Una case history di eccezione: il SocialHub di GUNA

Un progetto di CSR sviluppato in sette anni di intenso lavoro, che ha fatto di una azienda italiana del settore farmaceutico una “best in class” nel panorama internazionale delle PMI.Scarica qui le slides descrittive presentate al recente meeting del NIBR – Network Italiano Business Reporting – presso PriceWaterhouseCooper a Milano.


Quando l'impresa è un affare di tutti

Fabio Guenza* incontra Robert Edward Freeman:
Conciliare etica, sostenibilità e affari è un bel dire! È il fare che è un po’ più complicato! Dopo anni di lavoro in azienda ero convinto che le imprese fossero destinate a seguire un’etica scollegata, quando non in conflitto, con quella del mio mondo ideale: se le imprese hanno fine di lucro e “il fine giustifica i mezzi”, come poteva non essere così?
Praticando il Buddismo di Nichiren Daishonin la mia sofferenza è diventata una sfida. Ho acquisito una chiave di lettura diversa, che mi ha fatto comprendere tante cose, a partire dal fatto che il profitto non è il fine dell’impresa ma il mezzo e il risultato della sua attività (com’è facile confondere l’obiettivo con il beneficio!). E ho finito per decidere di cambiare vita e lavoro, dedicandomi professionalmente alla Responsabilità Sociale d’Impresa.
Quante probabilità ha una persona comune di stringere un rapporto personale con il luminare della propria disciplina? Eppure questo ci insegna a fare Sensei: stringere legami di amicizia con tutti.
«Aiuto, come reagirà se gli rivolgo la parola?» fu il primo pensiero quando incrociai Edward Freeman a un convegno nel 2005. Oggi sono le sue lodi per l’intervista che gli ho fatto – la prima della mia vita, di cui nelle pagine che seguono viene riportato un estratto – e la sua pubblicazione in un libro l’esito più recente della mia decisione di allora di fare come il maestro, superando il mio timore reverenziale.
Nel mezzo tante piccole vittorie, che compongono la vivida trama dei ricordi di questo divertente capitolo dell’avventura che è diventata la mia vita, praticando.
 
