IL MODELLO WALMART: L’UNICO MODO PER USCIRE DALLA CRISI E’ ABBASSARE I SALARI?

La ricetta rilanciata a ogni nuova crisi dalle grandi Corporation americane, che prevede una compressione dei diritti dei lavoratori dipendenti a favore dei dividendi per gli azionisti e della liquidità per le aziende, è una vera soluzione? I dati sembrano smentirla.


 
L’area Euro-atlantica – e gli Stati Uniti in particolare, visti i poderosi mezzi della Federal Reserve – sono la migliore cartina di tornasole per verificare l’efficacia delle misure macro-economiche per sostenere l’industria, l’occupazione e il benessere.
C’era un’epoca – dal dopoguerra fino agli anni ’70 – nella quale le condizioni dei cittadini di tutte le fasce di reddito – poveri, classe media e ricchi – miglioravano ogni anno. Poi, come denunciato in un recente articolo di Harold Mayerson, columnist del Washington Post, “all’improvviso tutto cambiò”.
E non solo per la crisi del petrolio, bensì per il venir meno degli equilibri delicati che da sempre avevano regolato i rapporti tra grande industria, sindacati e lavoratori. La ricchezza ha smesso di essere “redistribuita”, come auspicavano i grandi capitalisti americani della prima metà del secolo scorso, secondo i quali – per citare il Presidente della Standard Oil of New Jersey/Exxon – “il compito del management dev’essere mantenere un equilibrio giusto e funzionale tra gli interessi degli azionisti, dei dipendenti, dei clienti finali e dell’opinione pubblica”. Da metà anni ’70, infatti, la produttività USA è aumentata dell’80%, ma la retribuzione media solo dell’11%, e il trend si è mantenuto anche negli ultimi decenni: dal 2000 a oggi, + 18% di aumento di produttività, e salari medi addirittura diminuiti del 12,4%. Perché? La risposta è in quello che alcuni osservatori definiscono “walmartizzazione” dell’economia. In cosa consiste questo modello?
Già nel 1962, il fondatore di Walmart, Sam Walton, pagava i suoi dipendenti la metà del salario minimo obbligatorio per legge. La legge del salario minimo valeva solo per le aziende con più di 50 dipendenti, e lui per aggirarla tentò di sostenere che ogni suo negozio era “un’azienda a se stante”. Perse la vertenza con il Ministero del Lavoro, ma questa sua impostazione del rapporto con i dipendenti pare costituire tutt’ora la “cifra” del più grande datore di lavoro privato del mondo, con oltre 2 milioni di dipendenti: nel commercio al dettaglio gli stipendi pesano mediamente il 10% sulle vendite, i manager Walmart hanno mandato di comprimere questa voce di costo tra i 5 e l’8%; dopo l’arrivo di un negozio Walmart in una contea, tutti i salari medi di abbassano; Walmart come principale commerciante al dettaglio in USA, impone i propri prezzi a tutta la catena di fornitura, riducendo molto i margini di utili e quindi obbligando anche i fornitori a pagare meno i dipendenti, se vogliono sopravvivere; non pochi dipendenti Walmart lavorano formalmente per agenzie di lavoro interinale, senza garanzie sindacali, anche se fanno lo stesso lavoro da anni; quando i dipendenti di un magazzino Walmart in Canada hanno votato per aderire al Sindacato, l’azienda semplicemente ha chiuso il negozio; quando i macellai di un punto vendita Walmart hanno espresso la medesima intenzione, Walmart ha chiuso la macelleria di quel punto vendita e – per dare un buon esempio…? – in tutto il Texas e nei sei Stati confinanti.
A detta dei detrattori di Walmart, queste circostanze rendono l’idea delle politiche aziendali del colosso della grande distribuzione, orientate in via esclusiva alla massimizzazione del profitto per gli azionisti. La cosa curiosa però è che a un aumento della redditività degli azionisti, costante negli ultimi decenni in USA, non corrisponde affatto un parallelo miglioramento degli indici macro-economici generali: fondamentalmente, la classe media non ha più il denaro per acquistare i beni che le industrie stesse producono, e questo – nel medio-lungo termine – non è nell’interesse stesso degli azionisti delle aziende manifatturiere, i quali però – a quanto pare – faticano a comprendere che questa strategia finisce per assottigliare la loro stessa base di clientela.
