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Il Riposizionamento di The Coca-Cola Company

Le bevande dolci e gassate fanno male. Se anche in Italia se ne parla da tempo, dall’altra parte dell’oceano è ormai l’ossessione di una nazione piena di contraddizioni nella quale si possono tranquillamente comprare armi ad ogni angolo ma le calorie di una bevanda sono il demonio, mentre invece il puritanesimo protestantista che mette al bando chi mente – come era accaduto a Bill Clinton per la nota vicenda della stagista – pare, ahimè, ormai sdoganato dalla “post verità” di Trump e compagni.
Infatti, sono ormai moltissimi i comuni che negli Stati Uniti tassano pesantemente i soft drink zuccherini, con quella che è stata soprannominata la “soda tax”, e il neo-proibizionismo pare funzionare nella riduzione dei consumi di questa tipologia di bevande. Problema da affrontare anche in Europa dove il settore dei soft drink si è impegnato a ridurre del 10% il contenuto zuccherino delle proprie bevande proprio per provare a scacciare lo spettro di una maggiore tassazione.
Ecco che allora The Coca-Cola Company prova a riposizionare la sua immagine al grido, appunto, di #CocaColaRenew, proponendosi come una «organic tea company», ma anche una «premium juice company», piuttosto che una «coconut water company», attribuendosi pubblicamente, in uno spot di metà Settembre durante il “Sunday Night Football” [programma nel quale uno spot da 30″ costa tra 100mila e 300mila dollari], una serie di prodotti che la maggior parte delle persone, che spesso li acquista per placare il proprio senso di colpa per uno stile di vita, ed alimentare, “disordinato”, consuma senza neppure sapere che siano prodotti dall’azienda che produce la bibita gassata più famosa del mondo.
È da intendersi in tal senso evidentemente, anche, il lancio relativamente recente di Coca-Cola Life, line extention della bibita zuccherata con elementi naturali.

Un trend che ovviamente coinvolge anche altri multinazionali, come ad esempio Nestlé che di recente ha acquisito Blue Bottle Coffee e si inserisce, come noto, in una tendenza in atto da tempo dove il salutismo ed il “welleness” coinvolgono fasce sempre più ampie della popolazione anche nel nostro Paese.
Insomma, The Coca-Cola Company prova a riposizionarsi come impresa “buona”, anche, per la salute, per ora, degli americani, e sicuramente in un prossimo futuro non troppo lontano anche di altri, italiani compresi naturalmente, anche se nel nostro Paese la comunicazione pubblicitaria di questa estate è stata invece tradizionale rispetto al nuovo spot negli USA.
Un riposizionamento partito dall’unificazione del packaging sempre rosso e non più di colori diversi per le varianti della bibita e, soprattutto, dal passaggio da “open happiness”, con il quale Coca-Cola  veicolava messaggi utopici ed aspirazionali, a “taste the feeling”, che invece pone al centro il prodotto.
L’idea di riposizionarsi, unificando e riordinando tutta la comunicazione del brand è senza dubbio interessante. Quando i brand utilizzano codici coerenti in tutti i suoi punti di contatto riescono ad essere compresi e riconosciuti con maggior facilità. Resta da vedere se, e in quanto tempo, il tentativo possa portare ai risultati attesi dopo decenni di identificazione, quasi di simbiosi, tra l’impresa ed il suo brand più noto.
Nell’epoca del passaggio dalla brand image alla brand reputation, e dalla brand identity alla brand personality il riposizionamento passa, anche, da azioni di questo genere che solo il tempo potrà dire se avranno il successo atteso.
Una cosa è certa, a parlare sono i numeri: tra il 2012 e il 2015 all’interno del portafoglio di Coca-Cola Inc., che conta oltre 100 referenze drink, a crescere [in milioni di litri] sono stati i consumi di bottigliette d’acqua e bibite gassate non riconducibili alla cola.

