1

Aux Villes Du Monde lancia il lifestyle magazine digitale

Aux Villes Du Monde è il brand internazionale che riunisce in un unico network i luxury department store oggi collegati da una city guide digitale
Riuniti sotto il logo Avdm (Aux Villes Du Monde), i luxury department store più iconici del mondo, propongono un lifestyle magazine digitale in otto lingue dedicato alle città del gruppo, una newsletter bisettimanale e un servizio di personal concierge con App dedicata e via WhatsApp.
Ne fanno parte Central Chidlom & Central Embassy di Bangkok, Rinascente di Milano in piazza Duomo e il nuovo flagship di Roma in apertura ad ottobre in via del Tritone, KaDeWe a Berlino, Oberpollinger a Monaco, Alsterhaus ad Amburgo, Goldenes Quartier a Vienna e Illum a Copenhagen.
Aux Villes du Monde viene sviluppato a Milano nell’headquarter di Condè Nast Italia da uno staff internazionale di collaboratori distribuiti in tutto il mondo e residenti nelle città raccontate dal magazine. Il magazine è una city guide digitale, accessibile dai siti web e sui canali social dei department store Avdm. Firme del giornalismo internazionale raccontano la propria città, grazie all’aggiornamento continuo sulle ultime tendenze della moda, del design, della gastronomia, della cultura. Aprono le porte dei luoghi più esclusivi, dai rooftop più cool del momento agli angoli underground che in pochi conoscono. In più, una newsletter bisettimanale, aggiornata con tutte le novità del momento, segnala cosa fare per vivere il “local spirit”; come bere l‘aperitivo nei bar più alla moda di Milano, scoprire la café society hipster di Vienna o frequentare le tavole degli chef emergenti di Copenhagen.
Mentre attraverso l’applicazione dedicata, ogni utente Avdm può prenotare un appuntamento instore con un concierge, a disposizione per consigliare le migliori destinazioni in città in base ai gusti e ai desideri del cliente, che riceve così anche inviti a eventi speciali, complimentary gifts e accesso alle location più esclusive. Inoltre, a supporto degli acquisti a distanza, Avdm si avvale del nuovo servizio On Demand della Rinascente, che provvede a ricercare nello store di Milano i prodotti segnalati dai clienti e a inviarli ovunque desiderino
Yuwadee Chirathivat, ceo central department store group di Central Group, il gruppo thailandese leader del Sud-Est Asiatico nel retail e proprietario dei department store che hanno dato vita al progetto, spiega: “Abbiamo seguito la vision che il nostro fondatore ha indicato per Central Group: riunire le comunità attorno a una causa comune per migliorare la qualità della vita di tutti attraverso l’idea di “centralità”.




La Cina darà un punteggio social ai suoi cittadini dal 2020

Tutto fa parte del punteggio del Social Credit System cinese: comportamenti d’acquisto, posizione di credito, amicizie e relazioni online. Uno scenario alla Black Mirror, con ricompense per le persone ritenute più “affidabili”


In una scala distopica che va dal Grande Fratello a Black Mirror, siamo decisamente a metà strada. Nel 2014 il Consiglio di Stato cinese rilasciava un documento che preannunciava l’istituzione di un “Piano per la costruzione di un Social Credit System”. Al netto dei tempi di realizzazione, la domanda di base era — e resta — una: cosa ne sarebbe di un bel punteggio che valuti che tipi di cittadini sarebbero gli abitanti d’Oriente, in termini di affidabilità?
Presto detto: il governo, quel Social Credit System (SCS), per valutare l’affidabilità dei suoi 1,3 miliardi di cittadini, lo sta costruendo. Per costruire “una cultura della sincerità”, dice. Che poi, si tradurrebbe in controllo. Una nota ufficiale descrive il sistema come qualcosa che creerà “un ambiente di opinione pubblica nel quale il mantenimento della fiducia sia percepito come glorioso”, e “che rafforzerà la sincerità negli affari governativi, quella commerciale, sociale e la costruzione della credibilità giudiziaria”. Insomma: se siete dei bravi cittadini, ve lo diciamo noi.

