Csr: il futuro di eBay tra ambiente, sostenibilità e sharing economy

eBay sta cercando di dipingersi come un’azienda che mantiene le promesse. Sperando di constatare che effettivamente le mantiene, diamo un’occhiata al suo annual update, il primo che realizza, nel quale sono contenuti parecchi buoni propositi e parecchi risultati relativi al 2013, base dalla quale la società riparte.
GIGANTI E INFLUENZA – Un colosso con oltre 33 mila di dipendenti in tutto il mondo sa benissimo l’influenza che ormai ha sulle abitudini – in questo caso di compravendita – dei propri clienti. Il mese scorso ha annunciato una serie di obiettivi per andare sostanzialmente incontro ai valori degli stakeholder, da perseguire nei prossimi 3 anni per generare un cambiamento sociale e di tipo ambientale. Obiettivi condivisibili, non c’è dubbio.
“Abbiamo pensato a lungo e creduto nella capacità di eBay di guidare i valori degli stakeholder e, allo stesso tempo, il cambiamento, che è di fatto costruito in quello che facciamo ogni giorno”, ha infatti spiegato Lauren Moor, capo del Global Social Innovation. E si parla di crescita sostenibile, definizione spesso utilizzata per il suo appeal più che come descrittore di realtà davvero sostenibili. E eBay da che parte sta? Il documento appena diffuso si divide in 3 aree: creare opportunità economiche, spingere il commercio green, dare impulso a opere di beneficenza. Ecco quindi anche i 3 obiettivi principali di eBay.

OPPORTUNITA’ ECONOMICHE – Da sempre eBay si è caratterizzata per il suo intento di sostenere piccoli e medi imprenditori, spesso fai-da-te. Solo nel 2013 ha fatto registrare volumi commerciali per 205 mld di dollari, il 18% dell’e-commerce a livello mondiale. Per il 2015 le stime parlano di 300 mld di dollari. Grazie ad una serie di partnership con il mondo noprofit e con business accelerators, sono stati anche ottenuti fondi per imprenditori alla fase iniziale della loro avventura, il che si è tradotto in 52 mila micro-imprese nuove e 2,2 milioni di imprese composte da singoli imprenditori.

IL COMMERCIO GREEN – L’impegno è quello del taglio delle emission. eBay nel 2013 ha utilizzato energia pulita per il 7,5%. Questo include un impianto installato nel suo data center nello Utah e l’acquisto di energia pulita al 100% per il centro di customer center nello stesso Stato. Lo stesso meccanismo vale per gli uffici in Germania a Berlino e Dreilinden in Irlanda a Dublino, dove si consuma energia verde.
Ma anche le procedure di consegna sono state riviste perché il loro impatto ambientale sia ridotto ed è stato promosso l’utilizzo di imballaggi sostenibili, così come di modelli di trasporto ottimizzato per limitare le emissioni di CO2. Altro impegno portato avanti nel 2013, quello nato dalla creazione del “Supplier Code of Business Conduct and Ethics”, che ha chiesto ai fornnitori di aderire a condotte che prevedono integrità dal punto di vista della csr (quindi sul fronte ambientale e su quello dei diritti dei lavoratori).
LA SOLIDARIETA’ – eBay ha supportato varie cause in tutto il mondo, impegnandosi ad esempio in occasione di raccolte fondi. Tutto questo si è tradotto in 4,9 mld di dollari di donazioni a favore di organizzazioni noprofit.
I DIPENDENTI – In questo scenario, i dipendenti sono stati coinvolti: lo stesso report parla di 7.855 dipendenti che hanno preso parte almeno ad uno dei programmi di social innovation. Così sono diventati anche volontari, hanno aiutato a piantare alberi, a ripulire parchi, a costruire abitazioni per persone in difficoltà.
IL FUTURO – La sharing economy si sta diffondendo sempre di più e in tutto il mondo le aziende ne stanno tenendo conto. Inutile dire che per eBay questo discorso vale doppio e che, per il tipo di business, ha come imperativo quello di tenere d’occhio l’evolversi delle abitudini d’acquisto del cliente potenziale.
Ecco perché l’intenzione è quella di far leva sulla tecnologia per agevolare il commercio peer-to-peer. Nella pratica, ad esempio, si lavora sistematicamente sulla sicurezza delle piattaforme e delle transazioni, spesso fianco a fianco con le istituzioni dei vari Stati, sempre con l’intento di generare e condividere best practice e modelli.