L’INTERVISTA
Come in ogni relazione umana, anche in quelle economiche le persone – gli imprenditori, i lavoratori, i consumatori… – possono avere interessi diversi, anche contrapposti (Cfr. Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2009, BS, 134, 31 e seguenti), ma che non necessariamente devono confliggere. Se dall’incontro si crea o si distrugge valore dipende dallo stato vitale e dall’atteggiamento delle persone stesse, dalla consapevolezza della loro interdipendenza.
Ma la conoscenza del principio di origine dipendente non basta a spingere il sistema economico verso la sostenibilità: occorre un cambiamento generalizzato nella mentalità delle persone, che sta alla base del modo di agire diffuso. Di fronte a un potenziale conflitto d’interessi (per esempio tra gli utili degli azionisti e i salari dei lavoratori, o tra i prezzi e le regole) occorre sviluppare la capacità di vivere in quel modo che Tsunesaburo Makiguchi definiva “contributivo” superando la logica del compromesso e realizzando il massimo interesse comune. Se tra l’impresa e le parti interessate si creano ottime relazioni, e si mantengono nel tempo, la tensione all’immediata massimizzazione del profitto può far posto alla creazione di valore durevole, nell’interesse di tutti.
Perciò il dialogo che serve è responsabilità condivisa.
Professor Freeman, è possibile immaginare un’impresa che riesca a conciliare i propri profitti con tutte le altre esigenze (impatto ambientale, rapporti con i dipendenti,
soddisfazione del pubblico…)?
Una visione diffusa è che il fine dell’impresa e più in generale degli affari in un’economia di mercato sia la massimizzazione dei profitti degli azionisti, che è soggetta ad alcuni vincoli quali: come si trattano clienti e lavoratori, cosa si fa in materia d’ambiente, ecc. Ritengo che questo modo di pensare sia completamente sbagliato e che invece un’impresa abbia successo se crea grandi prodotti amati dai clienti.
Il primo obiettivo è offrire ai clienti i prodotti che desiderano e per riuscirci occorrono: dipendenti che hanno idee, vogliono far crescere l’impresa e desiderano produrre ciò che i clienti amano; fornitori impegnati a mettere in grado l’impresa di realizzare al meglio gli obiettivi; infine capitali/finanziatori interessati a sostenerla. Clienti, dipendenti, fornitori e finanziatori sono tutti necessari per portare avanti un’impresa di successo, che deve avere il sostegno delle comunità in cui opera: se questo viene a mancare, presto o tardi la stessa comunità arriverà a porre vincoli all’attività dell’impresa, che non avrà più la stessa libertà di innovare e creare.
In breve: se l’impresa vuole avere successo deve creare valore per tutti i suoi stakeholder1: i clienti, i fornitori, i dipendenti, i finanziatori, le comunità, le persone.
Molti vedono tutti questi interessi in perenne conflitto.
Infatti. Normalmente si pensa che se si servono meglio i clienti restano meno soldi agli azionisti; che pagando un po’ più i lavoratori c’è meno denaro per i clienti e i fornitori; che spremendo i fornitori si possono distribuire più profitti agli azionisti, che disinteressandosi della comunità si facciano più soldi. Ma pensarla in questi termini è un errore. Ciò che è interessante nell’idea della gestione centrata sugli stakeholder è la comunanza degli interessi: migliorare la vita dei clienti e quella dei dipendenti è un guadagno anche per gli azionisti. Riconoscere che esiste una comunanza tra gli interessi degli stakeholder ribalta il modo di pensare secondo il quale essi rappresentino un vincolo agli affari. La visione di un mondo di persone avide in feroce concorrenza non ci porta molto lontano.
Ma il profitto?
Io credo che la nozione di profitto come fine ultimo di ogni impresa sia una delle idee più fraintese. Mi spiego con una metafora: un organismo per vivere ha bisogno di sangue e globuli rossi, ma da ciò non consegue che il suo fine sia la produzione di sangue.
Allo stesso modo, un’impresa ha bisogno dei profitti, ma ciò non vuol dire che il suo fine sia produrre profitti. Io sono un fan delle imprese che producono profitti, ma penso che i profitti siano il risultato, non lo scopo dell’attività di un’impresa.
Questo ci porta alla domanda: come si fanno i profitti? La risposta è tanto semplice da sembrarmi ovvia: realizzando ottimi prodotti che i clienti desiderano; a questo scopo servono lavoratori coinvolti, fornitori che collaborano nel migliorare il prodotto, cittadini che guardano di buon occhio. Se un’impresa fa tutto questo, inevitabilmente il risultato saranno buoni profitti.
