al meglio. Questa moltitudine, che immette inevitabilmente un elemento di pluralità in ogni confronto, ha bisogno di essere tenuta in considerazione: lo sforzo per esprimere idee e argomenti semplici, che non danno nulla per scontato e comprensibili alle persone comuni, va in direzione di farsi capire dai molti che ascoltano e leggono in silenzio.
Infine occorre ripetere, ribadire, argomentare da capo, come fosse sempre la prima volta. Tutte dinamiche che sono ormai vita quotidiana sul web e sui social, giacché non tutti si prendono la briga di leggere i commenti di una discussione o lo storico di post precedenti prima di intervenire su un punto…
(continua in libreria…)



LE FAKE NEWS NON SONO LA MALATTIA DEL XXI SECOLO

Troppo spesso si confondono malattia segni e sintomi: vale per la medicina, sempre più orientata alla soppressione veloce e temporanea del sintomo tramite farmaci che hanno come scopo non guarire il malato, ma agire da palliativo, cronicizzando il problema e aumentando gli utili di chi il farmaco lo produce, come anche probabilmente per la comunicazione.
Analogamente, nel suo straordinario articolo dal titolo “Our problem isn’t ‘fake news. Our problems are trust and manipulation”, pubblicato su medium.com, la piattaforma creata dal co-fondatore di Twitter, Evan Williams, il giornalista, blogger e docente universitario americano Jeff Jarvis denuncia in modo brillante come le “fake news” non siano una vera e propria “malattia” da trattare di per se – come molti politici italiani si ostinano stupidamente e ingenuamente a fare – ma siano sono solo il “sintomo” di mali sociali ben peggiori.
Jarvis sottolinea come le nostre istituzioni, indipendentemente dal fatto che siano affidabili o no, siano esposte alla manipolazione di elementi esterni, troll attivi per puro divertimento, disinformatori mossi dalla sete di denaro, ideologi motivati dall’orientamento politico, membri di servizi di propaganda stranieri o terroristi: tutte categorie di persone – ben elencate nel rapporto di Alice Marwick e Rebecca Lewis dal titolo “Media Manipulation and Disinformation Online” – che agiscono per motivazioni anche profondamente diverse ma con metodi simili.
Molti cittadini, finiscono per essere “vittima” di queste azioni sistematiche di disinformazione, né più né meno che i membri delle istituzioni, e anzi tendono poi ad “orientare” i politici nelle loro scelte, grazie alla “pressione dal basso” che i primi esercitano sui secondi, meccanismo che alla base dell’estrema “fragilità” del sistema in cui viviamo.
Per discutere di manipolazione, è importante esaminare ad esempio gli strumenti e i metodi russi. Per questo, Jarvis raccomanda la lettura di due rapporti interessanti: uno della NATO Defense College Foundation, dal titolo “Handbook of Russian Information Warfare”, di Keir Giles, e un altro della RAND Corporation, dal titolo “The Russian ‘Firehose of Falsehood’ Propaganda Model”, di Christopher Paul e Miriam Matthews.
Russia e Stati Uniti sono due scenari dove si stanno ripetendo per certi versi gli stessi copioni. La NATO sottolinea come quanto stia accadendo non sia una guerra informatica, quanto piuttosto una “guerra di informazione”: le armi russe funzionano accuratamente non solo on-line ma anche nei media mainstream, consentendo di “rubare, piantare, interdire, manipolare, distorcere o distruggere l’informazione”. Queste tattiche sono quindi diventate un’arma alla pari di un missile o di una bomba, “ma permettono di usare una quantità molto piccola di energia per avviare, monitorare e gestire processi i cui parametri in termini di ‘effetti’ sono di molti ordini di grandezza superiori”.
La Russia ha utilizzato come arma un nuovo standard di “reazione a catena” sui social media. A quale scopo? “L’obiettivo principale del conflitto informatico-psicologico è il cambiamento di regime”, riporta un altro documento analizzato da Jarvis, “influenzando la coscienza di massa della popolazione, dirigendo le persone in modo che la popolazione del paese vittima sia indotta a sostenere l’aggressore, agendo contro i propri interessi”. Le nostre istituzioni inconsciamente favoriscono tutto ciò: “La Russia cerca di influenzare il processo decisionale degli altri Paesi fornendo informazioni inquinate”, spiega la NATO, “sfruttando il fatto che i rappresentanti eletti in occidente sono assai sensibili agli stessi flussi informativi dei loro elettori”.
Quando stanno al gioco, il giornalismo, internet e la libertà di parola che tanto amiamo in occidente – afferma Jarvis richiamando il contenuto dei due rapporti sopra citati – sono usati contro di noi. “Anche una copertura mediatica seria può involontariamente dare autorevolezza a false informazioni”. In questo risiede il pericolo più insidioso: fare il loro gioco dandogli attenzione e amplificando quella informazione scadente. Il loro obiettivo è la polarizzazione all’interno di una nazione e tra i suoi alleati: le loro tattiche, come sostiene Ben Nimmo, ex addetto stampa della NATO, mirano a “respingere, distrarre, sconvolgere, e possono essere messe in campo sfruttando le vulnerabilità della società presa come obiettivo, in particolare la libertà di espressione e i principi democratici”. Per Nimmo, queste persone utilizzano “eserciti costituiti da flussi informativi di massa per gestire un dialogo diretto con la gente su Internet”, usando armi “più pericolose di quelle nucleari”. Come sostengono gli autori russi di un documento citato dal report NATO, “oggi, i mass media possono provocare caos e confusione nei governi e nella gestione militare di qualsiasi paese, infondere idee di violenza, tradimento e immoralità e scoraggiare l’opinione pubblica”. Il documento russo sulla guerra informatica e psicologica citato dalla NATO elenca anche le tattiche chiave della Russia per disinformare:

