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La Virgin rivoluziona il lavoro: “Ferie illimitate ai dipendenti”

Il fondatore Branson: l’impiegato può decidere di stare dove preferisce se riesce a portare a termine i compiti assegnati

Tempo d’estate, tempo di vacanze. Stavolta illimitate, senza un datore di lavoro che tiene più il conto dei giorni passati in ferie.

Come accade alla Virgin, ad esempio, per la prima estate da quando il suo fondatore Richard Branson ha annunciato la nuova policy.

I dipendenti della multinazionale britannica sono liberi di prendere tutte le vacanze che vogliono, in qualsiasi momento dell’anno, a condizione che questo non comprometta i progetti a cui stanno lavorando.
Branson aveva deciso questa nuova linea nel settembre scorso, rendendola nota con la pubblicazione del suo libro «The Virgin Way». Aveva candidamente ammesso che l’idea non era sua, ma di sua figlia e di Netflix, dove era già applicata. «Non abbiamo più un orario di lavoro dalle 9 alle 5, e quindi non ci serve neppure una policy per le vacanze». Poi sul suo blog aveva spiegato perché: «Il lavoro flessibile ha rivoluzionato come, dove e quando svolgiamo le nostre mansioni. Perciò, se lavorare dalle 9 alle 5 non esiste più, perché dovremmo avere linee rigide annuali per le vacanze?». Di conseguenza, «starà al dipendente decidere se e quando ritiene di prendersi qualche ora, un giorno, una settimana o un mese libero». Supponendo, però, che «lo farà solo quando sarà sicuro al cento per cento che la sua assenza non danneggerà in alcun modo il business, o la propria carriera».

La sperimentazione

La nuova policy era stata varata inizialmente per gli uffici di New York, Londra, Ginevra e Sydney, e riguardava circa 160 dipendenti per vedere come funzionata. Quindi ora che è arrivata l’estate è in corso la vera prova della sua sostenibilità, su cui si gioca la possibilità di estenderla all’intera compagnia. Se l’esperimento andrà bene, le ferie smetteranno di far parte del contratto di lavoro, e quindi anche di pesare sui bilanci delle aziende quando non vengono godute. Un vantaggio per i dipendenti, ma anche per le compagnie.

Maggiore responsabilità

L’idea di Branson, e di chi ha già adottato altrove questa linea, è che i suoi impiegati «non abuseranno dell’opportunità offerta». Saranno liberi di gestire il loro tempo come preferiscono, e quindi diventeranno più felici, creativi, riconoscenti e motivati. Nello stesso tempo saranno più responsabili e leali, perché dovranno sempre tenere conto dello stato dei progetti su cui stanno lavorando, prima di andare in vacanza.
Questa è la ragione principale che ha spinto alcuni a criticare la scelta di Branson. E’ vero, infatti, che da una parte consente ai dipendenti ferie illimitate; dall’altra, però, crea un senso di responsabilità, e magari di colpa, che potrebbe spingere molti di loro a lavorare tutto l’anno senza mai fermarsi.

Le alternative

L’innovazione, però, sta facendo breccia anche in questo campo. Il miliardario messicano Carlos Slim ha proposto la settimana lavorativa di tre giorni, in cambio di giornate lunghe 11 ore e l’impegno a non andare in pensione prima dei 70 anni. Il cofondatore di Google Larry Page ha detto che viviamo nell’era dell’abbondanza, e i robot dovrebbero sollevarci da molte incombenze: «L’idea di dover lavorare così tanto per soddisfare i nostri bisogni è semplicemente falsa».




