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Una “personal factory” in Calabria

Cemento a chilometro zero?
Se le parole cemento e Calabria compaiono nella stessa frase di solito è per parlare di speculazione selvaggia. Dei chilometri di costa deturpati, di intere città fatte di case non finite che sembrano bombardate o di viadotti incompiuti, tristi ecomostri che allungano il loro collo di dinosauro sul nulla. Questa volta, invece, si parla di un calabrese che il cemento ha voluto reinventarlo fino al punto di smaterializzarne la produzione. Francesco Tassone, ingegnere trentenne di Simbario (Vibo Valentia), folti capelli ricci e tono di voce pacato, è convinto che il materiale più pesante da trasportare, più sporco e più old economy che esista possa diventare impalpabile, ecologico, in una parola intelligente.
“ Mio padre aveva un impianto di produzione di malte”, spiega Francesco. “ Sono prodotti per l’edilizia composti al 98 per cento da materiale inerte come la sabbia. Il restante due è chimica che aggiunge al materiale il colore o il grado di impermeabilizzazione. Gli impianti di produzione tradizionali sono grossi stabilimenti, con torri alte fino a cento metri che servono a miscelare i componenti”. Movimentare una merce così pesante ne fa crescere non solo il prezzo, ma soprattutto il costo in termini di inquinamento. “ Si calcola che il cemento sia responsabile del 6 per cento delle emissioni di CO2 di tutto il pianeta” chiosa Francesco.
La sfida di Francesco, fin dai tempi dell’università che ha fatto a Trento, è smantellare il vecchio modello per inventarne uno a chilometro zero. Perché non usare materie prime locali e non fornire solo la chimica? Perché non mettere in Rete l’esperienza e i bisogni di tutti gli utenti sparsi per il mondo? Nasce così a Simbario (30 chilometri dal Tirreno e 30 dallo Jonio, nel cuore verde delle Serre Calabresi) Personal Factory, una fabbrica smaterializzata in cui a viaggiare è solo il know how e non quintali di materiali inerti. Alla base del sistema c’è un brevetto, un macchinario chiamato Origami 4. Origami proprio perché è come se un grande stabilimento si ripiegasse su se stesso in appena sei metri quadrati. La mescola dei materiali inerti con la parte chimica (venduta da Personal Factory in apposite buste sigillate e dotate di un codice che ne identifica con precisione i componenti) avviene all’interno di un cilindro, mentre peso, quantità di materiali e tipo di malta da produrre sono regolati da un software. La macchina ha una capacità di sei metri cubi di materia prima ed è in grado di produrre e insaccare dagli 80 ai 100 quintali di prodotto finito senza essere ricaricata. Ogni ricarica richiede all’operatore all’incirca 10 minuti. Inoltre gli scarti sono quasi inesistenti e i tempi di pulizia sono inferiori a 10 minuti.
“Sono partito dall’idea del cloud computing per arrivare al cloud factoring”, spiega Francesco. “ Come nel cloud computing si offre un software comune che serve alle persone per lavorare insieme, così noi offriamo un software che permette alle nostre macchine di lavorare insieme. L’obiettivo è smaterializzare la produzione e distribuirla sul territorio mantenendo però la gestione dei dati in un cervellone centralizzato. È come avere una stampante a centinaia di chilometri dal mio computer”.
A oggi sono state installate macchine in Tunisia, Calabria, Sicilia, Puglia, Abruzzo, Toscana,Lombardia e, a breve, anche in Campania e Lazio. E ogni microbetoniera è monitorata dal software collegato via Internet al centro di controllo di Simbario. Ogni busta di componente chimica (il know-how “fisico” che Personal Factory vende ai clienti), grazie al suo codice che la macchina è in grado di riconoscere, è la “chiave” che permette alla Origami 4 di procedere con la mescola e l’insaccamento delle malte. “ Nell’era di Internet non è più necessario spostare merci. Basta spostare le informazioni”, conclude Francesco. “ Non servono più le grandi fabbriche ma strumenti flessibili, connessi e intelligenti da dare agli uomini: strumenti programmabili in base al contesto in cui si trovano”. Se la Origami 4 è il braccio, una specie di microbetoniera evoluta, il sistema centralizzato di cloud manufacturing è il cervello. Della squadra fanno parte anche il babbo Giuseppe Tassone, 66 anni, e Luigi, il fratello venticinquenne di Francesco, ma chi ha in mente la solita aziendina familiare è fuori strada. Questa è piuttosto l’avanguardia di una rivoluzione possibile. Quella che il blogger inglese Cory Doctorow ha battezzato la subcultura dei “makers”, cittadini comuni capaci, grazie all’innovazione tecnologica e all’hacking di hardware e di modelli di business, di togliere all’industria manifatturiera il monopolio della produzione in serie. Personal Factory però è anche la storia di ragazzi calabresi che potrebbero lavorare benissimo altrove, ma hanno scelto di non arrendersi e non andare via.
“Questa è casa mia”, sottolinea Francesco Tassone. “ Ma non sopporto il fatalismo di qui: l’idea che siccome non c’è niente, allora non potrà mai esserci niente”. In un territorio dove l’unica economia è quella dell’assistenzialismo (il Comune con i suoi 50 dipendenti è il principale datore di lavoro) Personal Factory potrebbe presto diventare il nuovo motore di sviluppo della zona, ma la strada è tutt’altro che in discesa. “ Oggi finalmente è arrivata l’Adsl in tutto il paese”, spiega Francesco, “ ma solamente perché il ministero degli Interni ha cablato tutte le caserme dei Carabinieri. C’è una sola ragione che mi spinge a rimanere qui: voglio trasformare questo paesino di montagna in un posto in cui una nuova generazione di innovatori possa essere in grado di fare impresa e produrre tecnologia. Spero che guardando a quello che stiamo realizzando qualche giovane calabrese diventi più audace e invece di pensare che “tanto non cambia mai niente” possa convincersi che sì, “‘si può fare’”.