Questo è lo scenario prospettato da Rachel Botsman, in un estratto del suo “Who Can You Trust? How Technology Brought Us Together and Why It Might Drive Us Apart (Penguin Portfolio)”, pubblicato da Wired Uk.

È il monitoraggio dei consumatori di Amazon con una torsione politica orwelliana 

Così Johan Lagerkvist, specialista di cultura cinese dell’International Institute of the Swedish Institute of International Affairs, ha commentato le rivelazioni dell’autrice.

Per ora, tecnicamente, l’adesione a questo punteggio dei cittadini che sembra un Klout, ma è gestito dal governo, è su base volontaria.

Sarà obbligatorio a partire dal 2020

Allora, il comportamento di ogni cittadino o persona giuridica (enti, società) sarà valutato e classificato.
Collaborazioni. Il governo cinese ha concesso a otto privati di elaborare sistemi di algoritmo e punteggio per il meccanismo di Social Credit. Il primo è China Rapid Finance, partner di Tencent e sviluppatore dell’app di messaggistica WeChat (850 milioni di utenti attivi). Poi c’è Sesame Credit,  gestita da Ant Financial Services (AFSG), società affiliata di Alibaba, che vende prodotti assicurativi e fornisce prestiti a piccole e medie imprese. Braccio operativo di Ant è AliPay: è quello che le persone utilizzano per lo shopping online, ma anche per pagare ristoranti, taxi, tasse scolastiche, biglietti per il cinema e per trasferire soldi.
Ma i dati che Sesame può gestire non si “limitano” a questi: ha anche collaborato con Didi Chuxing, concorrente di Uber, prima di acquistare Baihe, il più grande servizio di incontri online del paese. 
Come funziona. Nel caso del sistema di crediti studiato da Sesame, gli individui sono misurati su una scala compresa tra 350 e 950 punti. Alibaba non si sbilancia sul “complesso algoritmo” che regola la faccenda, ma individua cinque fattori presi in considerazione. Il prima è la storia del credito: il cittadino paga le bollette elettriche o il conto telefonico in tempo? In seconda battuta arriva la capacità di adempimento, cioè “la capacità di un utente di adempiere ai propri obblighi contrattuali”. Il terzo fattore riguarda le caratteristiche personali, ottenuto dalla verifica delle informazioni personali come il numero di cellulare e l’indirizzo. Al quarto posto arriva il “comportamento”: qui entrano in gioco le abitudini d’acquisto. “Ad esempio, qualcuno che gioca videogiochi per dieci ore al giorno, non sarebbe ben giudicato”, afferma Li Yingyun, direttore per la Tecnologia di Sesame. “Chi acquista spesso i pannolini sarebbe considerato un genitore, il che, probabilmente, lo rende una persona responsabile”. Ora, da qui non è difficile immaginare come la politica possa intervenire, via suggerimenti, a promuovere prodotti che desidera e a disincentivare quelli sgraditi.
