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GESTIONE DELLA CRISI REPUTAZIONALE: È UN RISCHIO ASSICURABILE?

GESTIONE DELLA CRISI REPUTAZIONALE: È UN RISCHIO ASSICURABILE?

La reputazione è attualmente considerato come il più importante asset intangibile per un’organizzazione, quello di maggior valore sotto il profilo economico-finanziario: una buona reputazione è in grado di condizionare i comportamenti di acquisto di prodotti e servizi, aumenta quella che in gergo tecnico definiamo “la licenza di operare” di qualunque organizzazione, ovvero la disponibilità e la fiducia che i cittadini garantiscono a un’azienda, permettendole quindi di ampliare il proprio business, e aiuta a proteggere dalle crisi reputazionali.

Secondo un’indagine di Weber Shandwick dal titolo ‘The State of Corporate Reputation’, il 63% del valore di mercato di un’organizzazione è attribuibile alla sua reputazione: la letteratura oggi ci suggerisce quanto, senza ombra di dubbio, la reputazione abbia un impatto diretto sul valore di qualunque azienda o personaggio, toccando un insieme di fattori come identità, immagine, notorietà e riconoscibilità, che influiscono sugli stakeholder e sul valore percepito dai cittadini.

Nel XXI secolo poter contare su una buona reputazione significa anche poter guadagnare (molti) più soldi. Il Reputation Institute USA stima che, in media, una variazione di un punto nell’indice reputazionale di un’organizzazione – misurato dal loro indice RepTrak® – vale circa il 2,6% del valore di mercato dell’organizzazione; l’Istituto ha anche creato un portafoglio composto dalle 10 società più quotate ogni anno dal punto di vista reputazionale, e i risultati nel periodo di tempo considerato (10 anni) dimostrano che un investimento di $ 1.000 distribuito equamente tra le azioni delle prime 10 società per buona reputazione, sarebbe valso, 10 anni dopo, $ 3.025, con un rendimento migliore del 50% rispetto all’indice Dow Jones ($ 2.053), all’indice Russell 3000 ($ 2.030) e all’indice S&P 500 ($ 2.010), e che sovraperforma quindi rispetto alle medie di mercato.

Insomma, reputazione è uguale a denaro: come proteggerla quando va in crisi? Esiste per questa attività professionale un’apposita specializzazione, quella del crisis manager, il cui ingaggio però può costare, e non poco. Per questo, varie compagnie assicurative hanno iniziato a contemplare nelle proprie Polizze anche la copertura non già del rischio reputazionale (gli importi in gioco sarebbero enormi, in considerazione dell’impatto sui conti delle crisi reputazionali) ma quanto meno delle cifre anche importanti da destinare, nell’ipotesi di crisi, al pagamento delle parcelle dei professionisti coinvolti nel Crisis team.

Per capirne di più abbiamo intervistato Gianluca Cireddu, Agente Generale di Reale Mutua.

Reale Mutua propria polizza RESPONSABILITA’ CIVILE DIRECTORS & OFFICERS tra le spese speciali ha previsto anche una copertura per la mitigazione dei costi necessari per pagare le parcelle dei professionisti da impiegare per gestire il danno conseguente da crisi reputazionale. Come legge questa “nuova sensibilità” da parte della sua azienda?

L’ufficio innovazione prodotti di Reale Mutua a mio avviso ha fatto bene il proprio lavoro. Le spese per la gestione del danno reputazionale sono risultate negli ultimi sondaggi in vertiginosa crescita di domanda, ed è per questo che sono state inserite in Polizza, direi anche con un limite di risarcimento ragguardevole, che testimonia l’importanza che possono rivestire per l’azienda assicurata.

Quali sono i soggetti che possono beneficiare della liquidazione delle somme derivanti da questa copertura?