Jack Welch, già amministratore delegato della General Electric, lo ha detto in modo chiaro: «L’idea di massimizzare i profitti è un’idea stupida: i profitti sono un risultato, non qualcosa che cerchi di fare». Anche i guru del business management della Harvard Business School, come Michael Porter o Michael Jensen, ormai riconoscono che «la responsabilità d’impresa e la gestione degli stakeholder sono importanti: se vuoi massimizzare i profitti, devi tener conto degli stakeholder».
Io mi spingo ancora oltre: la stessa ragion d’essere di un’impresa è creare valore per gli stakeholder, questo è tutto ciò che conta. Anche Adam Smith diceva che «i mercati non funzionano senza uomini giusti». Dunque, l’interesse personale e la dimensione etica coesistono.
Immaginare che una strategia si segua “o per il business, o per l’etica”, ma non per entrambi contemporaneamente, è un esempio di ciò che io chiamo “fallacia della separazione”. Invece, quasi sempre i due elementi propulsori sono congiunti. Pensare secondo un modello puramente altruistico o un modello puramente egoistico è un esercizio superato e ormai privo di significato.
Da tempo penso che non si agisce solo per interesse individuale, ma che a questo si associa contemporaneamente l’interesse per gli altri. Ogni genitore lo sa bene: naturalmente le persone vogliono il meglio per sé, ma desiderano anche il meglio per i loro figli, le loro famiglie e le loro comunità. La base dei loro interessi è molto più ampia di quella dell’interesse individuale. Allo stesso modo, domandarsi se un’impresa sia guidata dall’interesse individuale o dall’altruismo è irrilevante o fuorviante; così come lo è chiedersi se il green business sia guidato dall’opportunità o dalla preoccupazione per l’ambiente che viene lasciato in eredità alle future generazioni.
E la concorrenza?
Penso che il vero meccanismo propulsore del capitalismo non sia la concorrenza ma la cooperazione, per produrre insieme ciò che nessuno potrebbe fare individualmente. La concorrenza in una società libera è importante, accresce le opportunità di scelta, ma il vero motore è il nostro desiderio di esseri umani di cooperare per creare qualcosa. Il capitalismo è basato sul nostro desiderio di creare ciò che ci fa vivere meglio, dunque la concorrenza, come il profitto, non si trova al primo posto. Un’impresa ha successo quando scopre come realizzare qualcosa di nuovo che nessun altro ha fatto o può fare, perciò sostengo che il capitalismo sia il più grande sistema di cooperazione sociale esistente. Collaborare per produrre, che non è facile, può anzi essere molto difficile.
Come cambiano l’organizzazione aziendale e il ruolo del management quando si adotta il principio della gestione per gli stakeholder?
Per rispondere a questa domanda vorrei attirare l’attenzione dei lettori sulle “imprese guidate da uno scopo” (purpose driven companies). Spesso hanno avuto fondatori carismatici che le hanno create, possiamo dire con passione, avendo in mente un chiaro scopo che andava al di là del puro profitto. Sono imprese differenti: i loro lavoratori non hanno bisogno di tanti manager che dicano loro cosa devono fare perché è il raggiungimento dello scopo, la passione, che guida le loro azioni.
In queste imprese si riduce o viene meno il bisogno della burocrazia manageriale basata sul modello di comando e controllo che caratterizza invece la gran parte delle imprese. Non intendo dire che quest’ultimo possa sparire del tutto, ciò che voglio dire è che maggiore è l’ispirazione comune verso lo scopo, maggiore è l’efficacia dell’impresa nel raggiungerlo.
Non si tratta di un nuovo modello, è un’idea che ha origini lontane, la si ritrova nei teorici americani (parlo di quelli che conosco meglio) di inizio Novecento, ad esempio in Peter Drucker e nel libro del 1938 di Chester Barnard, The Functions of Executives.
Idee che chiariscono che esiste una relazione tra una gestione dell’impresa che valorizza il coinvolgimento dei lavoratori e l’obiettivo di mantenere fedeli i clienti all’impresa tenendo fede allo scopo e ai valori che l’impresa incorpora nei propri prodotti, come dimostrano gli studi pubblicati da alcuni miei colleghi nel libro Firms of Endearment [gioco di parole tra terms of endearment, “parole affettuose” e firms, imprese, traducibile come “imprese affettuose”, n.d.r.].
Queste imprese hanno margini lordi più bassi della media, salari più alti e probabilmente spremono meno i fornitori, ma i margini netti sono molto più alti grazie a minori spese di marketing per mantenere i clienti fedeli al marchio. Non è una questione di dimensioni: vedo imprese piccole, medie e grandi che hanno questa caratteristica. Si assomigliano tutte, riescono a fidelizzare i clienti, c’è passione e amore più per il prodotto che per il marketing. In un’impresa del