L’elevatissima “mobilità” dei manager non aiuta: “Se tra due anni sarò a lavorare per un’altra azienda che mi pagherà di più, perché dovrei preoccuparmi del vero interesse per i miei attuali azionisti nel lungo termine? Meglio ottimizzare i miei bonus ora”, pare essere il mantra del top-management USA.
Eppure esistono modelli differenti. I colossi dell’industria tedesca – Daimler, Siemens, Basf, per citarne solo alcuni – sono presenti su tutti i mercati, ma salari e benefit sono almeno di un terzo più alti di quelli in vigore in USA; la formazione professionale in Germania è ai primi posti delle preoccupazioni del management, mentre in USA è quasi totalmente ignorata; in Germania, ogni azienda con più di mille dipendenti ha nel Consiglio di Amministrazione – per legge – un egual numero di rappresentanti dei dipendenti rispetto a quelli degli azionisti, cosa inimmaginabile in USA. Eppure queste aziende guadagnano egualmente, distribuiscono importanti dividendi ai loro azionisti, e la Germania ha un surplus commerciale enorme, a fronte del deficit della bilancia commerciale USA che è il più alto del mondo.
E la Germania non è ovviamente l’unico caso di modello che funziona, opposto a quello USA. Il Gruppo Ferrero, colosso dolciario italiano, ha basato il proprio modello di business in senso esattamente opposto a Walmart: “coccola” i propri dipendenti con stipendi più alti della media di mercato, e li segue in ogni loro esigenza anche dopo il pensionamento. Le iniziative sociali e culturali sono così numerose da non essere elencabili, e ci sono addirittura dei piccoli furgoni che portano la spesa a casa di quegli ex-dipendenti anziani a mobilità ridotta. “Siamo come una grande famiglia”, ha più volte esclamato il patron dell’azienda, Michele Ferrero, recentemente mancato. L’azienda è tra le prime dieci al mondo nel suo settore, con oltre 8 miliardi di euro di fatturato, il marchio è stato indicato da una ricerca indipendente come “il più affidabile al mondo”, ha ricevuto innumerevoli premi per la qualità dell’ambiente di lavoro, e – contemporaneamente – i dividendi dell’attività industriale sono stati tali, negli anni, da fare di Michele Ferrero il 30° uomo più ricco al mondo, con un patrimonio personale di oltre 24 miliardi di euro. Eppure i suoi dipendenti lo ammiravano e lo rispettavano, non lo “odiavano” o lo “invidiavano”. Anche nelle PMI vi sono moltissime storie di eccellenza: GUNA S.p.a. è l’azienda leader in Italia nella produzione e commercializzazione di farmaci naturali e di origine biologica. “E’ un bel posto dove lavorare”, afferma Antonella Zaghini, “storica” capo-segreteria di Presidenza, in azienda da prima della Sua fondazione: “Camminavo per strada e vidi un cartello, cercavano un’apprendista con funzioni amministrative. Sono ancora qui oggi, come tanti colleghi: il turn-over è basso, da noi se sei in GUNA da 10 anni non dico che sei un novellino ma quasi. Entrano sempre nuovi assunti, energie fresche, ma è abbastanza raro che una persona si licenzi prima della pensione”. Anche in questo caso, gli azionisti incassano un robusto dividendo, in quanto il giro d’affari è sempre positivo, da un trentennio a questa parte, e l’azienda ha espanso il suo business fino a distribuire i propri farmaci in 29 paesi del mondo.
Queste realtà – Daimler, Siemens, Basf, Ferrero, Guna, ma potremmo citare anche aziende in altri paesi – paiono smentire nettamente l’affermazione di Jack Welch, all’epoca Amministratore delelegato del colosso USA General Electric, che in una convention per gli azionisti al Pierre Hotel di New York, disse: “La fedeltà all’azienda è una sciocchezza”: sono i numeri stessi – tanto cari al pragmatismo USA – che la contraddicono, come ci ricorda anche una bella ricerca della Harvard University che conferma che le aziende più attente alla soddisfazione di tutti i loro pubblici sono anche quelle che sul medio-lungo periodo garantiscono un maggiore incremento del valore per gli azionisti.