Sono assicurate tutte le persone fisiche che abbiano ricoperto nel periodo di validità contrattuale un ruolo nel C.d.A., o come membri del Collegio Sindacale o Revisori dei Conti, membri del Comitato per il Controllo di Gestione, Consiglio di Sorveglianza, Consiglio direttivo, il Direttore Generale, i Dirigenti preposti alla redazione di documenti contabili societari, i Dirigenti preposti per le funzioni organizzative e/o direttive, il Responsabile della Sicurezza, il Responsabile del trattamento dei dati personali, il Responsabile Internal Audit, il Responsabile Risk Management & Compliance, e infine il Responsabile Fondo Pensione dipendenti e dirigenti, anche qualora le predette mansioni fossero svolte in società partecipate a quella assicurata.

La copertura è attiva anche in caso di “mala gestio” degli amministratori? Ed anche in caso di loro colpa grave?

Se la “mala gestio” è di origine colposa (anche in caso di colpa grave) assolutamente si (è però espressamente escluso il dolo).

Come si ottiene questa speciale copertura, e quanto costa in concreto, in termini di maggiore esborso rispetto alla sottoscrizione della Polizza “base”?

La copertura é subordinata alla compilazione di un questionario pre-assuntivo nel quale è necessario fornire, oltre ai dati generali, anche una serie di dati di natura finanziaria. Il costo è dato da un coefficiente molto variabile in funzione del fatturato, del settore nel quale opera l’azienda e delle garanzie aggiuntive che il cliente intende sottoscrivere. La forbice é molto ampia: da alcune centinaia di euro per le piccole imprese, a importi più significativi per grandi realtà societarie molto strutturate.

Qual è l’entità massima delle spese che possono venire risarcite?

Il massimale dedicato alle spese di gestione della crisi reputazionale è pari al 10% del massimale complessivo di polizza, con 250.000 euro di massimo risarcibile. È una soglia che permette di poter ingaggiare professionisti anche affermati, per la gestione della crisi reputazionale, senza dover sovraccaricare l’azienda di costi non trascurabili, e per un periodo adeguato a gestire la fase di recovery reputazionale post evento dannoso. Reale ha voluto dare un segnale, su una tematica, quella del rischio reputazionale, di sempre più stringente attualità.




Sofia Crisafulli cacciata da un bar: dinamiche influencer-fan in spazi pubblici

Sofia Crisafulli cacciata da un bar: dinamiche influencer-fan in spazi pubblici

Un episodio che ha coinvolto l’influencer Sofia Crisafulli ha acceso il dibattito su come gestire la presenza di personalità note nei luoghi pubblici e le reazioni spesso incontrollabili dei loro fan. Mentre si trovava in un bar, Sofia è stata riconosciuta da alcune fan, il che ha generato un tale caos che i gestori del locale hanno deciso di allontanarla, preoccupati per le difficoltà nel mantenere l’ordine e garantire un servizio adeguato agli altri clienti. Questo evento ha sollevato importanti interrogativi su quali siano le responsabilità dei vari attori coinvolti: il personale del bar, l’influencer e i fan.

Da un lato, la responsabilità dell’imprenditore e del personale del bar è evidente. Garantire un ambiente sicuro e accogliente per tutti i clienti è una priorità, e il caos creato dall’arrivo di un personaggio pubblico può mettere a rischio la capacità di farlo. Tuttavia, la decisione di cacciare un cliente, soprattutto una persona influente come Sofia Crisafulli, non è priva di rischi. Questo tipo di azione può facilmente trasformarsi in un boomerang mediatico, attirando critiche e potenzialmente danneggiando la reputazione del locale. In un mondo in cui i social media possono amplificare qualsiasi evento in pochi minuti, la gestione di situazioni di questo tipo richiede una particolare sensibilità e un approccio ponderato.

Per quanto riguarda gli influencer, la vicenda di Sofia Crisafulli mette in luce la loro crescente influenza e l’impatto che possono avere nei contesti pubblici. Essere riconosciuti e seguiti è parte integrante della loro vita, ma comporta anche una serie di responsabilità. Un influencer, consapevole del potenziale impatto della propria presenza, dovrebbe essere preparato a gestire situazioni in cui l’entusiasmo dei fan rischia di sfuggire di mano. Questo potrebbe significare, ad esempio, scegliere luoghi più adatti per incontrare i fan o collaborare con il personale del locale per garantire che la loro presenza non crei problemi.

