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Avis e la campagna fake: come gestire la comunicazione quando c’è di mezzo una bufala?

Per un brand che comunica sui social media una crisi d’immagine può scatenarsi per molti motivi diversi: una campagna mal strutturata o una campagna che si trova a dover fronteggiare un contesto improvvisamente avverso.

O, ancora, una dichiarazione infelice di un personaggio di spicco legato al brand o l’associazione del brand stesso a un fatto percepito come negativo possono far scattare la molla di un “epic fail” che può colonizzare l’attenzione del pubblico per giorni.

Un po’ più raro, ma altrettanto possibile, è quando un brand diventa protagonista di una “bufala”: insomma, un fatto non vero o completamente inventato che però ha il potere di diventare virale e far parlare di sé, non necessariamente in termini lusinghieri.

È quello che è successo qualche giorno fa ad – l’Associazione Volontari Italiani del Sangue – che si è ritrovata improvvisamente sotto i riflettori dopo essere diventata suo malgrado protagonista di una “falsa campagna” per incentivare le donazioni di sangue. Falsa campagna che, ovviamente, è stata presa per vera, con tutte le conseguenze del caso.

avis bufala ermes maiolica

L’autore del poster diventato virale in rete è Ermes Maiolica, noto “bufalaro” famoso un po’ in tutto il web italiano per la sua incessante attività di pubblicazione di – alcune particolarmente ben riuscite – che da anni porta avanti quella che definisce essere una “missione pedagogica” contro la disinformazione sul web. Naturalmente, come accade con la quasi totalità delle “creature” di Ermes Maiolica, anche il poster della finta “campagna” di Avis è stato preso per vero e in molti si sono riversati sulla pagina Facebook dell’Associazione per chiedere spiegazioni. A quel punto Avis risponde pubblicamente con un post dai toni ironici che esprime la lusinga per essere entrati nel “mirino” del “re delle ”:

avis bufala ermes maiolica

Purtroppo per Avis, però, l’ironia non ottiene l’effetto sperato e il post volutamente “leggero” viene equivocato dagli utenti di Facebook ,che finiscono per pensare che Avis abbia “commissionato” a un personaggio come Ermes Maiolica una campagna virale. Il mood volgarotto e sessista del manifesto fa il resto. E la frittata è servita:

avis bufala ermes maiolica

E al social media manager non resta che intervenire specificando che no, Avis non c’entra nulla con la “trovata” di Ermes Maiolica:

avis bufala ermes maiolica

Ma il chiarimento non sembra essere sufficiente, sopratutto dopo che compare un secondo manifesto sempre ad opera dello stesso autore…


… che scatena commenti ancora più indignati:
avis bufala ermes maiolica

A quel punto Avis deve per forza cambiare strategia: abbandona i toni scherzosi e si mette “a fare sul serio”, sia nei confronti di chi dimostra di apprezzare la bufala che dello stesso Maiolica, che si palesa nei commenti a mo’ di ringraziamento:

avis bufala ermes maiolica
 
avis bufala ermes maiolica

Inutile far finta che non sia vero: le bufale sono fatte apposta perché la gente ci caschi e, peggio ancora, per fare in modo che le persone continuino ad arrabbiarsi anche dopo che siano state svelate come tali. Nel caso di Avis, il social media manager probabilmente non poteva immaginare che “dare corda” all’autore della bufala anche solo per lo spazio di un post avrebbe causato una tale reazione negativa degli utenti.

In un periodo dove si parla sempre più spesso di fake news, colui che diffonde false notizie viene percepito quantomeno come un personaggio fumoso dagli scopi oscuri e un brand che si vede associato a una bufala rischia la propria credibilità nonostante non abbia nulla a che fare con la bufala stessa e nonostante ne venga svelato l’intento ironico. Tuttavia, quel primo post di ringraziamento al “re delle bufale” ha il potere di confondere molti utenti, forse poco avvezzi a quel sottobosco satirico del web a cui ci hanno abituato personaggi come Ermes Maiolica.

