1

A 16 anni fa il tweet più condiviso di sempre (e mangerà pollo gratis per un anno)

Il cinguettio di Carter Wilkerson ha raccolto oltre 3,5 milioni di rilanci sulla piattaforma. Era la risposta a una sfida ironica della catena di ristoranti Wendy’s. Ma ha superato perfino le superstar di Ellen DeGeneres

HA SUPERATO perfino il selfie da record degli Oscar 2014, quello scattato da Ellen DeGeneres con mezza Hollywood dentro, daBradley Cooper a Brad Pitt, che ha fatto parlare per mesi. E no, non è uno scatto altrettanto brillante ma un tweet banale, essenziale, perfino ridicolo e del tutto ironico con cui uno studente statunitense di 16 anni ha colto l’impossibile sfida propostagli dalla catena di pollo fritto Wendy’s su Twitter.
La vicenda è curiosa ma divertente. All’inizio di aprile Carter Wilkerson, questo il nome del protagonista che abita a Reno, in Nevada, ha inviato un cinguettio giocoso all’account Twitter dei ristoranti chiedendo quanti tweet fossero necessari per assicurarsi un anno di chicken nugget gratuite nei loro negozi. Una boutade che non credeva avrebbe mai ricevuto risposta.
Dal colosso hanno invece replicato ma con una cifra astronomica: 18 milioni di retweet. Il ragazzo non ha però perso le speranze e poco dopo ha lanciato una sarcastica richiesta d’aiuto che non lo ha portato alla soglia richiesta ma comunque a battere ogni record sulla piattaforma. E ad assicurarsi in ogni caso, visto il clamore suscitato dalla vicenda sui media, una gift card che gli dà diritto a un anno di bocconcini gratis.
https://twitter.com/carterjwm/status/849813577770778624

Il suo post del 6 aprile (“Help me please, a man needs his nuggs“, tutto in maiuscolo) con allegata la foto dello scambio con Wendy’s in cui la singolar tenzone digitale veniva lanciata ha raccolto infatti ben 3,5 milioni di retweet. A quanto pare più dello scatto della DeGeneres, fermo a 3,4 milioni. E dando perfino vita a una campagna sulla piattaforma – sostenuta non senza interesse dal Ceo Jack Dorsey – sotto l’hashtag #nuggsforcarter.
https://twitter.com/TheEllenShow/status/440322224407314432

Visto il successo e le chiacchiere suscitate da questa inconsapevole e gigantesca operazione di marketing Wendy’s alla fine ha deciso di premiare l’intraprendente utente e anche di donare 100mila dollari a una fondazione benefica che si occupa di adozioni. Per la cronaca, il terzo tweet più rilanciato di sempre sul social netework è quello di Louis Tomlinson degli One Direction dedicato al suo compagno di band Harry Styles.

Oscar 2014, il selfie record delle star




Per una gestione costruttiva dei conflitti. Intervista a Marianella Sclavi

E’ stato da poco ristampato da IPOC il saggio Confronto creativo di Marianella Sclavi e Lawrence Susskind. Marianella Sclavi ha insegnato etnografia urbana al Politecnico di Milano ed è un’esperta di “ascolto attivo” e “gestione creativa dei conflitti”. Si è interessata sia di buona comunicazione interculturale che degli ingredienti delle ‘scuole felici’, mostrando come l’ascolto attivo sia un elemento virtuoso fondamentale in entrambi i campi.
L’abbiamo intervistata perché con “Confronto creativo” esplora le dinamiche della vita pubblica e riesce a descrivere in modo originale ed efficace non solo gli aspetti negativi, ma, cosa rara, anche e soprattutto quelli positivi del confronto. E, in un’epoca in cui sembra che la conflittualità sia il registro dominante di tanti rapporti, può esser una strategia a cui fare riferimento.
 
