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Monsanto papers, lo scandalo degli scienziati pagati per assolvere il glifosato

Il termine tecnico è ghostwriting. Ovvero scrivere un testo per qualcun altro che mette in calce la sua firma. Solo che quando un scienziato affermato firma un articolo preparato da una multinazionale come la Monsanto in cui si assolve il glifosato dall’accusa, sostenuta Iacr dell’Oms, di essere “probabile cancerogeno”, è difficile non parlare di “scienza comprata” per difendere, oltre l’evidenza, una sostanza capace di provocare tumori. E di scienziati e ricercatori a libro paga della Monsanto il quotidiano francese Le Monde ne ha “scovati” molto come testimonia il secondo capitolo dello scandalo Monsanto papers pubblicato a metà ottobre in Francia e al quale il settimanale Internazionale dedica la nuova copertina.

Henry Miller e gli editoriali “suggeriti” su Forbes

La lista dei “prestanomi” della Monsanto è lunga e, secondo le carte emerse, è nell’inverno 2015 che si intensifica la pressione del colosso biotech per “coinvolgere” scienziati e ricercatori. A febbraio i vertici della Monsanto sanno che la Iarc sta per concludere il suo studio sul glifosato e il 20 marzo l’Agenzia dell’Oms per la ricerca sul cancro definisce il principio attivo dell’erbicida più diffuso al mondo, il RoundUpgenotossico , cancerogeno per gli animali e “probabile cancerogeno” per l’uomo.
Per i vertici della multinazionale è il momento di reagire, intervenendo sull’opinione pubblica attraverso articoli confezionati e fatti firmare da esperti. La lista dei prestanome sarebbe davvero lunga.
Succede, secondo quanto ricostruito da Le Monde, Henry Miller biologo associato alla Hoover Institution, editorialista del New York Times, del Wall Street Journal e della prestigiosa rivista Forbes, avrebbe firmato testi preparati dalla Monsanto e pubblicati su Forbes che, resasi conto del ghostwriting, ha ritirato tutti gli articoli del biologo statunitensi dal proprio sito e interrotto la pubblicazione.
Né Miller né la Hoover hanno voluto rispondere alle domande de Le Monde mentre la Monsanto ha minimizzato sostenendo “che alcuni suoi scienziati hanno fornito la versione iniziale (…) ma le opionioni espresse nell’articolo sono dell’autore”.

Le “collaborazioni”? Costano 250mila dollari

Sempre nel febbraio 2015 il resoponsabile Monsanto per la sicurezza dei prodotti William Heydensscrive ai colleghi per “coinvolgere esperti dei principali settori” in difesa del glifosato e stanzia 250mila dollari per “questa operazione” La Monsanto riesce, tramite uno studio di consulenza la Intertek, a coinvolgere 15 esperti, anche europei, che dovranno redigere degli articoli smentendo la tesi della Iarc. Alcune di queste posizioni vengono pubblicate nel settembre 2016 sulla rivista Critical Reviews in Toxicology e il tenore è univoco: nessun legame tra glifosato e tumore.

Il copia/incolla dell’Efsa

In tutto questo l’accusa più pesante è quella rivolta all’Efsa, l’Autorità per la sicurezza alimentare, “rea” di aver copiato di sana pianta dai documenti della Monsanto circa un centinario di pagine nelle quali si dimostra che il glifosato non è pericoloso per la salute umana. Ricordiamo che l’Efsa, contrariamente alla Iarc, non ha accertato rischi per la salute umana legati al discusso erbicida.
Dalle carte rivelate da Le Monde emerge però un altro episodio che vede di nuovo protagonista l’Authority con sede a Parma. L’Efsa, secondo Peter Clausing tossicologo tedesco legato all’ong Pan(Pesticide action network) avrebbe tenuto nascosto uno studio realizzato dalle aziende agrochimiche sui topi che confermava l’insorgenza di linfomi maligni nei ratti. Da parte sua l’Efsa si è difesa con il quotidiano francese: lo studio non è stato tenuto in considerazione perché i risultati, secondo quanto comunicato dall’Epa (l’Agenzia per l’ambiente Usa) alla stessa Efsa e da essa verificato, sarebbero stati condizionati da un infezione virale nei topi. Tuttavia, secondo Le Monde, non vi è traccia negli archiviEfsa della verifica da parte dell’Authority sulla segnalazione Epa.




