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TESI DI LAUREA: Effetti della crisi sulla reputazione del brand: il caso Monte Paschi di Siena

Università degli studi di Udine
Corso di Laurea magistrale in Comunicazione integrata per le Imprese e le Organizzazioni. Anno Accademico 2016/17

Effetti della crisi sulla reputazione del brand: il caso Monte Paschi di Siena

Tesi di Yvette Nina e Yowo Enomana – Relatore Prof. Renata Kodilja

A questo link, il testo integrale della Tesi (163 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Il tema della reputazione aziendale ha suscitato negli ultimi anni un notevole e crescente interesse da parte delle imprese, degli istituti di ricerca, delle società di consulenza e dei mass media, in concomitanza con una generalizzata tendenza alla perdita di fiducia da parte dei cittadini (ancor prima che dei consumatori) e alla corrispondente crisi di credibilità delle imprese e delle istituzioni, resa particolarmente intensa con il sorgere e il perdurare della crisi economica.

La corporate reputation è diventata pertanto oggetto di attente analisi, ma l’ampia diffusione del dibattito che ne è scaturito ha talvolta condotto a perdere di vista il rigoroso fondamento economico sottostante al concetto di reputazione, con il rischio di tradurlo in un luogo comune stereotipato e lontano dal suo reale significato. Una reputazione aziendale credibile e sostenibile – quella che farà guadagnare a un’organizzazione di profitti la fiducia e il sostegno degli stakeholder – è quindi determinata, più dalle attività di creazione della reputazione come attività di relazioni pubbliche e identità visive per presentarsi favorevolmente agli stakeholder. Il punto chiave, tuttavia, è che non è solo l’autenticità e la coerenza nel comportamento e nell’imagine che è importante, ma piuttosto le caratteristiche intrinseche dell’identità dell’organizzazione, basate su valori etici e regole normative (Argandoña, 2008: 438) nelle quali gli stakeholder si possono identificare (Casson & Della Giusta, 2006: 346; Li & Betts, 2004: 7; McEvily et al., 2008: 559).

Per poter interpretare correttamente i risultati delle ricerche e partecipare consapevolmente al dibattito che si è ampiamente esteso, arrivando a coinvolgere tematiche quali l’impatto dei mass media (media reputation) e, più recentemente, dei social media (social media reputation) occorre fare una pausa di riflessione e ritornare ai fondamentali.

Il primo capitolo del nostro elaborato è dedicato alla definizione della marca, proseguendo attraverso il suo ruolo e le sue funzioni. In seguito vengono analizzate le dinamiche che sottostanno alla formazione del valore della marca.

Il capitolo successivo tratta in maniera approfondita il concetto di brand equity. Inizialmente si parte esponendo il punto di vista della letteratura sul valore della marca, attraverso un approfondimento dei temi legati alla qualità percepita, la notorietà del nome, la fedeltà alla marca, le risorse della marca e altri valori associati a essa. Poi viene presentato il valore della marca dal punto di vista del consumatore e il legame di marca attraverso il modello Customer Based Brand Equity elaborato da Keller (1993). Si analizzano successivamente i vari livelli della piramide della fedeltà alla marca di Keller, che sono la prominenza del brand, la performance, i giudizi, le sensazioni sul brand e la risonanza.

Il terzo capitolo si concentra sull’immagine della marca presentando le associazioni di marca e le dimensioni dell’immagine di marca che trattano i concetti di marca come prodotto, marca come organizzazione, marca come persona e marca come simbolo.

Nel quarto capitolo iniziamo a parlare di reputazione. Abbiamo scelto di dividere questo capitolo in due parti.

La prima parte è riservata alla corporate reputation che abbiamo studiato attraverso gli aspetti sociali della reputazione, i fondamenti teorici che ci hanno dato una lettura della reputazione secondo la letteratura, partendo dalla definizione del Reputation Institute. Partendo da qui abbiamo introdotto approcci di varie discipline sociali che però convergono nella loro enfasi sulla reputazione aziendale. Lo studio dei concetti d’identità, immagine e reputazione si svilupperà attraverso le teorie di Fombrun e Van Riel (1997), che hanno infatti riassunto l’immagine e l’identità all’interno della reputazione. In seguito viene analizzato la reputazione nelle organizzazioni, poi le dimensioni della reputazione che sono i prodotti e servizi, l’innovazione, l’ambiente di lavoro, la governance, il paese di origine, la leadership e la performance. La gestione della reputazione appare allora un punto fondamentale e lo dimostriamo esponendo i vantaggi di una buona reputazione, il rischio reputazionale e il concetto di crisi aziendale che verrà approfondito in un secondo momento. Qui introduciamo l’importanza della reputazione per le organizzazioni in generale e per gli istituti bancari in particolare, che sono più esposti al rischio reputazionale.

