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Csr 2.0: 'Legendary Seven' di Heineken, agricoltori pionieri per comunicare la sostenibilita'

Heineken ha deciso di impegnarsi per assicurare che il 50% di orzo e luppolo utilizzati nella produzione di birra entro il 2020 proverranno esclusivamente da filiere sostenibili. E ha deciso di comunicarlo con Blippar, un’app, divulgando la storia degli agricoltori che fonriscono gli ingredienti principali.
LA STORIA – Il filo conduttore della campagna di comunicazione è la storia degli agricoltori che coltivano gli ingredienti principali della birra. Non è certo un tema nuovo o imprevedibile, ma il canale scelto è un’app che si chiama Blippar. Un’animazione di 60 secondi presenta i “Legendary 7”, 7 agricoltori di Regno Unito, Paesi Bassi, Francia Germania e Grecia che producono appunto orzo e luppolo di alta qualità.
Altri contenuti entrano nel dettaglio delle loro storie, ad esempio spiegano come Jacky Brosse si prende cura degli alveari nel suo grande campo di orzo in Francia. I personaggi sono ritratti in uno stile noto agli occhi dell’utente, il classico stile “Wild West” con i famigerati poster Wanted. E queste sembianze note probabilmente hanno contribuito ad imprimere la campagna nella loro mente, come dimostrano i selfie postati sui social network dai follower.

CSR 2.0 – Al di là dell’app particolare, emerge la volontà di svecchiare la Csr:basta con i report, che nessuno spesso legge, è tempo di una Csr 2.0. “Spesso la sostenibilità è vista come qualcosa di complesso ed inaccessibile per i consumatori. Ma spesso è al centro di ciò che siamo abituati a fare e a vedere, e noi volevamo offrire un modo per incoraggiare i consumatori e gli stakeholder ad interagire con il brand e con il nostro programma ‘Brew a Better World’”, ha spiegato Mark van Iterson, capo del reparto design per Heineken.
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van Iterson descrive il ruolo dei Legendary 7 come quello di personaggi che sfidano lo status quo della sostenibilità aiutando i consumatori a calarsi in questa sfera riflettendo sui prodotti che consumano, sugli ingredienti da cui sono composti.
 




10 consigli per una petizione online di successo

Abbiamo chiesto ai ragazzi di Change.org, la più grande piattaforma al mondo di petizioni, qualche consiglio per costruire una campagna coi fiocchi

Quante volte vi è capitato di aderire con un clic a una campagna online? Sono tante le rischieste di adesione (più o meno serie) che ogni giorno girano per la rete. Non tutte, però, riescono a araggiungere l’obiettivo prefissato. Se vi siete mai chiesti come funziona e quali sono le regole per creare una campagna online di «successo», continuate a leggere questo articolo, perché abbiamo chiesto ai ragazzi di Change.org – la più grande piattaforma al mondo di petizioni – qualche consiglio per costruire una petizione coi fiocchi.
Ecco dieci buone pratiche da cui partire.
1. Il numero di firme non è la priorità

«Quante firme ci vogliono per vincere una campagna?». Quando ce lo domandano – spesso – consigliamo di concentrarsi su altro. Non è infatti il numero di firme della petizione che conta, ma la campagna costruita attorno ad essa, che si avvale di una miriade di altre iniziative e che esercitano sul destinatario della petizione la pressione costante di un martello pneumatico. Una bella campagna crea il cambiamento indipendentemente dal numero di firme. Una bella campagna torna a far parlare di qualcosa di cui non si parlava più, e la storia dietro alla campagna arriva anche a chi non ne aveva mai sentito parlare, come nel caso del disastro della Moby Prince, raccontato da Luchino Chessa che quel giorno, nel 1991, perse entrambi i genitori. Figlio del capitano del traghetto che entrò in collisione con una petroliera Agip causando la morte di 140 persone, Luchino chiede con quasi 25.000 firme di togliere il segreto dai documenti che riguardano l’incidente ed una Commissione parlamentare che fornisca risposte definitive al triste accaduto.
2. Racconta la tua storia