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La Recyclerie: a Parigi un esempio virtuoso di economia circolare ed equità sociale

Da qualche anno abbiamo cominciato a sentir parlare di economia circolare, in opposizione a quella lineare tradizionale, il cui ciclo di produzione si basa sull’estrazione (delle materie prime), la produzione (di oggetti), il consumo e la trasformazione del bene usato in rifiuto. Alla base dell’economia circolare, invece, ci sono le idee di riusoriciclo e riduzione (dei rifiuti), che sono le stesse alla base della filosofia de La Recyclerie, un piccolo mondo anticonformista a Parigi.

La Recyclerie biblioteca
LA BIBLIOTECA (PH: LIKE A LOCAL)

La Recyclerie, che cos’è?

La Recyclerie è stata costruita dove prima sorgeva la stazione ferroviaria Ornano, nell’allora Petite Ceinture, dismessa e chiusa ai viaggiatori nel 1934.
Il 14 giugno 2014 ha riaperto al pubblico col nome di La Recyclerie, lasciando intatta l’atmosfera industriale e un po’ retrò, ma cambiando decisamente scenario: entrando, infatti, troverete un bar, un ristorante, un centro culturale, una biblioteca, un’officina; e, nello spazio esterno, una fattoria – dove abitano ben sedici galline e due anatre – e un orto, oltre a uno splendido giardino dove sedersi a leggere, bere un caffè o chiacchierare.
Secondo quanto dicono del posto i fondatori, La Recyclerie è «un centro di svago incentrato sulle nuove pratiche della vita quotidiana, immerso in un universo che utilizza la low-tech – cioè quella tecnologia che per la costruzione dei dispositivi utilizza materiali naturali, attraverso processi sostenibili, che rispettano gli equilibri naturali preesistenti [NdR] -, la trasmissione e la riappropriazione di tradizioni utili».

La Recyclerie orto
L’ORTO (PH: RFI)

La filosofia delle tre R

La Recyclerie si basa sulla filosofia delle tre R – riuso, riciclo, riduco –: la collaborazione e il “fai da te” sono i valori che guidano il centro nella progettazione e programmazione dei suoi eventi e nell’offerta di ristorazione.
Sì, perché ogni settimana alla Recycleriesi svolgono numerosissimi eventi: laboratori sulla riparazione di piccoli elettrodomesticiconferenze sui temi della sostenibilità ambientalecorsi dicosmesi naturale, laboratori su come costruire le ghirlande, su come riciclare oggetti che a primo impatto sembrano inutili e da buttare, sul giardinaggiomostre artistiche, ecc.
Nella biblioteca del centro si trovano romanzi, saggi, guide pratiche, i cui temi sono di grande attualità: lo sviluppo sostenibile, il clima, l’acqua, le energie rinnovabili, la prevenzione e la gestione dei rifiuti, la biodiversità, l’agro-ecologia, l’eco-comunicazione, il cambiamento sociale, ecc.
La maggior parte dei libri che si trova nella biblioteca è stata fornita dalla fondazione Veolia, riferimento mondiale per la gestione delle risorse ottimizzate, nonché principale partner de La Recyclerie.

Il bar e il ristorante

In linea con la filosofia di base, il cibo offerto al ristorante e alla caffetteria del centro è frutto di una cucina responsabile: i prodotti sono freschi – le uova arrivano direttamente dalle galline allevate nella mini-fattoria del luogo -, e di qualità.
Il menù offre almeno tre piattivegetariani al giorno, e almeno unovegano.
I piatti sono sempre preparati in loco e accessibili a tutti anche riguardo al prezzo, che varia tra gli 8 e i 15 euro.
rifiuti organici, cioè i resti dei cibi nei piatti o gli scarti della cucina, diventano cibo per gli animali della fattoria o, compostati, concime per l’orto e il giardino.