Elsa Stove: la stufa ecologica a zero fumo, da Udine all’Africa

Gli scienziati dell’Università di Udine che l’hanno brevettata l’hanno chiamata Elsa, come la leonessa protagonista del bestseller “Nata libera”. Perché si augurano che la loro stufa a pirolisi, in grado di produrre calore e carbone vegetale a basso impatto ambientale, si diffonda in Africa di villaggio in villaggio senza troppi ostacoli, ma anche perché per i piccoli artigiani e imprenditori africani Elsa Stove è libera da copyright. Oggi questa stufa ecologica che brucia scarti agricoli senza produrre fumo è già presente in Ghana, Togo, Etiopia, Zimbabwe, e sta prendendo piede in Tanzania, Nigeria, Camerun.
La storia inizia nel 2007, quando nell’ateneo friulano si iniziano a studiare gli effetti positivi del carbone vegetale sui suoli: “E’ un fertilizzante molto utile, soprattutto nel caso di terreni molto acidi come sono quelli africani, difficili da coltivare”, spiega Alessandro Peressotti, docente del dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali, che oggi presenterà la storia di Elsa anche a Lignano Sabbiadoro, per la rassegna “€conomia sotto l’ombrellone”. “A quel punto – continua Peressoti – ci siamo chiesti come potevamo produrre il carbone vegetale in modo sostenibile, senza ricorrere alle carbonaie ancora oggi diffuse in Africa, che però inquinano e liberano una grande quantità di calore”. Si pensa così a sfruttare il processo della pirolisi, grazie al quale si scindono i legami chimici attraverso il calore, ma senza la produzione di composti gassosi, perché tutto avviene in assenza di ossigeno. “Abbiamo scoperto che era possibile fare pirolisi in piccoli bruciatori realizzabili in modo semplice e con materiali anche di recupero e di diversa qualità”. Nel 2010, Peressotti, insieme a un suo studente neolaureato, Davide Caregnato, e al fisico e imprenditore agricolo Carlo Ferrato, brevetta Elsa Stove. I soldi arrivano in buona parte dalla Commissione Europea, che sostiene con circa 840.000 euro il progetto BeBi, focalizzato sui benefici agricoli e ambientali legati all’uso del biochar nei Paesi in via di sviluppo.
E i vantaggi sono parecchi: “Elsa Stove produce carbone vegetale, ottimo ammendante per i suoli delle aree tropicali e strumento di stoccaggio della CO2 nel sottosuolo. Inoltre, ottimizza il processo di combustione, fornisce calore per cucinare e non produce fumo”. Aspetto, quest’ultimo da non sottovalutare: se infatti l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda che all’interno delle abitazioni la concentrazione di particolato non superi i 50 microgrammi per metro cubo, la stessa OMS ha calcolato che nelle capanne, quando si accende il fuoco per cucinare, il dato arrivi a 30.000 µg/m3.
La stufa può essere alimentata con vari tipi di scarti agricoli, che spesso non vengono valorizzati: “Gusci di arachidi o di noci, foglie di pannocchie, nocciolino di palma da olio. Oggi per cucinare si va nella foresta a fare legna, in un processo di deforestazione continua. Non solo Elsa permette di evitare queste pratiche, ma grazie al carbone vegetale permette anche di recuperare quelle zone aride totalmente desertificate”, continua Peressotti, che è anche coordinatore di BeBi.
Il professore di Udine, che con un nuovo progetto finanziato dall’Europa, Biochar Plus, e partner come le Nazioni Unite e l’Unione Africana, sta lavorando per la diffusione di Elsa, si sta trovando davanti a un ostacolo oggettivo: “Non c’è abbastanza combustibile per tutti. Gli scarti utilizzabili non possono soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione”. Per questo, si è deciso di partire da aree dove gli scarti sono più abbondanti: “In Ghana, per esempio, sono presenti piccole coltivazioni familiari di palma da olio, che rendono disponibile sufficienti quantità di nocciolino utilizzabile in Elsa”. Nel frattempo si studiano anche soluzioni alternative: “In Kenya, Etiopia, Ghana, Tanzania, le segherie non recuperavano la segatura, che invece adesso viene utilizzata per produrre pellet. In Zimbabwe ogni famiglia ha circa mille metri quadrati di terreno, in grado di assicurare cibo per tutto l’anno. Abbiamo pensato di destinare una parte di questi appezzamenti alla produzione di combustibili vegetali per Elsa, e ottimizzare la produzione agricola nell’altra parte grazie alla concimazione con il carbone vegetale”. Un’idea forse non attuabile su grande scala e che in Europa ci apparirebbe poco logica, ma che nei piccoli villaggi africani, dove nelle capanne l’aria è soffocante a causa del fumo e la deforestazione sta distruggendo i polmoni verdi del continente, ha un suo perché.
Grazie all’assenza di copyright per gli artigiani africani e all’attività di formazione sul campo in diversi Paesi del continente, Elsa si sta lentamente diffondendo. 15.000 le stufe attive in Ghana, 5.000 in Etiopia, 1.000 in Togo. “Ci sono diverse produzioni attive, anche con diverse fasce di prezzo: si va dai 10 dollari per la stufa prodotta con lamiere di recupero, ai 100 dollari per quella a due fornelli, destinata alle classi più agiate delle città. Molti vedono in Elsa e nei suoi benefici un’opportunità di sviluppo sostenibile, tanto che Biochar Plus vede tra i suoi partner l’Unione africana e l’Unido, l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale”.
E nel frattempo all’Università di Udine si lavora anche ad altri progetti futuri: “In Zimbabwe e Guinea Bissau realizzeremo due piccoli gassificatori a biomasse: saranno alimentati dagli scarti di una fabbrica che confeziona noci di Macadamia. Forniranno energia agli stabilimenti e ai villaggi di operai”. E presto Elsa Stove sarà commercializzata anche in Europa, attraverso lo spin off universitarioBlucomb: “Nel nostro continente buona parte delle emissioni derivano dal riscaldamento. Per questo abbiamo pensato che anche qui Elsa potesse avere un mercato”.