Cristian
, un ragazzo con sindrome di Down, pur essendo nato in Italia, era senza cittadinanza italiana essendo figlio di Gloria Ramos, colombiana, e di un uomo italiano che non lo aveva riconosciuto. Raggiunta la maggiore età, Cristian aveva inoltrato la richiesta di cittadinanza, ma la Prefettura non lo aveva ritenuto idoneo, in quanto affetto da sindrome di down, a prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica necessario a diventare italiano. Gloria ha raccontato la storia di suo figlio su Change.org scatenando i mezzi d’informazione e la politica. Il Ministero degli Interni si è interessato al caso e oggi Cristian è italiano. Chiunque ama conoscere una storia e sentirne le ragioni “di pancia”.
3. Il problema di uno è il problema di tutti

Nel Natale dello scorso anno un uomo ubriaco, sotto l’effetto di cocaina e senza patente, ha rubato una macchina, ha guidato come un pazzo e ha ucciso una bambina di otto anni, Stella. In caso di incidenti mortali, anche causati da qualcuno sotto l’effetto di alcool o sostanze stupefacenti, scontare una pena è davvero improbabile in Italia. Di solito i casi vengono archiviati come omicidi colposi e, di conseguenza, le sanzioni sono molto lievi.
L’uomo che ha causato la morte di Stella è ora libero e il Giudice ne avrebbe potuto accettare l’avvenuta richiesta di patteggiamento a 4 anni, qualcosa che si tradurrebbe in pochi mesi di arresti domiciliari. Poi però è arrivata la petizione con le sue oltre 100.000 firme e il Giudice ha rinviato la decisione al 20 novembre 2014, sostenendo per la prima volta che il calcolo della pena non avesse tenuto conto delle aggravanti e che si sarebbe dovuto riesaminare tutto. La madre di Stella, chiede che al colpevole della morte di sua figlia non venga concesso il patteggiamento a quattro anni, e chiede inoltre – andando oltre al proprio problema – qualcosa che secondo lei potrebbe fare il bene di tutti: l’introduzione del reato di omicidio stradale come deterrente.
4. Trova il giusto destinatario della petizione

Il Presidente della Repubblica ha molti impegni e con tutta probabilità non ha il tempo di occuparsi del parco che vogliono distruggere dietro casa tua. Pensa bene a chi sia la persona che ha veramente il potere di risolvere il prima possibile il problema che ti sta a cuore. Il 17 febbraio 2014 un giovane ragazzo è stato ucciso a Roma. Carlo Macro stava tornando a casa, scese dalla macchina per fare pipì e un uomo che viveva in un caravan parcheggiato sulla strada lo aggredì uccidendolo con un cacciavite. La mamma di Carlo ha usato Change.org per rivolgersi al Sindaco e chiedere un albero in memoria di Carlo e in segno di pace, solidarietà ed equità per la città, evitando che la morte di Carlo venisse strumentalizzata per campagne discriminatorie. Due giorni dopo il lancio della petizione, il Sindaco di Roma ha chiamato la madre di Carlo e le ha fatto visita il giorno seguente. In quell’occasione il Sindaco Marino ha annunciato ufficialmente non solo che avrebbe piantato l’albero e deposto una targa, ma che avrebbe anche aiutato la famiglia di Carlo durante il processo e che si sarebbe impegnato a risolvere l’emergenza abitativa a Roma.
5. Chi ha un ruolo pubblico tiene al proprio buon nome: sfrutta questa dinamica

Deciso chi è il destinatario della tua petizione, devi spendere un po’ di tempo per provare a pensare con la sua testa. Cosa gli interessa veramente? Il brand della sua azienda, i voti alle prossime elezioni, la soddisfazione dei propri consumatori…Stefano Manzi, un ragazzo non vedente, aveva chiesto alla banca ING Direct Italia, di rendere il sito accessibile ai non vedenti. Qualche tempo dopo ha ricevuto una lettera dal Dott. Damiano Castelli, CEO di ING Direct Italia, nella quale la sua richiesta sottoscritta da oltre 11.000 persone su Change.org, veniva accolta positivamente. La Banca ha garantito un accesso dedicato tramite sito web che ha reso possibile la completa autonomia grazie ad un accesso studiato ad hoc per i non vedenti.
6. La vittoria è un traguardo verso il quale si marcia insieme