La Recyclerie atelier
UNO DEI LABORATORI DI RICICLO E RIUSO A LA RECYCLERIE (PH: ECOMIECIRCULAIR.ORG)

L’Associazione degli Amici Riciclatori

L’Associazione degli Amici Riciclatori si occupa dell’animazione, della programmazione dei laboratori e dell’azienda agricola.
L’obiettivo dell’associazione è promuovere l’uso sulla proprietà agevolando il consumo collaborativo, rafforzando le interazioni e lo scambio locale tra i cittadini e sensibilizzando ai valori del riciclaggio, della riparazione e del “fai da te”.
La gestione del centro funziona grazie ai ricavi delle iscrizioni e ad alcune attività pagate (per i non membri), ma anche attraverso partenariati finanziari a lungo termine che accompagnano i numerosi investimenti necessari per lo sviluppo economico de La Recyclerie nel suo complesso.
L’associazione, a oggi, conta quasi 500 membri.

Anatre
LE ANATRE DE LA RECYCLERIE (PH: MY MORNING TRAVEL GUIDE)

La fattoria e il giardino

Infine, la fattoria e il giardino de La Recyclerie consentono la creazione di un ambiente adatto alla biodiversità di circa 1000 mq, dove vivono svariate specie di uccelli.
Oltre a ospitare sedici galline, due anatre e un orto, la fattoria possiede due sistemi di compostaggio, quattro alveari, un sistema acquaponico e soprattutto un giardino collettivo di 400 mq con 150 mq nel terreno e 130 mq di serra acquaponica.
Il sistema acquaponico è una tipologia di agricoltura mista ad allevamentosostenibile: in un sistema acquaponico l’acqua delle vasche per acquacoltura, cioè per l’allevamento dei pesci commestibili, viene pompata in quelle idroponiche, cosicché le piante che vi si trovano possano filtrarla sottraendo diverse sostanze di scarto dei pesci e traendone quindi nutrimento.
L’acqua così filtrata potrà quindi essere reimmessa nelle vasche per acquacoltura e riprendere il suo ciclo.
La Recyclerie si trova nella Parigi popolare, quasi a voler suggellare il suo legame con la giustizia sociale, ambito per cui il centro sta lavorando molto, cercando di avvicinare quante più persone possibili a un’innovativa idea di economia, quella circolare, l’unica che può trasformare l’ingiustizia sociale attuale in equità.




Realtà aumentata: quello che ogni marketer dovrebbe sapere

Realtà aumentata: uno strumento potente che potrebbe introdurre nuove tecniche per fare marketing

La realtà aumentata è uno strumento molto potente per fare marketing, non a caso fa parte dei Tech Trend inseriti nel Report Deloitte 2017. Uno tra i più eclatanti esempi di utilizzo dell’augmented reality è stato nell’estate 2016, quando l’app Pokémon Go ha ottenuto più di 500 milioni di download e pari persone viaggiavano con la testa curva sul display del proprio smartphone impegnate nella ricerca di Pikachu ed i suoi amici. Quello di Pokémon Go è stato il primo utilizzo di un’applicazione sviluppata in realtà aumentata che ha fatto impazzire le masse e ha dimostrato efficacemente il valore della tecnologia applicata a nuove piattaforme per la ricerca di nuovi clienti. Pokémon Go è scomparso quasi subito dalle luci della ribalta e il Gonna Catch ‘Em All è solo un lontano ricordo dell’estate 2016, insieme ai tanti tormentoni che l’hanno caratterizzata.
Le sfide della realtà aumentata, comunque, non si sono fermate con l’involuzione della tendeza Pokémon, anzi, l’ultimo anno è stato un fiorire di nuove funzionalità basate proprio su questa tecnologia.

I giganti del tech: nuovi possibili scenari

Visto l’enorme successo dell’app Pokémon Go, diversi marketer hanno iniziato a parlare della realtà aumentata come potente strumento di marketing. Chiudi gli occhi e prova ad immaginare cartelloni pubblicitari ed annunci che esistono solo nel mondo virtuale, creati per offrire sconti e promozioni esclusive solo per gli utenti AR. Un concetto totalmente nuovo, ma alcuni grandi nomi della tecnologia ne stanno sperimentando le funzionalità così da sfruttarne il grande potenziale.
Uno su tutti Apple, che sta puntando parecchio su questa nuova tecnologia con la speranza di costruire il prossimo sistema operativo iOS 11 sulla prima piattaforma di realtà aumentata del mondo. Non a caso, il gigante tecnologico ha recentemente annunciato la ricerca di decine di professionisti con competenze molto specifiche per supportare lo sviluppo di progetti software AR.
Nel contempo, anche il colosso Facebook ha dimostrato il suo crescente interesse per questa tecnologia, rilasciando una beta chiusa per la piattaforma mobile basata sui principi dell’AR. Proprio in occasione del Facebook F8, infatti, molti si aspettavano che venissero presentati progetti di realtà virtuale, rimanendo completamente spiazzati all’annuncio di Zuckerberg:

La realtà aumentata cambierà il modo di utilizzare i nostri cellulari e tutta la nostra tecnologia.

 

Ma come si potrebbe utilizzare una tecnologia così all’avanguardia in un’ottica di marketing aziendale?

In un Paese digitalizzato come l’Italia, dove ancora ci sono diverse remore nei confronti del web marketing (complici i numerosi fuffaroli), non è semplice portare avanti nuovi sviluppi basati sull’AR ma certo non è impossibile. All’estero, al contrario, esistono già numerosi esempi di realtà aumentata applicata al marketing, uno su tutti l’esperimento Blippar.
L’azienda, specializzata in servizi AR, ha lavorato con diversi brand per creare annunci banner basati su questa nuova tecnologia, senza la richiesta di una particolare app per visualizzarli. Quando gli utenti mobile fanno click sull’annuncio abiliteranno la funzionalità AR, riuscendo così ad interagire con il proprio ambiente fisico e virtuale in modo completamente nuovo ed innovativo.
Puntando la fotocamera su particolari oggetti, infatti, gli utenti possono ricevere suggerimenti su prodotti simili o complementari. Immagina ora di essere al ristorante: puntando la fotocamera verso il piatto, l’AR potrebbe fornirvi consigli di abbinamento dei vini, degli stessi piatti fra loro, dei dolci e così via.
La realtà aumentata potrebbe essere una grande risorsa anche in ottica di local marketing, perché ha la possibilità di fornire numerose informazioni utili. Puntando la fotocamera in direzione di un particolare oggetto, ad esempio un lampadario, il cellulare può dirvi dove acquistarlo in zona, risparmiandovi tempo prezioso nella ricerca online.

Un ponte tra l’online e l’esperienza in-store

Grazie alla presenza di Internet e dispositivi sempre connessi, i consumatori si aspettano di avere un enorme flusso di informazioni, su qualsiasi prodotto, sempre a portata di mano.
In un mondo così evoluto, la vecchia comparazione dei prezzi fatta tra gli scaffali dei negozi sarà solo un vecchio ricordo. Il brand inglese Jura Watches, ha sviluppato applicazioni in AR che consentono agli acquirenti di conoscere ulteriori dettagli ed informazioni sui prodotti mentre camminano nel negozio confrontando le diverse marche. Il concetto è lo stesso dei più vecchi beacon, ma con funzionalità completamente differenti: infatti, nel caso specifico Jura Watches, i clienti possono “provare” i diversi orologi e vedere quale stile si adatta meglio, senza avvicinarsi alla vetrina.
Insomma, la realtà aumentata può migliorare l’esperienza di acquisto digitale, mettendo i prodotti nelle case dei consumatori ancor prima di effettuare un acquisto.
A tal proposito cade a pennello il caso Ikea, che ha sperimentato una funzionalità AR che consente agli acquirenti di vedere come uno o più pezzi di arredamento, potrebbero stare all’interno di una determinata abitazione. La linea tra esperienze di acquisto digitali e fisiche si assottiglierà sempre di più, creando possibilità sempre nuove di engagement fra i clienti.

Questa tecnologia renderà più facile prendere decisioni di acquisto in casa propria, ispirarsi e provare diversi prodotti, stili e colori in ambienti reali con il semplice scorrere di un dito. Penso che la realtà aumentata e la realtà virtuale saranno un modo per portare la vendita al dettaglio al pari di quella online. Solo così sarà molto più veloce accedere a miliardi di nuovi potenziali clienti.