Lei ha viaggiato molto, e ha esplorato diverse aree culturali in America, Europa, ecc. Ha appreso molto ed è diventata maieuta di molte esperte ed esperti di processi partecipativi. Chi è dunque Marianella Sclavi? Quali sono stati i suoi “incontri” decisivi per mettere a punto e offrire all’attenzione del pubblico il metodo del “confronto creativo”?
Incomincio dalla parte finale della domanda. Un incontro decisivo, anche se preceduto da parecchi altri, è stato quello con Lawrence Susskind del MIT. Susskind è stato fra i fondatori nella prima metà degli anni ’80 delProgram on Negotiation (Pon) della Harvard Law School, che è un prestigioso e attivissimo laboratorio internazionale di Alternative Dispute Resolution (ADR). La mia impressione, frequentandolo, è che tutti gli attivisti e innovatori più interessanti del mondo, prima o poi passano di lì. Nel 1987 Susskind ha pubblicato un libro intitolato Breaking the Impasse. Consensual approaches to resolving Public Disputes (scritto con Jeffrey Cruikshank) che sostanzialmente applica la ADR alle Dispute Pubbliche e sostiene che la crisi delle decisioni pubbliche e della governance dopo gli anni ‘70 è legata, da un lato, alla necessità di ampliare l’arco dei soggetti che vi partecipano e, dall’altro, al non saper valorizzare i conflitti di cui i diversi soggetti sono portatori, al fine di praticare  progettualità creative, trasparenti, e muovere verso soluzioni di mutuo gradimento. In altre parole: non è sufficiente ampliare gli attori coinvolti nelle decisioni e le informazioni di cui ognuno dispone in partenza; sono assolutamente necessarie le dinamiche inter-individuali e di gruppo dell’ADR. E’ una tesi molto radicale che io condivido ed è quella che ci ha fatto incontrare e collaborare.
Come ha scoperto la ADR e in che cosa consiste?
Ho scoperto l’esistenza dell’ADR grazie ai pionieri urbani che avevano risanato un quartiere del Sud Bronx. All’inizio degli anni ’90 stavo svolgendo una ricerca sul campo per carpire i segreti di questo successo quasi incredibile. Uno dei segreti riguardava il trattare le situazioni di conflitto con metodi innovativi, come l’ADR. L’ADR nasce da una serie di studi sulle differenze fra le dinamiche messe in atto nei conflitti che hanno avuto un esito positivo, di mutuo gradimento, e gli altri dove il conflitto si perpetua o va in escalation. Nei casi positivi, le parti in gioco adottano reciprocamente un atteggiamento esplorativo senza fretta di giudicare e di arrivare a delle conclusioni. E’ un percorso con passaggi precisi: prima si cerca di capire quali sono gli interessi e le preoccupazioni al di là delle posizioni e rivendicazioni reciproche, poi ci si dedica assieme alla moltiplicazione delle opzioni (buone pratiche, combinazioni precedentemente escluse, ecc) e solo alla fine ci si impegna a inventare soluzioni di mutuo gradimento. Si tratta di uscire dalla logica “io vinco tu perdi” e viceversa e da un atteggiamento giudicante, di urgenza classificatoria. Si tratta di diventare “esploratori di mondi possibili”. Poi questa ricerca è stata pubblicata col titolo “La Signora va nel Bronx”.
Il contatto con Susskind, concretamente, da cosa nasce?
Nel 2005 Susskind, che insegna al MIT, ha organizzato un convegno di tre giorni per far incontrare due circuiti che operavano (e ancor oggi non di rado operano) per compartimenti stagni: i principali teorici della Democrazia Deliberativa (DD) e i “practitioners” della Alternative Dispute Resolution (ADR), la trasformazione creativa dei conflitti. Erano presenti fra gli altri Jane Mansbridge, James Fishkin, Susan Potziba, Carolyn Lukensmeyer e molti altri, e solo due europei, un giovane olandese e io. Io c’ero arrivata con la presentazione di John Forester della Cornell University che conosceva i lavori che avevo fatto a Torino con Avventura Urbana negli anni ’90, in cui avevo operato come esperta di arte di ascoltare e di gestione creativa dei conflitti nei processi partecipativi. Da lì ho ottenuto un invito come visiting scholar al MIT e al Program on Negotiation della Harvard Law School,  nel 2006. Poi con Susskind abbiamo scritto il libro “Confronto Creativo “ che presenta quest’approccio e queste problematiche in Italia.
In Confronto creativo, parla di una cittadina fittizia ma in cui tutti noi vorremmo vivere: Dolceriviera. Lei parla di come in questo paese alcuni cittadini abbiamo realizzato il metodo del confronto creativo per raggiungere lobiettivo di presentare il 150° dellUnità dItalia ai più giovani. Quali sono le Dolceriviera reali che ha trovato nel suo cammino, magari anche solo parzialemente?