Ogni volta che si ottiene un risultato, anche se piccolo, è importante comunicarlo ai firmatari e celebrarlo con loro.Elham Sadaat Asghari, iraniana, nel Giugno 2013 ha battuto il record di stile libero nel Mar Caspio, ma quando è andata a registrare il suo importante risultato, si è sentita dire dai funzionari del Ministero dello Sport che il suo record non poteva essere registrato in quanto non esisteva alcuno standard circa il costume che avrebbe dovuto indossare durante la sua performance. Nonostante Elham avesse nuotato indossando il completo islamico – pesante secondo Elham in acqua “come l’uniforme di un astronauta” -, la registrazione del suo record “sarebbe stata contraria alla sharia”. Sabri Najafi, una donna iraniana che vive in Italia da tanti anni, ha lanciato quindi una petizione affinché ad Elham fosse riconosciuto il record. La petizione e le sue 150.000 firme hanno dato ad Elham la sensazione di non essere sola e hanno generato uno scambio di messaggi tra Elham, Sabri e i firmatari. A un anno di distanza è stata la stessa Federazione Iraniana del Nuoto ad accogliere quello che Sabri aveva chiesto con la petizione. Elham ha ringraziato così i firmatari dopo la vittoria: “(…) Vorrei ringraziare tutti voi che mi avete sostenuto ripetutamente e che avete allontanato le bugie, le offese, le accuse. 
Dedico questa mia vittoria al mio popolo e soprattutto alle donne iraniane, che meritano di più.”
7. La tua creatività è invincibile

I ragazzi sordi di Radio Kaos Italis hanno creato la prima radio gestita da sordi e lanciato una petizione per chiedere il riconoscimento della lingua dei segni italiana (LIS) che ha raccolto 118.000 firme e che li ha portati ad incontrare Laura Boldrini e Pietro Grasso. Questi ultimi si sono impegnati a portare la richiesta dei ragazzi in aula, cosa che tuttavia non è ancora avvenuta. Per dare forza alla loro campagna, i ragazzi sordi hanno prodotto un breve video nella lingua dei segni, un video che mostra quanto sia bella la loro lingua. Ma non si sono fermati lì, hanno realizzato anche un video tutorial per chiedere a tutti i firmatari di sostenerli creando un video fatto di 3 semplici parole in LIS: io – sostengo – la lis. Il risultato? Tante persone hanno provato per la prima volta a segnare in LIS.
8. Unire le forze

Coinvolgere vuol dire usare un linguaggio semplice ed immediato: non solo i tuoi sostenitori capiranno meglio la questione, ma sarà anche più facile convincere il destinatario della tua richiesta. A ognuno il suo ruolo. Se non sei un tecnico non impelagarti in questioni tecniche, mentre puoi raccontare la tua storia; chiunque può farlo. Cerca l’appoggio di chi ha una professionalità che può supportare la tua istanza e sii in sintonia con chi da sempre si occupa dei temi di cui vuoi occuparti tu. Ilaria, ad esempio, 27enne a cui hanno diagnosticato il Linfoma di Hodgkin, ha fatto esattamente questo: ha unito le sue forze a quelle della ONG Greenpeace nel chiedere che venisse accantonato il progetto di una nuova centrale a carbone a Porto Tolle. Lei è cresciuta a Savona dove per via dell’impianto a carbone di Vado Ligure, secondo uno studio compiuto da consulenti della Procura, ci sarebbero mille morti in più per cancro rispetto ai parametri scientifici di riferimento. All’indomani della battaglia di Ilaria e della lunga battaglia di Greenpeace con una coalizione di associazioni ambientaliste, il Ministero dell’Ambiente ha bocciato il progetto di conversione a carbone della centrale di Porto Tolle.
9. La strada verso la vittoria è un percorso costellato di opportunità

Una petizione può avere un impatto in diversi modi anche prima di raggiungere la vera e propria vittoria. E di quei progressi bisogna fare tesoro, comunicandoli ai sostenitori e utilizzandoli come stratagemmi che tengono viva la campagna. La battaglia di Mina Welby per l’eutanasia è una lunga strada, ma lungo il cammino lei ha già ottenuto l’appoggio formale di Laura Boldrini. Può inoltre utilizzare la piattaforma Change.org per chiedere ai suoi 156.000 sostenitori di partecipare alle molteplici azioni offline che organizza.
10. Crea e “nutri” la tua comunità – da soli è più difficile farcela!