A Londra c’è un negozio dove si paga con i dati personali

C’è un negozio che non accetta nessuna valuta o criptovaluta. Qui, potrete pagare solo cedendo i vostri dati personali. The Data Dollar Store è un negozio decisamente fuori dal comune, che ha aperto questa settimana nel cuore di Londra. Lo store è stato ideato e promosso dalla Kaspersky Lab, società di cybersecurity, che ha voluto lanciare una provocazione: ogni giorno, utenti più o meno ignari cedono i propri dati mentre consultano pagine web o guardano un video online; perché non permettergli di usare i propri dati per acquistare una t-shirt del loro cantante preferito?

La lunga fila di clienti che si è formata nella storica Old Street di Londra ha pazientemente ascoltato le regole curiose imposte dallo store per l’acquisto dei gadget disponibili: volete una tazza? Dateci tre screenshot delle vostre conversazioni Whatsapp o degli sms. Una maglietta invece è costata agli utenti le ultime tre foto scattate dalla videocamera del proprio smartphone. Per una stampa originale, i clienti hanno dovuto consegnare direttamente il proprio cellulare al negozio.

L’idea vuol essere una via di mezzo tra la provocazione e l’iniziativa originale, ma senz’altro permette di riflettere. Del resto, un’inchiesta pubblicata nel 2013 dal Financial Times permetteva di stabilire con esattezza il valore dei dati personali (potete calcolarli anche voi, cliccando qui): mediamente, nome, età, etnia, cap e livello di istruzione di 10mila persone diverse valgono 5.139 euro.

Il Data Dollar Store impedisce agli utenti di poter filtrare i dati che vengono offerti in cambio di uno dei gadget venduti (ossia, per esempio, l’utente deve cedere le ultime foto scattate dal proprio smartphone, a prescindere dal soggetto o dalla situazione contingente), ma ci sono progetti – anche italiani- che stanno puntando alla monetizzazione dei dati personali dell’utente, con un processo più flessibile e customizzato.
Tra i molti, figura anche la prima smart city che verrà realizzata a Segrate, per cui è stata progettata una piattaforma di gestione dei dati che, grazie alle revenues, permetterà di azzerare eventuali costi accessori per gli abitanti. L’obiettivo sarà accumulare quanti più dati possibili e sfruttare il loro crescente valore economico, perché questa resa sia poi a vantaggio dei produttori dei dati stessi: le persone potranno decidere quali dati personali eventualmente vendere (un esempio: sull’utilizzo dell’energia), in modo da poter far fronte a eventuali costi, come le spese condominiali.




Altro che privacy, ecco come un compratore di dati scopre la vostra identità

Due ricercatori hanno comprato dei pacchetti di “dati di navigazione in forma anonima” per dimostrare quanto è facile risalire alle informazioni degli utenti

Tre milioni di cittadini tedeschi con la cronologia web spifferatapotenzialmente ai quattro venti: sono solo la punta di un iceberg che la ricerca compiuta dal giornalista Svea Eckert e dal data scientist Andreas Dewes vuole descrivere al resto del mondo nel corso della conferenza Def Con di Las Vegas dedicata al mondo dell’hacking, per dimostrare quanto le nostre identità siano facilmente tracciabili in Rete.
La coppia si è finta un’agenzia di marketing in cerca di grandi pacchetti di dati di navigazione in forma anonima, da fornire in pasto ai propri algoritmi di intelligenza artificiale per educarli a tracciare profili di consumatori quantomeno attendibili. Tanto le è bastato per riuscire a rivolgersi con successo a un data broker, un soggetto specializzato nell’acquisizione e nella rivendita di questi pacchetti di dati, dal quale ha acquisito un database di tre miliardi di url visitati nell’ultimo mese dai già citati tre milioni di utenti.