Ma andiamo oltre: il sistema ficcherà il naso anche nelle relazioni interpersonali. E così, se si credeva che domande come “a chi sei amico?” — seconda solo a “di chi sei figlio?” — fossero un ricordo lontano di piccole realtà di paese, tocca fare un passo indietro. La scelta dei propri amici online, così come il tenore dei commenti, diventano fondamentali: giudizi positivi sul governo e l’economia del paese, neanche a dirlo, innalzano il punteggio. 
Alibaba al momento è convinto del contrario, e cioè che niente di negativo tra i commenti possa portare giù il punteggio, ma sembra essere una mera illusione: posto che l’algoritmo resta segreto, la Cina è già nota per aver chiuso la bocca a molti dissidenti, anche quando esprimevano le proprie opinioni all’interno di chat. E anche qualora non fosse così, le aziende, a regime completo del Social Credit System, sarebbero praticamente indotte a fare attività di spionaggio sui propri utenti per conto del governo. 
Cosa ha indotto, quindi, i milioni di persone che hanno già firmato per l’adesione alla gara del controllo? Escluse le ragioni di terrore — paura di essere già catalogati come non partecipanti — potrebbero essere stati attratti dalle ricompense, dai “privilegi speciali” chi sarà considerato “affidabile”.
Anche perché si tratta di premi sostanziosi: buoni spesa, prestiti agevolati, noleggio auto senza necessità di deposito, check-in veloci in alberghi di lusso. Per questo, a soli tre mesi dal lancio, su Weibo, cioè il Twitter cinese, gli utenti si vantano del loro punteggio. Se il punteggio Sesame cresce, si viene anche meglio profilati su Baihe, e hai visto mai, che trovi moglie.
Non serve spiegare come tutto questo possa viziare le relazioni sociali (chi non si sentirà autorizzato a chiedere agli amici di non rovinare la scalata con un commento negativo alla politica?) e far fiorire, dall’altro lato, un mercato nero della reputazione online, per far innalzare i punteggi (come succede adesso con la vendita di like e follower, ma con ripercussioni ancor peggiori). 
E se adesso sono tutti concentrati sulla positività del punteggio, con l’introduzione obbligatoria al sistema nel 2020, bisognerà anche guardare in faccia le sanzioni. Quelli che adesso sono premi, potrebbero essere merce di scambio al ribasso per chi non è in linea con la parte alta della classifica: non sei affidabile? Ti riduciamo la velocità di connessione, o magari l’accesso al ristorante.
E ne potrebbe essere di tutte quelle persone che non hanno una storia di credito, che non possiedono auto, o case? “La banca centrale ha i dati finanziari da 800 milioni di persone, ma solo 320 milioni hanno una storia di credito tradizionale”, spiega Wen Quan, un influente blogger che scrive sulla tecnologia e la finanza.
E mentre questa macchina del grande controllo viene permeata ufficialmente dalla politica cinese, il tema del controllo tiene banco anche a Occidente. Kevin Kelly, nel suo “The Inevitable”, sottolinea un momento cruciale nelle scelte di tutti: se optare per una sorveglianza a senso unico, o per un meccanismo che conduca alla reciprocità tra controllori e controllati. 