  • menzogne esplicite ai fini della disinformazione;
  • nascondere informazioni significativamente importanti;
  • seppellire informazioni preziose in una massa di “scorie informative”;
  • sostituzione terminologica, ovvero utilizzo di concetti e termini il cui significato non è chiaro o ha subito un cambiamento qualitativo, che rende più difficile dare forma a una rappresentazione reale degli eventi;
  • fornire informazioni negative, più facilmente accettate dal pubblico rispetto a quelle positive;
  • uso di troll e bot per creare una percezione distorta da parte dell’opinione pubblica che sia poi ripresa dai mass-media;
  • molestie e intimidazioni ai giornalisti, anche tramite troll e bot, che sfruttano il dominio del volume, perchè quando il volume dell’informazione è basso i destinatari tendono a preferire gli esperti, ma quando il volume delle informazioni è alto, i destinatari tendono a preferire l’informazione da altre fonti;
  • velocità, perché la “propaganda” ha la capacità di arrivare per prima, in quanto ci vuole meno tempo a costruire fatti di quello che è necessario a verificarli, e la prima impressione generata detta “l’agenda”;
  • pioggia informativa (questa definizione è mia, ma rende l’idea), ovvero molte falsità – non necessariamente coerenti – che sono progettate in rapida successione per minare la fiducia nell’esistenza di una verità oggettiva.