Ogni persona che firma la tua petizione è qualcuno che dice “sono d’accordo con te e voglio aiutarti”. L’entusiasmo dei sostenitori a volte è sorprendente. Roberto ha ricevuto prima di morire il calore di migliaia e migliaia di persone, sul web ma anche fisicamente. La petizione era infatti stata lanciata quando ancora del suo caso non ne parlava nessuno e quando Roberto era ancora tra noi. Poi purtroppo ci ha lasciati, ma la comunità in suo sostegno e in sostegno di quel che lui ancora rappresenta, ha continuato a crescere e ad avere voce, in barba alle ondate mediatiche per le quali si parla di qualcuno quando muore e poi si dimentica. Roberto Mancini era un poliziotto affetto da cancro, ammalatosi dopo avere indagato per anni e anni sul traffico di rifiuti tossici in Italia. Fiore, un amico di Roberto, aveva denunciato con una petizione il fatto che Roberto avesse ricevuto solo 5,000 € di risarcimento, nonostante fosse stato riconosciuto dai medici il nesso causale tra la malattia di Roberto e il suo lavoro contro il traffico illegale di rifiuti tossici. La petizione ha prodotto un’interrogazione parlamentare, una consegna di firme al Vice Presidente della Camera – con conseguente invio di tutta la documentazione relativa alle indagini svolte da Roberto da parte della Camera al Ministero dell’Interno-, una manifestazione per Roberto di fronte al Parlamento, uscite su TG nazionali, e la partecipazione di migliaia di persone ad eventi in sua memoria.




Fake news e "post verità": la mia intervista su SBS radio

Ascolta l’audio dell’intervista:




Internet: gli italiani intrappolati nella bolla di Whatsapp e Facebook

Siamo dentro una bolla. Noi italiani più di altri. A leggere con attenzione i dati del rapporto “Internet in Italia – I Trend del 2017” pubblicato da comScore ci scopriamo provinciali ed egotici. Anche o forse soprattutto nell’uso dei cellulari.
Ma andiamo con ordine. Lo studio ci dice cose che in parte sappiamo bene. Cresce la popolazione online in Italia, ma soprattutto aumentano gli italiani che possono definirsi “mobile only”, ovvero che si connettono in rete solo da dispositivi mobili come smartphone e tablet. Ci dice che due minuti su tre online li passiamo su device mobili.
Quello che non sapevamo è che il traffico via smartphone e tablet è concentrato su determinate tipologie di contenuti, messaggi e social network in testa, e su poche applicazioni: 6 minuti ogni 10 vengono trascorsi su Facebook o WhatsApp. A differenza di quanto accade negli Usa o nel Regno Unito dove da smartphone si accede principalmente a contenuti di intrattenimento, per noi lo smartphone è il punto d’accesso per le piattaforme social. Il livello di concentrazione sia del traffico che delle Audience in ambiente app è ancora più forte: circa il 60% del tempo totale viene infatti trascorso sulle due app più utilizzate (WhatsApp e Facebook) mentre in termini di penetrazione sugli utilizzatori di smartphone tutte le prime 10 App appartengono a Google o Facebook.
Non parliamo di strumenti di intrattenimento neutri. Facebook, Whatsapp, Youtube sono anche piattaforme editoriali. Come suggerisce il clamore legato alla caccia alle bufale sul web, all’interno di questi “mondi” tanto cari agli italiani vengono offerti contenuti con una gerarchia in parte determinata da algoritmi proprietari.  Come dire, i contenuti sono presi dalla rete ma l’ordine con cui ci vengono proposti non è interamente deciso da noi. Il rischio è quello dei rimanere intrappolati in una bolla. Parliamo sempre con i nostri amici, prevalentemente di alcuni argomenti e con una certa sensibilità. L’effetto echo chamber è legato alle nostre scelte e all’algoritmo che ci “aiuta” a selezionare e mettere in primo piano solo le informazioni giudicate più interessanti per noi. Il tutto accompagnato da offerte pubblicitarie in linea con le nostre abitudini digitali. Nulla di malvagio, in teoria. Si perde però quella funzione di scoperta che in una fase iniziale è stata attribuita al web. Non scopriamo nulla di nuovo perché restiamo nel nostro. Almeno in Italia. Anzi, soprattutto in Italia. A dicembre nella top 15 troviamo al primo posto Whatsapp con una penetrazione del 93%, segue Google Play al 90 (l’indagine è limitata agli smartphone con Android) poi segue Google search, Youtube, Facebook ecc. Per uscire dai mondi di Google Facebook e Amazon occorre attendere la quattordicesima posizione dove troviamo My Vodafone Italia. Come dire, almeno in Italia siamo sempre là dentro, da quelle parti.
E poi c’è il trend del video. A dicembre 2016 sono stati 28 milioni gli Italiani che hanno visto un video online attraverso il desktop e 18 quelli che hanno dichiarato di farlo con uno smartphone. La crescita delle visualizzazioni da smartphone in Italia (+15% nel 2016) è seconda solo a quella registrata in Germania (+19%). Oggi oltre la metà (55,5%) dei possessori di smartphone italiani dichiara di aver visto un video utilizzando il proprio device, e lo fa con sempre maggiore frequenza: crescono del 34% (da 3,3 a 4,4 milioni) gli utenti che guardano video quasi ogni giorno. Si guarda tanto Youtube  sui “piccoli” schermi degli  smartphone. E non solo. I più giovani passano metà del loro tempo su desktop a vedere video.