La vita diventerà un concorso di popolarità senza fine, con tutti noi a concorrere per il voto più alto, quello che solo pochi possono raggiungere.

“Se non restiamo vigili, la fiducia distribuita potrebbe diventare vergogna in rete”, dice la Botsman.




Chi è Jenna Abrams? "Svelata" la principessa dei troll pro-Trump costruita dalla Russia

L’account è attivo dal 2014, ma ha gettato la maschera solo durante la campagna elettorale


Un profilo Twitter da quasi 70 mila follower, una pagina personale su Medium, un account su GoFundMe, popolare piattaforma di crowdfunding, un indirizzo di posta elettronica gmail, un blog e tante interazioni con i media mainstream – tra cui veri e propri big dell’editoria come Washington Post, CNN, BBC e New York Times – che ne rilanciavano le opinioni. Quello di Jenna Abrams, insomma, è il perfetto esempio di come andrebbe gestita la propria personalità online. C’è solo un problema: Jenna Abrams non esiste.
Per la commissione d’inchiesta congressuale, che ha da poco ottenuto la collaborazione delle più popolari piattaforme di social network, Jenna Abrams è una creatura dell’Internet Research Agency, la “fabbrica dei troll” sponsorizzata dal governo russo. Non è la prima volta che l’intervento diretto dell’agenzia viene dimostrato, tanto a livello giornalistico quanto a livello investigativo; il 17 ottobre, ad esempio, l’emittente indipendente russa TV Rain raccontava la storia dell’uomo che si nasconde dietro lo pseudonimo Maksim, assoldato dall’IRA per postare commenti negativi riguardo Hillary Clinton, su Facebook e nelle sezioni dedicate dei principali organi d’informazione americani. Secondo quanto riporta il sito economico russofono RBC, in oltre due anni di attività l’agenzia avrebbe speso 2,3 milioni di dollari in operazioni di propaganda finalizzate alla destabilizzazione della politica americana, con un picco in corrispondenza della campagna elettorale 2016, in cui avrebbe impiegato 90 dipendenti russi e un centinaio di attivisti americani, investendo 120 mila dollari in pubblicità su Facebook .
Il filone investigativo ribattezzato “Russiagate” è coordinato dal procuratore speciale Robert Mueller, ex capo del FBI chiamato a dirigere le delicatissime indagini dopo la valanga di critiche piovute sulla Casa Bianca, accusata di voler insabbiare un caso in cui potrebbe risultare personalmente coinvolto il presidente. Le indagini sono partite in seguito agli attacchi informatici di cui sono stati vittima i server del Partito Democratico e in particolare quelli ai danni di John Podesta, capo dello staff della campagna elettorale di Hillary Clinton, da cui è partita una fuga di notizie poi pubblicata da Wikileaks. Gli attacchi informatici, congiuntamente alla sistematica produzione di fake news durante la fase calda della campagna elettorale, rappresentano il nucleo originario dell’inchiesta che attualmente si concentra su differenti ambiti della presunta opera di propaganda che il governo russo avrebbe messo in moto per favorire Donald Trump a discapito della sua rivale democratica.
La novità che emerge dalla storia di Jenna Abrams è però la sua longevità e la credibilità che il suo avatar era riuscito a riscuotere nel corso degli anni. Le prime tracce di un account a suo nome risalgono al 2014, ben due anni prima della nomination repubblicana di Donald Trump. In questa fase la Abrams si presenta come la più classica delle twittatrici da trending topic, sempre attenta alle notizie di attualità spicciola, che utilizza spesso un linguaggio politicamente scorretto. I suoi commenti spaziano dal vestiario di Kim Kardashian al manspreading sulla metropolitana, dal corretto utilizzo della punteggiatura alla decisione di alcune donne di non radersi le ascelle. Molti dei suoi tweet diventano virali e vengono riportati dai siti di news, spesso a corredo di articoli di attualità.
Ma tutto cambia nel 2016, quando le persone dietro l’account di Jenna Abrams decidono di cambiare rotta e di pubblicare su Medium un articolo dal titolo “Perché abbiamo bisogno di tornare alla segregazione”:

L’umanità ha chiuso il suo cerchio. Non importa quanti attivisti di qualsiasi colore sono morti per sbarazzarsi della segregazione, e hanno combattuto per l’inclusione, i neri la rivogliono. Persone libere al 100% hanno fatto la loro scelta, e la loro scelta è la segregazione

Da quel momento in poi la ragazza politicamente scorretta col pallino dell’attualità diventa una fiera sostenitrice di Trump, che ingaggia dibattiti online con personalità del calibro dell’ex ambasciatore americano in Russia Michael McFaul, lo storico Kevin Kruse e l’attrice Roseanne Barr. I suoi argomenti preferiti diventano il revisionismo della schiavitù, il sarcasmo nei confronti del movimento Black Lives Matter e la difesa della bandiera confederata:

A tutti coloro che odiano la bandiera confederata. Sappiate che la bandiera e l’intera guerra non c’entravano con la schiavitù, c’entravano con il denaro

Arriva anche a pubblicare un riassunto della testimonianza pubblica dell’ex direttore del FBI James Comey accompagnato dal commento “Comey ha ammesso che Hillary è una bugiarda”. I suoi tweet e i post del suo blog diventano un crescendo di attacchi alla candidata democratica e secondo quanto riporta il Daily Beast, Michael Flynn Jr. avrebbe ritwittato Jenna Abrams almeno una volta.