Cosa facciamo, nel mondo del giornalismo, per rispondere a tutto questo…? Fact-checking e debunking; ovvero copriamo la notizia, che è proprio quello che vogliono che noi facciamo, dando loro attenzione.
L’ex ambasciatore statunitense in Ucraina, Geoffrey Pyatt, riferendosi alla propaganda Russa, ha pronunciato una frase illuminante: “Potremmo trascorrere ogni ora di ogni giorno cercando di controbattere ogni bugia, al punto da non occuparci di altro, e questo è esattamente ciò che vuole il Cremlino”. Ma questo vale anche per la situazione in USA. Nel rapporto pubblicato da Data & Society, Marwick e Lewis hanno riportato ricerche sulla diffusione dei messaggi populisti pro-Trump, che si diffondono attraverso meme condivisi su blog e Facebook, attraverso i bot di Twitter, i canali YouTube, e qualche volta anche attraverso l’account personale Twitter di Trump, finché non vengono poi diffusi da una stampa faziosa populista o di destra che abbraccia le teorie della cospirazione – un misto di tecno-libertari, nazionalisti bianchi, troll, anti-femministi, attivisti anti-immigrazione e ragazzini annoiati – e quindi “da corpo” alle fake news, influenzando così l’agenda dei media mainstream.
E in questo c’è sintetizzata la morsa paradossale in cui ci ritroviamo: ogni volta che ci rivolgiamo a loro, li controlliamo e li attacchiamo, e li alimentiamo con l’attenzione. L’ex candidata dalla Presidenza USA Hillary Clinton ha imparato, nel modo peggiore, che “controbattendo le idee estremiste, ha offerto loro nuova visibilità e legittimità. Inavvertitamente ha cementato la loro importanza.” Marwick e Lewis sostengono che “coinvolgendo i media nel raccontare determinate storie, anche attraverso il debunking, i manipolatori dei media sono in grado di influenzare l’agenda pubblica”. E la situazione può soltanto peggiorare.
Jarvis prende posizione anche contro l’obiezione dei giornalisti, che si ritengono “obbligati” a raccontare quello di cui la gente sta discutendo; e se non fossero le persone a parlare, ma i bot? Se l’unico motivo per cui la gente finisce per parlare di un argomento è una sorgente inquinata a causa della manipolazione di alcuni fanatici su piattaforme di pubblicazione anonime come 4chan, che arriva poi a Infowars, Breitbart, Fox, e poi fino al cittadino…? Peraltro, ne parlavo diffusamente in alcuni capitoli di un mio saggio, “Il sex-appeal dei Corpi Digitali”, scritto nel 2015 ed edito da Franco Angeli. Jarvis contesta inoltre anche quei giornalisti che affermano che tutto ciò fa dei manipolatori “una storia da coprire” e da raccontare al pubblico; certo, è vero, ma solo in una certa misura, perchè il giornalismo dovrebbe occuparsi dei metodi dei manipolatori, non dei loro specifici messaggi.
Secondo Jarvis, che riporta nel suo lungo articolo anche i contenuti di un recente dibattito che ha moderato su questi argomenti al World Economic Forum di San Francisco, se si prosegue su questa strada alcune previsioni per il futuro potrebbero suonare come spaventose: i prossimi obiettivi saranno infatti “i pilastri della società” – scienziati, esperti, giudici, etc. – così da far diventare le comunità delle “tribù di opinioni”, dove chi non è d’accordo con l’ortodossia sarà automaticamente etichettato come “imbonitore”. La realtà aumentata renderà poi più facile falsificare non solo testi e foto, ma anche audio e video, e quindi identità. E, infine, ed è ciò che più teme Jarvis, una nuova rivoluzione luddista contro la tecnologia ci dividerà in “tribù connesse e tribù disconnesse”…
Ci sono delle prime reazioni, finalmente: alcuni contrastano le falsità con il fact-checking; altri preferiscono accrescere il pensiero critico del pubblico con la cosiddetta “alfabetizzazione delle notizie”; altri ancora compongono liste e indicatori di “vizi” tipici del dominio dell’informazione; Google sta cercando di garantire affidabilità, autorità e qualità delle fonti con una sua classificazione; Facebook sta eliminando parte degli account falsi utilizzati per la conversazione pubblica, anche se così facendo – aggiungo io – rischia di pregiudicare il proprio modello di business basato sulla crescita quadraticamente proporzionale di una platea di “ascoltatori”, quindi dubito lo farà mai convintamente. Vi sono in effetti molti sforzi di classificazione dei siti in base alla qualità, ma tutto ciò – ancorchè importante – non servirà a nulla se non ci decideremo ad andare molto oltre, rispetto a dove ci troviamo oggi, mettendo mano alla vera malattia: l’assenza o carenza di fiducia.
È necessario imparare a “difenderci”, quindi? Certamente, conferma Jarvis. Ecco alcuni spunti utili, e cose urgenti e pratiche da fare.