COMUNICARE LA COSA PUBBLICA: SETTE COSE CHE HO IMPARATO AL COMUNE DI MILANO

Il progetto di presenza del Comune di Milano sui Social Media è nato nel 2012: per conto dell’agenzia di comunicazione digitale Hagakure (oggi Doing), ne sono stata la responsabile fino al dicembre del 2016.
Dall’analisi preliminare alla stesura della strategia e delle policy, dal piano di formazioni all’interno dell’ente all’attività redazionale quotidiana, questa esperienza è stata in assoluto la più interessante e formativa della mia vita professionale: perché mai come prima ho dovuto lasciare da parte abitudini, convinzioni e (molti) pregiudizi per fare spazio in fretta a una mole spaventosa di informazioni, eventi, condotte e processi. Ho condiviso questi anni con alcuni compagni straordinari: Alessio Baù, innanzitutto, responsabile fin dal principio della creazione di contenuti; le altre persone che negli anni hanno fatto parte del team e i referenti d’agenzia, Chiara Bassani e Marco Massarotto; l’ufficio stampa del Comune; il Gabinetto del Sindaco, tutti gli Assessori e gli “articoli 90” che hanno lavorato insieme a loro, veri attori della creazione di un modello nuovo di amministrazione.
È stato un percorso complesso e felice, e in un ecosistema che molto spesso parla di trasformazione digitale senza provare a praticarla in un contesto reale, è stata una fortuna averlo vissuto: perché ho avuto lo spazio e il tempo per scoprire, da dentro, la città in cui sono nata e cresciuta, e il privilegio di aprire una strada per cambiarne un pezzettino.
Non tutto è riuscito, e di certo si poteva fare di più, o meglio: ma negli anni abbiamo capito alcune cose, e con Alessio, conclusa l’esperienza, abbiamo pensato che potesse essere utile iniziare a condividerle anche al di là degli appuntamenti accademici o di settore in cui ci chiedono di raccontarle. Qui trovate le sue riflessioni; di seguito, invece, alcune delle lezioni che ho imparato io. Il fatto che siano sette, lo giuro, è un puro caso

1. A cosa servono i Social Media di una PA

A informare i cittadini, naturalmente, illustrando servizi e azioni amministrative. Ma a farlo senza mediazioni: su presidi propri, all’interno delle piattaforme che il pubblico già popola, preferendole ormai da anni ad altri mezzi (per chiarezza: non alla televisione, che peraltro culturalmente condiziona le modalità di produzione e fruizione delle informazioni anche online; ma di certo ai giornali); con scelte editoriali, di formati e frequenza di pubblicazione indipendenti da terzi; con l’obiettivo non di “fare notizia”, ma di far sì che la notizia sia chiara e accessibile a tutti, e si possa ricondurre a una visione coerente della città; attraverso un piano editoriale quotidiano, e, alla stessa stregua, con ciascuna delle risposte fornite alle domande, ai dubbi e alle critiche degli interlocutori. A recepire queste ultime: replicando con altre spiegazioni e approfondimenti, quando possibile e necessario, e a beneficio non solo del cittadino che le esprime, ma di chiunque legga, perché i Social Media sono a tutti gli effetti un ufficio reclami, ma condiviso; e usarle come feedback da veicolare all’interno, come polso dell’impatto delle singole azioni come delle politiche di intervento nel loro complesso. A intercettare, in questa attività, i focolai di crisi. A risolvere problemi, infine, interpretando le esigenze, mediando con gli uffici, fornendo risposte e suggerimenti – negli ovvi limiti del diritto amministrativo.
(Nota per chi farà questo lavoro: è l’ultimo, probabilmente, l’aspetto migliore. Non lo vedranno in molti: i problemi più seri di solito si materializzano in forma di messaggio privato. Aiutare uno sconosciuto a risolverli, o a capire come farlo, è la cosa che darà maggiore senso alle tue giornate.)