Ecopsicologia: connettersi con l’ambiente per ritrovare se stessi

Quello che facciamo al mondo fuori è collegato anche al benessere del nostro mondo interno, e l’ambiente in cui viviamo è un fattore determinante per come ci sentiamo a livello psicologico. Pensiamoci un attimo: sentire un senso di oppressione interiore è abbastanza comune quando ci si trova in città, imbottigliati nel traffico, mentre fare una passeggiata in mezzo al verde spesso porta serenità e armonia. Se questo è solo uno un piccolo esempio, c’è tutta una branca della psicologia applicata che valorizza i legami tra ambiente esteriore e ambiente interiore, tra la connessione che abbiamo con la natura e quella che sentiamo con il nostro io.
L’ecopsicologia è nata in California negli anni ’90, ed è poi stata portata in Italia da Marcella Danon, psicologa e fondatrice di Ecopsiché, una vera e propria scuola per studiare questi temi e apprendere pratiche di “sintonizzazione ecologica”. Da lì sono nati percorsi di formazione, progetti in collaborazione con parchi naturali e istituzioni e anche una nuova professione, quella dell’ecotuner.
“Il termine ecopsicologia nasce nei primi anni ’90 all’università di Berkeley, dove, sulla spinta di  Robert Greenway si incontrano un gruppo di professionisti nel campo della psicologia e dell’ecologia per trovare un denominatore comune tra tante correnti di pensiero simili che stavano nascendo, come l’ecologia transpersonale e la psicologia verde. Fa parte del gruppo anche lo storico della cultura Theodore Roszak, che nel 1992 con il libro The voice of the Earth lancia l’ecopsicologia a livello mondiale”, racconta Danon, che viene a conoscenza della disciplina da un libro di Fritjof Capra pochi anni dopo. “Da lì, avvantaggiata anche dal fatto che io stessa avevo vissuto per un periodo a Berkeley, ho iniziato a prendere contatti a livello internazionale”. Nel 1999 il primo convegno in Italia sul tema, nel 2004 nasce la scuola Ecopsichè, nel 2006, in collaborazione con altri studiosi e psicologi, Danon fonda anche la Società Europea di Ecopsicologia (EES).
Da lì, “sono nati percorsi che, portando le persone in natura, si propongono di facilitare loro la connessione con il proprio mondo interiore e, viceversa, da un processo di maggior introspezione accompagnano a ritrovare un rapporto più profondo con la natura. I campi di azione sono diversi: si va dal lavoro su di sé alla crescita relazionale, dalla pet therapy a un’educazione ambientale di natura esperienziale, da percorsi di progettazione partecipata a nuove forme di organizzazione del lavoro e della vita, in azienda così come negli ecovillaggi, fino alla green mindfulness, in cui la natura diventa facilitatrice di un percorso di ricerca spirituale”.
Il forte impatto della natura sulla psiche è già riconosciuto dalla psicologia ambientale: “Per esempio ci sono studi che hanno dimostrato che i pazienti che dalla finestra dell’ospedale vedono il paesaggio guariscono prima degli altri, o che i bambini che a scuola, negli intervalli, possono giocare in natura sono meno soggetti a problemi di depressione, sindrome da deficit di attenzione, problematiche relazionali e obesità”. L’ecopsicologia ha ampliato questo approccio sia sul versante filosofico che su quello pratico: “Da una parte ha trasformato questi presupposti in un modo di vedere il mondo che abbandona l’antropocentrismo in favore dell’ecocentrismo, e dall’altra si è focalizzata anche su modi concreti di riconnettersi con la natura”.
Nello specifico, per esempio, le pratiche di ecocounseling propongono la natura – un parco, un prato, un bosco – come luogo di incontro per colloqui tra counselor e cliente, tra psicologo e paziente,  in cui c’è un’interazione diretta con l’ambiente: “La natura non fa solo da sfondo, ma offre spunti concreti per la relazione d’aiuto”. Per i gruppi, l’ecopsicologia “crea un’occasione per entrare in natura con una propensione che rende più sensibili e attenti, e allo stesso tempo più rispettosi anche verso gli altri. Anche nelle aziende porto queste pratiche, in percorsi di team building”. Un percorso formativo specifico è dedicato all’ecotuning, ossia la risintonizzazione con l’ambiente naturale, e dunque anche con la nostra parte più istintiva, creativa e spontanea: “E’ come se ognuno di noi fosse un pianeta, di cui frequenta però solo certe zone e strade. L’ecotuning serve a farci capire come possiamo ampliare la conoscenza di noi stessi, facendoci scoprire aspetti spesso trascurati”.
Chi aveva già una preparazione psicologica o un interesse forte per questi temi ha potuto ricavarne una vera e propria professione, per molti è stata l’occasione per unire passioni e interessi diversi: “Una docente dell’università spagnola di Burgos, grazie al nostro corso di formazione professionale, ha creato un percorso di ecoleadership. Una donna ingegnere ambientale ha iniziato a dedicarsi anche all’educazione ambientale dei bambini, una musicoterapeuta ha tratto dall’ecotuning spunti interessanti per il suo lavoro, che ha trovato espressione anche in natura”.
Ma oltre alla formazione, Ecopsiché è attiva anche in progetti istituzionali per lo sviluppo della green economy e la valorizzazione dei territori: “Stiamo lavorando in Sardegna a un progetto finanziato con fondi POR per la formazione ecologica di 15 giovani, che hanno imparato a progettare giardini terapeutici, i cosiddetti healing garden. In Abruzzo con la Comunità Montana e il Centro Servizi volontariato siamo impegnati in un progetto nell’area del sisma che punta a favorire la nascita di start up capaci di valorizzare le risorse naturali, culturali e paesaggistiche del territorio”.