Avis mette un punto alla faccenda il giorno successivo con un post che, se da una parte vuole chiedere in qualche modo scusa a chi si è sentito offeso dal “gioco” e rinfrancare il rapporto di fiducia tra l’Associazione e i suoi donatori, dall’altra suona un po’ come una tirata d’orecchie nei confronti dell’autore della bufala:

avis bufala ermes maiolica

Il problema, però, non è tanto chiedere scusa per essere stati oggetto di una “bufala” o perché il logo di un’associazione importante come AVIS sia stato associato a immagini denigratorie per la professione infermieristica, né strigliare chi si è impossessato di quel logo per scopi opinabili: a confondere gli utenti e a peggiorare la faccenda è stata l’assenza di una linea coerente da parte di Avis, che prima si dice lusingata per l’accaduto ma poi, vedendo che l’intento ironico non veniva compreso, ha dovuto cambiare strategia.

E se al team social di Avis va tanta solidarietà per una giornata che certamente non deve essere stata tra le più facili, la faccenda della “campagna fake” dimostra quanto sia importante non dare mai nulla per scontato quando si tratta di dialogare con gli utenti e che conoscere il proprio pubblico è una questione cruciale per sapere come impostare la propria social media strategy: la situazione peggiore in cui ci si può trovare è essere sul punto di pubblicare qualcosa e improvvisamente chiedersi se gli utenti capiranno i nostri scopi senza alcun tipo di fraintendimento. Quando poi ci si mettono di mezzo le bufale…

Lesson Learned: è impossibile prevedere le circostanze in cui può nascere una conversazione attorno al tuo brand, e la piega che può prendere. Fai però in modo di dimostrare di avere sempre il polso della situazione e di tenere una linea salda e coerente anche in caso di un’improvvisa ondata di “visibilità non richiesta”.




Matcha Pink Drink di Starbucks: quasi #Epicfail Instagram

Mentre in Italia si sta spegnendo (forse) la polemica circa l’arrivo di Starbucks a Milano con relativa discussione aggiuntiva sulle palme in Piazza Duomo, il colosso statunitense delle caffetterie è stato protagonista – suo malgrado – di una débâcle su Instagram che nelle ultime settimane ha tenuto impegnato mezzo web.

Sappiamo che, dopo i gattini, uno dei soggetti di maggior successo sui social network fotografici è proprio il cibo, specialmente se colorato, accattivante e dall’aspetto esotico. Sappiamo anche che a Starbucks sono particolarmente bravi a confezionare immagini di bevande e dolcetti che riscuotono regolarmente centinaia di migliaia di like da utenti di tutto il mondo. E, quando ti chiami Starbucks e ti sei costruito una certa reputazione sul web, non di rado sono gli altri a parlare per te, innescando conversazioni globali in grado di creare veri e propri trend.

Qualsiasi brand piangerebbe di gioia al pensiero di essere protagonisti di un processo tanto virtuoso, se non fosse che i risultati possono essere decisamente altalenanti e addirittura trasformarsi in pubblicità negativa.

Ed è quello che è successo a Starbucks da quando DailyFoodFeed, popolare account Instagram specializzato in immagini di cibi particolarmente colorati e appetitosi – insomma, il famoso food porn -, ha pubblicato la foto di una curiosa bevanda colorata, in un bicchiere Starbucks.

starbucks-matcha-pink-drink-fail

La bevanda in questione è stata ribattezzata Matcha Pink Drink e non fa parte del menù ufficiale di Starbucks: chi frequenta abitualmente le caffetterie della catena sa però che è possibile farsi preparare delle bevande personalizzate, realizzate al momento dagli addetti di Starbucks su precise indicazioni del cliente. Insomma, il Matcha Pink Drink è la nuova moda delle bevande Starbucks dell’estate 2017 e con il suo colore sfumato e gli ingredienti dal nome esotico si appresta a diventare un tormentone un po’ in tutto il mondo. Non è la prima volta che questo accade: la scorsa estate era stata la volta del Pink Drink, un beverone alle fragole di un delicato color rosa che era diventato virale perfino laddove Starbucks non è presente. A guidare, anche in questo caso, sono i famosi “influencer” che dettano i trend andando oltre le proposte ufficiali del brand creando un cosiddetto “Menù Segreto” che nasce e si sviluppa sul web.