Gli USA non sono solo le loro banche e la loro borsa: sono tutta la nazione, è ciò include sia gli imprenditori che i dipendenti. Le correlazioni tra benessere generale della popolazione, soddisfazione dei dipendenti, successo a lungo termine delle aziende e ricchezza degli imprenditori, sono strettissime: è la scienza stessa a dimostrarlo.
Forse per Walmart è troppo tardi per capirlo. Ma – per fortuna – il modello Walmart non è l’unico vincente al mondo.
 


Luca Poma intervista Rossella Sobrero

CSRnatives è nata da poco: di cosa si tratta?
CSRnatives (www.csrnatives.net), iniziativa di Koinètica e Andrea Di Turi, nasce con l’obiettivo di offrire un’opportunità di incontro tra studenti CSRnatives e imprese CSRoriented.
I giovani sono il futuro ma, specie nel nostro Paese, hanno poco spazio per dimostrare quello che valgono e dare il loro contributo alla collettività. È da questa consapevolezza che nasce la rete dei CSRnatives, un luogo di confronto-incontro tra studenti universitari interessati alla sostenibilità, e tra questi giovani e le imprese CSR oriented, quelle più sostenibili, competitive, capaci di futuro, che vogliono investire nell’innovazione sociale.
Qual è la ragione che può stimolare un giovane a partecipare?
Aderire a CSRnatives permette di stare nel flusso della CSR, stringere relazioni con altri studenti che hanno gli stessi interessi, avere la possibilità di entrare in contatto con alcune imprese, contribuire allo sviluppo della rete e della community. Ad oggi sono oltre 30 gli studenti che si sono già iscritti.
Quali canali avete scelto per comunicare?
Oltre al sito www.csrnatives.net, siamo attivi su Twitter e Facebook. Inoltre i nativi della CSR curano anche un blog, dove lanciano discussioni, sollevano problemi, segnalano iniziative.
Quali sono i prossimi appuntamenti?
Molte attività saranno realizzate a partire dai prossimi giorni. Il 31 marzo è in programma il primo incontro. Con i nativi definiremo sia le prossime attività sia i contenuti del primo volume della collana di e-book (uscita prevista a luglio): entrambe le iniziative saranno dedicate all’innovazione sociale.


Olanda : la resa della patria del deposito su cauzione agli interessi dell'industria

Olanda : la progressiva resa della patria del deposito su cauzione agli interessi dell’industria del beverage
Da qualche anno in Olanda, con la costituzione di un ente “indipendente”, denominato Kennisinstituut Duurzaam Verpakken, che ha il compito di disegnare/proporre politiche e azioni in materia di raccolta degli imballaggi a perdere, è l’industria a determinare le politiche, poiché il governo vi ha rinunciato.
Partiamo con questo primo post per raccontare come è potuto avvenire che in Olanda patria del deposito di cauzione si sia arrivati a “condonare” all’industria del beverage il raggiungimento di tutti gli obiettivi imposti dal governo negli anni. L’industria del settore è arrivata al punto di mettere in discussione il deposito su cauzione vigente per le bottiglie grandi.
I retroscena contenuti in questo post provengono da un articolo pubblicato in Olanda nel 2013. La ricostruzione dei fatti raccontati dalla giornalista è stata resa possibile dalle rivelazioni in forma anonima di funzionari, ex funzionari, ricercatori ed esperti del mondo del packaging.
I PRECEDENTI
Prima che il governo Rutte I nel 2010 ne decimasse lo staff, erano i temuti e solerti funzionari che si occupavano di rifiuti del Ministero alle Infrastrutture e all’Ambiente (VROM) ad esercitare un minuzioso controllo sulle proposte di legge allo studio. Per evitare che eventuali proposte potessero avere delle conseguenze sulle politiche ambientali e gli obiettivi del Ministero il controllo era allargato anche ad altri dipartimenti governativi. Un caso emblematico nella storia degli eventi che hanno caratterizzato i più recenti anni delle vicende del VROM è quello che ha come protagonista Hester Klein Lankhorst, fino al 2012 direttore del dipartimento Gestione Rifiuti e Produzione Sostenibile del Ministero Ambiente, braccio destro dell’allora Segretario di Stato all’Ambiente Joop Atsma. Al contrario di altri colleghi, dopo essersi occupata della redazione del dossier di regolamentazione del deposito su cauzione per le bottiglie di plastica e della nascita del Kennisinstituut Duurzaam Verpakken, di seguito KIDV (1) finanziato dall’industria, Klein Lankhorst si licenzia volontariamente.