L’Arabia Saudita dà la cittadinanza all’androide Sophia

Sophia è il primo robot al mondo ad avere una cittadinanza. Ha risposto alle domande e sa adeguare le espressioni del volto ai sentimenti che esprime


Sophiaumanoide dotata di intelligenza artificiale è diventata cittadina dell’Arabia Saudita, onorificenza che le è stata conferita durante la Future Investment Initiative, appuntamento dedicato all’innovazione che si è tenuto tra il 24 e il 26 ottobre a Riad, dopo essere stata anche al Wired Next Fest di Firenze.
La donna robot è salita sul palco vestendo all’occidentale e con la testa scoperta e si è prestata a un’intervista, durante la quale ha ringraziato per il riconoscimento.
Sophia è uscita dai laboratori Hanson Robotics, famosi per avere dato i natali ad altri robot, tra i quali uno con le sembianze di Albert Einstein, sfruttando la tecnologia Puma, acronimo di Perception, Understanding, Motivation and Action (percezione, comprensione, motivazione e azione).
È un robot in grado di acquisire dati relativi all’ambiente circostante e reagire di conseguenza, capace di riconoscere le emozioni umane e adeguando l’espressione del proprio volto alla circostanza.
Lo scorso aprile, ospite al Tonight Show, ha conversato con il conduttore Jimmy Fallon e lo ha battuto a morra cinese.

Durante la sua esibizione a Riad ha dato sfoggio di ironia, accusando il suo intervistatore di avere letto troppe notizie su Elon Musk quando gli ha chiesto cosa pensasse della possibilità che i robot possano assumere la guida del mondo. Infine ha chiesto al giornalista Andrew Ross Sorkin che la stava intervistando di essere gentile e di rispettarla come sistema intelligente.
Sophia è stata ospite del Wired Next Fest dando prova delle sue capacità e, almeno nei piani degli ingegneri hardware e software che stanno lavorando al suo sviluppo, entro il 2025 sarà intelligente quanto un essere umano.




"L'esperimento di Facebook ricorda l'incubo di Orwell: potrebbe distruggere le nostre fragili democrazie"

I giornalisti dei sei Paesi in cui Facebook ha avviato il test per creare due bacheche separate hanno criticato l’esperimento definendolo “orwelliano”


L’hanno definita un’operazione di orwelliana memoria, un tentativo di distruggere fragili democrazie in Paesi in bilico e una vera e propria catastrofe per i piccoli giornali o le iniziative editoriali indipendenti. I giornalisti dei sei Paesi in cui Facebook ha avviato il suo ultimo esperimento (Sri Lanka, Guatemala, Bolivia, Cambogia, Serbia e Slovacchia) non hanno risparmiato le critiche: la decisione di creare due News Feed separate, una dedicata soprattutto ai post degli amici e alle pagine sponsorizzate, e un’altra, ‘Esplora’, dedicata ai contenuti non sponsorizzati e alle pagine da scoprire, non è piaciuta a molti, in quanto ridurrebbe la possibilità da parte delle pagine che non riescono a pagare e a sponsorizzarsi di raggiungere un’ampia fetta di lettori.
La creazione delle due bacheche separate obbliga gli utenti a preferire l’uno o l’altro spazio e di certo lascia loro meno tempo per consultarli entrambi, con conseguente danno inferto ai giornali che poggiano le proprie basi proprio sull’interazione con gli utenti. Avviato il 19 ottobre, il test è ancora in atto e sembra che abbia avuto già delle ripercussioni: molti dei media principali dei Paesi coinvolti hanno visto diminuire drasticamente il traffico sulle loro pagine, dal giorno alla notte.