Le cronologie sono state vendute prive delle informazioni personali dei loro proprietari, ma questo non ha impedito a Eckert e Dewes di dimostrare la loro tesi: una volta in possesso di una mole del genere di dati, per quanto siano stati resi anonimi, diventa facile incrociarli per risalire a chi li ha generati. Mettere insieme tutti gli indirizzi visitati da uno stesso dispositivo dipinge infatti un quadro piuttosto completo non solo sulle abitudini dell’individuo che lo possiede, ma ne rivela potenzialmente anche nome e cognome.
Chiunque visiti la propria pagina su Twitter Analytics ad esempio si ritrova il proprio nome utente direttamente nell’indirizzo internet, e quindi nella cronologia; per svelare l’identità di altri può bastare incrociare la pagina web del cinema di zona visitato più spesso insieme al sito di home banking, al meteo e ai profili Facebook più sbirciati. Sono operazioni che non possono (ancora) essere svolte del tutto in automatico, ma che in alcuni casi possono rivelarsi fruttifere: il duo in questo modo ha raccontato di aver potuto ricostruire le preferenze di un giudice in fatto di video a luci rosse e di essere risalito alle prescrizioni mediche di un parlamentare.

Per rimanere al sicuro da simili raccolte indiscriminate di dati dovrebbe essere sufficiente fare attenzione ai plugin installati sul proprio browser. Il database acquisito da Eckert e Dewes è stato infatti compilato a partire da una serie di strumenti del genere, uno dei quali — ironicamente — si chiama Web of Trust e offre protezione e anonimato nella navigazione Internet. Il plugin in questione è gratuito e, come molti altri della categoria, per mantenersi in attività vende proprio questo genere di informazioni al miglior offerente; i suoi tentativi di rendere anonime le cronologie acquisite però lasciano evidentemente a desiderare.




Il fotogiornalista che ha imbrogliato il mondo: migliaia di scatti dalle zone di guerra, tutti rubati

Bello, surfista, dal grande cuore e scampato alla leucemia. La storia di Eduardo Martins, migliaia di follower e pubblicazioni ovunque. Ma non è mai esistito