  1. I media devono prendere coscienza e riconoscere come e quando sono oggetti di manipolazione.
  2. Condividere informazioni. Le principali redazioni dovrebbero avere personale che si occupi di riconoscere la manipolazione prima che le notizie vengano coperte in modo poco veritiero. Le persone preposte a questo compito dovrebbero comunicare con i loro colleghi di altre redazioni, mentre attualmente i media più importanti gestiscono gli attacchi di disinformazione senza condividere però tra di loro le informazioni. Dovremmo invece sviluppare reti di sicurezza all’interno dei mass-media in modo da condividere le informazioni, le valutazioni delle minacce, gli avvisi, le migliori pratiche e le lezioni che di volta impariamo dalla gestione di questi delicati scenari.
  3. Ignorare i disinformatori. Dobbiamo privarli di attenzione, senza minimamente dare peso al contenuto dei loro messaggi, usando i loro stessi metodi, pur consapevoli che i manipolatori vinceranno sempre la battaglia della “velocità”.
  4. Affamare i manipolatori. Dobbiamo privarli del sostegno economico loro garantito attraverso la pubblicità, che attualmente viene canalizzata automaticamente sulle pagine più visitate al di la della veridicità delle notizie su di esse contente. Per fare ciò, dovremo aiutare i gruppi pubblicitari, le aziende e le agenzie a evitare che diano loro i propri soldi, scegliendo invece di sostenere la qualità nei mass-media. Dobbiamo inoltre mettere in difficoltà gli aggregatori di notizie, i motori di raccomandazione, etc. (Jervis fa anche nomi: Revcontent, Adblade, News Max, Taboola e Outbrain…) che sostengono e guadagnano dalle fake news, come anche quegli editori che ridistribuiscono a piene mani le “scorie” di quelle piattaforme. Questo include la necessità di batterci per inserire il fattore della “qualità” direttamente negli algoritmi digitali, aiutando così gli utenti a selezionare meglio le fonti d’informazione, e questo mi richiama alla mente il bellissimo progetto Digidig.it lanciato da Toni Muzi Falconi proprio sulla trasparenza e sul controllo degli algoritmi.
  5. La battaglia non si vince sperando di rispondere nel merito ai manipolatori, ed è profondamente sbagliato usare il proprio flusso di informazioni e la propria autorevolezza, per spegnere il fuoco della falsità: si deve “puntare l’idrante” verso qualunque altra cosa e cerca di spingere quel pubblico in direzioni più produttive, aumentando il flusso di informazioni convincenti, dettando l’agenda del pubblico attraverso giornalismo e contenuti affidabili.
  6. Giocare a carte scoperte. Bisogna avvertire velocemente il pubblico che qualcuno sta cercando di manipolarlo. Questo include il cambiare direzione del flusso informativo: non sono i cittadini a dover venire incontro ai mass-media per essere informati, ma i mass-media a dover portare il giornalismo al pubblico, usando le tecniche dei manipolatori per diffondere notizie vere, convincendo la gente a preferire fatti e ragionevolezza, ricostruendo la fiducia nei confronti delle fonti di “buona informazione”.

Soprattutto però è necessario prendere coscienza che i media “tradizionali” non godono di fiducia e di buona reputazione – per molte ragioni che andrebbero discusse e affrontate – e proprio questo mi pare il messaggio centrale di Jarvis: di sicuro, questa importantissima, epocale sfida, verrà vinta solo se l’ecosistema mediatico nel suo complesso diventerà più equo, inclusivo, riflessivo, trasparente e responsabile nei confronti dei cittadini.
In Italia, e altrove, si continua invece a dibattere appassionatamente – quanto inutilmente – del dito, mentre la luna si allontana sempre di più, a gran velocità.




Mostra di Helmut Newton a Venezia

Helmut Newton: a Venezia esposti 200 suoi indimenticabili scatti. Un breve reportage dalla mostra, per riflettere sulla figura di questo grande artista.
Ascolta l’audio:



Ogni Oceano ha il suo ha il suo eco-resort

Dall’America latina all’Africa, all’Indonesia: ecco le mete esotiche dove rilassarsi nel rispetto della natura. Tra foreste pluviali, spiagge dorate e animali selvaggi. In nome del turismo compatibile