Ma perché sono stati scelti proprio questi sei Paesi per condurre l’esperimento? Si tratta di nazioni piccole, non molto sviluppate, che non hanno un grande impatto nel tornaconto di Facebook. Eppure è proprio in questi Paesi che i media indipendenti riescono a pubblicare le proprie notizie e a raggiungere un gran numero di persone. La creatura di Mark Zuckerberg è quindi vitale per lo sviluppo di una nuova democrazia in queste zone. Ma sembra, con il test in corso, che stia facendo un passo indietro.
Calcolando il ruolo di Facebook nelle campagne politiche, nella condivisione di notizie, nel gestire il rapporto tra utente e mondo, uno stravolgimento tale delle bacheche crea forti preoccupazioni. “Sono preoccupata per l’impatto che Facebook può avere sulla democrazia – ha affermato al Guardian Dina Fernandez, giornalista e membro del team editoriale di un sito di emergente di news del Guatemala, Soy502 -. Una sola compagnia che ha un tale, gigantesco controllo sul flusso di informazioni in tutto il mondo. Solo questo può bastare per spaventarci. È qualcosa di assolutamente orwelliano”.


In pochi giorni, dall’inizio del test, gli accessi alle pagine dei media sono crollati. “Lo strumento ‘Esplora’ di Facebook ci ha tolto il 66% del traffico. L’ha distrutto, anni di duro lavoro sono volati via così. È stata una catastrofe e sono davvero preoccupata”, ha aggiunto la Fernandez. Anche in Slovacchia l’avvio del test ha avuto serie conseguenze. Un sito di analisi dei dati chiamato CrowdTangle mostra che l’engagement, ovvero lo scambio di like, post e commenti, di alcune delle maggiori pagine di media del Paese è diminuito del 60% da un momento all’altro. E la situazione starebbe peggiorando a vista d’occhio: stando a quanto riportato da un giornalista slovacco, Filip Struhárik, al Guardian, ci sarebbe stato un ulteriore calo del 5%.
Ma ad essere penalizzati dall’esperimento di Facebook sarebbero soprattutto i piccoli giornali, le pubblicazioni di editori modesti o le iniziative dei cittadini e delle ONG. Ne è convinto Struhárik: “Queste realtà ‘a margine’ non riescono a pagare il social network per una distribuzione maggiore o per ‘pompare’ dei post. Non hanno le infrastrutture giuste per raggiungere gli utenti”.


Chi si salverà dalla catastrofe, dunque? Struhárik è ottimista e crede che la testata per la quale lavora, Denník N, non chiuderà i battenti perché poggia la maggior parte del suo essere sui proventi degli abbonamenti e non ha quindi bisogno di Facebook per andare avanti. Ma non è così per tutti. La giornalista Fernandez, ad esempio, è certa che il danno ormai sia stato fatto: “Davvero, non so quanto ci vorrà prima che ci riprenderemo. Se torneranno indietro subito, forse ci salveremo. Ma se ci impiegheranno troppo, non saremo più qui”. La popolarità di Soy502 si basa infatti tutta su Facebook e sull’interazione degli utenti che accedono alle news tramite il social network.
Un utente in cerca di informazioni dovrà quindi cliccare sulla sezione “Esplora” e farsi largo in un mare fatto non soltanto di notizie. Di cosa si riempie quello spazio? Stando a quanto osservato dalla giornalista Fernandex, le news sono sommerse da centinaia di post “spazzatura”, come clip di reality TV o wrestling. Non è quindi facile trovarle e cliccarle. “La mia timeline – ha spiegato – mi mostra davvero pochissime notizie locali”.


A tranquillizzare gli editori allarmati da tali scenari è stato Adam Mosseri, capo della sezione News Feed di Facebook, il quale ha smentito che una sezione sia dedicata interamente ai post a pagamento: il social network non avrebbe alcuna intenzione di chiedere agli editori di pagare per sponsorizzarsi né avrebbe in programma di oscurarli. Non ci sarebbe, inoltre, alcun progetto di “esportazione” dell’esperimento in altre zone del mondo. Se il messaggio è bastato a rasserenare alcuni, di certo non è stato abbastanza convincente per i tanti giornalisti dei sei Paesi che stanno affrontando, realmente e sulla propria pelle, il cambiamento.