Nel libro sono raccontate una serie di esperienze fondative, negli Usa, in Sud Africa e anche in Italia nelle quali questo approccio ha preso corpo. Aver conosciuto personalmente alcune persone, come Carolyn Lukensmeyer e Susan Potziba che hanno diretto e gestito processi partecipativi estremamente complessi con esiti molto positivi, per me è stato fondamentale perché mi ha dato il coraggio di provarci anche io. Fra le esperienze italiane che ho diretto e facilitato quella più affine a Dolceriviera è il processo partecipativo del 2007 a Livorno, dove su incarico del sindaco sono state coinvolte parecchie decine di giovani nella stesura delle linee guida per il riuso di un edificio di 750mq nel cuore della città, il “Cisternino”, ex Casa della Cultura, da destinare a spazio ideativo e culturale per i giovani. Però la simulazione di Dolceriviera, alla quale è dedicata tutta la parte centrale del libro, serve fondamentalmente a mostrare i vari trucchi, ingredienti, passaggi di un processo deliberativo che poggia sull’ascolto attivo e la gestione creativa dei conflitti (che sono le mie declinazioni della ADR). In particolare questo è un caso che parte dal coinvolgimento di varie categorie di giovani per progettare le iniziative dei 150 anni di Unità d’Italia, e diventa un programma di risanamento economico/culturale della intera città. Ascoltando i singoli partecipanti e aiutandoli ad ascoltarsi fra loro, viene fuori, infatti, che “qui c’è poco da festeggiare”, non solo i giovani non trovano lavoro, ma gli albergatori e i commercianti sono preoccupati, le scuole fanno fatica a mettersi in sintonia con le nuove generazioni, e così via. E quindi man mano che la “cabina di regia” allarga i contatti, le idee che nascono non riguardano solo i festeggiamenti, ma iniziative che potrebbero creare posti di lavoro in un ripensamento generale del modo con il quale la città si vede e si presenta. Questo non è ottenibile con un approccio “alla Habermas” o di semplice “dibattito allargato” come è – per esempio – il Dibattito Pubblico francese, che stiamo importando in Italia. Confronto Creativo implica il passaggio del contesto di incontro dal “dibattito e argomentazione” al “dialogo e ADR”.
Quindi lei ritiene che il Dibattito Pubblico e comunque l’ampliamento di spazi di confronto che nel libro lei e Susskind chiamate “parlamentari”, basati sulla argomentazione aperta e trasparente, siano manipolatori o comunque insufficienti?
Non necessariamente manipolatori (anche se i politici di solito li vedono come funzionali al consenso e non alla elaborazione di diagnosi diverse dalle loro), ma quasi sempre insufficienti. Il Debat Public come procedura obbligatoria di coinvolgimento dei territori interessati alle decisioni è un aggiustamento, un voler supportare la democrazia rappresentativa con un supplemento di informazioni, di punti di vista. Richiede che vengano sviluppati scenari alternativi, e questo è positivo, e anche che il progetto iniziale possa essere cassato del tutto, come in effetti è successo in Francia più di una volta, e anche questo è positivo. Ma tutto ciò non tiene conto che la crisi della comunicazione ormai è tale da richiedere, anche solo per ottenere per davvero questi esiti, una rottura epistemologica molto più chiara e radicale. Non credo si possano fare dei veri passi in avanti rimanendo nella ambiguità. Un dialogo non è un dibattito cortese in cui gli interlocutori si fanno a vicenda presenti i pro e contro delle rispettive posizioni, come in un balletto. Degli spazi dialogici, come quelli richiesti da processi di democrazia, che funzionano per davvero sono rigorosamente basati su altre regole.
Il suo libro più famoso è Arte di ascoltare e mondi possibili. Da cosa nasce e come si collega a questo suo impegno nel campo della progettazione partecipata?
E’ un libro originariamente rivolto agli studenti di architettura e urbanistica del Politecnico di Milano dove insegnavo, ed è tutto incentrato sul concetto di “cornici”, di assunti impliciti che dobbiamo mettere in discussione per ampliare le opzioni al di là degli archi di possibilità dati per scontati nel mondo sociale di cui siamo parte. Sono lezioni che procedono a colpi di esercizi di fenomenologia sperimentale e di etnometodologia (i “patafisici delle scienze sociali”) per provocare esperienze di auto-riflessività. Quali sono le emozioni che accompagnano un’uscita dalle cornici date per scontate? Come possiamo interpretarle per favorire l’innovazione? Che rapporto c’è fra le dinamiche dell’umorismo, quelle della buona comunicazione interculturale e la progettazione creativa? E così via. Gli studenti di solito venivano a dirmi: “E’ stato molto utile con la mia ragazza”. Ed è un buon inizio. L’incontro fondamentale che sta alla base di tutto questo è con Gregory Bateson e la sua “Ecologia della mente”. Poi si sono aggiunti Michail Bachtin, Arthur Koestler, Wittgenstein e molti altri.
