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Abbiamo un corpo digitale. Seducente, innamorato, tradito e malato

Abbiamo un corpo digitale. Seducente, innamorato, tradito e malato

Si illumina lo schermo, apriamo il portatile, prendiamo in mano il telefono. E immediatamente consegniamo potenzialmente una parte di noi stessi a un mondo smisurato che s’impossessa di noi. È la tesi di partenza del “corpo digitale”, che Luca Poma – giornalista, scrittore, anima di Creatori di Futuro e grande comunicatore su temi scottanti – sviscera nel suo libro Il sex appeal dei corpi digitali, appena pubblicato da Franco Angeli.

Il nostro corpo digitale… è la ricostruzione digitalizzata di tutte le informazioni che produciamo nelle nostre interazioni digitali di qualsiasi tipo, costantemente aggiornate e archiviate in una miriade di piattaforme diverse, che fanno propri ‘golosamente’ e bulimicamente tutti i dati che ci appartengono, ma soprattutto ‘disegnano’ i confini di chi noi siamo.

Il nostro corpo digitale può diventare merce sfruttabile a nostra insaputa. Ma, come in ogni rivoluzione, lo scenario non è irrimediabilmente nefasto. L’uso di strumenti come i social network, i blog e tutti i media digitali ha conseguenze tangibili sul nostro umore, certamente, e quindi sulla nostra fisiologia.

Il nostro corpo digitale

Il corpo digitale di ognuno di noi, cioè la rappresentazione più estesa possibile di chi noi siamo, dai dati biometrici alla nostra reputazione, ha una sua consistenza, una sua profondità, ed è perfino capace di prevedere i nostri spostamenti. Roby Horning, direttore di New Inquiry, asserisce addirittura che è piacevole, per molti utenti, “diventare essi stessi un prodotto”.

Se i social ci fanno diventare prodotti, paradossalmente ci aiutano ad apprezzarci, a sentirci desiderabili. Aiutati, in questo, da una sorta di generali di questo esercito di corpi digitali, ovvero i grandi detentori delle nostre informazioni (nessun complotto, solo strategie di profitto): giganti dell’ecommerce, provider di email, social media. Ma anche siti porno: l’88 per cento dei siti hard – secondo un’inchiesta di Motherboard, il canale di Vice specializzato nell’alta tecnologia – immagazzinano le informazioni degli utenti, che lasciano tracce ripercorribili dagli hacker e che quindi, insieme alla nostra privacy, mettono a rischio la nostra vita reale.

Le modalità espressive dei corpi digitali

Sono sostanzialmente tre le direttrici su cui Poma appunta l’attenzione.

Una, abbiamo un rapporto di amore e odio, in contemporanea, con i mediatori dei nostri desideri virtuali, con le community a cui apparteniamo.

Due, abbiamo voglia di trasformismo, come dimostra il fatto che il 41 per cento degli utenti di Tinder è sposato o ha una relazione stabile.

Tre, non abbiamo un controcanto critico. Immersi come siamo nelle informazioni, troviamo ciò che ci appaga e non proseguiamo a cercare, perché manca uno strumento che insinui il dubbio.

Stupri nell’oblio digitale

Alcuni test empirici suggeriscono che i newsfeed non fanno altro che intensificare l’erogazione di contenuti allineati alle convinzioni palesate dall’utente a colpi di ‘Mi piace’, così l’utente vive immerso negli abissi delle sue illusioni, che Poma definisce “un mare gelatinoso e oscuro”. Nel suo scafandro, l’utente si sente a casa. Sia Facebook che Google sono capaci di capire il nostro umore. Sono capaci di manipolarlo? Secondo l’autore, sì. Il sistema:

…nutre le sue vittime per farle sentire un poco protagoniste, mentre procede a costruire l’impalcatura della sua casa delle alienazioni dal mondo reale, per poi “stuprare” a sorpresa il nostro corpo digitale, con un atto di violenza orientato al piacere di una sola delle parti in gioco.

L’attività sessuale dei corpi digitali

Il modello della relazione s’attaglia anche alle attività di racconto che ognuno di noi fa di sé nel mondo digitale che, influenzando gli altri, si riverbera nuovamente su di noi. Poma tenta di usare perfino l’immagine dell’inseminazione, della fecondazione, parlando delle reti oscure e nascoste nel buio di Internet.