genere il management ama quello che fa, ed è convinto che migliori le vite dei clienti.
Che relazione esiste tra gestione per gli stakeholder e sostenibilità?
Non sono un sostenitore della separazione tra i due concetti. Prendiamo un’impresa in cui la gestione per gli stakeholder sia il principio guida: i prodotti sono amati dai clienti; i dipendenti lavorano volentieri perché sono trattati in modo rispettoso per la loro dignità; i fornitori sono contenti perché il rapporto con quell’impresa è vantaggioso; le comunità apprezzano l’impresa e la sostengono perché non produce danni all’ambiente e alla società locale, agisce cioè da buon cittadino; gli azionisti sono soddisfatti. Quest’impresa non sta facendo business in modo sostenibile? Secondo me la sostenibilità è semplicemente il risultato della considerazione degli interessi di tutti gli stakeholder.
All’epoca della globalizzazione quello di comunità è un concetto sfuggente. Ognuno oggi può essere considerato parte di diverse comunità contemporaneamente: è difficile avere una chiara definizione di quale sia la comunità di cui l’impresa fa parte. Alcune comunità sono virtuali, altre globali, altre ancora sono comunità di luogo, dove vivono i lavoratori e dove si trovano anche molti clienti. L’impresa può contribuire a rafforzare la comunità di luogo, a renderla migliore e più attrattiva, creando così valore per chi vi appartiene, inclusi i clienti, i fornitori e i lavoratori.
Se un particolare prodotto è radicato in una comunità di luogo – in Italia un buon esempio è il parmigiano reggiano (sorride indicando il pezzo che avevo portato per mettere a suo agio il mio ospite, n.d.r.) – quel prodotto e il business che lo produce contribuiscono a mantenere forte e ricca la comunità, a creare valore. La sostenibilità emerge come un risultato profondamente collegato all’orizzonte che un’azienda si dà in relazione alle proprie comunità. Fa una grande differenza se un’azienda ha una visione globale o parziale e di breve o di lungo termine di queste relazioni. Non si deve però pensare alle relazioni di lungo termine in astratto: sarà perché sto invecchiando, ma tendo a pensare sempre di più al breve termine (ride, n.d.r.).
In definitiva, ritengo che una relazione positiva di lungo termine si costruisca sviluppando ottime relazioni nel breve termine e mantenendole nel tempo.
Oggi i consumatori domandano sostenibilità, è una tendenza di lungo periodo o solo un altro “ultimo grido della moda”?
I consumatori stanno spingendo le aziende nella giusta direzione, non ho mai visto un momento migliore per mettere al centro la creazione di valore per gli stakeholder! Abbiamo oggi molti consumatori smart (svegli) che hanno voce e riescono a trainare le imprese. Ciò che è difficile per le imprese è come tradurre le loro richieste in un valore, innovare realmente. È dallo sforzo d’inventare un modo di colmare il divario tra risorse disponibili e aspirazioni che nasce la tensione creativa che sta alla base di ogni innovazione.
L’innovazione è la vera sfida, e scaturisce più facilmente se le imprese sono guidate da uno scopo che vada oltre il profitto, cioè dalla passione per il prodotto che accomuna gli stakeholder.
Se un’impresa ritiene che il cambiamento è impossibile, che i lavoratori non cambiano, che i clienti non cambiano, che i manager non cambiano, allora l’innovazione è impossibile e l’impresa nel lungo termine è morta!
Nei corsi sulla leadership che tengo, ai miei studenti non parlo solo dei casi aziendali di successo, ma anche di letteratura e musica, perché la leadership è un atto creativo. La comprensione di come gruppi di persone possano impegnarsi intorno a uno scopo solo per la passione di realizzarlo ha molto più a che vedere con un tipo leadership creativa – pensiamo a un direttore d’orchestra, al leader di un gruppo jazz o a un regista teatrale – che con l’organizzazione di rigide gerarchie di controllo.
Molto di ciò di cui abbiamo parlato ha a che fare con le connessioni tra tutti coloro che hanno un qualche ruolo nel business. È un elemento che le imprese spesso dimenticano quando agiscono come se il profitto fosse l’unico o il principale fine, con il risultato che considerano i mercati come se fossero fuori dal mondo, persi nello spazio. Il principio delle connessioni è incredibilmente importante: gli interessi degli stakeholder sono connessi con le imprese, le comunità sono collegate tra loro, gli individui sono collegati con gli altri. Abbiamo bisogno, le imprese hanno bisogno, di un dialogo tra tutti questi soggetti.
 