La seconda parte si concentrerà sulla gestione della crisi. Partendo dalla definizione del concetto di crisi, ci si arriva alla relazione che esiste tra essa, la fiducia e la reputazione. Si conclude con la gestione della crisi e la tutela della reputazione. Il quinto capitolo tratta di reputazione nel settore bancario in generale e in quello italiano in particolare, attraverso un’analisi dei risultati del RepTrak® 2016 per il settore bancario e finanziario. Proseguiremo con i giudizi degli italiani sulle banche e la perdita di fiducia in queste.

L’ultimo capitolo del nostro elaborato si concentrerà sulla crisi della banca Monte dei Paschi di Siena e i suoi effetti sulla sua reputazione. Inizieremo il capitolo con la storia e l’evoluzione della banca, e lo scandalo che ha portato alla crisi la banca più antica del mondo.

Concluderemo il nostro elaborato con la presentazione dei risultati della nostra ricerca empirica sullo stato della banca oggi, dal punto di vista di esperti del mondo della finanza, e di dinamiche di corporate reputation.




La nuova tv. Già a tre anni i bambini pazzi per YouTube. Ecco i rischi

Tablet e cellulare spopolano fra i bambini per guardare cartoni e clip musicali. L’80% dei ragazzini usa YouTube già a tre anni. Per i colossi del web è un business. L’allarme dei pediatri

A tre o quattro anni lo schermo che li attrae non ha soltanto la forma del televisore. Ben più pratico e seducente è quello del cellulare dei genitori o del comodo tablet. Non serve neppure conoscere i numeri che compaiono sul telecomando per trovare il canale giusto, in cui vanno in onda i programmi preferiti. Basta sfiorare con le dita il touchscreen e il gioco è fatto: cartoni animati a getto continuo, giocattoli presentati meglio che in un grande magazzino, canzoncine da ascoltare nel salotto di casa. È già una realtà anche in Italia la “generazione YouTube”. La formano i bambini con meno dieci anni, racchiusi nella fascia d’età che va dall’asilo alla scuola primaria, fra cui spopola la nota piattaforma di video via Internet. Vedere un cartoon o un format sul tablet e sul telefonico fa ormai parte del loro quotidiano e hanno una familiarità straordinaria con i device e le App. Certo non hanno abbandonato la vecchia, cara televisione. Continuano a guardarla (i canali per ragazzi non hanno avuto flessioni di ascolti) ma la affiancano ai dispositivi collegati in Rete.

I numeri parlano da soli. I video in italiano per i più piccoli furoreggiano su YouTube. Gli episodi di Peppa Pig hanno una media di visualizzazioni fra i 3,1 e i 4,5 milioni e si arriva al picco di 21 milioni per la puntata sul Natale e di 14 milioni per quella intitolata “Dipingere”. Anche Masha e Orso è un termometro: l’episodio sul nascondino è stato visto 8,1 milioni di volte.

Un cartone nostrano che conquista il web è quello dei Mini cuccioli co-prodotto dalla Rai: le singole puntate hanno fra 3,4 e 4,6 milioni di visualizzazioni. Un ulteriore titolo che piace al baby pubblico di YouTube èSam il pompiere: ci sono episodi visti anche 7 milioni di volte. Caso di scuola è il classico Disney dei Tre Porcellini: la versione in italiano ha registrato oltre 47 milioni di visualizzazioni.

Ma il palinsesto online degli spettatori junior non è soltanto serie animate. I brani musicali sono un altro collettore di clic: il Coccodrillo come fa,famosa canzone dello Zecchino d’oro, ha raggiunto 81 milioni di visualizzazioni e Se sei felice tu lo sai batti le mani cantata da Masha e Orso 45 milioni. Altrettanto popolare è la serie TuTiTu sui “giocattoli che prendono vita”: il video sul telefono è stato cliccato 29 milioni di volte.

I ragazzini impazziscono poi per le dimostrazioni dei giocattoli con gli adulti o gli adolescenti che ne spiegano i segreti. Inoltre appassionano i filmati amatoriali che raccontano il quotidiano. E gli “web pargoli” cercano anche sequenze di quanto stimola la loro fantasia: auto, navi, aerei, se si è maschi; balletti, marionette, abiti, se si è femmine.