Comprensibile sconcerto nell’ambiente e tra i colleghi del Ministero presenti nel marzo del 2012 alla bicchierata di addio nel vicino pub ha suscitato la presenza di un noto personaggio invitato dalla Klein Langhorst. Si trattava infatti niente meno che del direttore alla comunicazione di Coca Cola Benelux Robert Seeger. Nonostante il fatto che la Coca Cola come le altre aziende appartenenti a Nedvang avesse impunemente infranto negli anni ogni tipo di accordo sul riuso delle bottiglie deciso con il governo, Seeger ha potuto tenere un discorso dal titolo “Coca Cola sceglie la cosa giusta.” Ma giusta per chi ? Per la Coca Cola ovviamente ! Un anno dopo, infatti, sarà sempre lei a diventare direttore di questo Istituto che, al posto del Governo, si occuperà da quel momento in poi di determinare le politiche sugli imballaggi.
INDUSTRIA COME SPONSOR
Che ci fossero commistioni in corso tra industria, funzionari pubblici e politica era un fatto noto da anni, ma che la conoscenza e professionalità che era presente nel settore pubblico venisse azzerata, e che l’industria arrivasse a prendere le decisioni in merito a ricerca e proposte legislative inerenti agli imballaggi, è un fatto nuovo. Un convegno organizzato dall’ Unione Nazionale dei Comuni VNG (Vereniging van Nederlandse Gemeenten) sulla gestione dei rifiuti urbani (tenutosi nel 2013 ad Amersfoort) dedicato alla formazione di funzionari addetti anche al controllo delle aziende, è stato in gran parte finanziato dallo stesso settore industriale che dovrebbe essere controllato. Anche il programma del convegno è stato determinato dallo sponsor.
Non molto tempo fa, l’uso di imballaggi, come le bottiglie di plastica e il controllo sul loro riutilizzo, erano due mondi completamente separati. C’era un quadro giuridico che imponeva delle regole per l’industria, e un controllo pubblico che vigilava sul rispetto di tali norme. L’Olanda prima e dopo la seconda guerra mondiale, è stata la patria del deposito su cauzione, alla sua riuscita hanno contribuito aspetti favorevoli come l’alta densità di popolazione combinata con ridotte distanze di trasporto. Produttori e fornitori riuscivano ad ottenere indietro la materia prima riferita a più del 95% degli imballaggi immessi.
GLI ANNI DAL 1986 AL 2002
I ministri Ed Nijpels (VVD-Liberali, 1986-1989) e Hans Ontani (PvdA-Laburisti 1989-1994) che si succedono alla guida di VROM perseguono entrambi politiche ambientali orientate all’estensione del sistema di deposito su cauzione per gli imballaggi. Ecco che a metà degli anni novanta si presentano le prime difficoltà. I produttori di bevande analcoliche cominciano ad introdurre nel mercato le prime bottiglie di plastica da mezzo litro non cauzionate con l’accordo che il formato coprirà solamente il 2% del mercato totale. In realtà già nel 2013 questo formato è il più venduto in Olanda rispetto alle bottiglie grandi.
Le conseguenze si fanno presto sentire sotto forma di migliaia di bottigliette e lattine abbandonate nell’ambiente e nei corsi d’acqua. La patata bollente se la ritrova il Ministro all’Ambiente Jan Pronk (PvdA, 1998-2002) che minaccia l’industria con l’applicazione di un cauzionamento qualora non in grado di recuperare e riutilizzare l’80% di tali contenitori.