Luci e ombre del Kamut, il grano col marchio registrato

Il frumento orientale o grano grosso o Khorasan, meglio conosciuto come Kamut, è una specie (Triticum Turanicum) appartenente allo stesso gruppo genetico del frumento duro: presenta un culmo (fusto) alto anche 180 cm; ha la cariosside (chicco) nuda e molto lunga, più di quella di qualunque altro frumento.
Il Khorasan è originario della fascia compresa tra l’Anatolia e l’Altopiano iranico (Khorasan è infatti il nome di una regione dell’Iran). Nel corso dei secoli si è diffuso sulle sponde del Mediterraneo orientale, dove in aziende di piccola scala è sopravissuto all’espansione del frumento duro e tenero. Dopo che esperimenti di agricoltura intensiva effettuati in Egitto e Iran hanno dato rese troppo basse, che non ripagano le spese di irrigazione e le assidue cure richieste, dai primi anni Ottanta ha trovato terreno, clima e produttività ottimali solo in Canada (Alberta e Saskatchewan) e Stati Uniti (Montana), dove viene coltivato con agricoltura industriale e metodo biologico.
Non molti sanno però che Kamut non è il nome di un grano, ma il marchio commerciale (come “Mulino Bianco” o “McDonald’s”) che la società Kamut International Ltd ha posto su una varietà di frumento registrata negli Stati Uniti con la sigla QK-77, coltivata e venduta in regime di monopolio. Il frumento prodotto e venduto con il marchio Kamut è coltivato sotto lo stretto controllo della famiglia Quinn, proprietaria della società K.Int. In Italia è importato solo da aziende autorizzate e può essere macinato solo da mulini autorizzati. Tutti i prodotti che portano il marchio sono preparati e venduti sotto licenza della Kamut International e sotto il controllo della Kamut Enterprises of Europe.
Il marketing decisamente efficace che è alla base del successo del Kamut ha fatto leva su tre aspetti: la suggestiva leggenda del suo ritrovamento, l’attribuzione di eccezionali qualità nutrizionali ed una presunta compatibilità per gli intolleranti al glutine. Restano, di contro, tre aspetti che gettano un’ombra sul prodotto a marchio Kamut (non sul Khorasan): il monopolio commerciale imposto dalla K.Int. su un frumento tradizionale che, come tale, dovrebbe invece essere patrimonio di tutti, e più di chiunque altro delle comunità che nel tempo lo hanno conservato e tramandato; il costo eccessivo del prodotto finito (dall’80 al 200% in più di una pasta di comune grano duro biologico), poco giustificabile a sostanziale parità di valori qualitativi e nutrizionali; la pesante impronta ecologica legata allo spostamento di un prodotto perlopiù coltivato dall’altra parte del Mondo che arriva sulle nostre tavole attraverso una filiera molto lunga (migliaia di chilometri), e che non è compatibile con l’attenzione al consumo locale, fatto se possibile a “chilometro zero”.