La rivoluzione YouTube è tutta merito dei bimbi? Non proprio. Se in passato erano i genitori ad accendere la tv per farne una babysitter, oggi sono sempre mamma e papà a mettere in mano ai nativi digitali tavoletta e cellulare che spesso diventano le “bambinaie 2.0”. Lo sanno bene i colossi del web che hanno inserito anche i più piccoli fra gli utenti da fidelizzare. Pochi sono gli studi che finora hanno passato al vaglio il fenomeno. Una delle rare ricerche in Italia è stata condotta del Centro per la salute del bambino di Trieste con l’Associazione culturale pediatri ma è limita all’uso dei dispositivi. Intervistando più di 1.300 genitori emerge che gli apparecchi prediletti dai ragazzi della Penisola sono lo smarphone (35,5%) e il tablet (25,2%) che «viene utilizzato dai tre anni in poi», scrivono gli studiosi. «I genitori – aggiungono nell’indagine – sono i mediatori principali del rapporto dei più piccoli con le tecnologie digitali ». Ma gli strumenti vanno impiegati «in modo condiviso» senza dimenticare che «esistono rischi per la salute»: dai disturbi del sonno all’obesità, passando per comportamenti aggressivi o ritardi del linguaggio.

Gli Stati Uniti hanno già puntato l’indice contro l’«algoritmo di YouTube che cattura i bambini », si legge in un articolo della rivista The Atlantic.Soprattutto con la nuova App “YouTube Kids”. Non solo ogni giorno vengono caricate molte ore di nuovi filmati, ma la piattaforma acquistata da Google fa sì che un video tiri l’altro: appena finisce un filmano parte automaticamente il successivo oppure è sufficiente un tocco sulla destra dello schermo per scegliere la nuova clip. E dal momento che i bambini amano rivedere gli stessi filmati più volte, il super contenitore in streaming li tiene incollati allo schermo, spesso imbottito di pubblicità. Compresa quella subdola: ad esempio, molti video sono sostanzialmente spot di giocattoli. Ecco perché i nativi digitali sono già un affare.

Il massmediologo Ferri: «Ma per i genitori YouTube è una babysitter digitale»

«Ormai quando un genitore vuole punire il figlio non dice più: “Da adesso non guardi la televisione”. Ma: “Non ti do lo smarphone e il tablet”». Si affida a un esempio di routine familiare Paolo Ferri per descrivere il rapporto fra i bambini e la celebre piattaforma di video YouTube. Docente di teorie e tecniche dei nuovi media all’Università Bicocca di Milano, dirige l’Osservatorio nuovi media dello stesso ateneo ed è autore del libro I nuovi bambini (Bur; pagine 242; euro 12) dedicato alla sfida di educare i figli all’uso della tecnologia senza «diffidenze e paure».
Professore, YouTube si è trasformato nella tv dei più piccoli?
«Direi di sì. Se una mamma allatta mentre scrive con il cellulare, per il figlio sarà logico che il telefono e il tablet facciano parte del suo quotidiano. Infatti i genitori italiani ammettono che l’80% dei loro bambini smanetta questi strumenti già a tre anni. Allora è naturale il matrimonio fra i più piccoli e YouTube visto che il video rappresenta un intrattenimento privilegiato per chiunque».
Lo schermo per eccellenza dei bambini è diventato quello touch?
«Certo. Per più motivi. YouTube è molto facile da usare. Ad esempio, non c’è bisogno di saper leggere o scrivere: così i piccoli possono accedere ai filmati anche quando hanno due o tre anni. Poi i contenuti possono essere rivisti più volte consecutivamente senza dover attendere, come accade con la tv, le repliche. Inoltre i device sono utilizzabili ovunque: anche al ristorante, in auto o mentre si è in coda dal medico. Infine YouTube viene impiegato dai ragazzini in maniera attiva, quasi fosse un social network: e se questo servizio ha un così grande successo, lo si deve anche al fatto che favorisce un intrattenimento condiviso legato a quella cultura partecipativa molto cara ai nativi digitali. Tutto ciò fa di YouTube un canale ben più comodo e allettante di quelli televisivi».
Che cosa guardano i baby utenti?
«Un po’ di tutto. Basta digitare Peppa Pig per rendersi conto di quante volte è stato visto il celebre cartone. Ma vanno molto anche i video brevi, al massimo di 5 minuti, prodotti spesso da ragazzi poco più grandi di cui i bambini diventano fan. Ne sono la prova le decine di milioni di filmati in cui un ragazzo si cimenta in un gioco o in un’esperienza quotidiana. È interessante questa via di appropriazione del mezzo partita dal basso che adesso si cerca di governare dall’alto anche per trarne profitto».
I bambini sono un affare per il mondo digitale. Lo dimostra anche la nuova App “YouTube Kids”?
«I piccoli fanno gola perché sono decisori di acquisti. D’altro canto YouTube è ormai l’ordinario contenitore di ciò che amano vedere bimbi o adolescenti. Ecco perché Google lo ha comprato: ha capito che siamo di fronte a un fenomeno significativo. E proprio YouTube è diventato il secondo motore di ricerca del mondo. Invece non credo molto in “YouTube Kids”. I nativi digitale preferiscono di certo l’originale».
Un ruolo chiave è quello dei genitori.