Insomma: il Matcha Pink Drink diventa virale e in molti cominciano a recarsi da Starbucks chiedendo al “barista” di prepararlo con gli ingredienti riportati da DailyFoodFeed per poi fotografare il proprio bicchierone e pubblicare orgogliosi la foto su Instagram. Solo che i risultati sono lontani anni luce dalla foto originale di DailyFoodFeed…

È evidente che per preparare una bevanda come quella della foto di DailyFoodFeed occorrono non solo i giusti ingredienti nelle giuste dosi e alla giusta temperatura ma anche una certa dimestichezza da parte di chi la prepara. Non basta entrare da Starbucks e dire a chi sta dietro il bancone di mixare latte di cocco e fragole con il latte aromatizzato al tè matcha per ottenere quel risultato. Sopratutto se si ha idea dell’affollamento medio di una caffetteria Starbucks in qualsiasi angolo del pianeta (e non si ha Photoshop a disposizione, nonostante DailyFoodFeed sostenga che si tratti di una preparazione reale al 100%).

Però le foto pubblicate dagli utenti non sono particolarmente invitanti: e nonostante questo fantomatico Matcha Pink Drink non faccia parte del menù ufficiale di Starbucks è evidente che il brand non ne esce particolarmente bene. Anche perché tra i commenti cominciano ad emergere le voci dei dipendenti di Starbucks che raccontano esasperati di clienti che chiedono una bevanda di cui non solo non esiste una ricetta precisa, ma per la quale non hanno nemmeno ricevuto alcun tipo di formazione su come prepararla.

Da un lato, quindi, ci sono i dipendenti Starbucks che devono vedersela con orde di clienti vogliosi di bevande arcobaleno, e che se ne lamentano sul web. Dall’altro c’è un brand che, pur godendo di un’improvvisa ondata di viralità, non può sapere con quale stranezza si sveglieranno i propriaficionados domattina. Nel mentre ci sono foto di bevande decisamente poco invitanti che circolano in ogni dove con il logo di Starbucks in bella vista, accompagnate da commenti sarcastici di utenti delusi.

L’unica cosa da fare, per Starbucks, è cercare di sistemare la questione dando un colpo al cerchio e uno alla botte: se da una parte è impensabile far passare il messaggio che le “trovate” degli utenti non sono gradite, dall’altra è importante cercare di non mandare nel caos le caffetterie di mezzo mondo inseguendo il mito della bevanda arcobaleno. Così, interpellato da BuzzFeed, un portavoce di Starbucks dichiara:

Se un cliente vuole ordinare una bevanda che non è sul menù, ci raccomandiamo che sappiano la ricetta in modo che il loro barista possa prepararla. Per esempio, non offriamo un Matcha Pink Drink ufficiale – la bevanda a strati verde e rosa – ma se un cliente vuole ordinarla, la cosa più semplice è chiedere uno Strawberry Acai Refresher con latte di cocco al posto dell’acqua, e stratificarlo con latte di cocco e matcha.