Che rapporto c’è fra umorismo e progettazione creativa?
Per tutti i miei autori prediletti, Bateson, Wittgenstein, Bachtin, Koestler, Von Foerster, De Bono, e i maestri del pensiero Zen, le dinamiche dell’umorismo e quelle della buona conoscenza praticamente coincidono. Per loro l’umorismo è una palestra nella quale ci si può allenare in modo non traumatico a uscire dai luoghi comuni del linguaggio e del pensiero che altrimenti ci tengono prigionieri e ottundono la nostra intelligenza. L’umorismo è un campo del sapere specializzato nelle tecniche e nei trucchi per produrre momenti di spiazzamento, defamiliarizzazione, spaesamento: tutti stati d’animo fondamentali per perserguire l’auto-riflessività, il distacco e il coinvolgimento necessari alla buona conoscenza e a un’ecologia della mente. Perché nel lavoro di gruppo la smentita non ci induca a irritarci e offenderci, ma a ridere di noi stessi, e perchè l’assurdità e il non senso non siano stupidi ma illuminanti, sono necessarie alcune condizioni di contesto, alcune “premesse implicite” che sono fondamentalmente le stesse (con poche varianti) di quelle operanti in una buona storiella umoristica, in un motto di spirito ben riuscito. In effetti se dovessi dire di cosa mi occupo, la risposta in cui più mi riconosco sarebbe: di “salto al di là dell’ovvio”, come facilitarlo, con quali stratagemmi.
Nel Suo libro Larte di ascoltare, ripropone un decalogo scritto da Alexander Langer (ne Il viaggiatore leggero, Sellerio 1996). Può dirci cosa ha significato per lei Langer?
Vi è tutta una serie di persone sagge che applicano questi principi perché a loro appaiono ovvi, puro buon senso. E in effetti è “buon senso” che però si conquista mettendo in discussione molte abitudini di pensiero che diamo per scontate. Richiede che si capiscano i limiti del senso comune. Alex Langer era un “natural” della uscita dalle cornici soporifere che ci soffocano. Come del resto lo è Papa Francesco o lo era il Cardinal Martini; in particolare gli incontri organizzati da Martini e pubblicati col titolo La Cattedra dei non credenti spesso mi hanno fatto venire in mente il pensiero e specialmente il modo di vivere di Alex Langer. Invece, tanto per concludere drammaticamente, il pensiero e la pratica della “lotta armata” (Brigate rosse e altri) era tutta interna alle cornici date per scontate ed è molto interessante su questo Il libro dell’incontro (Il Saggiatore 2015), recentemente uscito, che narra i dialoghi segreti avvenuti dal 2007 in poi fra vittime o parenti delle vittime e responsabili della lotta armata. Non a caso la cornice che ha reso possibili questi incontri è garantita da esperti di “giustizia riparativa”, una modalità di giustizia basata sull’arte di ascoltare e la gestione creativa dei conflitti. Senza questa cornice, questo livello di parola e di ascolto non sarebbe stato possibile.
Lei si è occupata anche del conflitto nella ex Jugoslavia e in Israele-Palestina
Riporto una testimonianza dal libro che ho appena citato: “Noi pensavamo che la violenza dello Stato e la violenza della rivoluzione fossero distinte. In realtà, se scegli il terreno della violenza, diventi simmetrico a chi ha il monopolio della violenza, nel caso specifico lo Stato. Non fai altro che riprodurre ciò che tu vorresti combattere. E’ un discorso di simmetria: pensi di essere il nemico di quell’altro, in realtà ne stai diventando il figlio” (p. 83). Occupandomi di conflitti insanabili (e di umorismo) mi è parso chiaro che l’epistemologia dominante è priva di difese e di cure nei riguardi della violenza. La nostra cultura dominante è al fondo violenza edulcorata. E’ dimostrabile che la gestione creativa dei conflitti è assente dal nostro repertorio di possibilità. Possiamo provare a mettere un freno alla violenza, ad argomentare in modo educato invece che a suon di insulti, ma ormai questo non è più sufficiente. Basta guardarsi attorno. La cosa più sensata è cambiare radicalmente epistemologia.
 