Trash is for Tossers, Lauren Singer racconta due anni di vita "a spazzatura zero". Tra prodotti handmade e spazzolini di bambù

“Non è tanto una questione di come vivi, ma di che scelte fai. Ci sono sempre delle alternative”. Lauren Singer ha 24 anni e vive senza produrre spazzatura. Newyorkese, laureata in Studi Ambientali, conduce una “Zero Waste Life” a Brooklyn. “Un mio compagno di università si portava tutti i giorni il pranzo da casa in un sacchetto di plastica, con un contenitore usa-e-getta accompagnato da una bottiglietta d’acqua monouso. Mi ha fatta riflettere: Noi dovremmo costruire il futuro del nostro pianeta, ed eccoci qui a incasinare tutto con la nostra spazzatura”.

Lauren è già diventata un punto di riferimento internazionale per la lotta agli sprechi, e sul suo blog Trash is for Tossers ha documentato il processo di cambiamento della sua vita, da eticamente indirizzata a praticamente etica. “Volevo vivere davvero seguendo i miei valori”, racconta. Perciò evita di comprare prodotti confezionati in contenitori non riciclabili o riutilizzabili, compra nei mercati alimentari, fa i cosmetici in casa (il cosiddetto “spignattare”), fa la differenziata e il compost dei rifiuti organici, mette solo vestiti di seconda mano.

 
La mattina, dopo colazione, si lava i denti con uno spazzolino in bambù riciclabile. “Prima pensavo di avere bisogno di mille prodotti diversi, ma quando ho iniziato a fabbricarmi saponi e creme in casa ho ridotto il numero al necessario: pochi, ma buoni”, racconta ad HuffPost. Per contenere cosmetici e alimenti usa tantissimi vasetti di vetro, come quelli per le conserve e le marmellate. “Quando sono fuori per i pasti o mi porto il pranzo da casa, oppure scelgo ristoranti che siano in linea con la mia etica: biologici, con contenitori biodegradabili… Non è un problema trovarne, anche in viaggio: al massimo vado a cercare ingredienti nei mercatini”.