Queste le parole in un comunicato stampa di Michael Valdsgaard, leader della trasformazione di Ikea.
Poiché le aziende continuano ad investire in questa nuova tecnologia, le nuove applicazioni di marketing si adatteranno in modi sempre nuovi. Ora che importanti aziende stanno investendo in realtà aumentata, non passerà molto tempo prima che diventi un vero e proprio strumento di marketing riconosciuto.
Il futuro dell’AR è pieno di incredibili potenzialità e, in Italia, ci stiamo avvicinando piano piano a questo nuovo mondo. Ad esempio, numerose testate editoriali (es. Focus, Donna Moderna ed altri) stanno utilizzando la realtà aumentata per fornire contenuti sempre più approfonditi e nuovi rispetto a quelli presenti sulla carta stampata. Un nuovo modo di fare content marketing? Lo scopriremo soltanto osservano gli sviluppi di questa nuova tecnologia.




NASCE THE VISION, LA NUOVA TESTATA ONLINE CHE PARLA AI MILLENNIAL

NASCE THE VISION, LA NUOVA TESTATA ONLINE CHE PARLA AI MILLENNIAL

Nasce The Vision, nuova testata online dedicata ai Millennial italiani. Fondatore della nuova realtà editoriale è Andrea Rasoligià Co-Founder e Publisher di Vice Italia per oltre 10 anni, affiancato nel progetto da Fulvio Zendrini, già Direttore della Comunicazione di Telecom Italia, Piaggio e Ferragamo, e da Giovanni De Marchi, già Direttore della Comunicazione di Slam Jam. Alla guida dei contenuti editoriali Matteo Lenardon, ideatore di blog di successo e di format televisivi destinati al pubblico giovane. Articoli e video caratterizzati da un linguaggio dalla forte identità, volto a una fruizione digital e a una larga diffusione sui social network: questi i contenuti che ogni giorno andranno a popolare The Vision.

La testata avrà un forte accento su tematiche di politica e attualità, un focus sulla cultura e l’intrattenimento televisivo e cinematografico, una sezione di analisi su tematiche scientifiche e d’innovazione tecnologica e una rinnovata attenzione al mondo del design e dell’architettura. “Crediamo ci sia davanti a noi una grande occasione per costruire un nuovo punto di riferimento per il pubblico dei Millennial”, commenta Andrea Rasoli. “Un punto di riferimento che parli la nostra lingua e riesca a farsi portatore di un patrimonio culturale legato alla seconda metà del ‘900 che si sta progressivamente disperdendo e che può aiutare il nostro pubblico ad accrescere il proprio spirito critico, acquisendo una maggiore consapevolezza in un contesto mediatico sempre più sfuggente e superficiale. Il nostro vantaggio è rappresentato dalla capacità di saper leggere e interpretare questa trasformazione e farla contemporaneamente dialogare con i nostri partner e il mondo delle aziende”.

«La visione viene dall’esperienza – aggiunge Fulvio Zendrini -. È solo di chi ha sperimentato la capacità di indirizzare lo sguardo altrui su fenomeni più o meno interessanti in prima analisi, ma fondamentali per formarsi un’opinione. The Vision vuol fare questo: aiutare un popolo di “newcomers” a navigare nel mondo adulto con una loro opinione. E lo fa nella e con la loro lingua di tutti i giorni». Il sito è online da oggi, lunedì 18 settembre. La raccolta pubblicitaria viene gestita sia internamente sia mediante partner esterni.