Infine, i fan stessi hanno un ruolo cruciale in queste dinamiche. L’entusiasmo e l’ammirazione verso un personaggio pubblico sono comprensibili, ma devono essere bilanciati da un rispetto per gli altri clienti e per il contesto in cui si trovano. Quando l’euforia porta al caos, non solo si rischia di disturbare l’ordine pubblico, ma si mette in difficoltà anche l’influencer, che potrebbe trovarsi in situazioni spiacevoli proprio a causa dell’affetto dei suoi sostenitori.

L’episodio di Sofia Crisafulli ci offre un’opportunità per riflettere su come gestire le interazioni tra influencer e pubblico nei luoghi pubblici. È evidente che ogni parte coinvolta ha una responsabilità nel garantire che tali situazioni non degenerino. Da un lato, gli imprenditori devono essere pronti a gestire l’arrivo di figure pubbliche in modo che non comprometta l’esperienza degli altri clienti. Dall’altro, gli influencer devono essere consapevoli dell’impatto che possono avere e agire di conseguenza. Infine, i fan devono comprendere l’importanza di mantenere un comportamento rispettoso, anche quando si trovano di fronte ai loro idoli.

In conclusione, mentre il mondo degli influencer continua a intrecciarsi sempre di più con la vita quotidiana, episodi come quello di Sofia Crisafulli ci ricordano l’importanza di un equilibrio tra entusiasmo e rispetto, affinché la convivenza tra figure pubbliche e privati cittadini possa avvenire in modo armonioso e senza creare disagi per nessuno.




L’Ucraina si affida a una portavoce creata con l’AI

L'Ucraina si affida a una portavoce creata con l'AI

Il primo maggio l’Ucraina ha presentato una portavoce basata sull’intelligenza artificiale per “fornire aggiornamenti tempestivi” sulla guerra e offrire informazioni sulle attività belliche in corso nel Paese. La portavoce, chiamata Victoria Shi, ha ripreso le fattezze della cantante e influencer ucraina Rosalie Nombre, che ha accettato di partecipare gratuitamente all’iniziativa, anche se i funzionari ucraini hanno sottolineato che l’entità digitale e Nombre “sono due persone diverse”. In un video rilasciato dal ministero degli Affari esteri ucraino, responsabile del progettoShi si è presentata e ha descritto il suo ruolo e le sue funzioni lavorative. La decisione di aggiungere una portavoce AI non è stata “un capriccio”, ma un requisito per gli sforzi bellici, ha sottolineato il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba. “In fondo”, ha aggiunto, “per ottenere i risultati necessari per il paese, è necessario accelerare tutti i processi ed essere un passo avanti”.

La corsa all’innovazione di Kyiv

Parlando del suo ruolo come rappresentante del ministero degli Esteri, Shi ha specificato nel suo messaggio video che il suo compito sarà quello di riportare al pubblico informazioni operative e verificate del dipartimento consolare del ministero. “Informerò i giornalisti sulle notizie riguardanti il lavoro dei funzionari nella protezione dei diritti e degli interessi dei cittadini ucraini all’estero, rispondendo a incidenti o situazioni di emergenza e altre notizie”. Il ministero ha detto di aver intrapreso misure per distinguere le dichiarazioni di Shi da quelle prodotte da attori malintenzionati o dalla falsificazione digitale. Nello specifico, è stato posizionato un codice qr in fondo a ogni video che porterà gli utenti direttamente a una versione testuale della dichiarazione sul sito web governativo. Difficile pensare che basti a impedire la creazioni di cloni e di truffe. Con tutte le conseguenze del caso.