Ovviamente c’è voluto tempo – spiega Lauren – per raggiungere questo livello assoluto di zero sprechi. Un processo sempre dinamico (si augura di imparare a cucirsi i vestiti da sola, un giorno), raccontato tra blog, video-tutorial Youtube e profili social: “Non cerco di imporre la mia scelta agli altri, ma voglio dare il buon esempio sperando di potere influenzare qualcuno. Dimostrando che non solo è possibile, ma semplice.”

Questa semplicità ha dato il nome alla sua ultima avventura: la creazione, a inizio 2015, di The Simply Co., un’azienda di prodotti naturali e fatti a mano. Il progetto è stato finanziato tramite crowdfunding su Kickstarter, con 820 donatori e un totale di 42mila dollari (in due giorni ne aveva già raccolti 10mila). Il “primo nato” è un sapone per la lavatrice fatto di tre soli ingredienti, bicarbonato, soda e sapone di Marsiglia, in due profumi, lavanda o neutro. “Il crowdfunding è un ottimo metodo di testare il mercato quando si lancia un nuovo progetto, perché ti permette di avere già alle spalle fin dalla partenza dei potenziali interessati – sottolinea Lauren – inoltre puoi trasmettere le tue idee a chiunque, nel mondo”.
Ovviamente non tutte le idee funzionano. Ma Lauren, di spazzatura, non ne produce.

Trash is for Tossers



NEL 50% DELLE AZIENDE COINVOLTE, LA LEGGE NON ARRIVATA IN CDA

Le ricerche presentate alla Integrated Governance Conference di mercoledì 21 giugno evidenziano una diffusa consapevolezza sulla non financial. Ma anche una chiara sottovalutazione nei board. Sembra di rivedere l’avvio della legge 231

Csr, tutti la praticano, in pochi la prendono sul serio. È un vecchio leitmotiv che accompagna l’industria italiana (si pensi ai vecchi, cari, distretti), quello dell’adozione di tecniche di gestione all’avanguardia, senza la consapevolezza manageriale o regolamentare che, in linea teorica, avrebbe dovuto accompagnarle. Sembra che lo stesso schema self-made si stia rivelando per la corporate social responsibility. Lo dimostra il percorso di adeguamento alla direttiva non financial, ovvero alla legge di recepimento (Decreto Legislativo 30 dicembre 2016, n. 254) che regola come le aziende devono monitorare e riportare i propri risultati in termini di fattori environmental, social e governance (Esg).

UN ADEGUAMENTO FAI-DA-TE

Le ricerche che saranno presentate mercoledì 21 giugno alla Integrated Governance Conference, infatti, evidenziano un vasto perimetro di conoscenza delle indicazioni della non financial. Ma, allo stesso tempo, continua a essere rimandata la piena consapevolezza del problema, ossia un suo esame da parte degli organi più elevati dell’azienda.
Nei fatti, le oltre 30 aziende che hanno risposto al questionario (sul campione delle prime 100 aziende per capitalizzazione) hanno risposto nel 94% dei casi di rientrare nell’ambito dell’applicazione della direttiva. Ergo, c’è coscienza della tematica. Anche perché la totalità di chi “rientra” ha dichiarato «di avere un team dedicato all’adeguamento alle nuove norme». Nella maggior parte dei casi si tratta della funzione sostenibilità o Csr, in alcuni casi di team interfunzionali istituiti ad hoc o di team aziendali che racchiudono già più funzioni. Ciò che, però, manca pericolosamente, è il coinvolgimento del vertice aziendale: solo il 50% delle aziende rientranti nella direttiva, infatti, ha dichiarato che la questione è stata esaminata a livello di board nel corso del 2016.
In sostanza, la metà delle aziende che, a partire dai prossimi mesi (si attende il regolamento Consob) sarà sottoposta a una delle più rivoluzionarie leggi in merito alla governance e alla sostenibilità, non ha esaminato l’evento nel proprio consiglio di amministrazione.
Lo stesso problema emerge dalla ricerca “incrociata” condotta da Nedcommunity e Methodos sui consiglieri indipendenti (ricerca che sarà anch’essa presentata mercoledì). Da un lato, l’82% dei membri di Nedcommunity che ha partecipato al sondaggio ritiene di essere consapevole «della rilevanza di tutte le forme di valore e quindi anche delle componenti Esg (environmental, social, governance)». Dall’altro, solo il 51% rivela che il cda di cui fa parte è stato informato dell’introduzione della direttiva non financial. Sul dato può pesare il fatto che il 42% degli intervistati è parte del board di una non quotata. Ma la percentuale è comunque rilevante, anche in relazione alla dichiarata consapevolezza verso l’importanza del tema.