PS: trovate qui il saggio introduttivo di Marianella Sclavi a Confronto creativo: “I tre know-how della gestione costruttiva dei conflitti”.




Intervista a Vincenzo Baccari, della rete CSRnative

CSRnatives è l’unica rete in Italia di studenti universitari appassionati di sostenibilità. Ho intervistato Vincenzo Beccari, uno dei promotori della rete, chein questi mesi propone un fitto calendario di incontri


Cosa è e come è nato CSRnatives?  
CSRnatives è l’unico network in Italia di studenti universitari che nutrono la passione per la sostenibilità e l’innovazione sociale. Il network è nato nel 2014 da un’idea di Andrea Di Turi e Rossella Sobrero per offrire a noi giovani studenti uno spazio di riflessione e confronto riguardo le tematiche legate alla responsabilità sociale d’impresa. Ma soprattutto per darci la possibilità di esprimerci in prima persona, mettendo in campo le nostre idee e realizzando progetti dove al centro vi siano la sostenibilità e l’impegno sociale.
Quali sono le “ambizioni” di questo network?
CSRnatives è una realtà giovane e partecipativa, come tutti i network l’obiettivo è quello di espandersi, farsi conoscere all’esterno, e crescere in termini di numeri. Anche in questo senso è iniziato un percorso che mira a far nascere quante più possibili realtà locali in modo da estendere la presenza a livello territoriale, come è avvenuto a Bologna con la nascita della prima “tribù CSRnatives”. Le ambizioni non si limitano ai numeri, la crescita vuole essere anche qualitativa. Dal punto di vista interno quindi si è alla continua ricerca di nuove modalità e azioni per approfondire e sensibilizzare il tema della CSR.
In quali attività concrete vi siete già cimentati, e con quali risultati?
Nonostante i pochi anni dalla nascita, le attività e i progetti realizzati sono già molti. Sono stati realizzati due e-book che hanno dato il via a una vera e propria collana targata CSRnatives. Il primo, Sostenibilità peer to peer fornisce concetti base, idee ed esperienze; il secondo, uscito nemmeno un mese fa tratta da vicino il tema del welfare aziendale. Ne L’azienda che vorrei forniamo il nostro punto di vista su come si dovrebbero comportare le imprese per essere considerate veramente responsabili. Non ci siamo limitati solo alla scrittura, CSRnatives ha partecipato a numerose iniziative ed eventi istituzionali come ad esempio il “Salone della CSR e dell’innovazione Sociale” ed ha realizzato lo scorso 21 giugno il suo primo grande evento sul futuro della sostenibilità. Anche l’attività online e la partecipazione nei social contraddistingue l’impegno di CSRnatives. In generale il lavoro è scandito da incontri mensili nei quali vengono discusse le idee e sviluppati i progetti. Il riscontro è sempre stato positivo e lo dimostra sia il un numero sempre crescente di partecipanti e iscritti sia quello delle imprese che sostengono il network.
Qual è il vostro rapporto con il mondo “adulto” dei Professionisti nel campo delle relazioni pubbliche, della comunicazione e della sostenibilità?
Il rapporto è senz’altro buono e fruttuoso. Una caratteristica centrale del lavoro del network è infatti quella di dare la possibilità agli studenti di approcciarsi al mondo professionale attraverso incontri con professionisti del settore in modo da apprendere e confrontarsi. E’ una buona palestra e un’ottima opportunità di crescita soprattutto per chi ambisce in futuro a lavorare in questi ambiti. Allo stesso tempo gli stessi professionisti hanno la possibilità di trarre spunti interessanti e utili proprio grazie alla collaborazione dei CSRnatives.
Che percezione avete “lato aziende”, su queste tematiche?
Com’è noto il network è sostenuto da alcune importanti aziende italiane (Etica SGR, Leroy Merlin, Unipol, Vodafone, Consorzio imballaggi Alluminio, Mediolanum Banca). Questa collaborazione permette ai membri del network di avere una visione completa su alcune delle realtà imprenditoriali più sensibili e attive nel campo della CSR. Chiaramente l’analisi e il confronto vogliono essere tutt’altro che autoreferenziali, il network ha una visione ad ampio spettro, non a caso il titolo dell’ultimo lavoro è “L’azienda che vorrei”. La percezione che si ha in generale, supportata anche dai dati è di una crescita di interesse e consapevolezza di queste tematiche da parte delle imprese.
Quali sono le *tue* personali motivazioni in questo impegno associativo?
L’idea di apprendere e confrontarmi con persone competenti (professionisti) e coetanei con cui condivido l’interesse nella sostenibilità, nell’impegno nel sociale e nell’innovazione sono i principali stimoli che mi hanno spinto ad aderire a CSRnatives. Una volta entrato nel network ti rendi conto di trovarti in luogo estremamente aperto che dà la possibilità di esprimersi e contribuire in modo rilevante alla realizzazione di tutti i progetti. Ambizione di creare qualcosa di nuovo attraverso la collaborazione con gli altri, crescita personale e professionale sono le principali motivazioni che animano il mio impegno come CSRnative.