Foxconn: gli operai della fabbrica dei suicidi verranno sostituiti dai robot

Foxconn ha deciso di modificare le proprie strategie di produzione. Si tratta di uno dei più tristemente noti fornitori di Apple e Dell. Foxconn in passato ha ammesso di aver sfruttato stagisti minorenni nei propri stablimenti.
Di recente aveva annunciato di voler puntare alla sostenibilità e di voler aprire si sindacati. Ma la strada da percorrere è ancora lunga. I robot sostituiranno gli operai?
Un androide per evitare i suicidi e per ridurre il numero di persone coinvolte in un lavoro faticoso da svolgere in condizioni disumane. Potrebbe essere questa la motivazione della futura svolta di Foxconn. Ora i robot sarebbero arrivati ad una fase finale di test e presto raggiungeranno gli stabilimenti.

E’ probabile che la ragione principale della nuova idea risieda nell’aumento di produzione necessario per la realizzazione dell’iPhone6. Il tutto per rispondere alle richieste di un mondo sempre connesso e sempre più legato alle nuove tecnologie. Si prevede che Foxconn introduca 10 mila robot, detti Foxbot, e che ognuno di essi sia in grado di produrre oltre 30 mila dispositivi.

L’introduzione dei robot non ridurrà l’offerta di lavoro. La produzione è talmente in crescita sulla base delle richieste internazionali che di recente l’azienda ha deciso di assumere altri 100 mila operai. Serviranno a far fronte alla realizzazione di nuovi prodotti, come iPhone di dimensioni diverse e smart-watch. Ma quali saranno le condizioni di lavoro degli operai?
Ciò che è certo è che i robot – in una visione cinica, che punta al profitto facile – non si ammalano, non protestano, non hanno necessità di vitto e alloggio, non causano problemi di gestione e non si suicidano. Foxconn in questo modo risolverebbe parte dei propri problemi e sfuggirebbe alle accuse relative alle assurde condizioni di lavoro dei propri operai.
Anche dopo l’annunciata apertura di Foxconn ai sindacati, pare che non cambierà molto. Addirittura, in passato, l’azienda aveva negato che gli operai avessero indetto uno sciopero di protesta. Soltanto se all’introduzione dei robot si accompagnerà un migliore trattamento dei lavoratori, Foxconn si starà muovendo in maniera corretta per migliorare la propria CSR, ricordando che delle sue scelte risentono i marchi più noti di cui è fornitore, a partire da Apple.
Nel lungo periodo i robot, dei macchinai all’avanguardia, dovrebbero ridurre i costi e aumentare la produttività, con vantaggi economici innegabili per l’azienda. Daremo loro il benvenuto soltanto se saranno accompagnati da interventi utili per ridurre il numero di suicidi e le condizioni di malessere e di sfruttamento del lavoro tra gli operai.


Quando biologico non coincide con CSR: il caso Eden Organic e copertura contraccettiva dipendenti

Eden Foods, azienda statunitense che produce alimenti biologici con il marchio Eden Organic, si rifiuta di pagare per la copertura contraccettiva dei propri dipendenti.
L’azienda ha citato in giudizio l’amministrazione Obama in merito all’Affordable Care Act, un provvedimento introdotto negli Usa nel 2010 che mira a rendere più accessibile la copertura assicurativa sanitaria.
Secondo Eden Foods Inc, l’Affordable Care Act viola la libertà religiosa dell’azienda, che non vuole avere nulla a che fare con la copertura assicurativa sanitaria dei propri dipendenti per quanto riguarda il controllo delle nascite, i farmaci abortivi e contraccettivi.
Eden Foods si definisce la più antica azienda di alimenti biologici del Nord America. Essere favorevoli all’agricoltura biologica però non necessariamente coincide con l’essere progressisti. L’azienda è di proprietà esclusiva di Michael Potter, un fervente cattolico che si oppone alla pillola anticoncezionale.
A suo parere la pillola contraccettiva e i farmaci abortivi quasi sempre coinvolgono pratiche immorali e innaturali. Lo scorso ottobre la Corte d’Appello si è espressa contro Eden Foods, sostenendo che un’azienda incentrata sul profitto non può esercitare principi religiosi.
Viceversa, nel caso dell’azienda Hobby Lobby, a conduzione familiare, la stessa Corte Suprema ha sentenziato che in questo caso le aziende possono utilizzare la religione come pretesto per violare le disposizioni relative alle assicurazioni sanitarie sul controllo delle nascite. Eden Foods sarebbe una delle poche grandi aziende che si sono ribellate ufficialmente all’Affordable Care Act. A quanto pare la Corte dovrà riconsiderare la propria decisione su Eden Foods, alla luce di quanto stabilito per Hobby Lobby.
Sul proprio sito web l’azienda parla del proprio impegno per l’agricoltura biologica e locale, per la responsabilità sociale e per l’efficienza energetica, sottolineando che uno dei propri principi fondanti è la sostenibilità. Una sostenibilità che però a quanto pare non si esprime nel rispetto delle scelte dei dipendenti per quanto riguarda il controllo delle nascite e la pianificazione familiare.
Sull’argomento sono nate contestazioni e incoraggiamenti al boicottaggio da parte dei consumatori, che hanno espresso il proprio parere tramite i social network. Ma Eden Foods non sembra curarsene molto e spera di avere la meglio per supportare le proprie ragioni, del tutto a favore del conservatorismo, tanto che Potter avrebbe definito Obama un “dittatore” che starebbe agendo per minare i diritti dei propri cittadini.