L’ABITUDINE A SOTTOVALUTARE

Insomma, è vero quando spiega Assonime nella sua recente circolare in merito alla non financial(circolare che sarà approfondita da ET. nei prossimi giorni): «È ampiamente diffusa nel mondo delle imprese una significativa sensibilità per l’impatto che la propria attività può avere rispetto a una pluralità di categorie di stakeholder nonché dei vantaggi competitivi che una visione ampia della propria attività consente».
Ma, a questa sensibilità, si contrappone l’abitudine a non farne un aspetto istituzionale, ossia manca una risposta che riveda formalmente e sostanzialmente l’ossatura dell’azienda. Risposta che deve necessariamente essere oggetto dell’esame del consiglio di amministrazione.
Anche (e se non altro) perché tutto questo genera notevoli responsabilità amministrative e pecuniarie (sia per l’azienda sia per le persone).

IL DÉJÀ VU DELLA 231

Per questo, si parla già di simmetria tra la non financial e il decreto legislativo 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle aziende. Quest’ultima norma, che ha rivoluzionato l’ordinamento italiano, rendendo di fatto la responsabilità penale anche aziendale (e non più solo “personale”), ha dovuto attendere un decennio prima di essere presa sul serio. Ovvero, ha dovuto attendere le prime pesanti sentenze di Tribunale.
L’auspicio è che la non financial ci metta meno di un decennio. Ma, comunque, se la simmetria funziona, arriverà poi il momento in cui le responsabilità generate in capo all’azienda dai temi di corporate social responsibility, avranno definitivamente il rango primario di argomento centrale per i consigli di amministrazione.



Jessica Alba: «Basta piangere, ci sono io»