BANCARIUS KARMA: IL VIZIO SUPREMO DELLA SUPERFICIALITÁ

Di Luca Poma
Wilde ne faceva – provocatoriamente, e solo apparentemente – quasi uno stile di vita; Warhol la attribuiva fieramente a sé stesso, senza timori; Calvino ci teneva a distinguerla dalla leggerezza, che era tutt’altra cosa; Longanesi, che giudicava tutto dall’abito, ne rivendicava il coraggio intrinseco; Solgenitsin la definiva “la malattia psichica del XX secolo”.
Qualunque cosa pensiate voi, ora, della superficialità, pare essere questa la “cifra” che ha dato colore a questo caso; che affronto solo ora, a distanza di due settimane, a giochi fatti e bocce ferme, per un’analisi che vuole essere volutamente distante dalla frenetica e fatua eccitazione del dibattito “social”.
Per chi come me ha la memoria del pesce rosso, ecco un riassunto dell’accaduto: Intesa Sanpaolo – si scoprirà solo con giorni di ritardo – chiede ai dipendenti di girare dei video, una specie di contest con finalità di team-building. La provocazione è la seguente: spezzate, come credete, la monotonia del lavoro quotidiano, e raccontate qualcosa di voi, anche se non siete dei professionisti della telecamera, e i video più folli verranno proiettati durante le prossime convention aziendali. Una cosa da ridere, insomma; ma ridere tra noi (tra loro), in casa, non certamente in rete, con milioni di occhi puntati addosso. Già, come se Intesa fosse padrona della rete, e potesse decidere cosa va online e cosa no; ma di questo parleremo più avanti.
Katia Ghirardi, la direttrice della filiale Intesa di Castiglione delle Stiviere, provincia di Mantova, realizza un video amatoriale che sfocia – forse volutamente, ironicamente, provocatoriamente – nel grottesco. Non ha esperienza con la telecamera, appunto, e ha quell’aria un po’ goffa e decisamente troppo sopra le righe che la rende davvero comica. Qualche collega sadico fa girare il video, e di Whatsapp in Whatsapp la “performance” tracima e finisce su internet: prima Facebook, poi Youtube, infine i mass-media mainstream; tanti, mass-media.
In un paio di giorni, la povera Katia – che nel frattempo oscura il proprio personale profilo Facebook perché inondata da critiche e anche da insulti – diventa il caso della settimana: tutti, ma proprio tutti, osservano, valutano, giudicano, inclusi colleghi ed esperti, veri o presunti, al grido di “Ecco cosa accade se non hai un bravo Social Media Manager”. A peggiorare il tutto, la registrazione di una telefonata, che diventa subito anch’essa virale, di un correntista che chiama la Filiale per complimentarsi per il video, e riceve un riscontro dalla telefonista di Banca Intesa tra l’impacciato e il fortemente imbarazzato, del tipo “non mi pare ci sia proprio nulla di che complimentarsi”, a conferma – semmai fosse stato necessario – che non tutti all’interno della banca hanno approvato l’iniziativa della Ghirardi.
Poi la svolta, diametralmente opposta, quando emerge la sopracitata verità, ovvero che non si trattava – come un occhio attento avrebbe compreso fin dall’inizio – di singolo un video amatoriale, messo in rete da qualche buontempone collega bancario, bensì di un contest ironico a fini di comunicazione interna. Prova ne sia, che spuntano on-line altri due video del medesimo tipo: il primo, girato nella filiale di Lissone di Intesa San Paolo, immagina la preparazione dei lavoratori alle Olimpiadi tra bizzarre discipline come il “sollevamento di penne biro” e il “canottaggio sulla sedia dell’ufficio”, con “Momenti di gloria” come base musicale; il secondo , invece, è una divertente parodia della canzone “Occidentali’s karma” di Francesco Gabbani, vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo, in chiave “bancaria”, con ritornelli peraltro davvero spassosi.
A quel punto, Katia si trasforma rapidamente da zimbello a vittima: scatta il compatimento, e le prese di posizione di chi senza esitazione pubblica sulla propria bacheca di Facebook il cartello “Io sono Katia Gherardi”, puntando il dito su chi con inclemente cattiveria sghignazza senza sosta, seguite da esternazioni di opinionisti più o meno noti, a sostegno della povera e bistrattata dipendente di banca.
Devo confessare che per un istante – solo per un istante, assordato dalla confusione generale del dibattito – sono stato anche sfiorato da uno strano retrogusto in bocca, come un lontano rumore di fondo: e se tutto questo scenario fosse riconducibile a una raffinata e sofisticata operazione di digital marketing? Se non esistesse nessuna Katia Gherardi, o se fosse tutt’altro che un’inavveduta dipendente? Se anche la telefonata in Filiale fosse genialmente falsa? Troppo bello per essere vero, e infatti – stante l’assenza a posteriori di esplosione e spiegazione del “caso” da parte della Banca – pare sia stato tutto tristemente concreto e realistico, esattamente per come ve l’ho raccontato. Anche per questo ho voluto attendere per scriverne: volevo capire, vedere davvero la fine del tunnel, prima di trarre conclusioni.
Conclusioni, appunto, perché arriva – prima o poi – sempre il momento di tirare le fila. E ognuno l’ha fatto a modo proprio.
C’è chi ha scritto che la banca avrebbe dovuto dotarsi di una policy del tipo “Cari dipendenti, questi video sono per uso esclusivo interno, qualsiasi diffusione all’esterno verrà punita, ovvero vi facciamo un mazzo tanto se i video finiscono sui social”. Ben sappiamo invece quanto debole – inutile, anzi forse controproducente – possa essere una policy basata sulla paura, in relazione alla porosità dei Social e alla possibilità che qualunque dipendente possa comunque aggirarla con un click, pubblicando anonimamente qualunque video.
C’è chi ha protestato, come i Sindacati, scrivendo che “le immagini dei video richiamano alla memoria la saga di Fantozzi”, pronto a qualunque cosa per compiacere il “mega direttore galattico”.
C’è chi come l’azienda di onoranze funebri Taffo ha manifestato solidarietà, evidenziando come non sia esattamente una passeggiata realizzare un videoclip per chi di regia e riprese non è affatto esperto; chi  non ha perso occasione per cavalcare l’onda e dire la propria, come Ceres  – geniali come sempre – che se n’é uscita con un preciso e ficcante “A cantare al bar son bravi tutti, provate voi a farlo in banca”; e chi, come Unieuro, ha solidarizzato con Katia al grido di “Io ci sto”, ma soprattutto ha ironizzato su Fabio, il collega della Ghirardi che per non dover essere coinvolto nel video si è combinazione dato per malato proprio quel giorno, con tanto di certificato medico.