Essere social, per un brand, non significa soltanto progettare e lanciare campagne sui social ma anche essere al centro di conversazioni nate dagli utenti che possono dare vita a nuove esperienze di fruizione e di consumo dei prodotti del brand. Situazioni che, tuttavia, il brand deve saper gestire: un po’ come ha fatto Starbucks che, seppure con un certo ritardo, ha saputo fornire una soluzione per non deludere i propri clienti né far impazzire i propri dipendenti. E chissà che il Matcha Pink Drink non finisca per entrare nel menù ufficiale…

Lesson Learned: Quando sei famoso e hai una buona reputazione, fai sempre molta attenzione alle discussioni che avvengono intorno al tuo brand. Anche se il sentiment è positivo, non è detto che non possa nascere una crisi d’immagine indipendentemente dal tuo operato, ma che sarai comunque tu a dover gestire. 




Trump Hotels e il social media fail che scoppia con 5 anni di ritardo

Quand’è che un team di social media marketing può festeggiare una campagna ben riuscita?
Forse quando a pochi minuti dalla messa online un contenuto riceve già un buon numero di condivisioni e di commenti, lasciando intuire che quello è un contenuto destinato a diventare virale? Oppure quando la campagna diventa fondamentale nel raggiungimento di un obiettivo (maggiori vendite, incremento nel traffico di un sito web o nella visibilità di un brand)? E, dall’altra parte, quand’è che un team social di un qualsiasi brand può considerare conclusa una campagna basata su una call to action rivolta agli utenti di una specifica piattaforma?
Molto probabilmente su quest’ultima domanda avranno riflettuto molto a lungo i social media strategist di Tr Hotels, la catena di hotel di lusso di proprietà di Donald Trump, che negli ultimi giorni hanno visto tornare alla ribalta – con un sentiment decisamente poco positivo – una campagna lanciata su Twitter oltre cinque anni prima.
Le cose sono andate così: nei giorni scorsi Trump ha emanato il cosiddetto “muslim ban”, l’ormai famoso provvedimento sull’immigrazione che, tra le altre cose, ha bloccato i visti di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana, con il risultato che moltissime persone che vivevano da anni o che viaggiavano regolarmente negli Stati Uniti si sono letteralmente trovate bloccate in aeroporto da un minuto all’altro, senza sapere cosa sarebbe successo. Un provvedimento quanto mai contestato, che ha fatto parlare tutto il mondo.
Ebbene, all’indomani dell’emanazione del muslim ban, su Twitter è tornato improvvisamente in auge un vecchio tweet di Trump Hotels, pubblicato nell’ottobre del 2011 in cui si invitava agli utenti a raccontare il proprio “miglior ricordo” legato a un viaggio.
trump hotels tweet
Un copione, quello di Trump Hotels, che somiglia pericolosamente a quello che soltanto qualche mese più tardi avrebbe seguito McDonald’s per il lancio dell’hashtag #McDstories e che, come sappiamo, non finì nel migliore dei modi. Eppure quando Trumps Hotels lanciò quel tweet, nel lontano ottobre 2011, le cose non andarono troppo male e probabilmente il team social avrà tratto le proprie conclusioni sulla strategia da seguire in materia di engagement degli utenti.
Insomma, tutto dimenticato fino a alla scorsa settimana e al famoso muslim ban, quando qualcuno ricapita su quel tweet e decide di rispondere con una risposta sagace. Tra i primi a “riesumare” la richiesta di raccontare il proprio miglior ricordo legato a un viaggio c’è Nell Scovell, sceneggiatrice americana famosa per aver scritto la popolare sitcom per adolescenti Sabrina – Vita da strega. La Scovell twitta:
trump hotels tweet
E il tweet, visto dai 17 mila follower della Scovell, diventa virale dando il là a una pioggia di nuovi messaggi diretti a Trump Hotels ma ovviamente indirizzati al suo magnate, il presidente Donald Trump.
Negli oltre 8000 tweet generati tra il 28 e il 31 gennaio c’è veramente di tutto: storie personali e ricordi di famiglia, storie che raccontano di persone arrivate negli Stati Uniti in cerca di fortuna, fuggendo dalla guerra e dalla povertà, certi di trovare un paese accogliente e una terra di nuove opportunità per chiunque avesse voglia di darsi da fare. Insomma, l’American dream nella sua migliore espressione, ma comunque lontana anni luce dalla politica sull’immigrazione dichiarata da Trump nei suoi primissimi giorni da presidente.
trump hotels tweet
 