Le ultime foto scattate dai paparazzi ce la raccontano con le orecchie di Minnie, sorridente e divertita, sulle giostre di Disneyland, Los Angeles. È con il marito Cash Warren, produttore cinematografico, sposato nel 2008, e le figlie, Honor e Haven. Jessica Alba, 34 anni, è una delle attrici più sexy di Hollywood, ma negli ultimi anni è stata più impegnata a metter su famiglia e a creare un impero da un miliardo di dollari vendendo “pannolini onesti”.
Non è una battuta: l’azienda da lei fondata si chiama The Honest Company e commercializza pannolini per neonato (ma non solo: anche tutto quello che riguarda l’igiene della casa e della persona) rigorosamente biologici. In meno di quattro anni, la Honest Company, passata dai 10 milioni di ricavi ai 150 milioni del 2014, è valutata un miliardo e dà lavoro a 300 dipendenti. Un successo che ha fatto guadagnare a Jessica l’ultima copertina del bisettimanale economico Forbes. Titolo a piena pagina: “Le donne americane più ricche che si sono fatte da sole”. C’è lei, e le sole altre due celebrities sono la giornalista Oprah Winfrey e la popstar Madonna. Con la differenza che Jessica è partita da zero, creando un’impresa che prima non c’era. E che è decollata.
«Dalla rivista maschile Maxim a Forbes è un bel salto, no?», ci dice sorridendo mentre beve un tè verde nell’area dedicata alle pause del quartier generale dell’azienda, a Santa Monica, in California. «Per Maxim ero la donna più sexy del mondo, per Forbes l’imprenditrice americana del momento. Lo prendo come un premio alla mia tenacia. Qui si lavora seriamente. E, lo confesso, sono un capo dal pugno duro. Pretendo sempre molto. Il mondo degli affari è implacabile. Fare un film, ormai, per me è come prendermi una vacanza».
Ora Jessica è al cinema con Entourage, la versione cinematografica della fortunata serie tv, in cui fa la parte di se stessa in un divertente cameo. E dal 23 luglio la vedremo in Il fidanzato di mia sorella. Si contenderà Pierce Brosnan con Salma Hayek in una commedia romantica prodotta da Brosnan stesso. Ma Alba ha anche altri tre film nel cassetto: l’horror The Veil di Phil Joanou, Dear Eleanor in cui due ragazze adolescenti attraversano gli Stati Uniti durante i giorni della crisi diplomatica con l’Unione Sovietica, nel 1962, e in cui la Eleanor del titolo è la moglie del presidente Roosevelt. E infine il thrillerMechanic: Resurrection, accanto a Tommy Lee Jones.


Dopo la copertina di Forbes, non possiamo che cominciare l’intervista dal successo dell’impresa. Come è nata l’idea?

«Ero incinta di Honor (che oggi ha 7 anni, ed è la sorella maggiore di Haven, 4, ndr). Usavo un detergente per neonati che mi aveva consigliato mia madre, era pubblicizzato come il migliore. Una mattina mi sveglio piena di puntini rossi. Ho chiamato mia mamma, urlando: “Come fa a essere il migliore bagnoschiuma per neonati se a me fa male?”. Lei ha provato a difendersi: “Mi hai chiesto quale fosse il più usato e ti ho risposto”. E aveva ragione: era il numero uno sul mercato, da sempre».

Tutto ha avuto inizio con questa disavventura, quindi?

«Sì. Da lì ho cominciato a leggere le etichette di tutti i prodotti dedicati all’infanzia e ho scoperto che ci sono sostanze chimiche tossiche non solo nei saponi, ma anche negli shampoo. Per non parlare dei prodotti per pulire la casa. Non l’avrei mai immaginato».

E i pannolini? Che cosa c’entrano?

«Scherza? Ha mai letto l’etichetta di un pannolino per neonati? C’è da rimanere inorriditi. Io sono rimasta sconvolta. Ci sono sostanze nocive anche lì. E quando si mischiano con l’urina, è un disastro, irritano da morire. “Devo assolutamente trovare un prodotto migliore”, mi sono detta. “Devo riuscire a trovare articoli che mi diano la certezza di un ambiente sano e protetto”. Non c’era una singola marca di cui mi potessi fidare. C’erano sì delle aziende considerate amiche dell’ambiente, ma poi scoprivi che, confezione a parte, il prodotto era nocivo come gli altri».

Quello che fabbricate voi, invece, è perfetto?

«Tutto ecologicamente onesto: The Honest Company. E ne andiamo fieri. Produciamo tutto quello che serve per mantenere una casa pulita e proteggere i nostri bambini dalle sostanze tossiche: pannolini, saponi, shampoo, creme, integratori. Abbiamo appena iniziato a vendere culle fatte con legno eco e pittura atossica che piacciono moltissimo. E  per ogni culla acquistata ne regaliamo una a una famiglia in difficoltà».

Si aspettava questo successo?

«No. Vuole sapere la verità? Sento che non è finita qui. Ci siamo appena trasferiti in questa sede più grande. Ma come vede stiamo già stretti perché abbiamo bisogno di più personale. Se il mondo fuori è inquinato, dobbiamo iniziare da casa nostra a renderlo pulito. Si può fare. Chi prova i nostri prodotti torna a comprarli, ci dà ragione, è con noi, partecipa al nostro progetto».