Nota
1) Il termine stakeholder definisce un soggetto – una “parte” – che può influenzare e/o essere influenzato dalle azioni dell’impresa. L’uso della nozione di stakeholder con questo significato si fa risalire a un memorandum dello Stanford Research Institute del 1963. Sembra che la parola sia stata mutuata da un’antica espressione scozzese che identificava una persona che regge uno stake – un pezzo di legno, solitamente lungo e sottile e appuntito da un lato, tale da poter essere facilmente piantato per terra – mentre qualcun altro lo colpisce con una mazza. Questo concetto, dopo essere stato utilizzato da Robert Edward Freeman nel 1984 per istituire una teoria innovativa di gestione d’impresa, è stato largamente accolto.
Stakeholder primari sono considerati coloro che s’impegnano direttamente in transazioni economiche con l’impresa: finanziatori (azionisti, obbligazionisti, creditori, ecc.), clienti, consumatori, lavoratori, fornitori. Secondari, coloro che possono influenzare le azioni dell’impresa o essere influenzati da esse dal punto di vista economico, ambientale, sociale ed etico: le comunità, le future generazioni, la Pubblica Amministrazione, i gruppi di consumatori o di ambientalisti, le associazioni d’imprenditori, ecc. In italiano il termine può essere tradotto “portatore” o “detentore” d’interesse.
 