IL MODELLO WALMART: L’UNICO MODO PER USCIRE DALLA CRISI E’ ABBASSARE I SALARI?

La ricetta rilanciata a ogni nuova crisi dalle grandi Corporation americane, che prevede una compressione dei diritti dei lavoratori dipendenti a favore dei dividendi per gli azionisti e della liquidità per le aziende, è una vera soluzione? I dati sembrano smentirla.


 
L’area Euro-atlantica – e gli Stati Uniti in particolare, visti i poderosi mezzi della Federal Reserve – sono la migliore cartina di tornasole per verificare l’efficacia delle misure macro-economiche per sostenere l’industria, l’occupazione e il benessere.
C’era un’epoca – dal dopoguerra fino agli anni ’70 – nella quale le condizioni dei cittadini di tutte le fasce di reddito – poveri, classe media e ricchi – miglioravano ogni anno. Poi, come denunciato in un recente articolo di Harold Mayerson, columnist del Washington Post, “all’improvviso tutto cambiò”.
E non solo per la crisi del petrolio, bensì per il venir meno degli equilibri delicati che da sempre avevano regolato i rapporti tra grande industria, sindacati e lavoratori. La ricchezza ha smesso di essere “redistribuita”, come auspicavano i grandi capitalisti americani della prima metà del secolo scorso, secondo i quali – per citare il Presidente della Standard Oil of New Jersey/Exxon – “il compito del management dev’essere mantenere un equilibrio giusto e funzionale tra gli interessi degli azionisti, dei dipendenti, dei clienti finali e dell’opinione pubblica”. Da metà anni ’70, infatti, la produttività USA è aumentata dell’80%, ma la retribuzione media solo dell’11%, e il trend si è mantenuto anche negli ultimi decenni: dal 2000 a oggi, + 18% di aumento di produttività, e salari medi addirittura diminuiti del 12,4%. Perché? La risposta è in quello che alcuni osservatori definiscono “walmartizzazione” dell’economia. In cosa consiste questo modello?
Già nel 1962, il fondatore di Walmart, Sam Walton, pagava i suoi dipendenti la metà del salario minimo obbligatorio per legge. La legge del salario minimo valeva solo per le aziende con più di 50 dipendenti, e lui per aggirarla tentò di sostenere che ogni suo negozio era “un’azienda a se stante”. Perse la vertenza con il Ministero del Lavoro, ma questa sua impostazione del rapporto con i dipendenti pare costituire tutt’ora la “cifra” del più grande datore di lavoro privato del mondo, con oltre 2 milioni di dipendenti: nel commercio al dettaglio gli stipendi pesano mediamente il 10% sulle vendite, i manager Walmart hanno mandato di comprimere questa voce di costo tra i 5 e l’8%; dopo l’arrivo di un negozio Walmart in una contea, tutti i salari medi di abbassano; Walmart come principale commerciante al dettaglio in USA, impone i propri prezzi a tutta la catena di fornitura, riducendo molto i margini di utili e quindi obbligando anche i fornitori a pagare meno i dipendenti, se vogliono sopravvivere; non pochi dipendenti Walmart lavorano formalmente per agenzie di lavoro interinale, senza garanzie sindacali, anche se fanno lo stesso lavoro da anni; quando i dipendenti di un magazzino Walmart in Canada hanno votato per aderire al Sindacato, l’azienda semplicemente ha chiuso il negozio; quando i macellai di un punto vendita Walmart hanno espresso la medesima intenzione, Walmart ha chiuso la macelleria di quel punto vendita e – per dare un buon esempio…? – in tutto il Texas e nei sei Stati confinanti.
A detta dei detrattori di Walmart, queste circostanze rendono l’idea delle politiche aziendali del colosso della grande distribuzione, orientate in via esclusiva alla massimizzazione del profitto per gli azionisti. La cosa curiosa però è che a un aumento della redditività degli azionisti, costante negli ultimi decenni in USA, non corrisponde affatto un parallelo miglioramento degli indici macro-economici generali: fondamentalmente, la classe media non ha più il denaro per acquistare i beni che le industrie stesse producono, e questo – nel medio-lungo termine – non è nell’interesse stesso degli azionisti delle aziende manifatturiere, i quali però – a quanto pare – faticano a comprendere che questa strategia finisce per assottigliare la loro stessa base di clientela.
L’elevatissima “mobilità” dei manager non aiuta: “Se tra due anni sarò a lavorare per un’altra azienda che mi pagherà di più, perché dovrei preoccuparmi del vero interesse per i miei attuali azionisti nel lungo termine? Meglio ottimizzare i miei bonus ora”, pare essere il mantra del top-management USA.