«Sicuramente. Le poche indagini finora condotte dicono che mamme e papà cedono ai figli lo smartphone e il tablet per tenerli buoni. È l’idea che siano come una babysitter. Vale lo stesso per YouTube che viene considerato più sicuro e controllabile rispetto alla tv».
Perché?
«Perché prevale la concezione che sia possibile scegliere cosa mostrare ai bambini e comporre un palinsesto su misura. Inoltre si ritiene che sia semplice togliere il dispositivo dalle mani dei figli. Eppure sono pochi i genitori che attivano il parental control, ossia il filtro elettronico, che è presente nella piattaforma per proteggere dai contenuti indesiderati».
Quali consigli dare alle famiglie?
«Il primo avvertimento è che i bambini non possono essere lasciati soli nella cameretta di fronte a YouTube. Bisogna che i genitori stiano con loro e discutano di quanto viene visto. Inoltre è bene inserire il parental control. E soprattutto occorre che l’utilizzo di questi media entri a far parte del lessico familiare. Di fatto è necessario educare i bambini a un uso non banale di cellulari e tablet. Come si insegna ai ragazzi a non passare con il rosso, così è indispensabile indirizzarli a un corretto impiegato di strumenti che marcano con forza la loro vita».




[Il retroscena] Trovato il regista dietro la galassia web dei siti pro Lega e M5s

Identità rivelata da un ex dipendente della Casaleggio Associati. Si tratterebbe di un libero professionista della provincia di Napoli

L’appello lanciato ieri da Tiscali.it sulla necessità di fare chiarezza sui siti web pro Lega e M5s accomunati dallo stesso codice informatico per la raccolta dei ricavi pubblicitari è stato ascoltato. David Puente, ex dipendete della Casaleggio Associati e noto debunker ovvero esperto nella demistificazione dei contenuti online, sarebbe riuscito a scovare il nome della persona che gestisce e incassa i profitti del contestato network. Si tratterebbe di Marco Mignogna, libero professionista di Afragola, in provincia di Napoli. La notizia è stata rivelata dal quotidiani la Repubblica.

Web designer con alle spalle studi in economia

Mignogna su Linkedin si definisce un web designer, social media manager e wordpress expert. Dal 1994 al 2002 ha frequentato la facoltà di Economia e Commercio all’Università di Napoli senza però completare gli studi. Attualmente lavora come free lance.

Un bacino di 650 mila follower su Facebook

Secondo quanto riportato da la Repubblica a lui farebbero capo i 19 siti finiti nel mirino del New York Times. Del  network farebbero parte Noi con SalviniVideo a 5 StelleIl Sud con SalviniIostoconputinItalyForTrumpStopEuroControinformazioneTv solo per citare alcuni dei più noti. Complessivamente le fan page su Facebook di questi siti arriverebbero a quota 650 mila follower, un bacino niente male che ovviamente potrebbe crescere ulteriormente sfruttando i meccanismi di viralità della rete.

Relazioni sia con Lega che con M5s

Secondo la Repubblica Mignogna avrebbe relazioni politiche sia con il M5s che con la Lega. La biografia pubblicata nel sito Info5stelle lo definirebbe un “attivista 5 stelle” mentre il responsabile della comunicazione di Salvini, Luca Morisi, avrebbe parlato di lui come di un “giovane salviniano del sud”. Lui sul web si sarebbe autodefinito “un trumperizzato fino al midollo”.