Bibliografia di riferimento

  1. E. Freeman, S. R. Velamuri, B. Moriarty, Company Stakeholder Responsibility: A New Approach to CSR, Business Roundtable Institute for Corporate Ethics, 2006, www.corporateethics. org.
  2. Barnard, The Functions of Executives, Harvard (Mass.), 2005 [ed. or. 1938].
  3. Smith, The Theory of Moral Sentiments, Amherst (NY), 2000 [ed. or. 1759].
  4. S. Sisodia, D. Wolfe, J. Sheth, Firms of Endearment: How World-Class Companies Profit from Passion and Purpose, Wharton (Penn.), 2007. Si veda anche il blog Firms of Endearment, http://firmsofendearment.typepad.com.
  5. R. Freeman, P. H. Werhane (a cura di), Business ethics, Malden, Oxford, 2005.
  6. R. Freeman, G. Rusconi, Teoria degli stakeholder, Milano, 2007.
  7. R. Freeman, J. S. Harrison, A. C. Wicks, Managing for stakeholders: survival, reputation, and success, New Haven, Londra, 2007.

 
* Fabio Guenza, economista, è consulente strategico e organizzativo ed esperto di competitività e responsabilità d’impresa. Svolge attività di ricerca e di formazione sui temi dello sviluppo sostenibile, in particolare ma non esclusivamente nella moda, e realizza attività di dialogo sociale e diffusione della cultura della sostenibilità.
Robert Edward Freeman è professore di Business Administration presso la Darden School of Business dell’Università della Virginia, dove insegna anche Studi religiosi, Capitalismo creativo e Leadership e teatro. È autore e curatore di più di venti volumi nell’area delle strategie d’impresa e dell’etica degli affari, che vertono sullo sviluppo dell’abilità di gestire con successo le relazioni dell’impresa con gli stakeholder (il termine definisce un soggetto – una “parte” – che può influenzare e/o essere influenzato dalle azioni di un’impresa). Freeman è forse più noto per il suo pluripremiato libro Strategic Management: A Stakeholder Approach (Gestione strategica: un approccio centrato sugli stakeholder), originariamente pubblicato nel 1984, nel quale sostiene che le imprese costruiscono le loro strategie sulle relazioni con gli stakeholder chiave. Il recente Il bello e il buono. Le ragioni della moda sostenibile (a cura di M. Ricchetti e M. L. Frisa, Marsilio, 2011) si apre con un
capitolo/intervista a cura di Fabio Guenza.
 


La produttività di un panino

Uno studio usa i salari ricevuti da chi prepara i Big Mac per confrontare il costo del lavoro a livello globale. Le diferenze tra paesi ricchi e poveri sono ancora forti, ma in diminuzione.
Un Big Mac di McDonald’s contiene ventinove grammi di grasso e una quantità incredibile di preziose informazioni economiche. Dal 1986 l’Economist usa l’onnipresente panino per costruire l’indice Big Mac, un metodo artigianale per valutare il rapporto tra le diverse monete. Ora la mania dell’economia a base di hamburger si sta diffondendo. In un studio realizzato per lo statunitense National bureau of economic research, gli economisti Orley Ashenfelter, della Princeton university, e Stepan Jurajda, dell’Università Carolina di Praga, hanno usato il Big Mac per analizzare i divari economici tra i diversi paesi. Come l’indice Big Mac, il loro lavoro si basa sulla teoria della parità dei poteri d’acquisto (ppa), secondo la quale i tassi di cambio tra le varie monete dovrebbero variare in modo che un paniere di beni abbia lo stesso prezzo ovunque. Ashenfelter e Jurajda si sono concentrati sul Big Mac, perché il panino ha più o meno gli stessi ingredienti in tutto il mondo ed è prodotto secondo un procedimento standard. I due economisti hanno raccolto dati sull’andamento dei salari pagati da McDonald’s (la McPaga) e dei prezzi dei Big Mac.
Lo studio è cominciato nel 1998 in tredici paesi, ma in seguito è stato esteso sino a comprenderne 60. Convertendo le McPaghe in una moneta comune, si ottiene un quadro molto chiaro delle diferenze internazionali del costo del lavoro per mansioni semplici e ben definite. Le McPaghe sono uguali nei paesi ricchi (solo nell’Europa occidentale sono un po’ più alte a causa delle rigide leggi sul minimo salariale), mentre nelle economie emergenti vanno dal 32 per cento del livello statunitense registrato in Russia al 6 per cento dell’India. Ma dividendo la McPaga per il prezzo locale del Big Mac si ottiene l’unità di misura che gli autori chiamano Big Mac per ora lavorata (Bmph). Questo valore permette di effettuare un confronto basato sul salario reale, cioè un salario che tiene conto del prezzo dei beni.
I lavoratori delle economie meno produttive hanno paghe più basse, ma è anche vero che la produzione dei loro Big Mac costa meno. Il divario di benessere tra i lavoratori dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri, infatti, risulta meno ampio se si considera il salario reale. In Cina, per esempio, la McPaga corrisponde all’11 per cento di quella statunitense, ma il salario reale basato sul Bmph indica che la differenza è inferiore. Il Bmph annulla anche il vantaggio ottenuto dai lavoratori dell’Europa occidentale con il minimo salariale.
I fast food evidenziano gli ampi divari di produttività e ricchezza a livello globale, ma dimostrano anche che le distanze si sono ridotte. Tra il 2000 e il 2007 la McPaga statunitense è aumentata del 13 per cento, mentre il prezzo del Big Mac ha subito un’impennata del 21 per cento, provocando un crollo netto del 7 per cento dei salari reali basati sul Bmph. Nello stesso periodo Brasile, Russia, India e Cina – il gruppo di paesi emergenti denominato Bric – hanno registrato progressi, visto che lì le McPaghe sono aumentate più rapidamente del prezzo del Big Mac. Il Bmph si è impennato del 53 per cento in India, del 60 in Cina e del 152 in Russia, un’economia in ripresa dopo la crisi finanziaria del 1998 e dove la crescita è stata fin da allora lenta. Negli ultimi anni c’è stata un’inversione di tendenza. Tra il 2007 e il 2011 la Russia e la Cina hanno continuato a registrare miglioramenti, ma gli altri paesi hanno rallentato, perché i prezzi del cibo sono saliti più in fretta delle McPaghe. E i dati che saranno raccolti la prossima estate potrebbero indicare un’ulteriore frenata. Una brutta notizia per i paesi emergenti che ancora aspirano a una qualità migliore della vita.