Gli influencer e la pubblicità: viaggio nella giungla del non detto

Se il contenuto è promozionale, bisogna dirlo chiaramente. In Italia non esiste una norma ad hoc, mentre gli Stati Uniti hanno dato indicazioni precise

Alle aziende ormai sono più graditi dei classici testimonial. Sono gli influencer, coloro che, per via del grande seguito che hanno sui social network e sul web, sarebbero in grado di orientare le mode. Attori, modelle, vip del piccolo schermo o star ascese direttamente dalla rete all’empireo dei divi. La loro fortuna sta nella fama o nella credibilità che hanno raggiunto tra il pubblico.

Nei budget di marketing delle società più strutturate la voce influencer è ormai distinta da quella di canali più tradizionali, come la televisione e i giornali. La società di ricerche di mercato Mediakix stima che entro il 2019 solo su Instagram l’influencer marketing possa sfondare il traguardo di 2,3 miliardi di dollari, raddoppiando in 24 mesi il miliardo di dollari previsto per quest’anno.

Negli Stati Uniti, d’altronde, i cachet sono stellari. “Si possono pagare fino a 300mila dollari per un post per i personaggi che hanno un’audience di milioni di follower, come le Kardashian”, spiega Karim De Martino, vicepresidente dello sviluppo del business in Europa di Instabrand, società di influencer marketing nata a Los Angeles nel 2014, che nel 2016 ha chiuso l’anno con 9 milioni di dollari di fatturato.
Anche in Italia gli affari si muovono. La sola Instabrands ha visto raddoppiare i suoi ricavi lo scorso anno e ha siglato accordi con colossi della pubblicità, come la storica agenzia francese Publicis e il centro media globale GroupM.
La nuova industria dell’influencer marketing, tuttavia, ha aperto questioni legali. Perché se le aziende corteggiano queste star della rete per far conoscere al pubblico i loro prodotti, quanto sono sinceri e spontanei i contenuti web degli influencer? L’influencer indossa quella specifica felpa perché la trova veramente elegante o perché ha ricevuto soldi per farlo? Soggiorna in quel dato albergo perché l’accoglienza è con i guanti bianchi o perché l’ospitalità è offerta per farsi pubblicità? La crema che si spalma in viso ha proprietà eccezionali o è solo sponsorizzata dietro cachet? In sostanza, quanto è attendibile per il consumatore la sua raccomandazione?
Gli Stati Uniti, culla dei social network e, di conseguenza, degli influencer, hanno anche messo a punto le prime regole del settore. Nel 2009 la Federal Trade Commission, l’agenzia indipendente che si occupa della difesa dei consumatori, ha stilato le prime raccomandazioni e l’anno scorso ha prodotto un manuale sull’argomento.
Hashtag come #sponsored, #sp o #spon o frasi rituali come “thanks to”non sono più sufficienti, ma è doveroso far capire che l’azienda ha consegnato il prodotto all’influencer o lo ha pagato. Su Instagram l’agenzia statunitense pretende che la società sponsor sia taggata nel post e bene in evidenza e che hashtag come #ad, #adv o #sponsored non siano annegati nella massa, ma risultino tra i primi e leggibili per l’utente.
Il consumatore deve essere messo nelle condizioni di capire, senza troppi sforzi, che quel contenuto è frutto di un accordo commerciale tra azienda e influencer e ogni accorgimento che può rendere più trasparente questo rapporto è ben accetto.
In Italia non esiste una norma specifica. Si occupano della materia l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria (Iap), che ha il compito di far rispettare il codice pubblicitario nazionale (compilato e promosso dalle stesse aziende che lo usano), e il codice del consumo. Nel 2016 Iap ha promosso una Digital chart per orientare i propri associati alle regole da rispettare sul web. “Il fine promozionale del commento o dell’opinione espressa da celebrity/influencer/blogger, qualora non sia già chiaramente riconoscibile dal contesto, deve essere reso noto all’utente con mezzi idonei”, si legge nel documento. Come? Inserendo hashtag abbinati alla campagna pubblicitaria in corso, link al sito internet dell’azienda o taggando il profilo social della società nel post.
L’articolo 23 del Codice del consumo – spiega Paolo Peroni, socio dello studio legale Rödl & Partnerconsidera illecita la condotta consistente nel dichiarare o lasciare intendere, contrariamente al vero, che un soggetto stia agendo quale consumatore e non nell’ambito di un’attività remunerata. Volente o nolente, il blogger che agisce quale testimonial di un brand è tenuto a rivelarlo ai propri follower”.
È un terreno scivoloso – prosegue il legale – perché la forma di remunerazione non consiste solo nella corresponsione di un compenso, ma anche con forme di incentivo come il prestito di una borsa o l’invito a una manifestazione”. Se il messaggio non è chiaro, si rischiano sanzioni fino a un milione di euro per pubblicità occulta, a carico sia delle aziende sia degli influencer.
Ritengo opportuno che l’Italia si doti di regole strutturate per blogger e influencer” risponde via mail a Wired Manuela Vitulli, che in rete si è fatta conoscere con il blog Pensieri in viaggio e ora ha 43mila follower su Instagram e 12mila 900 su Twitter. Per Vitulli un regolamento “non riguarda solamente i post sponsorizzati, ma anche il fatto che oggigiorno in Italia la nostra figura non è (ancora) ben definita dai codici di classificazione delle attività economiche. Credo dunque che ci sia bisogno di regolamentare un po’ tutto iniziando a considerare la nostra una vera realtà professionale”.
Spesso pubblico dei post in cui menziono dei prodotti. A volte questi prodotti vengono citati da me spontaneamente, perché acquistati da me in prima persona. Altre volte, invece, questi prodotti vengono mostrati in seguito ad accordi con brand (o agenzie per conto del brand)”, spiega l’influencer. “Purtroppo in Italia non ci sono ancora delle precise linee guida – ammette la travel blogger -, quindi non sempre ci viene richiesto di inserire i tag #sponsored o #ad, come funziona in America. Va da sé che la linea tra un post sponsorizzato ed un post spontaneo in cui viene mostrato un prodotto si fa molto sottile, quasi invisibile”.
Per Maria Rosaria Rizzo, fondatrice del blog di moda La Coquette italienne, “il cambiamento tecnologico è semplicemente più veloce della capacità che i governi hanno nel regolamentarlo e in questo modo nascono delle zone grigie. In ogni caso non credo che ci sia questa grande necessità di regole strutturate, perlomeno fino a quando non sarà chiara la figura del “web influencer” e che cosa il proprio profilo rappresenti dal punto di vista legale. L’influencer al momento ha semplicemente sostituito la figura delle celebrities di un tempo“. La Rizzo precisa che il 90% dei suoi contenuti sono editoriali e che la maggior parte dei suoi introiti deriva dalle vendite online, mentre dall’attività di influencer ha ricavato meno di 100mila euro in un anno.
Mediakix ha calcolato che l’anno scorso su Instagram sono circolati 9,7 milioni post pubblicitari, ossia con hashtag come #ad, #sponsored, #spon o #sp. E quest’anno stima che aumenteranno a 14,5 milioni fino a 32,3 milioni nel 2019. Siamo di fronte a una valanga di contenuti sponsorizzati, più o meno chiari. Per questo si studiano regole precise sul settore.
L’influencer funziona perché coinvolge da vicino il pubblico – approfondisce De Martino – Sembra un amico, supera gli ad block degli utenti e la cecità verso i tradizionali banner pubblicitari. Questi che oggi sono gli influencer, un tempo erano i comici di Zelig. La loro bravura è saper seguire l’evoluzione dei canali di comunicazione e dei social”. Di recente De Martino ha lavorato a un progetto della casa automobilistica Lexus con l’attore Jude Law. E il budget arrivava dal capitolo influencer.
Aggiornamento 27 aprile, ore 15.03: L’Unione nazionale consumatori ha presentato un esposto all’Antitrust per accertare la natura delle foto di vip con prodotti o marchi ben visibili e “la legittimità di questa sorta di product placement camuffato sui social network“. “L’obiettivo dell’associazione – si legge in una nota – è quello di ottenere maggiore trasparenza: la proposta è che, d’ora in poi, accanto alla foto, compaia una didascalia di accompagnamento che informi correttamente il fan del carattere promozionale del messaggio, nel rispetto del Codice del Consumo, che all’art. 22 prescrive di indicare l’intento commerciale di una pratica promozionale“.