2. Accuratezza

Quando si dialoga per conto di una Pubblica Amministrazione, non sono consentiti errori. (Sì, si fanno lo stesso. Per colpa propria, o di qualcun altro, non ha importanza: l’Amministrazione viene percepita – giustamente – come una. Allora si chiede scusa. Si corregge. Si impara.) È necessario essere accurati, perfino ossessivi: capire la ratio e i dettagli di tutto quello che si comunica, approfondirli per prevenire le domande, approfondirli di nuovo per rispondere a posteriori a tutte quelle cui non si era pensato prima, conoscere origine e senso delle scelte (tradotto: elementi di storia e cronaca della città; principi di diritto, funzionamento e competenze all’interno dell’ordinamento giuridico; dinamiche della politica), e infine spiegarli, rendendoli chiari per tutti (è bandito il linguaggio burocratico; sono benvenuti i supporti multimediali, come infografiche, render, video), senza banalizzarli.
(Nota per chi farà questo lavoro: non farti guidare dal feticcio del real time, anche in una logica di Social Media. La certezza delle informazioni e la qualità dell’esposizione vengono prima della velocità. Se inverti i fattori, ne farai le spese.)

3. Integrazione

Definire ancora nuovi i Social Media, quando si parla di comunicazione, è ridicolo. Ma 4 anni fa lo erano, e continuano ad esserlo oggi, per organizzazioni complesse che di rado li hanno usati – come le PA. La macchina amministrativa, sollecitata da richieste provenienti dall’ennesimo punto di contatto con i cittadini – un punto di contatto che esige reazioni rapide, e che ancora viene percepito come luogo (se va bene) di svago -, nella nostra esperienza al principio è stata refrattaria. La prima fase dell’apertura di nuovi canali di comunicazione bidirezionale deve quindi contemplare della formazione interna, che spieghi, prima di poterla dimostrare nei fatti, la loro utilità; deve prevedere inoltre un lavoro a stretto contatto con chi produce le notizie. È un processo lento, inizialmente, e bisogna dimostrare una professionalità che in altri ambienti è data per scontata; quando accelera, però, lascia la gradevole impressione di aver contribuito a creare una piattaforma di comunicazione più variegata, efficace e capillare. E di avere, allo stesso tempo, seminato un po’ di cultura digitale.
(Nota per chi farà questo lavoro: non dire che anche tu, una volta nella vita, non hai pensato male dei dipendenti pubblici. Abituati a ricrederti: la PA è piena di persone che svolgono il proprio lavoro come una vocazione, malgrado le etichette. E sì, è sicuramente piena anche di persone che fanno l’esatto contrario. Come qualunque altro posto in cui tu abbia lavorato in vita tua.)