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… E, sì, c’è anche la deriva à la #McDstories sulle “storie trucide”:
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Ora, a parte qualche sporadico caso, la maggior parte della nuova ondata di messaggi al vecchio tweet di TrumpHotels non ha realmente a che vedere con il brand in sé, ma più che altro con il nuovo ruolo del suo patron. È anche vero che i personaggi pubblici come Donald Trump tendono ad estendere la propria immagine anche ai brand di cui sono fautori, diventando a loro volta un il brand di se stessi e finendo per legare a filo doppio la propria reputazione con quella dei propri brand. E, in ogni caso, nessun social media manager vorrebbe vedere sulle pagine che amministra una tale mole di commenti che, anche se non direttamente correlati con il brand, sono comunque connotati da un sentiment decisamente negativo.
Cosa c’era di sbagliato nel tweet di TrumpHotels? Nulla, anche se il tempo avrebbe poi dimostrato quanto possa essere rischioso stimolare l’engagement degli utenti dando loro carta bianca su un argomento vago e poco definito. I social media manager di TrumpHotels avrebbero potuto in qualche modo prevedere la piega che avrebbe preso, cinque anni più tardi, un tweet pensato in tutt’altro contesto per ravvivare la conversazione attorno a un profilo? Ovviamente no, ed è probabile che chi oggi gestisce l’account Twitter di TrumpHotels nemmeno sapesse dell’esistenza di quel tweet.
Il caso è comunque interessante per fare una riflessione: spesso abbiamo considerato gli “epicfail” sui social media come il frutto di una call to actionmal strutturata (come nel già citato caso di #McDstories) o perché non si è studiato abbastanza bene il contesto in cui agire o senza considerare lareputazione del brand agli occhi del pubblico che si va a interpellare, come è successo a Volkswagen o alla nostra Trenitalia con #MeetFS. Ma la faccenda è ancora più complessa: in un luogo come i social media, dove tutti gli archivi sono pubblici, nessuna conversazione si più dire mai “conclusa”, così nessuna call to action può essere mai realmente fermata una volta che viene lanciata con un tweet o con una campagna con tanto di hashtag dedicato. In sostanza non si può revocare l’invito a dire la propria e gli utenti possono potenzialmente tornare a cogliere quell’invito in qualsiasi tempo e in qualsiasi circostanza, senza che nessuno possa arrestare questo processo, ma soltanto osservarlo e cercare di gestirlo. Specialmente quando, come in questo caso, la discussione non riguarda il brand in se stesso ma la reputazione del suo leader che opera in un contesto completamente diverso da quello di allora.
Lesson Learned: Nessuna conversazione che avviene in Rete si esaurisce mai completamente, ma può tornare alla ribalta in qualsiasi momento, con risultati sorprendenti. Sul web è impossibile dimenticare – o far dimenticare – qualcosa.