Uso massiccio della tecnica del click bait

Ad onor del vero le notizie pubblicate sul suo network non possono essere accusate esplicitamente di essere fake news. Mignogna si limita a riprendere articoli pubblicati in altri siti ma con una modifica importante: la titolazione. Il network lavora molto sul cosiddetto click bait ovvero sulle tecniche di comunicazione fatte apposta per acchiappare gli utenti enfatizzando gli aspetti che maggiormente parlano alla pancia dei lettori.

Niente di illegale ma dubbi sotto il profilo etico

Maggiori sono i click maggiori sono gli introiti pubblicitari che come noto vengono raccolti sulla piattaforma Ad Sense di Google. Niente di illegale. Tutto perfettamente in regola anche se ovviamente qualche dubbio si pone sotto il profilo etico considerando che spesso e volentieri, soprattutto nel web, la lettura si ferma al titolo per cui se questo viene distorto si può creare una falsificazione della realtà ovvero una falsificazione rispetto a quanto riportato nel contenuto stesso dell’articolo.

Difesa contro cattiva informazione deve partire dal lettore

La vicenda conferma che nell’impossibilità di regolamentare il mondo dell’informazione sul web, senza correre il rischio di limitare la liberà di opinione, la responsabilità maggiore per contrastare il fenomeno delle fake news e del click bait spetta a singoli lettori. Bisognerebbe semplicemente evitare di dedicare tempo alle notizie evidentemente esagerate pubblicate da siti sconosciuti. Una banale regola di buon senso che potrebbe fare molto bene alla nostra dieta informativa.




Dall'oracolo all'analista Prevedere è tornato di moda

Le aziende assumono specialisti per sapere in anticipo cosa accadrà. Niente fantasia, solo probabilità e dati

Quando si parla di tecnologia, il tempo è relativo e scorre più veloce. In pochi anni abbiamo fatto progressi incredibili.

I telefoni, per esempio, da molto grandi sono diventati sempre più piccoli per poi tornare sempre più grandi e più piatti per contenere la crescita delle dimensioni degli schermi. Abbiamo tra le mani gli schermi giganti degli smartphone e solo 20 anni fa, nel 1997, avevamo tra le mani dei Nokia 6110. Se ci pensiamo, i progressi tecnologici sono stati rapidissimi.

Controllare un computer con la mente sembra non sia una cosa molto lontana. Pare che Microsoft stia sviluppando questa tecnologia e che abbia depositato 4 brevetti per Hololens e Surface. I brevetti di Microsoft sarebbero stati registrati su Wipo, l’organizzazione mondiale che si occupa di proprietà intellettuale. Un brevetto riguarderebbe l’input che verrà dato alle applicazioni: non ci saranno più tasti fisici, ma le applicazioni potranno ricevere dati direttamente dalla mente. Un altro brevetto parlerebbe dell’input visivo: le lenti potranno inquadrare un soggetto e trasmettere i dati alle nostre menti. Ma non si sa ancora quando Microsoft intenderà utilizzare i brevetti e non si conosce l’uso che ne farà Microsoft: li userà, non li userà?
L’uomo è sempre stato teso verso il futuro: ci affascina scoprire cosa sarà, quando accadrà. Prima esistevano gli oracoli, la Pizia, quello di Delfi, la Sibilla Cumana, oggi esistono i futurologi. La futurologia sta diventando uno dei mestieri dell’avvenire. In realtà, prevedere quello che accadrà, non è una professione recente. Se ci chiediamo cosa sia un futurologo, possiamo pensare a un moderno indovino, capace di coniugare scienza e previsione, con un pizzico di sociologia. Ma la futurologia non si basa sulla fantasia: si basa sui dati. Probabilità e dati verificabili, misurabili, proiettabili. La futurologia è una disciplina recente: il primo futurologo, in senso stretto, può essere Thomas Robert Malthus. Così come Malthus, nel 1798, nel suo «saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti nello sviluppo della società», prevedeva che l’incremento demografico (la popolazione umana può raddoppiare ogni 25 anni) avrebbe generato una penuria di mezzi di sussistenza per la popolazione; i futurologi moderni si avvalgono di dati per esplorare mondi di futuri possibili.
Raymond Kurzweil, il futurologo di Google considerato come uno dei più grandi informatici al mondo, ha predetto che l’anno della «singolarità tecnologica» sarà il 2045. La stessa cosa di cui si parla nel libro Origin di Dan Brown. Ed esattamente come si legge nelle pagine di Origin, secondo Ray Kurzweil, nel 2030 i nostri corpi arriveranno a ospitare minuscoli nanorobot che ci consentiranno di mantenerci in salute. Il 2045, sempre secondo Ray, sarà l’anno in cui avverrà la transizione dall’intelligenza di tipo umano a un’intelligenza ibrida uomo-macchina. In pratica, ci fonderemo con le macchine: domani questi dispositivi saranno integrati nel nostro corpo.
Ma dove lavorano i futurologi? Spesso si tratta di consulenti aziendali, che prevedendo delle tendenze in atto, aiutano le aziende a programmare mosse future e a cogliere le opportunità emergenti nei mercati. Ian Pearson, ingegnere, fisico teorico e futurologo, prevede che «nel 2050 il cervello umano sarà immortale. Potremo scaricarlo su un computer, copiarlo su un dischetto, inserirlo su un robot, farlo vivere per sempre». Sempre Pearson, dice «il nostro lavoro è scrutare il futuro, immaginarlo, provare ad anticiparlo».