Eppure esistono modelli differenti. I colossi dell’industria tedesca – Daimler, Siemens, Basf, per citarne solo alcuni – sono presenti su tutti i mercati, ma salari e benefit sono almeno di un terzo più alti di quelli in vigore in USA; la formazione professionale in Germania è ai primi posti delle preoccupazioni del management, mentre in USA è quasi totalmente ignorata; in Germania, ogni azienda con più di mille dipendenti ha nel Consiglio di Amministrazione – per legge – un egual numero di rappresentanti dei dipendenti rispetto a quelli degli azionisti, cosa inimmaginabile in USA. Eppure queste aziende guadagnano egualmente, distribuiscono importanti dividendi ai loro azionisti, e la Germania ha un surplus commerciale enorme, a fronte del deficit della bilancia commerciale USA che è il più alto del mondo.
E la Germania non è ovviamente l’unico caso di modello che funziona, opposto a quello USA. Il Gruppo Ferrero, colosso dolciario italiano, ha basato il proprio modello di business in senso esattamente opposto a Walmart: “coccola” i propri dipendenti con stipendi più alti della media di mercato, e li segue in ogni loro esigenza anche dopo il pensionamento. Le iniziative sociali e culturali sono così numerose da non essere elencabili, e ci sono addirittura dei piccoli furgoni che portano la spesa a casa di quegli ex-dipendenti anziani a mobilità ridotta. “Siamo come una grande famiglia”, ha più volte esclamato il patron dell’azienda, Michele Ferrero, recentemente mancato. L’azienda è tra le prime dieci al mondo nel suo settore, con oltre 8 miliardi di euro di fatturato, il marchio è stato indicato da una ricerca indipendente come “il più affidabile al mondo”, ha ricevuto innumerevoli premi per la qualità dell’ambiente di lavoro, e – contemporaneamente – i dividendi dell’attività industriale sono stati tali, negli anni, da fare di Michele Ferrero il 30° uomo più ricco al mondo, con un patrimonio personale di oltre 24 miliardi di euro. Eppure i suoi dipendenti lo ammiravano e lo rispettavano, non lo “odiavano” o lo “invidiavano”. Anche nelle PMI vi sono moltissime storie di eccellenza: GUNA S.p.a. è l’azienda leader in Italia nella produzione e commercializzazione di farmaci naturali e di origine biologica. “E’ un bel posto dove lavorare”, afferma Antonella Zaghini, “storica” capo-segreteria di Presidenza, in azienda da prima della Sua fondazione: “Camminavo per strada e vidi un cartello, cercavano un’apprendista con funzioni amministrative. Sono ancora qui oggi, come tanti colleghi: il turn-over è basso, da noi se sei in GUNA da 10 anni non dico che sei un novellino ma quasi. Entrano sempre nuovi assunti, energie fresche, ma è abbastanza raro che una persona si licenzi prima della pensione”. Anche in questo caso, gli azionisti incassano un robusto dividendo, in quanto il giro d’affari è sempre positivo, da un trentennio a questa parte, e l’azienda ha espanso il suo business fino a distribuire i propri farmaci in 29 paesi del mondo.
Queste realtà – Daimler, Siemens, Basf, Ferrero, Guna, ma potremmo citare anche aziende in altri paesi – paiono smentire nettamente l’affermazione di Jack Welch, all’epoca Amministratore delelegato del colosso USA General Electric, che in una convention per gli azionisti al Pierre Hotel di New York, disse: “La fedeltà all’azienda è una sciocchezza”: sono i numeri stessi – tanto cari al pragmatismo USA – che la contraddicono, come ci ricorda anche una bella ricerca della Harvard University che conferma che le aziende più attente alla soddisfazione di tutti i loro pubblici sono anche quelle che sul medio-lungo periodo garantiscono un maggiore incremento del valore per gli azionisti.
Gli USA non sono solo le loro banche e la loro borsa: sono tutta la nazione, è ciò include sia gli imprenditori che i dipendenti. Le correlazioni tra benessere generale della popolazione, soddisfazione dei dipendenti, successo a lungo termine delle aziende e ricchezza degli imprenditori, sono strettissime: è la scienza stessa a dimostrarlo.
Forse per Walmart è troppo tardi per capirlo. Ma – per fortuna – il modello Walmart non è l’unico vincente al mondo.
 


Luca Poma intervista Rossella Sobrero

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