 
 
C’è infine chi ha suggerito che la banca avrebbe dovuto presiedere personalmente l’iniziativa, al fine di garantire risultati diversi, e decisamente migliori, con meno torte, meno canzoncine e un filo di professionalità in più, che è quello che ci si aspetta da un ambiente tendenzialmente asettico come quello di una banca”. Ma allora che contest sarebbe stato?
C’è anche chi – tra i competitor diretti di Intesa San Paolo – ha riflettuto con attenzione e ponderatezza sull’accaduto. Sono incidentalmente venuto a conoscenza che un manager di una banca concorrente, assai attenta alla reputazione, ha indirizzato a tutto il proprio top management una email di intelligente e dettagliata analisi sul caso, concludendo con questa frase: “Ritengo che l’esperienza che sta vivendo uno dei nostri principali competitor possa esserci d’aiuto per approfondire la riflessione su alcuni aspetti della nostra strategia di comunicazione. Con una domanda di fondo: e se domani capitasse a noi…?”
E la banca coinvolta, Intesa San Paolo, nel frattempo, cos’ha fatto…? Pare che inizialmente si sia limitata a confermare all’Huffington Post che il grottesco video in questione “era destinato a un contest interno, e non si spiega come e soprattutto chi sia stato a farlo circolare su internet”. Bontà loro, che neppure sanno chi comunica e verso chi, all’interno della loro stessa banca.
Che fosse un contest è peraltro chiaro, risulta senza equivoci dal “bando” lanciato dalla comunicazione interna di Intesa San Paolo.