Uber, maxi furto (taciuto) di dati

New York. Due pirati informatici. Il furto di dati su decine di milioni di persone da un leader della new – e sharing – economy. Un ricatto e un riscatto pagato in gran segreto; un complotto per coprire le tracce dello scandalo. Nonché la possibile violazione di norme e leggi federali.


Negli Stati Uniti è esploso un nuovo, drammatico caso-Uber: questa volta al centro è la violazione di 57 milioni di account di clienti e autisti avvenuta nel 2016 e rivelata soltanto ora. Una rivelazione che ha messo in dubbio la credibilità, le pratiche etiche e l’immagine del gigante da 70 miliardi di dollari del ride-sharing, dei taxi alternativi, mentre è tuttora alla ricerca di un rilancio da recenti crisi sotto nuova leadership in vista di uno sbarco in Borsa forse nel 2019. Ma la posta in gioco è ancora più alta del solo gruppo di San Francisco: la vicenda ha esposto sia le continue, profonde vulnerabilità del settore high-tech e Internet, sia il pericolo di risposte fallaci o inadeguate alle sfide da parte delle imprese. Ha sollevato lo spettro di un “Selvaggio West” lontano dall’essere domato quando si tratta della frontiera digitale.
Uber ha reagito alla debacle con una nuova mini-purga: subito cacciato il chief security officer, Joe Sullivan, veterano del settore in passato responsabile della sicurezza a Facebook e prima procuratore federale specializzato proprio nel crimine cibernetico. Fuori anche il responsabile dell’ufficio legale, Craig Clark. Il board, che ha scoperto l’operazione degli hacker nel corso di inchieste interne, ha ingaggiato quale consulente speciale Matt Olsen, ex legale dell’agenzia di intelligence elettronica National Security Agency, e gli specialisti di sicurezza della Mandiant per fare piena luce con un’indagine indipendente.
Dara Khosrowshahi, chief executive di Uber da agosto al posto dell’estromesso Travis Kalanick, sul sito dell’azienda ha sottolineato che quanto avvenuto «non avrebbe mai dovuto accadere. Non posso cancellare il passato ma posso impegnarmi a nome di tutti i dipendenti di Uber a imparare dagli errori. Stiamo cambiando il modo di fare business, mettendo al centro l’integrità».
Lo scandalo si è consumato durante la gestione di Kalanich, che resta nel cda dopo essere uscito dal management sotto accusa per abusi di potere e per aver spinto una cultura ultra-aggressiva e dannosa per l’azienda, compreso il ricorso a software irregolari per evitare controlli della polizia. Nella vicenda in questione l’ex capo della sicurezza, Sullivan, fu contattato da una coppia di hacker che asserì di essersi impadronita di una copia di dati di 57 milioni di persone – nomi, e-mail, numeri di telefono – chiedendo oltre 100mila dollari per distruggerla. Sullivan pagò.
La violazione di dati, per dimensioni e delicatezza, appare inferiore agli scandali moltiplicatisi negli ultimi anni, da Yahoo, dove finirono nel mirino 3 miliardi di account globali, alla società di valutazione del credito Equifax, dove furono compromesse informazioni finanziarie su 145,5 milioni di americani. Ma l’aspetto più preoccupante della saga di Uber è che trascende il furto: per nascondere del tutto lo scandalo l’azienda rintracciò in realtà i pirati e fece loro firmare un accordo di non-disclosure. Poi occultò il patto creando ad arte una versione falsa degli eventi: il pagamento alla coppia sarebbe stato in cambio di servizi, di un “bug bounty” che li remunerava per attacchi-test ai sistemi informatici.