Earthinkfestival: intervista a Serena Bavo*

Narrazioni dal vivo immerse nella natura, passeggiate, interviste aperte al pubblico, installazioni, incontri con gli autori, laboratori, concerti e spettacoli teatrali: Earthink è il primo festival in Italia dedicato a tutte le espressioni artistiche a sostegno dell’eco-sostenibilità ambientale. Nel cuore di Torino, tre intere giornate in cui la cultura è davvero conoscenza dell’altro e condivisione del sapere attraverso un ricco programma di attività pensato per un pubblico eterogeneo.
Organizzato dall’Associazione Culturale Tékhné con il Patrocinio del Ministero dell’Ambiente, della Regione Piemonte, della Città e dellaCircoscrizione 7 di Torino, il festival nasce nel 2012 con il nome Naturalmente in Provincia e negli anni cresce sempre di più, fino a diventare un appuntamento articolato con il suo epicentro di attività a Torino, al SAMO di Corso Tortona 52, già luogo d’incontro trasversale delle più diverse discipline artistiche in città.
Come nata l’idea di Earthink Festival
Il progetto Earthink nasce nell’estate del 2012 in seguito alla produzione di Just a sip_acqua_  uno spettacolo di Tékhné che raccontava il rapporto tra l’essere umano e la natura,  per una valorizzazione del territorio; la sensibilizzazione e l’educazione al rispetto delle risorse naturali e dell’ambiente; la riduzione degli sprechi energetici e alimentari in collaborazione per il primo anno con i tanti comuni con i quali l’associazione collabora sul territorio e al supporto organizzativo dell’UNCEM Piemonte. Da anni Tékhné si occupa di teatro sociale con produzioni di spettacoli, incontri e laboratori nelle scuole, il progetto Earthink infatti non è solo festival, ma un percorso artistico di sensibilizzazione che dura tutto l’anno.
Perché “Leggeri con la Terra”
Per la quarta edizione (che si terrà dal 19 al 21 Giugno da SAMO con una anteprima sul territorio della circoscrizione Sette della Città di Torino) vorremmo passare il messaggio che ogni nostra azione, anche piccola, presuppone un effetto sul nostro eco sistema. Essere più leggeri, avere meno impatto sull’ambiente nelle scelte di vita quotidiana, può essere un passo per consegnare alle generazioni future un pianeta sano e vivibile. Pensiamo che tutti noi, a maggior ragione chi si occupa di cultura, abbia il dovere di essere attento a queste tematiche e di proporre delle riflessioni attuando buone pratiche. La costruzione di una scenografia, la mobilità degli artisti o la promozione e l’organizzazione di un evento possono essere sostenibili. In quest’ottica, oltre alle scelte artistiche nella selezione degli spettacoli e delle performance in programma, nella sua anteprima in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambientevenerdì 5 giugno dalle 18.30, al Cap10100 di Corso Moncalieri 18, sarà svelato il programma del festival che sarà scaricabile (arricchito da alcuni contenuti) la propria chiavetta USB, riducendo così il consumo di carta stampata.
Quali sono stati gli interventi nelle scuole e gli eventi collaterali del Festival?
Nel corso dell’anno scolastico appena trascorso Tékhné ha condotto diversi laboratori artistici a tema nelle scuole della città. TRIBU’, con la collaborazione dell’I.C. Ricasoli ha visto la sua conclusione con la messa in scena di uno spettacolo teatrale con 150 bambini dai sei ai dieci anni, i quali hanno scelto durante il percorso formativo, la qualità ecosostenibile del proprio gruppo proponendo suggestioni e idee per un futuro più in armonia con la natura. PHOOD, la cui mostra inaugurerà venerdì 19 da SAMO è un progetto in collaborazione con l’Associazione Imagica, l’Istituto professionale per i servizi alla pubblicità Albe Steiner, Il Centro Servizi Formativi Artigianelli e la Coop, che nasce con l’intento di sensibilizzare le nuove generazioni sull’educazione alimentare, con particolare attenzione alla riduzione degli sprechi. Due sono invece le giornate di preview in programma sabato 13 e domenica 14 giugno per avvicinare i grandi e i piccoli alle tematiche di Earthink. Sabato 13 dalle 15.30, quattro parchi pubblici della città sono animati dalla narrazione di cinque attrici che accompagnano il pubblico alla scoperta di quei luoghi, raccontando storie dedicate all’acqua e alla natura, in un percorso a tappe da fare insieme, in bici o a piedi. La serata prosegue con due incontri e un concerto al SAMO: alle 20.00 il disegnatore Pixar Kriss Spearn parla del suo progetto di motion graphic dal successo internazionale, Piovono Polpette – la rivincita degli avanzi, mentre alle 20.30 Pino Pace presenta il suo documentario Pedalando nel Ven.To – il Po in bicicletta nato dal progetto VENTO del Politecnico di Milano. Domenica 14 dalla mattina a sera il  programma propone un ricco calendario di attività formative all’aperto e indoor. Parte del pubblico è atteso dalle 10 per una passeggiata narrante alla scoperta del Parco fluviale del Meisino, con l’intento di sensibilizzare i partecipanti sul rispetto dei beni comuni del territorio naturale di Torino, dagli spazi pubblici all’acqua. Alla stessa ora, presso l’Associazione Arké, prende il via un’intensa giornata di laboratori dedicati al benessere in movimento.
Qualche anticipazione sulla programmazione artistica da venerdì 19 a domenica 21 giugno?
Apriremo venerdì 19 alle 18 con l’atteso ospite Manuel Comandini (giovane Ironman italiano che ha fatto della sua scelta di vita sostenibile, un punto di forza dei suoi successi sportivi) per proseguire  con l’esposizione di alcuni lavori della fotografa Stefania Silengo : Melting Point e Natura Spremuta – in collaborazione con Alberto Malinverni, sul tema del terzo paesaggio, come la natura si riappropria di spazi industriali abbandonati e dismessi. A seguire, performance di danza a cura del collettivo francese Cie Sarab e, dopo l’aperitivo fishfriday a cura di SAMO, alle 21, sale sul palco per un concerto esclusivo il cantautore Bianco che per l’occasione suona accompagnato dalla cantante e arpista Cecilia.
Sabato 20 giugno Earthink inizia le sue attività dalle 17 al SAMO, dove fino alle 21 è possibile assistere alla performance per spettatore unico Retrogusto Fragola di e con Chiara Vallini e Vanessa Vozzo, in replica anche domenica 21.  Alle 21 va in scena la nuova produzione di Tékhné Teatro, lo spettacolo The Animal Machine, scritto dal duo Einaugenart e reduce dal successo dello scorso novembre con due serate sold out al Cubo delle Officine Corsare.
Il teatro è protagonista dell’ultima giornata di programmazione dalla mattinata con la compagnia Dappeltaum Teatro, che alle 11.30 presenta una prima speciale dello spettacolo Nikola Tesla.
Alle 21, va in scena lo spettacolo Vernice, del Teatro Villaggio Indipendente, la storia vera e affascinante della riqualificazione urbana di una fabbrica di vernici di Settimo Torinese che diventa biblioteca multimediale e polo culturale di successo.
Tutti i giorni è possibile degustare gli aperitivi a tema di Samo e partecipare ai  laboratori di autoproduzione a cura di Eco Dalle Città e  Giovanna Olivieri, autrice del libro “Io lo faccio me” di Edizioni Terra Nuova.
Progettazione artistica e idee per il futuro.
Sicuramente riprenderemo l’attività di sensibilizzazione nelle scuole da settembre, continuando a proporre i temi di Earthink e arricchendo il programma con nuove collaborazioni.  Sono invece in fase di programmazione alcuni appuntamenti di Earthink Festival in Tour in alcune città italiane che si realizzeranno in autunno inverno.
Per rimanere aggiornati su tutte le attività potete seguirci sul sito www.earthinkfestival.eu e sulle pagine social.
Per info e contatti: info@earthinkfestival.eu – info@tekhneteatro.com
 