COTONE E MAIS: LE SCARPE BIODEGRADABILI DI REEBOK

IL MARCHIO STATUNITENSE È PRONTO A LANCIARE DELLE SCARPE BIODEGRADABILI CHE POTRANNO ESSERE COMPOSTATE

L’economia circolare in questi ultimi anni è penetrata in alcuni settori più che altrove. Negli ultimi tempi, per esempio, abbiamo visto molti brand del settore dell’abbigliamento farsi più coscienziosi nei confronti dell’ambiente, andando a invitare i propri clienti a riportare nei negozi i propri vestiti usati affinché questi ritrovino nuova vita: è il caso del marchio internazionale H&M, che fin dal 2013 invita a depositare i capi d’abbigliamento usato negli appositi cassonetti all’interno dei negozi affinché questi vengano recuperati o riciclati. Ma non è tutto qui: non si sta solamente provando a dare nuova vita alle fibre tessili. Alcuni innovatori stanno infatti cercando di fare di più, portando fin dall’inizio il settore dell’abbigliamento sui binari dell’ecosostenibilità: è per esempio il caso di Wineleather, ovvero della pelle vegan prodotta a partire dalle vinacce e presentata pochi giorni fa a Vinitaly. Anche alcune aziende al top, però, stanno iniziando a muoversi nella giusta direzione. Avete sentito parlare di Reebok e delle sue scarpe biodegradabili di origini vegetale?
scarpe biodegradabili