 
Solo 3 giorni dopo lo scoppio del caso, il CCO di Intesa interviene in una trasmissione radiofonica su RAI Radio 1, ma al netto dell’incomprensibile ritardo – 3 giorni! – le giustificazioni paiono comunque “deboli”: “qualcuno ha trovato i video e li ha pubblicati su Facebook, non siamo stati noi” (sic!), nonché “La vita è fatta di eventi incontrollabili, gli esseri umani sono imprecisi e fallibili per definizione”, quasi a voler “scaricare”, con un’alzata di spalle lievemente altezzosa, la responsabilità dell’epic fail totalmente sugli impiegati della banca stessa.
É vero: come ha osservato qualche commentatore, quando vuoi che qualcosa diventi virale, puntualmente ciò non accade, anche se in linea di principio lo meriterebbe; mentre ciò che mai e poi mai vorresti diventasse virale, magari sfugge di mano e lo diventa. Parafrasando Richard Brooks, “É internet, bellezza, e tu non ci puoi fare niente! Niente!”
Ma è davvero cosi…?
Stupisce in effetti che un colosso come San Paolo Intesa possa – nel 2017 – ignorare o sottostimare i fondamentali del crisis management, a conferma di ciò che sostengo da sempre: la dimensione, non è di per se garanzia di adeguata cultura d’azienda.
Come ha scritto uno straordinario accademico, Elio Borgonovi, nel manuale de Il Sole 24 Ore sulla comunicazione in situazioni di crisi, “Una corretta gestione delle situazioni di crisi reputazionali diventa uno strumento fondamentale per evitare che l’impegno, la professionalità e la dedizione che manager e altri collaboratori hanno profuso per anni possano essere vanificati o messi in discussione a causa di una crisi mal gestita”.
É impossibile riassumere centinaia e centinaia di pagine sulle buone prassi in comunicazione in un articolo divulgativo come questo, ma volendo almeno tentare di evidenziare alcuni errori da parte del colosso bancario, segnalerei, non necessariamente in ordine di importanza, questo “decalogo”:

  1. scarsa o nulla simulazione preventiva di scenario;
  2. brief ai dipendenti del tutto inadeguato;
  3. operazione “al risparmio”, senza alcun presidio tecnico sul territorio in occasione della realizzazione dei video e/o senza alcuna indicazione atta a garantire un livello minimo di qualità dei contributi video;
  4. nessun disclaimer pubblicato on-line per il grande pubblico, al fine di “prevenire” la marea montante delle critiche, illustrando nel dettaglio l’operazione prima ancora che essa partisse;
  5. nessun monitoraggio efficace del web, quando sono scoppiate le polemiche, oppure monitoraggio efficace ma evidente incapacità di cogliere i segnali deboli (sempre meno deboli, invero) di crisi;
  6. atteggiamento ottuso e comunque incurante delle regole base del reputation management, del tipo “…tanto passerà presto”, mixato con atteggiamento vagamente supponente del tipo “…perché vi agitate tanto”;
  7. nessuna presa di posizione ufficiale della banca in tempi accettabili (probabilmente, a causa della carenza di cui al punto 1)
  8. nessun tentativo di “governare” efficacemente la comunicazione (probabilmente, a causa della carenza di cui al punto 6), sia off-line che on-line, nonostante la rassegna stampa negativa assai copiosa;
  9. atteggiamento di supporto emotivo ai dipendenti coinvolti nel epic fail decisamente troppo debole;
  10. a tre settimane dall’accaduto, e questo è forse ciò che più stupisce, nessuna azione di recovery.

É vero, come qualcuno ha osservato, in occasione di episodi come questo immancabilmente “entro poco tempo ci sarà altro a cui pensare, su internet, e altro contro cui indignarsi”. Sacrosanto. Ma altro che pesci rossi: gli algoritmi del web hanno una memoria da elefante, lapidaria, e questa vicenda – oltre che essere già diventata con rapidità degna di miglior causa un caso di studio in diversi Master e corsi Universitari – resterà lì, per sempre, online, a testimoniare l’inadeguatezza di una grande banca, Intesa San Paolo, a gestire un problema di immagine e di reputazione non solo proprio, ma anche di propri fedeli e dedicati collaboratori.
Eccola, la banca, la protagonista: capace di prevedere l’andamento degli investimenti, e più in generale gli scenari futuri, fatta di persone, che ha a cuore il territorio, attenta al benessere dei propri dipendenti come dei propri correntisti, e soprattutto rassicurante, fatta di rituali dove nulla accade a caso.
O forse no?