COSI’ perfetto da non esistere. Biondo, bellissimo, surfista dotato di immenso coraggio, giovane scampato alla leucemia e oggi uomo dal grande cuore:  Eduardo Martins, 32 anni, fotografo brasiliano di guerra sempre nel vivo dei conflitti più terrificanti, un anno fa intervistato da alcune riviste di fotogiornalismo raccontava che se c’era da smettere di scattare per aiutare qualche militare ferito era il primo a farlo.
Le sue immagini migliori le vendeva per beneficenza, donando tutto ai bambini delle comunità di Gaza. I suoi 127mila follower su Instagram lo rispettavano per le sue imprese, migliaia di ragazze lasciavano commenti di ammirazione e centinaia di cuoricini, importanti testate internazionali come Bbc, The Wall Street Journal, Le Monde, Al Jazeera, Vice, The Telegraph e tanti altri pubblicavano le sue foto vendute ad agenzie prestigiose come Getty o l’italiana NurPhoto, solo per citarne alcune. Peccato che fosse tutto falso: Eduardo Martins, il fotoreporter “delle Nazioni Unite” sempre pronto all’azione, si era inventato tutto. E probabilmente non è mai esistito, almeno per come si è fatto conoscere.
La sua storia, quella di uno dei più grandi imbrogli del fotogiornalismo moderno, comincia due anni fa: allora, il profilo Instagram “edu_martinsp”inizia a diventare popolare grazie a centinaia di foto, fra sessioni di surf e scatti di guerra, postate dal sedicente fotografo. Martins si crea un portfolio, contatta agenzie, comincia a piazzare i suoi scatti. Fra queste c’è anche l’Italiana NurPhoto, che oggi sostiene di essere stata frodata, alla quale il brasiliano inizia a vendere. Diventa celebre in breve tempo tanto che su questo giovane di talento compaiono articoli che ne raccontano la vita: sul portale brasiliano “Waves.Terra” il giornalista Fernando Costa Netto lo intervista (per via telematica) narrando il riscatto di questo surfista, colpito dalla leucemia a 18 anni e che, dopo la morte del padre, capisce che scampato al peggio deve “andare in giro a raccontare come stanno le cose nel mondo”.
Finirà, dice, in Iraq, Siria, fra i Peshmerga, a Gaza e poi in Africa, sempre come fotoreporter “delle Nazioni Unite”, nei campi profughi, ovunque  in prima linea. Diventa così famoso da riuscire a piazzare i suoi reportage anche sulla Bbc Brazil, che pubblica questo luglio, lo stesso mese in cui però l’emittente britannica comincia a destare sospetti.
Contattare telefonicamente Martins è infatti praticamente impossibile. Spesso dice di essere in zone dove non c’è copertura, risponde solo via mail o Whatsapp. Alcuni fotografi, sui social, segnalano incongruenze nei suoi lavori: molti dettagli indicano che le sue immagini sembrano “specchiate”, capovolte rispetto alla realtà. Anche le didascalie indicano luoghi errati. Una giornalista Bbc, Natasha Ribeiro, inizia a indagare: lo cerca attraverso le Nazioni Unite, ma nessuno lo conosce. Prova con colleghi che hanno fatto la guerra in Iraq o lavorano sulla Striscia, ma nessuno ha mai incontrato Martins.
Su profili Facebook altri fotoreporter fanno notare incongruenze con i posti in cui il brasiliano dice di aver scattato. Il connazionale Ignacio Aronovich, dopo aver letto interviste che parlano delle imprese del reporter surfista, prova a inserire alcune delle sue foto nei sistemi di ricerca. Prima di farlo però le “specchia”, di fatto le ribalta e scopre l’arcano: l’autore degli scatti di guerra è in realtà l’americano Daniel C. Britt. Altre foto, altre menzogne, più si scava più emerge una torbida verità.
Il giornalista che lo intervistò (e lo ammirava) Fernando Costa Netto, allarmato dalle notizie sul conto del giovane, prova a contattare Martins per chiedergli spiegazioni. A quel punto il profilo Instagram del noto fotogiornalista viene cancellato e a Netto arriva un messaggio Whatsapp:  “Sono in Australia, ho deciso di passare un anno in un furgone, eliminerò tutto online. Voglio restare in pace, ci vedremo quando tornerò… “.
La Bbc, che oggi come molti giornali presenta un post di scuse raccontando la vicenda, continua a indagare e scopre che quasi tutte le foto più celebri sono state rubate da altri reporter e modificate. I veri autori, come Britt, si dicono scioccati e pronti ad agire legalmente. L’italiano Manuel Romano, fondatore di NurPhoto, ha specificato di aver “rimosso tutti i contenuti di Martins, avvisato i clienti e avviato la causa”. Le procure di diversi Paesi hanno già aperto una indagine per frode, truffa e violazione di diritti d’autore.
Secondo la Bbc Brazil ‘autore di quest’enorme imbroglio oltre ai reportage avrebbe anche rubato l’identità (e dunque le foto profilo) ad un surfista inglese di 32 anni, tale Max Hepworth-Povey della Cornovaglia che lavora come editor al Wavelength magazine, il quale era all’oscuro della vicenda. Martins aveva preso i suoi scatti da un vecchio profilo Facebook.
Del truffatore non c’è traccia, è sparito chissà dove. La famosa Doc Galeria di São Paulo a breve avrebbe dovuto inaugurare una mostra per esporre i suoi lavori nelle zone di guerra: tutto annullato, con non poca vergogna. La Bbc, che nonostante le pubblicazioni ha il merito di aver smascherato Martins, chiosa nella speranza che l’intera vicenda possa servire da lezione: “Questo caso servirà a rafforzare le nostre procedure di verifica”.