Zara e “love your curves”: quando il vero #EpicFail è il “no comment” del brand

Negli ultimi giorni Zara – il colosso spagnolo dell’abbigliamento low cost – ha fatto parlare di sé un po’ in tutto il mondo per via di una campagna comparsa in alcuni store europei. Come si può certamente immaginare non si tratta di una discussione in termini positivi e, cosa che lascia ancora più perplessi, lo stesso brand non sembra intenzionato a prendere parola in una conversazione che pure lo riguarda molto da vicino.
Tutto comincia qualche giorno fa, quando la conduttrice radiofonica irlandese Muireann O’Connell, twitta una foto da lei scattata in un negozio Zara di Dublino: la foto immortala un cartello esposto nello store che ritrae due giovanissime ragazze in maglietta e blue jeans accanto al claim “Love your curves”Ama le tue curve. Un claim programmatico che la dice lunga sul tipo di messaggio che Zara vuole comunicare, diretto a tutte le donne, e volto all’accettazione del proprio aspetto fisico indipendentemente dall’ideale di “bellezza femminile” veicolato dall’industria della moda e dello spettacolo.
Ciò che però salta all’occhio della O’Connell – e di chiunque altro guardi l’immagine – è che le due ragazze sono indiscutibilmente magre, e che il loro aspetto è decisamente più simile a quello di due modelle da passerella che non all’idea che vorrebbe trasmettere il claim stampato al loro fianco. Insomma, nella foto non ci sono quelle “curve” che ogni donna è invitata ad amare e accettare sul proprio corpo.
Ed è proprio il commento stizzito di Muireann O’Connell…
EpicFail_zara_curve
… a dare il la a una serie di commenti indignati all’indirizzo di Zara:
EpicFail_zara_curve
E anche a qualche provocazione:
EpicFail_zara_curve
Ora. Sappiamo da tempo che quello delle “curve” è un tema estremamente delicato, contro il quale hanno si sono già scontrati molti brand prima di Zara: in ballo non c’è soltanto la promozione di un’ideale di “bellezza autentica” (per usare un claim già utilizzato da un noto brand di prodotti per l’igiene personale) che mira a rovesciare il tradizionale concetto per cui la bellezza apparterrebbe solo alle star taglia 38, ma anche la difesa, da parte dei brand della moda, dalle accuse di continuare implicitamente a sostenere un solo canone di bellezza e per di più lontanissimo dalle donne reali.
Sostenere una campagna a favore delle “curve” – quasi intese come “imperfezioni da valorizzare e amare” – per poi scegliere come testimonial due modelle dal fisico da passerella suona tanto come un autogol da parte di un brand come Zara che si rivolge a un pubblico molto ampio dal punto di vista geografico, anagrafico e socio-economico. Ed è anche un brand che, a dirla tutta, ha già anche qualche problemino di reputazione legato alle accuse di sfruttamento della manodopera nei paesi dove confeziona i suoi capi d’abbigliamento: l’opinone che gli utenti hanno del brand, quindi, è già fortemente strutturata e a poco servono i tentativi di qualcuno che prova ad obiettare che, magari, quella campagna era rivolta alle giovani donne naturalmente magre che si sentono apostrofare come “stecchini”.
EpicFail_zara_curve
A peggiorare le cose, tuttavia, è anche la linea tenuta da Zara che, semplicemente, opta per il silenzio: dopo che il tweet della O’Connell e la successiva polemica sono diventati virali, moltissime testate da tutto il mondo hanno contattato il quartier generale dell’azienda spagnola chiedendo chiarimenti, per ricevere soltanto un netto silenzio come risposta.
Un silenzio che non può che confermare, pericolosamente, l’idea che ciascuno si è fatto sulla vicenda: Zara predica bene ma razzola male sotto gli occhi di tutti? Zara prende in giro le donne? Zara dice di voler vestire tutte le donne ma poi non fa abiti in taglie superiori alla 44? Tutto può essere, specialmente se da Zara nessuno si fa vivo per dare una spiegazione di qualsiasi genere o, almeno, per fornire le solite scuse di rito che quasi sempre arrivano dopo scivoloni simili.
Nel frattempo, però, ognuno rimane fermo sulla propria idea, qualunque essa sia: farà bene alla reputazione di Zara e, all’immagine che il pubblico si è fatto di questo brand?
Lesson Learned: È sempre una buona idea trincerarsi dietro il “no comment” anche quando non hai nulla da dire?