*Serena Bavo: Direttrice Artistica e fondatrice di Associazione Culturale Tékhné e Earthink Festival


Gli stipendi dei CEO? Socialmente irresponsabili

La ricerca Mercer sul FtseMib rivela che le retribuzioni sono più legate al merito. Ma, salvo poche società, non vengono considerati i risultati di sostenibilità. Almeno, per ora.
Le retribuzioni dei manager delle società del FtseMib sono state più legate al merito nel 2013. Parola di Mercer, leader globale sui temi di consulenza direzionale e risorse umane, che ha realizzato il secondo studio sui compensi dei cda delle principali società quotate sul mercato italiano. Peccato che, attualmente, il merito non tenga conto – o quasi – dei criteri di corporate social responsibility. Per quanto, a detta di Mercer, le cose potrebbero cambiare.
Certo, spesso si parla di sostenibilità. Ma non nell’accezione di responsabilità sociale. «La maggior parte delle società del FtseMib nella loro relazione sulla remunerazione fanno riferimento esplicito all’obiettivo di sostenibilità – precisa Luca Baroldi, principal di Mercer Italia – intesa come la capacità dell’azienda di adottare, nella valutazione della performance, un’ottica sempre più orientata al medio/lungo periodo, accanto o in sostituzione a quella sul quarter. Anche e soprattutto a causa della tipologie e della natura degli indicatori attualmente utilizzati nella valutazione della performance del management, si è spesso portati a leggere il concetto di sostenibilità in un’accezione prettamente economico-finanziaria. E la normativa di Banca d’Italia per le aziende dei financial services, ponendo grande enfasi sul differimento del variabile di breve termine e su obiettivi di sostenibilità prettamente finanziari o patrimoniali, non fa che rinforzare questa convinzione».
Secondo le rilevazioni di Mercer, in ogni caso, nel 2013 si è avuta la diminuzione delle retribuzioni per i presidenti non esecutivi fino al 34%, per via dell’adeguamento alle disposizioni dei regolatori (Consob, Banca d’Italia, Ivass) che proseguirà anche nel 2014. Mentre si è registrato l’aumento dei premi legati alle performance degli amministratori delegatifino al 26%: un amministratore delegato nel 2013 ha guadagnato tra 1.772.000 e 1.853.000 euro, comprensivi di incentivo a breve termine. I presidenti di holding invece sono passati da una mediana di 400.000 euro a 265.000 euro.
I maggiori premi agli ad sono giustificati dalle performance di Borsa, con il FtseMib che è cresciuto nel periodo di oltre il 14 per cento. «Le performance borsistiche delle società del campione sono state positive – commenta Marco Morelli, amministratore delegato Mercer Italia – così come altri indicatori economici, finanziari e gestionali rispetto all’anno precedente, salvo alcune note eccezioni dovute soprattutto a un’impostata corretta azione sul bilancio per sostenere la crescita futura. Di conseguenza si è rafforzato il legame tra i compensi degli amministratori esecutivi e la creazione di valore. L’Italia mostra così un migliorato livello di Pay for performance in linea con le best practice».
Il valore resta in ogni caso quello prettamente finanziario ed esclude qualsiasi indicatore di Csr. «Tuttavia – riprende Baroldi – visto il numero significativo e crescente di aziende quotate che redigono un bilancio sociale, o che hanno espresso interesse alla sua redazione, non mi sento di escludere a priori che, in un futuro non troppo lontano, potranno essere utilizzati in parte degli indicatori di performance differenti che, per esempio, possano legare più direttamente il criterio della sostenibilità alla Csr. In questa direzione, si sono già mosse alcune grandi aziende industriali italiane che a buon diritto possono rappresentare una best practice: Eni, Pirelli, Snam, Saipem hanno iniziato a collegare parte dell’erogazione dell’incentivazione variabile del top management alla permanenza della loro organizzazione all’interno di indici internazionali di sostenibilità, come il Dow Jones Sustainability Index e Ftse4Good per i settori di pertinenza. Oppure altre realtà del banking che tra gli obiettivi di performance dei membri della propria C-suite menzionano l’adozione di valori quali la mutualità (Banca Pop Emilia Romagna) o la lungimiranza (UnipolSai)».


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