Facebook ammette: la Russia ha fatto operazioni di avvelenamento sui nostri social

Fabbriche di troll russi hanno comprato ads, propaganda politica, viralizzati attraverso una rete di falsi account. E dopo l’azienda di Zuckerberg, ora la Reuters scrive che anche twitter dovrebbe fare qualcosa di analogo

uando era notte in Italia, Facebook ha prodotto un aggiornamento cruciale del suo report di aprile sulle operazioni di disinformazione (“Information Operations”) condotte da stati e organizzazioni private, ammettendo – come già fatto davanti all’ufficio del Procuratore speciale che indaga sul Russiagate, Robert Mueller – che sul social network, durante le elezioni americane del 2016, si è effettivamente svolta una “information operation”, una operazione di intossicamento e avvelenamento del dibattito pubblico e delle elezioni, molto probabilmente coordinata dal Cremlino, attraverso una società russa (la “Internet Research Agency”) già famosa in passato, che racchiude dentro di sé l’infame fabbrica di troll di San Pietroburgo, e qualche centinaio di account falsi su Facebook.
In sostanza la società russa ha comprato propaganda politica (ads politici) da inserire nel social network usando come meccanismo virale, in prima battuta, una rete di 470 account e pagine Facebook false, collegate cioè a false identità, in sostanza gestite da mani russe, e clusterizzate ingegneristicamente (cioè costruite dentro una architettura a tavolino). Gli ads individuati ammontano a un importo complessivo di 150mila euro – è impressionante come con relativamente pochi soldi si possano fare operazioni di deception non piccole – anche se Facebook non esclude ce ne possano esser altri (non tutte le informazioni fornite al procuratore Mueller sono state ovviamente rese pubbliche).
La novità ultimissima di queste ore è che, secondo Mark Warner, twitter dovrebbe fornire a breve un analogo esame: attività russa potrebbe essere avvenuta in maniera intensa anche sulla piattaforma dei 140 caratteri. La cosa è rivelata dalla Reuters, che cita una dichiarazione del senatore democratico più alto in grado nella commissione del senato sull’intelligence Usa, Warner. Cyber propaganda russa si è mossa alacremente a utilizzare falsi account, account anonimizzati, ossia false personas, dentro una rete di attività che tecnicamente loro definiscono “inautentica” (che non significa, tocca ripeterlo, per forza automatizzata, anzi). Account che spingono, amplificano, viralizzano, alcuni contenuti, o eventualmente alcuni tipi di pubblicità, anche elettorale. Di solito i contenuti sono rivolti a spargere caos, paura anti-immigrazione, xenofobia, accuse (non importa se fondate) di corruzione alle classi dirigenti.
Alex Stamos, il capo della sicurezza di Facebook, ha anche comunicato che un quarto degli ads erano targettizzati, cioè mirati, geograficamente, in aree molto precise (anche se non ha detto se si riferisse agli stati oscillanti americani). Bisogna poi osservare che né Facebook né twitter hanno fornito spontaneamente le informazioni che vi sto riferendo: vi sono spinte da un organo americano che sta indagando – con poteri speciali – sull’interferenza della Russia nella campagna presidenziale del poi eletto presidente Donald Trump.
È più che plausibile che operazioni analoghe siano avvenute nello spazio web di altre lingue, nel mondo dei paesi occidentali. Di certo la Russia è stata attivissima in Germania e in Francia, ma ha condotto mosse accertate anche nello spazio cyber italiano. Sarebbe interessantissimo che il nostro sistema politico – e eventualmente i nostri organi preposti – avessero l’intenzione (se non la forza), di fare le medesime domande che sono state rivolte a Facebook e twitter negli Stati Uniti. È piuttosto interessante, invece, segnalare che le cose vanno spesso in direzione opposta: qualche tempo fa l’uomo che – per conto di Cambridge Analytica – ha raccolto i dati su 30 milioni di ignari utenti Facebook americani è stato infine assunto proprio da Facebook