Per 7 imprenditori italiani su 10 questo è l'anno della svolta green

Non solo vantaggi economici, così si crea un ambiente di lavoro più sano e sereno

Il 2017 è l’anno della “svolta green” per oltre 7 imprenditori su 10 (72%) che hanno infatti affermato di avere già messo in atto, o di avere intenzione di farlo, politiche e azioni concretamente ecosostenibili in azienda per contenere le emissioni inquinanti o hanno adottato comportamenti più sostenibili, dai vertici fino ai dipendenti.
Dalle scelte più complesse, come gli investimenti nell’innovazione dei macchinari (44%) e l’installazione di pannelli solari per generare energia pulita (37%), alle più semplici, come la raccolta differenziata in ufficio (51%) e l’abbassamento dei termosifoni (45%), sempre più imprese si sono messe all’opera per dare una mano al Pianeta.

Tra i vantaggi maggiori, gli imprenditori rilevano un ambiente di lavoro più sano e sereno (87%), un risparmio economico sul medio e lungo termine (73%) e un incremento della reputazione dell’azienda in ottica Csr (62%). Una vera e propria tendenza che coinvolge principalmente le imprenditrici rispetto ai colleghi uomini: tra le donne infatti la percentuale sale all’80%, soprattutto nelle grandi aree industriali del Centro-Nord.

È quanto emerge da uno studio promosso da Conlegno in occasione dell’Earth Day che si celebra domani 22 aprile, dal 1970, in tutto il mondo per sensibilizzare l’umanità al rispetto dell’ecosistema in cui vive. L’indagine ha coinvolto 150 imprenditori selezionati a campione dalle principali città italiane, per comprendere come le aziende italiane si stiano muovendo in difesa dell’ambiente, e uno scouting di 70 testate internazionali che hanno analizzato il tema.
Ma quali sono questi comportamenti “green” che gli imprenditori italiani stanno per mettere in atto?Al primo posto, l’obbligo in azienda di fare la raccolta differenziata (51%); al secondo, tutti quegli accorgimenti che permettono di ridurre l’impiego d’energia, come abbassare i termosifoni o chiudere porte e finestre se è attivato il condizionamento dell’aria (45%). Medaglia di bronzo invece per gli investimenti in macchinari e strumentazioni con classe energetica A o a minor impatto inquinante (44%).
Chiudono la top 5 l’installazione di pannelli solari o altri dispositivi per generare energia pulita (37%) e l’acquisto da fornitori e produttori che dispongono di adeguate certificazioni che garantiscano la sostenibilità dei prodotti acquistati (34%).
Tra le motivazioni principali che spingono ad adottare politiche green nelle aziende: creare un ambiente di lavoro più sano e sereno (87%), ricavare un risparmio economico sul medio e lungo termine (73%), attenzione alla reputazione dell’azienda in ottica Corporate Social Responsibility (62%). Ma lungo la strada della sostenibilità si incontra anche qualche ostacolo.
Ad esempio, il 48% degli imprenditori ritiene che Governo e amministrazione locali dovrebbero favorire l’investimento in nuovi macchinari e strumenti ‘green’ con sgravi fiscali e sovvenzioni. Il 35% lamenta poca collaborazione di parte dei dipendenti a mettere in atto semplici accorgimenti (dalla raccolta differenziata allo spegnimento di luci e pc) o sottolinea l’elevato costo di alcuni prodotti certificati o realizzati con materiali di recupero (22%).
Infine, ecco l’identikit dell’imprenditore “green” italiano. L’80% delle donne e il 64% degli uomini ha dichiarato di aver già messo in pratica, o ha intenzione di farlo, atteggiamenti sostenibili per la propria azienda e per i dipendenti. Tra di loro la maggior parte è under 45 (85%), mentre la percentuale scende al 59% tra i 46 e i 70 anni. Il fenomeno, più marcato nelle grandi città del Centro-Nord, vede in testa gli imprenditori dell’area di Milano (77%), seguita nella top 5 da Roma (75%), Torino (74%), Bologna (72%) e Napoli (68%).