Questa novità non rappresenta un’eccezione: l’Ucraina sta utilizzando l’AI anche in altri settori, per esempio per individuare mine terrestri, identificare potenziali crimini di guerra o ricollocare cittadini sfollati. Shi permetterà di risparmiare tempo e risorse al ministero, consentendo ai leader ucraini di concentrarsi su altre attività e assistere i cittadini, ha detto Kuleba. Se questa applicazione dell’intelligenza artificiale prestata alla diplomazia è piuttosto unica, in generale altri Paesi hanno iniziato a introdurre conduttori basati sull’AI che possono leggere le notizie ed esprimersi in più lingue. Cina, India, Grecia, Kuwait e Taiwan sono stati tra i primi a testare presentatori di questo tipo.




L’eugenismo della “intelligenza artificiale generale”

L'eugenismo della "intelligenza artificiale generale"

L’eugenismo è l’ideologia che aspira alla selezione artificiale degli esseri umani. Pretende che non sia la natura indifferente a scegliere i più fit per la sopravvivenza, ma altri umani. I quali possono decidere perciò anche i criteri per farlo e la scala bene-male su cui valutare i “migliori”, cose che in natura non esistono.

L’eugenismo arcaico mescolava la raffinatura domestica di razze animali con l’ammirazione per gli eroi e la primitiva repulsione per lo straniero pericoloso in quanto diverso. Platone e Aristotele però ce lo hanno consegnato sotto un primo manto di autorità filosofica. Verso fine ‘800 Galton vi aggiunse il darwinismo, e poco dopo arrivarono le misure del QI. Così l’eugenismo indossò la veste scientifica, e con esso i vecchi pregiudizi cattivi che vedevano la povertà, il colore della pelle o la disabilità come evidenze di una natura inferiore che merita odio.

Con la tecnica del XX secolo l’eliminazione dei “subumani” ha toccato il fondo del genocidio industriale nazista. Ma ha prodotto pure – storia meno nota – i programmi di sterilizzazione forzata che tanti rispettabili Paesi adottarono nei confronti di minoranze etniche e “devianze” varie. In California, per dire, andò avanti dal 1909 al 1979 (fino al 2014 nelle carceri!), e a suo tempo fornì a Hitler un autorevole studio di fattibilità.

L’informatica e l’ingegneria genetica esaltano l’eugenismo positivo del “potenziamento” (enhancement), dei “better babies”, dei “better brains”, sempre vagheggiando quello stadio trascendente in cui «l’umanità realizza consapevolmente il suo vero destino» (come disse nel 1957 l’eugenista Julian Huxley, che a quanto pare riteneva di conoscere questo «vero destino»).

Ingenuo e insipiente come alle origini, il nuovo eugenismo si è integrato a meraviglia con l’iperliberalismo smarrito nell’espansione infinita delle libertà individuali: design del corpo, del gender, dei figli, della vita. Proiezioni di una specie post-umana che in realtà sono estratti dalla miniera delle nostre debolezze, concessa allo sfruttamento per alzare il PIL.

Ed eccoci all’ultima variante dell’eugenismo: l’ossessione per l’“intelligenza artificiale generale” (AGI), come illustra scrupolosamente il lavoro appena pubblicato da Timnit Gebru ed Émile P. Torres, con una genealogia in parte riassunta sopra. È un tesoro di consapevolezza, di questi tempi: chi può la legga per intero.

Al centro c’è una famiglia di ideologie futuriste cresciute negli ultimi decenni coltivando sogni di perfezionamento, immortalità ed espansione cosmica mediante l’ibridazione umana con macchine informatiche: Transumanismo, Extropianismo, Singolaritanismo, Cosmismo, Razionalismo, Altruismo Effettivo e Lungotermismo (le ultime due sono etiche utilitariste calcolabili al 100%). Gli autori le studiano da tempo e hanno anche reso popolare l’acronimo TESCREAL per coglierle come unità.