Suo marito Cash ha incoraggiato questa avventura?

«Mi ha presentato un suo caro amico, Brian Lee, un grande uomo d’affari che mi ha aiutata a mettere in moto il tutto. Lui è l’amministratore delegato e insieme guidiamo la squadra verso un mondo migliore e più pulito».

Chi si occupa della parte tecnica?

«Abbiamo assunto i migliori farmacisti e chimici.  Dobbiamo fare continui test per passare le leggi, rigidissime, della Food and Drug Administration (l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ndr). Ma siamo severi con noi stessi e i nostri prodotti superano anche gli standard europei, che sono molto alti. Abbiamo iniziato a muovere i primi passi sul mercato internazionale: Australia, Inghilterra, Cina, Medio Oriente».

Come la vedono i suoi dipendenti?

«Qui sono molto diversa rispetto a Hollywood. Mi guardi: sono vestita come una donna d’affari. E sono molto esigente. Sono dura con me stessa e lo sono con tutti. Stiamo cambiando il mondo in meglio e bisogna lavorare sodo».


Non fa mai entrare l’attrice in azienda?

«L’estate scorsa, per l’uscita di Sin City. Una donna per cui uccidere, ho affittato un cinema e ho invitato tutti i dipendenti. Alcuni erano imbarazzati perché ho un ruolo supersexy e al lavoro mi conoscono in maniera diversa. Ma è stata una bellissima serata. Momenti così ti aiutano a creare una squadra».

E le sue figlie, le porta mai in azienda?

«Vengono spesso a trovarmi. Ho ideato una sala giochi per i bambini, dove i dipendenti che non possono permettersi una babysitter portano i loro figli. Forse le mie vengono più per la sala giochi che per trovare la mamma».

Quale dei due ruoli, quello di imprenditrice e di attrice, sente più suo?

«Non so rispondere. So solo che sono molto fortunata a fare quello che faccio. Mi piace moltissimo divertire e intrattenere il pubblico e spero di poter continuare per il resto della vita. Ma sono altrettanto contenta di contribuire a creare un mondo più sano. Non ha idea di quante email e lettere ricevo da genitori che mi ringraziano perché, da quando usano i miei pannolini, sono tornati a dormire sei ore per notte perché loro figlio non soffre più di dermatite allergica da pannolino. Sì, in qualche modo sono una benefattrice dell’umanità».

Tra famiglia, set e scrivania, che cosa fa per mantenersi in forma?

«Da bambina ero sempre malata: asma, allergie, polmonite, finivo in ospedale due volte all’anno. Da adolescente ho preso in mano la mia vita. E da allora non ho più smesso. Ho uno stile di vita sano. Mangio cibi freschi, biologici, cucinati in modo semplice e pratico yoga».

Che cosa serve per sentirsi sexy?

«Amor proprio. Amare se stessi. Moltissimo».




Digital Diplomacy, così sui social si decidono gli equilibri del mondo

Il libro di Sandre, Press and Public Affairs Officer dell’ambasciata italiana a Washington diventa manuale indispensabile per la diplomazia ai tempi degli smartphone

Se ancora ci fosse qualche dubbio, l’abilità con cui i terroristi dell’Isis stanno usando la rete e i social media per fare conquiste dovrebbe convincerci che la comunicazione digitale è un terreno dove la diplomazia non può più essere assente. Quello del terrorismo è il caso estremo, ma chiunque voglia avere una voce nel mondo su qualsiasi tema non può rinunciare a questo strumento. Perciò converrebbe a tutti gli addetti ai lavori di leggere “Digital Diplomacy”, il nuovo libro di Andreas Sandre che offre un manuale per la diplomazia ai tempi della comunicazione che ormai ci insegue ovunque sui nostri smartphone.