La presenza della “novità” rappresentata dai prodotti a base di Kamut® sugli scaffali del supermercato potrebbe aver indotto i consumatori a credere di trovarsi in presenza di un cereale antico,oltre che più salutare rispetto ad altri, e a ricercare prodotti di Kamut® piuttosto che prodotti di grano Khorasan o grano orientale. In pratica, oggi in Italia qualsiasi agricoltore può coltivare grano orientale, ma non può chiamarlo Kamut®, accade così che il consumatore accorto acquisti al supermercato confezioni di farina di grano orientale prodotta a due passi da casa, mentre chi è ignaro di questi argomenti compri la stessa farina, ma “firmata” Kamut®, a un prezzo decisamente più alto.
Sarebbe opportuno, come alcuni Gruppi d’Acquisto hanno già cominciato a fare, cercare di valorizzare la produzione di cereali antichi sul territorio italiano, dove vengono coltivate tipologie di grano piuttosto rare. Alcune varietà di cui disponiamo ma che restano ancora poco conosciute sono: la Saragolla, un tipo di grano Khorasan Triticum Polonicum coltivato tra Lucania, Sannio e Abruzzo, il grano duro Senatore Cappelli, ritenuto simile al Khorasan e coltivato nell’entroterra di Puglia e Basilicata, il grano Verna, una varietà di grano adatta ad essere coltivata ad altitudini superiori alla norma, tipica del casentino. Ne esistono poi molti altri a seconda della regione di produzione, ad esempio la Tumminia, il Grano Monococco, il Gentil Rosso, il Rieti, ecc.
I grani antichi altro non sono che varietà del passato rimaste autentiche e originali, ovvero che non hanno subìto alcuna modificazione da parte dell’uomo per aumentarne la resa. Tanti i motivi per cui bisognerebbe consumarli più spesso: non hanno subito alterazioni, ovvero non sono stati rimaneggiati geneticamente dall’uomo; sono meno raffinati, vengono generalmente lavorati con la macinazione a pietra, quindi mantengono molto di più le proprietà nutrizionali presenti nel chicco; hanno meno glutine, mentre la modificazione del grano moderno ha fatto sì che esso diventasse molto più ricco di glutine, con tutti gli svantaggi che ciò comporta per il nostro organismo; sono più leggeri e digeribili, proprio per la minore presenza di glutine che rende la farina da loro prodotta e di conseguenza tutti i prodotti che vi si possono ricavare, molto più leggeri, digeribili e assimilabili di quelli realizzati con il grano moderno; sono adatti a tutti i tipi di preparazione e sono ottimi anche da integrare nell’alimentazione dei bambini.
I dati epidemiologici hanno dimostrato che le qualità protettive e antiossidanti valgono per tutti i cereali integrali, più economici e diffusi del Kamut, come grano duro, grano tenero, farro, farricello, spelta, avena, orzo, segale, riso, ecc. di cui disponiamo sul nostro ricco territorio. Antichi o moderni che siano, è bene ribadire che l’attività biologica, protettiva, farmacologica, dei cereali non dipende dalla loro antichità o purezza genetica, ma dal fatto che sono integrali, cioè dotati di tutte le loro parti e di tutti i loro composti, nutrienti e non nutrienti, come germe, vitamine, sali minerali, fibre, polifenoli ecc.
La biodiversità e la libertà di scelta sono sempre vantaggi, mai svantaggi: grazie a una corretta informazione e un rapporto diretto tra consumatore e produttore, diventa possibile orientare gli acquisti e non lasciare che sia il mercato (del profitto) a decidere quale grano portare in tavola.