Sembra roba uscita dalla fantascienza, e lo è. Ma i profeti che annunciano l’imminenza dell’intelligenza artificiale generale (Altman, Bostrom, Tegmark, Goertzel, ecc.) e i miliardari che la finanziano (Musk, Thiel, Tallinn, ecc.), sono tutti affiliati a quei movimenti, e stanno usando il loro enorme potere e immani risorse finanziarie per realizzarne le fantasie. Visti gli exploit dei Language Models, ora vedono l’intelligenza artificiale generale come la via più promettente; il resto può attendere.

La piena continuità coi languori eugenetici si vede prima di tutto nella loro arroganza infantile di attribuirsi il giudizio universale, la superiorità assoluta e l’onnipotenza. È gente che parla degli esseri umani solo in termini di QI e di coefficienti di utilità. Discettano con confidenza su cosa sia meglio fare di qui a diecimila miliardi di anni. Si sentono una stirpe di semidei della logica cui tocca il destino di salvare l’umanità. A modo loro, ovviamente, cioè traslocando tutto e tutti nel dominio del calcolabile. Loro lo chiamano «paradise-engineering», la ingegnerizzazione del paradiso in terra, in vista della «completa abolizione della sofferenza nell’Homo Sapiens».

Intanto, osservano i due autori, «la missione di costruire quello che sembra un sistema onnisciente in grado di svolgere qualsiasi compito in qualsiasi circostanza ha già provocato molti danni documentati ai gruppi emarginati, tra cui sfruttamento dei lavoratori, furto di dati, razzismo ambientale, misinformation e disinformazione, plagio, e sistemi che amplificano visioni egemoniche come razzismo, abilismo, omofobia e classismo».

Ma i paladini dell’intelligenza artificiale generale ignorano la realtà e le persone in carne e ossa. Temono solo, come Asterix, che l’intelligenza artificiale generale gli caschi sulla testa: l’estinzione umana ad opera della loro stessa creatura. Il culto all’AGI infatti ha il doppio volto utopia–apocalissi come ogni escatologia religiosa che si rispetti. Perché in sostanza si tratta di religione.

David F. Noble lo documentava già nella IA di quasi 30 anni fa: «Nonostante tutta la loro intellettuale iconoclastia e le loro fantasie futuristiche, i ricercatori rimasero immersi in un milieu essenzialmente medievale di mitologia cristiana». E così è ancora.




Giornalisti fondamentali per la sicurezza nel mondo: contro testi automatici e manipolati

Giornalisti fondamentali per la sicurezza nel mondo: contro testi automatici e manipolati

Ma perché i giornalisti non pretendono di essere protagonisti della denuncia sulle manipolazioni in rete? Perché ad esempio non chiedono alla senatrice Segre, che presiede la commissione sull’odio nel web, di essere auditi e diventare soggetti della ricerca?

Il punto su cui si dovrebbe discutere nella categoria, almeno con la stessa sollecitudine e passione con cui si difende la propria libertà dai vertici editoriali, riguarda una “mediamorfosi” che sta spingendo i giornalisti, volenti  o nolenti, ad essere parte essenziale della Cybersecurity.

PRIVACY DIGITALE

Proprio il rapporto che la Polizia postale ha inviato alla Commissione Segre in questi giorni ci mostra come stiano mutando la dinamica e il contenuto degli attacchi alla nostra privacy digitale. Fino alla pandemia, potremmo dire, che la cybersecurity riguardava la difesa dei patrimoni digitali, di quel sistema di controllo e conservazione di documenti, password e riservatezza con cui gestivamo le nostre relazioni digitali, a cominciare da quelle economiche e sanitarie.

Un aspetto certo fondamentale che determinava la sostenibilità dell’intera infrastruttura tecnologica e delle attività sociali che ad essa sono appoggiate. 

CASSETTA DEGLI ATTREZZI

Da qualche anno il fenomeno è completamente mutato: l’aspetto ideologico, ancora meglio psico politico potremmo dire, prevale su quello patrimoniale. Cybersecurity diventa, ormai prevalentemente, la capacità di alterare il senso comune di un Paese, usando l’informazione, più concretamente, la cassetta degli attrezzi del giornalismo -composta da fatti, fonti, interpretazioni e documenti- per manomettere la percezione della realtà e indurre reazioni psicologiche che distorcono la nostra opinione.