Cotton + Corn: scarpe biodegradabili di mais

La Reebok è una compagnia industriale statunitense che fin dal 1895 produce scarpe da corsa e abbigliamento sportivo: il suo fondatore, Joseph William Foster, è stato un vero pioniere nella creazione e nello sviluppo delle calzature sportive. Ma a quel tempo, ovviamente, non si faceva assolutamente caso alla sostenibilità dei materiali utilizzati. Del resto, tutt’oggi il mercato presenta molti capi ed accessori che tutto si possono definire meno che sostenibili. Le stesse scarpe da ginnastica, con le loro suole in gomma e gli inserti in plastica, non sono poi pensate per essere riciclate comodamente, anzi. Il problema però scompare con le nuove scarpe Reebok, che si chiamerannoCotton + Corn, ovvero cotone e mais: queste saranno infatti delle scarpe biodegradabili, che non rilasceranno né ora né mai delle sostanze inquinanti o tossiche per l’ambiente. Ma come si è potuti arrivare a delle scarpe biodegradabili?
scarpe biodegradabili

Ripulire il ciclo di vita delle calzature

Per poter portare sul mercato le proprie scarpe biodegradabili Cotton + Corn la Reebok ha avviato una collaborazione con la DuPont Tate & Lyle Bio Products, un’azienda che si dedica alla creazione di prodotti innovativi e completamente sostenibili. Ed è così, grazie a questa lungimirante partnership, che sì arrivati a delle scarpe biodegradabili: la tomaia è infatti realizzata con il solo cotone, mentre la suola è fatta con il mais, ovviamente molto più sostenibile della normale gomma. Come ha voluto spiegare Bill McInnis, Vice presidente del team Reebok Future, «Reebok sta cercando di ripulire l’intero ciclo di vita delle proprie calzature, a partire dal materiale con cui sono realizzate fino a come vengono smaltite a fine vita».

Scarpe compostabili per realizzare nuove scarpe

Non solo, dunque, queste nuove scarpe biodegradabili possono vantare una produzione del tutto sostenibile. Il loro punto forte, infatti, sta proprio nello smaltimento. Nello specifico, secondo il piano di Reebok, queste le scarpe biodegradabili in cotone in mais, una volta dismesse dai clienti, potranno essere utilizzate per creare del compost, il quale verrà a sua volta utilizzato per concimare del terreno in cui coltivare mais e cotone. In questo modo, dunque, le stesse scarpe biodegradabili potranno dare i nutrienti necessari alla produzione di nuovi cotone e mais per il paio di scarpe successivo. Quale migliore e più esplicativo esempio di economia circolare? La volontà di Reebook, come ha affermato Mc Inniss, è infatti quella di «controllare l’intero ciclo».

«Questo è solo il primo passo di tanti per Reebok, in quanto il nostro obiettivo è quello di creare una ampia gamma di scarpe di origine vegetale che possono poi essere compostate alla fine del loro utilizzo».

Il motto di Reebok – che prende il nome dalla dizione afrikaans di rhebok, un’antilope africana – è «be more human» e secondo il presidente Matt O’Toole, «per essere più umani la sostenibilità è una parte fondamentale del processo, e come esseri umani abbiamo la piena responsabilità di lasciare questo pianeta alle generazioni future come l’abbiamo trovato».

Sulle orme di Adidas, e oltre

Da più di dieci anni il marchio Reebok è stato acquistato dal colosso tedesco dell’abbigliamento sportivo Adidas, il quale si mostra fortemente impegnato sul lato ambientale. Nel 2015, per esempio, l’azienda aveva presentato il primo paio di scarpe mai confezionato con dei rifiuti raccolti dagli oceani. Ma aldilà di questi atti ‘propagandistici’, l’azienda tedesca ha voluto pubblicare i propri obiettivi per quanto riguarda la sostenibilità nei prossimi anni. L’imperativo è quello di ridurre lo spreco di acqua, sia a livello dei propri stabilimenti che a quello dei propri rifornitori, oltre a diminuire concretamente la mole di rifiuti prodotti: Adidas mira per esempio a ridurre il consumo di carta del 75%, oltre che aumentare la quota di riciclo complessivo interno del 50% entro il 2020.