4. Pazienza

Siamo un paese di una sessantina scarsa di milioni di commissari tecnici della Nazionale di calcio. Ma anche di esperti di viabilità, di ingegneri costruttori di metropolitane, di ideatori di piste ciclabili, di economisti e giuristi. Qualunque cosa si comunichi per conto di una PA – che si tratti di qualcosa di irrilevante, sacrosanto, rivoluzionario – non piacerà a qualcuno, e quel qualcuno, per quanto a digiuno di qualunque preparazione sul tema, terrà una conferenza – in pubblico – sui motivi per cui è sbagliata, pensata da soggetti incompetenti o lontani dai problemi che sono immancabilmente ben altri, realizzata in malafede o per interessi variamente distanziati dal concetto di bene comune. Un provvedimento concepito per i giovani susciterà gli sfoghi degli anziani; un provvedimento concepito per gli anziani susciterà gli sfoghi dei giovani. Ogni intervento per l’accoglienza o l’integrazione di profughi e stranieri sarà salutato dal canonico “prima gli italiani”; ogni intervento mirato ai soli residenti, da cori contro l’evidente egoismo delle intenzioni. La colpa di chi parcheggia in doppia fila, non paga le tasse, non differenzia la spazzatura o lascia il cane libero di esprimere ovunque le sue esigenze corporali non sarà mai di chi parcheggia in doppia fila, non paga le tasse, non differenzia la spazzatura o lascia il cane libero di esprimere ovunque le sue esigenze corporali: sarà dell’insufficienza dei controlli e delle sanzioni. Fino a che il più accanito sostenitore dei controlli e delle sanzioni rivolte agli altri – ognuno di noi, in effetti – non sarà destinatario di un controllo o di una sanzione: allora il termine colpa assumerà per magia i contorni dell’eccesso di zelo, della scarsa comprensione delle esigenze, dell’arroganza del potere. “Ci voleva un genio per capire che?” “Esigo di sapere chi è il fenomeno che.” “A Tokyo l’avrebbero fatto in un quarto del tempo per un decimo dei soldi.” “Tanto paghiamo noi.” (Ad libitum, sfumando.) È normale: siamo fatti così. Per moderare l’account di una PA ci vuole pazienza. Molta. Ci si dota di regole – una Policy – di moderazione: è cruciale, ma non basta. Nella Policy ci saranno scritte cose abbastanza ovvie: non dire le parolacce, per favore, non insultare gli altri (e, se ci riesci, nemmeno quelli che ti devono rispondere), non scrivere cose razziste e sessiste, non offendere le religioni altrui, e via snocciolando principi di buon senso e buona educazione. Applicarla, però, sarà facile solo di rado: la responsabilità di togliere la parola a qualcuno, se si lavora per un ente pubblico, è pesante, e al netto di chi si esprime con affermazioni facili da inquadrare, come (cito, purtroppo) “Patrocinio al Gay Pride? ci vorrebbe un’altra Orlando” o “Gli zingari come gli ebrei, tutti ai forni”, spesso è difficile tracciare un confine fra una legittima e magari feroce contestazione e un insulto che deve essere rimosso – anche considerando che un insulto si può costruire in molti modi, e che scrivere (pardon) “l’Assessore XY ha rotto i coglioni” non sarà mai grave quanto insinuare, anche nella più forbito dei linguaggi, che l’Assessore ha preso una tangente.Moderare una conversazione implica l’esercizio di una sensibilità specifica, insomma; e la certezza che a qualunque intervento in questo senso (anche quando effettuato espressamente a tutela di chi, senza forse nemmeno rendersene conto, si mette nella posizione di essere querelato) corrisponderà un’accusa di censura.
(Nota per chi farà questo lavoro: non hai idea di quanto non la vorrai, questa responsabilità. Ma stai comunicando per una PA, e te la devi prendere. Insieme a tutti gli insulti.)

5. I panni degli altri

La sensibilità richiesta al moderatore va oltre la scelta di cosa resta o non resta in un thread. I troll sono tanti, ma non sono tutti. Chi fa questo lavoro deve capirel’interlocutore: l’entità del suo problema, la legittimità della sua rabbia, della sua frustrazione, del suo semplice disaccordo. Il modo più facile per farlo è mettersi nei suoi panni – cioè una delle cose più difficili da praticare nella vita. “Se fossi un disabile e vivessi in una casa popolare con l’ascensore rotto”, “se avessi un genitore anziano non autosufficiente”, “se non riuscissi a provare che il vigile aveva torto e io ragione”, “se per motivi di lavoro non potessi farla, quella fila in Anagrafe”, “se mi mandassero da uno sportello all’altro”, non mi arrabbierei anch’io? Usare la propria esperienza di vita, e completarla con l’umiltà di comprendere senza giudicare, è cruciale (va sottolineato, che la chiave sta nel senza giudicare? Forse sì, se si parla di esperienza di vita: perché qualunque paragone potrebbe essere fuorviante. Un esempio personale: sono nata in un quartiere periferico di Milano, quattro mesi prima della bomba nera di piazza Fontana; ho trascorso l’infanzia e la prima adolescenza in un’epoca in cui a Milano si sparava per strada. Quando qualcuno, oggi, si lamenta della poca sicurezza, qualcosa dentro di me grida. Non ci posso fare niente, ma è sbagliato, e lo so. “Mettersi nei panni” è un esercizio di empatia, non una razionalizzazione: se qualcuno oggi subisce un’aggressione, degli anni Settanta e della diminuzione dei reati certificata dalla Questura non gliene può – a ragione – importare di meno. E anche quando questo non avviene nei fatti, la paura è paura. E va rispettata, o non si spegnerà mai). Disinnescare l’emotività, inoltre, è utile (a volte basta pronunciare le parole che vorremmo sentirci dire noi: “hai ragione.” “Ci dispiace.” “Come possiamo aiutarti.”); contribuire a risolvere il problema, infine, appagante.
(Nota per chi farà questo lavoro: nessuno ti ha mai detto che sarebbe stato semplice. Ma poi, in fondo, sì.)