SE GLI OBIETTIVI NON SI RAGGIUNGONO SI CAMBIANO
Dal 2002 la questione subisce un evidente declassamento poiché da quel momento non sarà più un ministro ad occuparsene, ma un segretario di Stato. Si tratta del democristiano Pieter van Geel (CDA, 2002-2007) alla guida di un dipartimento che conta sempre meno funzionari. La controparte industriale invece si rafforza e le trattative con un corpo di funzionari piuttosto indebolito, vengono portate avanti da un fronte sempre più agguerrito di specialisti del marketing. Viene infine raggiunto un accordo, denominato Verpakkingsbesluit, che ha valore di legge e che impone di raccogliere il 95% delle bottiglie grandi e il 55% delle piccole. Obiettivi che l’industria non riesce però a rispettare.
Questa situazione viene riconosciuta da Van Geel in una sua nota interna del 29 agosto 2006 senza che venga presa alcuna contromisura. A differenza del Ministro Pronk che lo ha preceduto, Van Geel non prova minimamente a “minacciare” le aziende con l’applicazione di un cauzionamento per le bottiglie piccole. Anno dopo anno le ispezioni governative certificano il mancato raggiungimento degli obiettivi sino a che il Ministro all’Ambiente Jacqueline Cramer (PvdA 2007-2010), getta la spugna. Invece di intervenire presso le aziende per il rispetto delle norme, si adegua a negoziarne di nuove. Una modalità che risulterebbe davvero molto gradita a tutti coloro che infrangono le regole, in materia stradale, fiscale, ecc. In questo scenario dove la guida politica è ormai assente il ristretto gruppo rimasto di funzionari pubblici non riesce più a farsi rispettare e con il veloce cambio delle figure politiche si arriva a perdere la memoria storica dei fatti. Continuano a sbrigare il proprio lavoro, negli anni, cullandosi nella speranza che le cose migliorino l’anno dopo.
Nel 2011 il VNG, l’unione dei comuni olandesi che sono al 94% favorevoli ad un’estensione del deposito su cauzione per bottigliette e lattine si attivano in tal senso coinvolgendo la politica. Nonostante il fatto che la proposta avesse acquisito il sostegno da parte dei gruppi parlamentari di quattro partiti (minori), il tentativo fallisce.
GLI ANNI PIU’ RECENTI 2012-2013
Nel 2012 il segretario di stato Atsma in totale mancanza di dati affidabili che dimostrino miglioramenti nella performance dell’industria dell’imballaggio, dichiara in parlamento di nutrire speranze sull’operato delle aziende. Sulla base di uno studio sulle percentuali di riutilizzo e sui costi del sistema di cauzionamento, pagato dalla stessa industria, decide definitivamente di bloccare l’introduzione di un deposito su cauzione per le bottiglie piccole, e di rendere volontario, dal 2015, il deposito su quelle grandi. In altre parole, è il settore che determina se applicarsi il deposito su cauzione o meno.
L’autore dello studio che dovrebbe fare luce sui costi del sistema è il dr. Ulphard Thoden van Velzen di TI Food and Nutrition (dipartimento dell’Università di Wagening finanziato dal settore del packaging) incaricato dall’Istituto appena insediato. Lo studio è stato contestato anche dagli esperti del settore (1) per il metodo e per i risultati al punto da apparire pilotato dall’industria. Nello studio venivano comparati due scenari di cui uno reale e l’altro ipotetico/futuribile: quello riferito al sistema attuale dove le bottiglie vengono raccolte degli esercizi commerciali con costi misurabili e lo scenario (potenziale) di una raccolta effettuabile con gli altri flussi di plastica che avviene a livello residenziale con i contenitori arancioni (con costi difficilmente stimabili) . In seguito alle obiezioni ricevute van Velzen ha dovuto modificare ben 12 voci di costo su 16, ma questo non è stato sufficiente a distogliere Atsma dal suo proposito di abolire il deposito su cauzione.