Sandre è il Press and Public Affairs Officer dell’ambasciata italiana a Washington, e in precedenza aveva lavorato alla Missione all’Onu. Nel 2013 aveva pubblicato “Twitter for Diplomats”, spiegando come 140 caratteri possono bastare ad influenzare il mondo. Ora torna con “Digital Diplomacy: Conversations on Innovation in Foreign Policy” pubblicato da Rowman & Littlefield, che ha presentato al Palazzo di Vetro con il vice rappresentante permanente dell’Italia Inigo Lambertini, il portavoce del segretario generale Stéphane Dujarric, e la responsabile delle Comunicazioni strategiche del Dipartimento per la Pubblica Informazione dell’Onu, Deborah Seward, moderati dal presidente della United Nations Correspondents Association Giampaolo Pioli.

Introducendo l’incontro Giovanni Davoli, portavoce della Missione italiana, ha detto che “un tempo la regola aurea per i diplomatici era non parlare mai con i giornalisti. Oggi la diplomazia raggiunge il pubblico dove il pubblico si trova: sugli smartphone e sui tablet”. Dunque non solo è necessario parlare con i giornalisti, ma anche rivolgersi direttamente alla gente, altrimenti si lascia la comunicazione nelle mani degli avversari, che non hanno alcuna remora ad usare questo vantaggio. Qui dunque serve la “Digital Diplomacy” di Sandre, che ascoltando protagonisti del settore come l’ex guru digitale del dipartimento di Stato Alec Ross, Teddy Goff e tanti altri, spiega come usare questi nuovi strumenti.
Già nella prefazione, l’ambasciatore italiano a Washington, Claudio Bisogniero, avverte: “La tecnologia è ovunque: i cellulari presto supereranno la popolazione globale. Esistono miliardi di oggetti collegati a Internet. La comunità di politica estera si sta adeguando, ma lentamente e senza sistematicità”. Quindi è indispensabile fare di più, anche perché secondo la Seward i quattro milioni di esseri umani che seguono l’Onu su Twitter “non solo ricevono informazioni, ma parlano con noi”. La comunicazione sui social media è uno scambio, dove gli utenti non sono più passivi. Anche per questo, secondo Dujarric, finora il segretario generale Ban Ki moon non ha aperto un account: “Non sarebbe autentico. Lui viaggia in continuazione, è troppo impegnato per gestirlo di persona. E siccome noi riteniamo che l’autenticità sia fondamentale in questo settore, preferiamo esserci con altre persone che hanno la possibilità di comunicare direttamente”.
I social media sono diventati una opportunità per raggiungere milioni di persone, e per essere più trasparenti, comprensibili. Qualche tempo fa all’ambasciata americana all’Onu ci fu una discussione, sull’opportunità di passare notizie e comunicati alle agenzie di notizie tradizionali, oppure metterli direttamente in circolazione attraverso Twitter e simili. Inutile dire che la seconda ipotesi fu quella che prevalse. Ormai però l’obiettivo non è più solo quello di passare qualche documento o qualche dichiarazione, ma di influenzare il dibattito. L’abilità con cui l’Isis riesce a trasmettere i propri messaggi e reclutare per via digitale impone agli altri di rispondere, perché la battaglia contro il terrorismo si vince anche presentando una visione diversa che screditi quella degli estremisti e convinca il pubblico.
Sandre sottolinea che “c’è una differenza fondamentale. Loro hanno completa libertà di azione, mentre noi dobbiamo operare in una cornice di legalità che limita quali dati possiamo raccogliere e come li utilizziamo”. Proprio per questo, però, è necessario fare un lavoro ancora più sofisticato, “andando a cercare le voci positive che esistono là fuori, e aiutandole a diffondersi”. La diplomazia digitale dunque non è più solo parlare sulla rete, distribuire documenti o presentare i propri punti di vista, ma frequentare i social media, partecipare ai dibattiti e influenzarli. In fondo è quello che la diplomazia ha sempre fatto, con altri mezzi, e ora deve adeguarsi alla nuova realtà.