6. Fact-checking

Facciamo finta che qui ci sia un elenco dell’infinita teoria di siti spazzatura che su internet spacciano notizie false per attirare clic. Facciamo finta che qui ci sia anche un elenco di testate che convinte che i titoli a sensazione rallentino la caduta libera di tirature e venduto. Facciamo infine finta che qui ci sia un elenco di politici sempre pronti a citare o nutrire una delle due categorie precedenti. (Facciamo finta perché sto scrivendo cosa ho imparato, mica sono in cerca di querele.) L’attività quotidiana di chi gestisce la comunicazione di una PA comprende un continuo fact-checking delle affermazioni altrui. “Non è vero” non è mai una risposta sufficiente: bisogna spiegare i motivi per cui non lo è, e dare dei riferimenti per provarlo: altrimenti si finisce dalle parti della propaganda. È utile costruirsi una mappa delle fonti affidabili: gli enti di riferimento, le leggi, la giurisprudenza. Ed è importante informarsi a propria volta il più possibile; essere veloci e puntuali nelle ricerche; saperle sintetizzare; capire quando un articolo o un post possono scatenare una crisi, e prevenirla.
(Nota per chi farà questo lavoro: sai quando sopra ho scritto “assimilare in fretta una gran quantità di informazioni”? Non era un modo di dire.)

7. Panta rei

Le crisi si risolvono quando si risolvono le crisi. È un principio di base del crisis management: una comunicazione corretta aiuta a governarle, a volte anche ad anticiparle, ma sono i fatti (gli interventi, i provvedimenti) a farle superare. Chi lavora per una PA vive in una sorta di allarme costante, perché tutto quello che succede – che si tratti di eventi programmati, come i disagi da grandi opere o eventi, o meno prevedibili, come le calamità naturali, gli episodi di cronaca nera, perfino le bufale – può scatenare una crisi, più o meno profonda, più o meno critica. L’onda della crisi – l’allerta, l’esplosione, la gestione, la chiusura – si affronta in due modi. Il primo è stabilire dei processi: definire, in altre parole, a quali eventi devono corrispondere dei messaggi al pubblico, e quali, in un equilibrio delicato fra trasparenza e rassicurazione. La velocità e la correttezza della reazione comunicativa, soprattutto in caso di fatti gravi, sono indispensabili per sostenere l’azione di chi deve agire su cause e soluzioni; le regole aiutano a spiegare con tempismo quel che accade e ad assistere in maniera corretta chi è coinvolto – mantenendo il sangue freddo. Il secondo è una consapevolezza: tutto passa. Passano i troll, quando la crisi è un’operazione politica, un falso ricordo, una bufala: pazienza, rispetto e puntualità di risposta, col tempo, li scoraggiano. E passano – lasciando più cicatrici – anche le vicende più serie, inglobate dal tessuto della città, o del paese, che non può che rialzarsi e andare avanti. La responsabilità di chi comunica – e prima ancora di chi detta le regole per la comunicazione – in questo caso è duplice: perché la crisi si affronti, e passi; e perché, quando è passata, non si dimentichi.
(Nota per chi farà questo lavoro: affrontare qualunque crisi è possibile, se si ha fiducia nelle persone per cui si lavora, quelle che prendono le decisioni, che fanno la PA. È il punto, forse, che separa i consigli dagli auspici: in questo senso, noi siamo stati molto fortunati. Ti auguriamo altrettanto.)