I dati del report della Polizia postale sono chiarissimi. Man mano che si alza la tensione internazionale e si avvicinano scadenze elettorali, aumenta a dismisura l’infiltrazione di messaggi e di fake news prodotte, in maniera orchestrata e coordinata, da ben individuati centri internazionali.

ANTISEMITISMO E IMMIGRATI

Due sono le caratteristiche di questa infiltrazione. Da una parte un bombardamento da parte di sistemi automatizzati, chat bot che oggi sono gestiti da dispositivi di Intelligenza artificiale, che lavorano su tematiche trasversali, combinando antisemitismo con pacifismo anti ucraino, o forme di discriminazione anti immigrati. Su questi argomenti si documenta una proliferazione di video e informazioni del tutto falsificate, che associano immagini di altri contesti a notizie attuali.

Queste strategie puntano ad indurre fenomeni di rancore e disgregazione sociale generici nelle loro motivazioni, ma tutti finalizzati a respingere ogni istanza di controllo e trasparenza democratica. Il secondo livello ci riporta all’esperienza di Cambridge Analytica, e più espressamente a quella guerra ibrida teorizzata qualche anno fa dal Capo di Stato Maggiore russo Gerasimov, che ha mutato radicalmente natura e contenuti dell’informazione. Ci riferiamo alla creazione di milioni di profili di elettori contendibili, ossia cittadini le cui opinioni sono considerate incerte e di confine su aspetti particolari, come ad esempio il fisco o l’immigrazione, su cui esercitare una specifica pressione utilizzando il bagaglio di informazioni sulla loro attività, visione e linguaggio. Anche in questo caso materialmente l’operazione è condotta con batterie di migliaia di bot che inquadrano singoli bersagli da convincere.

NEUTRALIZZAZIONE DEI BOT

Il punto su cui intervenire riguarda proprio l’individuazione e la neutralizzazione di questi bot. Dopo anni di questo stillicidio ancora non è stata adottata nessuna strategia efficace. Benché tecnologicamente sia possibile identificare i contenuti che provengono da un sistema artificiale rispetto a quelli prodotti da essere umani, si continua a tergiversare. L’interesse delle piattaforme come Google e Facebook è fin troppo evidente: queste attività di falsificazione e inquinamento delle informazioni, producono una gran massa di dati e di traffico che economicamente rende molto ai service provider. 

Ma a livello Europeo si continua a denunciare queste malversazioni, come ultimamente ha fatto anche il Commissario al Mercato Unico Thierry Breton, che ha esplicitamente attaccato il gruppo di Elon Musk. Eppure non sarebbe difficile pretendere una piena distinzione fra contenuti umani e flussi automatici, costringendo chiunque attivi dei bot a registrarli in un specifico albo.

MISSIONE PUBBLICA

Non potrebbe essere questa una proposta adottata dai giornalisti? La promiscuità fra sistemi di manipolazione geopolitica della rete e l’attività professionale delle redazioni è ormai quanto mai estesa e invadente e dobbiamo capire come e dove questo fenomeno stia modificando il nostro mestiere. Si tratta di rivendicare un nuovo statuto di tutela e riconoscimento di missione pubblica, chiedendo ai singoli Paesi e alla stessa Unione Europea la classificazione del giornalismo professionale come mestiere che attiene alla sicurezza nazionale. Per questo bisogna definire norme e procedure che renda i giornalisti titolari sia dell’attività di implementazione e validazione dei sistemi tecnologici delle redazioni, sia di affidargli, nella loro attività, anche funzioni di controllo e ispettorato dei percorsi digitali delle notizie.

Siamo ad un passaggio epocale, che investe direttamente la permanenza e praticabilità di una professione che ritrova proprio nella trasparenza e nella competenza tecnologica una propria ragion d’essere.