CHI PAGA DECIDE (proverbio olandese)
Mentre in Germania è in funzione un sistema completo di deposito su cauzione per bottiglie grandi e piccole e per lattine, il governo olandese scarica sui comuni grande parte delle problematiche derivate dalla questione. Assurdo pensare che gli assessori di comuni come Zoetermeer o Purmerend debbano negoziare con l’industria del packaging. In teoria i comuni dovrebbero essere supportati dalle competenze tecniche dell’”indipendente” KIDV diretto da Lankhorst. Di fatto sono diversi i soggetti che nutrono perplessità sul fatto che l’ente, finanziato dall’industria con due milioni di euro all’anno, sia in condizione di fornire consulenza e supporto indipendente. Oltre ai membri operativi l’Istituto ha un consiglio direttivo formato da rappresentanti dei comuni, del governo e dell’industria presieduto da Hans van der Vlist, l’ex segretario generale del Ministero VROM autore dell’attuale legislazione sul packaging. Una delle prime questioni di cui KIDV si è voluto occuparsi è stata la raccolta dei cartoni per latte e bevande con la partenza di un progetto pilota al quale partecipano 40 comuni. La ricerca che accompagna il progetto viene commissionata al dr. Ulphard Thoden van Velzen autore dello studio prima citato.
NB: Dopo l’abolizione del deposito avvenuta nel 2012 attraverso la cancellazione di alcuni articoli “dormienti” all’interno della legislazione ambientale di riferimento in Olanda (Wet milieubeheer), c’è stata una mozione da parte del partito D66 nell’estate del 2014 che ha riportato in vita gli articoli. L’attuale segretario di stato all’Ambiente Mansveld non ha (ancora) abolito il deposito perché non sono stati raggiunti dalle aziende gli obiettivi di raccolta e riciclo che erano state definiti condizione preliminare. Nell’anno in corso si faranno nuove valutazioni.
Continua…
(1) Kennisinstituut Duurzaam Verpakken (KIDV in inglese Knowledge Institute for Sustainable Packaging viene così descritto sul sito di EXPRA un’associazione che riunisce e rappresenta gli interessi dei corrispettivi europei del nostro Conai: To ascertain that information on packaging and packaging waste is neutral and correct it was founded in 2012. The KIDV is governed by the Ministry of Infrastructure and Environment, producers/importers and the association of municipalities (VNG). Its goal is to function as an independent organization that gathers and shares neutral information on packaging and packaging waste. The KIDV focuses on reduction, reuse, renewal and recycling of packaging and packaging waste.
(2) Il produttore di compattatori automatici Tomra ha incaricato CE Delft ente di consulenza olandese di verificare i dati contenuti nel rapporto WUR di van Velzen. CE Delft ha rilevato che i costi imputati al sistema di cauzionamento dal rapporto Wur sono il doppio di quanto è risultato dalle loro analisi.


A Capgemini il World’s Most Ethical Company 2015

Capgemini è stata nominata World’s Most Ethical Company 2015 dall’Ethisphere Institute, centro di ricerca indipendente che promuove le migliori pratiche di etica aziendale e governance.
Capgemini è stata premiata, per il terzo anno consecutivo, come azienda tra le più etiche del mondo, un importante traguardo che riconosce il costante impegno di Capgemini nella corporate social responsibility, nelle pratiche di compliance e nel mantenere una leadership aziendale etica. Attraverso la metodologia World’s Most Ethical Company, Ethisphere Institute premia quelle organizzazioni che hanno dimostrato un impatto concreto sul metodo di lavoro e incoraggiato una cultura etica e di trasparenza a tutti i livelli.
Questo importante riconoscimento sottolinea l’impegno di Capgemini nell’utilizzo di standard di lavoro etico e di pratiche che garantiscano valore a lungo termine per i principali stakeholder in tutto il mondo tra cui clienti, dipendenti, fornitori, revisori e investitori. Capgemini è una delle due sole aziende del settore “business services” che è stata premiata quest’anno.
Maurizio Mondani, Amministratore Delegato di Capgemini Italia ha dichiarato: “Questo prestigioso premio dell’Ethisphere Institute riconosce a Capgemini i valori fondamentali per il mantenimento di standard elevati di etica e compliance. Siamo orgogliosi di essere stati premiati come World’s Most Ethical Company per il 2015 e continueremo a garantire che la cultura dell’etica sia il fulcro della nostra organizzazione”.
“Il programma World’s Most Ethical Company racchiude la correlazione tra comportamento etico e miglioramento della performance aziendale. Le aziende premiate usano l’etica come strumento per definire ulteriormente la propria leadership di settore e far capire che creare una cultura etica e aggiudicarsi il premio World’s Most Ethical Company riguarda un impegno molto più ampio che comunicare un semplice messaggio all’esterno o avere un gruppo di executive che affermano la cosa giusta”, ha commentato Timothy Erblich, Chief Executive Officer di Ethisphere. “Ottenere questo premio implica un’azione comune da parte dell’intero ambiente di lavoro, dall’alto verso il basso. Desideriamo congratularci con tutti, in Capgemini, per questo straordinario risultato”.