Vacanza ecologica, con il comfort del lusso ma a costi contenuti. La domanda di turismo sostenibile p sempre più imperiosa: chi viaggia valuta la destinazione per i sevizi e prezzo ma per fare la scelta, l’impatto ambientale diventa un fattore determinante. Oggi molte strutture nel mondo hanno dotato eco-accorgimenti, ma poche possono autenticamente definirsi  “absolute green”. Nascosto nella foresta pluviale di Mata Atlantica, riserva ecologica a sud di Rio de Janeiro, l’eco-resort del Club Med Rio Das Pedras è stato appena insignito del Green Globe, riconoscimento mondiale della qualità dei servizi nel rispetto dello sviluppo sostenibile.
Costruito in stile coloniale ospita nei bungalow mimetizzati tra i giardini di bromelia, hibiscus e alberi di pitaga, ai cui piedi c’è il mare e una baia di 600 metri di sabbia d’oro. In Rio Das Pedras si specchia un Paese, il Brasile, particolarmente attivo in tema di sostenibilità. L’Amazzonia è il più esteso cuore verde del pianeta, l’85% dell’elettricità brasiliana è fornita da fonti rinnovabili e il Paese ha imboccato una politica turistivca verde tanto da radunare gli eco-hotel e gli eco-resort in una sezione di destinazioni verdi sul portale del Ente del Turismo (www.embratur.gov.br). Per condividere la biodiversità in questo Club Med sono previste anche diverse attività ad doc, come le escursioni ecologiche per conoscere la Mata a piedi, in canoa a mountain bike, adatte per tutta la famiglia. Pacchetto 7 giorni da 2.000 euro, volo Tam tutto compreso (www.clubmed.it).
Dall’America Latina all’Africa, il verde è una realtà importante anche a Mauritius dove l’Ente del Turismo insieme a Air Maruritius ha creato Mauritius Essentia (www.mauritiusessenti.com), collezione di indirizzi di eccellenza sul web dove si possono trovare i consigli e i suggerimenti sui luoghi dell’isola divisi per temi: spa, resort, eco, food, sport. In questo modo si pianifica la vacanza secondo il gusto, cliccando eco e Troux aux Biches Resort & Spa si entra nel primo resort eco-friendly dell’isola apparentemente al gruppo Beachcomber. Appena riaperto, ora monta pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua, trasforma i rifiuti in concime e si è dotato di un impianto di riciclo dell’acqua e di desalinizzazione per rifornire   le 106 piscine. Trouc aux Biches si trova nella parte nord occidentale, adagiato su giardini e lagune smeraldo, con una spiaggia bianca di 2 chilometri. Qui, solo suite e ville di pietra, legno e foglie di palma e illuminazione a led.
Per fare un’esperienza immersi nella natura si imbocca la via del tè, tra le piantagioni di canna da zucchero, e si arriva all’interno del Black River Gorges National Park, orgoglio di Mauritius: 6.500 ettari di foresta endemica ideale trekking, percorsi avventura, equitazione e kayak tour. Per vedere gazzelle, scimmie, uccelli tropicali c’è un angolo di isola che sembra Africa nera, la Domaine di Ylang Ylang, riserva privata (visitabile con guida) tra coltivazioni di geranio, pepe rosa, vaniglia e Ylang Ylang, da cui si ottengono oli essenziali nella distilleria di profumati sul luogo. Pacchetto 8 giorni/6notti da 1.721 euro per persona (bambini 0/17 anni soggiorno gratuito in camera con i genitori), volo Air Mauritius (www.beachcomber-hotel.it).
Infine, andando ancora più a est, in Indonesia la natura è la manifestazione del divino, forse è per questo che piante e fiori hanno colori così esuberanti. Ubud è la città degli artisti, furoi del turismo “di massa” della città di Bali. Il mare è lontano, ma le terrazze di risaie di Yeh Ganfa, la foresta pluviale e il fiume Ayung non lo fanno rimpiangere, chi è in fuga dal mondo o in cerca di trascendenza, può rifugiarsi nel Como Shambhala Estate (www.cse.como.bz), ex monastero Zen, ristrutturato con il solo impiego di materiali ecocompatibili, intitolato al benessere. Si alloggia in camere, ville tra gli alberi e residenze private, con piscina a filo e 8 ettari di giardini. La cura dell’anima e del corpo è affidata ai ritiri di meditazione, yoga, ayurvedici e Qi Gong, tenuti da guru di fama internazionale; ma anche chi sceglie un ritiro più fisico può fare esperienze autentiche: trekking e mountain bike tra le risaie all’alba. Pacchetto 5 notti da 2.685 euro a persona, volo Thai Airways (www.mappamondoescapes.travel).