Digital Health. Engagement, linea comune per pazienti e medici

Digital Health. Engagement, linea comune per pazienti e medici

Il web come fonte per rispondere ai bisogni di salute? Sì, ma con moderazione. Secondo gli ultimi dati GfK discussi nei giorni scorsi  a Milano –  in occasione della seconda edizione del convegno Digital Health organizzato da GfK e intitolato L’efficacia delle strategie Multichannel e la Patient Centricity –  sono 15 milioni gli italiani che cercano informazioni sulla salute sul web. Di questi, poi, due su tre si rivolgono poi al proprio medico per approfondire o confermare le informazioni raccolte e uno su tre si è reca dal proprio farmacista, a riprova dell’importanza che ancora riveste un interlocutore esperto, al di là della Rete.

Contenuti di qualità e contatto professionale. Le esigenze di pazienti e medici

Durante il meeting milanese si è discusso anche di come produrre contenuti di qualità, affinché il paziente che cerca informazioni online trovi notizie che lo aiutino a gestire al meglio la propria patologia, favorendo l’aderenza alle terapie e  che gli consentano di assumere un ruolo più attivo durante tutto il percorso di cura. Cresce, nel settore salute, la centralità dell’individuo, l’engagement e l’empowerment, ovvero la consapevolezza e il bisogno. I pazienti, però, non sono gli unici a frequentare Internet alla ricerca di informazioni sulla salute. Secondo i dati Gfk, infatti, i medici dedicano in media l’equivalente di una giornata lavorativa ogni settimana per navigare in Rete a scopo professionale. Il 93% dei camici bianchi trascorre sul web una media di 8 ore la settimana, accedendo alla Rete tutti i giorni. Le principali informazioni cercate riguardano farmaci e studi clinici, oppure approfondimenti sulle patologie, linee guida per la diagnosi e i trattamenti. Il medico di famiglia è interessato ai Centri di riferimento o di eccellenza a cui inviare i propri pazienti per un consulto, lo specialista ai trial in corso sui farmaci più innovativi. A questo uso standard si affianca un altro più social: oltre il 50% dei medici di Medicina Generale (e il 61% degli specialisti) utilizza almeno un social network per ragioni legate all’attività professionale. Rimanere in contatto con colleghi ed esperti, con le associazioni o le società scientifiche, con la stampa di settore e con i pazienti , sono gli obiettivi fondamentali della presenza online del medico.

Comunicazione medico-paziente sempre più multichannel

Rispetto alla comunicazione medico-paziente, se il telefono rimane il primo strumento di comunicazione, quasi la metà dei medici di medicina generale dichiara di comunicare abitualmente con i pazienti via email (46%), via WhatsApp (44%) e via Sms (40%). In forte crescita anche il ruolo delle App, che vengono utilizzate oggi da circa il 73% dei medici di medicina generale e dell’81% degli specialisti.

“Il digital oggi è presente in maniera pervasiva nel mondo della salute – ha evidenziato Isabella Cecchini, direttrice del Dipartimento di Ricerche sulla Salute GfK e curatrice dello studio – Sia per quanto riguarda il rapporto medico-paziente sia per quanto riguarda il rapporto tra medici e aziende farmaceutiche. Di questo sono consapevoli le aziende, che hanno un ruolo fondamentale nella comunicazione scientifica e stanno sviluppando strategie sempre più multicanale, ove al tradizionale informatore scientifico si affiancano nuovi canali digitali: portali di informazione, newsletter, comunicazione via social media. In questa prospettiva è importante segnalare come i canali di comunicazione digitali stanno modificando l’approccio all’informazione sia da parte del medico, meno passivo e sempre più consapevole, proattivo ed engaged  nell’approccio all’aggiornamento”. Numerosi esperti del settore Health e responsabili dello sviluppo delle strategie di comunicazione Digital e Multichannel delle principali aziende farmaceutiche si sono poi confrontati in una tavola rotonda in cui hanno discusso delle principali sfide che il digital e la disintermediazione pone.

Ecco i video degli interventi

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