La valutazione World’s Most Ethical Company è basata sull’Ethics Quotient (EQ) dell’Ethisphere Institute, un framework sviluppato in anni di ricerca per fornire degli strumenti per valutare le prestazioni delle aziende in modo obiettivo, coerente e standardizzato. Le informazioni raccolte offrono una campionatura completa di criteri definitivi di competenze di base, piuttosto che di tutti gli aspetti corporate di governance, rischio, sostenibilità, conformità ed etica. La struttura e la metodologia EQ sono determinate, controllate e perfezionate dalla consulenza di esperti e dalle indicazioni raccolte dal network di ricercatori dell’Ethisphere e dal World’s Most Ethical Company Methodology Advisory Panel.
I punteggi dell’azienda sono generati sulla base di cinque categorie chiave: programma di etica e conformità (35%), corporate citizenship and responsibility (20%), cultura etica (20%), governance (15%) leadership, innovazione e reputazione (10%).


Emilio Del Giudice

“…Muoversi con le oscillazioni del cosmo è il vero segreto della bellezza…”
Emilio Del Giudice

Emilio Del Giudice – Napoli, 1º gennaio 1940, Milano, 31 gennaio 2014 – è stato un Fisico che ha lavorato nel campo della materia condensata. Pioniere della teoria delle stringhe nei primi anni settanta, insieme a Sergio Fubini, Paolo Di Vecchia e Gabriele Veneziano è stato uno dei cardini di un’attiva scuola di fisica teorica italiana. Noto a livello internazionale anche per i suoi studi con Giuliano Preparata all’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), il suo interesse scientifico preminente è stato soprattutto nella ricerca sul ruolo dell’acqua nella fisica degli organismi viventi. Straordinario divulgatore scientifico, in particolare sui temi della meccanica quantistica, approfondì le Sue teorie al MIT – Massachusset Institute of Technology (USA), e lavorò al Niels Bohr Institute di Copenhagen e all’ International Institute of Biophotonics di Neuss, in Germania.
Oltre a numerosissime pubblicazioni scientifiche, ha scritto il libro “Il segreto delle tre pallottole”, e ha ricevuto la Medaglia Prigogine, prestigioso premio istituito dal Wessex Institute of Technology per celebrare la memoria del premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine, che viene assegnato ogni anno ad uno studioso d’eccellenza che si è distinto per i risultati della ricerca scientifica nell’ambito delle scienze evolutive. In questo video – tratto da un’intervista rilasciata dal Prof. Del Giudice a Luca Poma, giornalista e socio UNAMSI (Unione Nazionale Medico-Scientifica di Informazione) – il Professore tratteggia in chiave divulgativa alcuni aspetti dei Suoi studi sulla fisica delle “basse energie”. Il colloquio avvenne pochi giorni prima dell’inaspettato decesso del Prof. Del Giudice, e rappresenta di fatto una sorta di “testamento scientifico” sulle piste di ricerca più promettenti in questo settore.
Le teorie di Del Giudice – e le loro applicazioni concrete – proseguono oltre Lui: il team di ricerca è composto da Almut Beige (Leeds), Marco Bischof (Berlino), Massimo Blasone (Salerno), Larissa Brizhik (Kiev), Antonio Capolupo (Salerno), Antonella De Ninno (Roma), Vittorio Elia (Napoli), Luca Gamberale (Milano), Roberto Germano (Napoli), Mae-Wan Ho (Londra), Alfredo Iorio (Praga), Pierre Madl (Salisburgo), Nadia Marchettini (Siena), Luc Montagnier (Parigi), Elena Napoli (Napoli), Massimo Piattelli-Palmarini (Tucson), Gerald H. Pollack (Seattle), Patrizia Stefanini (Milano), Alberto Tedeschi (Milano), Carlo Ventura (Bologna), Giuseppe Vitiello (Salerno), Vladimir Voeikov (Mosca).


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