Il corpo digitale ha capacità seduttive — per esempio, in un esperimento social Emanuele Macaluso ha creato un musicista immaginario che ha raccolto quasi cinquemila ‘Mi piace’ in due mesi, inesistente nella vita reale. Neez Nuts ha ricevuto dal 7 al 9 per cento dei consensi alle primarie americane tra l’Iowa e il North Carolina, ma era un politico inventato da un liceale quindicenneBeyoncé – perlomeno il suo corpo digitale – incassa consensi a iosa, ha decine di milioni di follower ma twitta solo 8 volte all’anno. E non abbiamo ancora travalicato il senso del pudore e del limite.

Il paragone con la dipendenza da droga, la prostituzione, l’adescamento

Come notato da molti analisti, i progressivi cambiamenti degli algoritmi dei social spingono gli utenti a pagare sempre più per favorire una soddisfacente circolazione dei loro messaggi, di ciò che vogliono. Un circolo vizioso che assomiglia a quello della dipendenza, e anche qui si scorge una similitudine con la fisiologia corporea. Luca Poma ci fa anche notare che i corpi digitali si “prostituiscono” con una maggiore frequenza, che rischiamo di farci adescare dall’intelligenza artificiale “sotto i cavalcavia delle autostrade digitali” e che il nostro corpo digitale può arrivare a cannibalizzare lentamente la nostra realtà.

“Ognuno di noi ha il proprio rapporto con il mondo digitale, non per forza compulsivo” conclude Luca Poma, chiedendosi se non è un comportamento adolescenziale, dato che Facebook esiste solo da dieci anni.

Nell’utilizzare provocatoriamente termini come “fecondazione”, “violenza”, “stupro”, “prostituzione” e “cannibalismo”, la mia intenzione era quella di scuotere l’attenzione della comunità di esperti, accademici e dei professionisti della comunicazione per sollecitarli a interrogarsi sulle regole che ricercatori, comunicatori e relatori pubblici dovranno elaborare, apprendere, applicare e rendere consuetudinarie per governare questi nuovi appassionati, entusiasmanti e a tratti preoccupanti scenari: regole talmente nuove da far apparire obsoleto qualunque buon manuale di relazioni pubbliche o trattato di tecniche di comunicazione.

E conclude: “Come tutti sanno, il lusso più costoso nel mondo contemporaneo è avere tempo e conquistare spazio”.

La recensione LifeGate: Luca Poma, Il sex appeal dei corpi digitali. Seduzione, amori, tradimenti, malattie e immortalità dei nostri digital body
La recensione LifeGate: Luca Poma, Il sex appeal dei corpi digitali. Seduzione, amori, tradimenti, malattie e immortalità dei nostri digital body

Neo di Franco Angeli

Neo è un progetto editoriale crossmediale dell’editore Franco Angeli che prevede per ogni libro sia un ebook sia una piattaforma di conversazione in cui discutere dei temi affrontati nel libro e rimanere aggiornati.

Per esempio, qui Luca Poma dialogando con Enrico Galletti discute sulla sincerità sia dei propri commenti, sia della giusta destinazione verso cui si esprime veramente un like.




Imprese: sempre più complesse, e i ceo cercano pause e meditazione

Fonte: ADNKronos – Oggi, secondo Bcg, “una delle più grandi sfide per gli amministratori delegati è placare l’iperattività per impegnarsi nel pensiero critico, facendolo diventare una routine”. E non c’è bisogno di avere stipendi milionari per raccogliere la sfida.

Oggi, secondo Bcg, “una delle più grandi sfide per gli amministratori delegati è placare l’iperattività per impegnarsi nel pensiero critico, facendolo diventare una routine”. E non c’è bisogno di avere stipendi milionari per raccogliere la sfida. Il trend è in atto anche tra le persone comuni e ha alla base motivazioni filosofiche: “Oggi, nella società iperconnessa, dalle molteplici attività che si svolgono nell’unità di tempo, si sta finalmente capendo che il tempo è la risorsa più scarsa di cui disponiamo”, sottolinea Fabio Massimo Lo Verde, docente all’Università di Palermo di sociologia ed esperto di sociologia del tempo libero.
Questo accade all’uomo comune ma anche all’amministratore delegato. Secondo Lo Verde, “oggi interessa di più investire in tempo che consumarlo, utilizzando criteri non più efficientisti ma qualitativi”. Ad esempio, dice all’Adnkronos, “oggi alle aziende interessa chi sa prevedere gli scenari e i trend di cambiamento significativi. E questo arriva solo con un approccio più riflessivo, dedicato alle analisi”.
Tra dieci o vent’anni, “la frenesia del target” e della “sequenza di task” sarà rimpiazzata con altre logiche. Quella per cui, spiega il docente, “più produco e più riesco ad avere vantaggi nel mercato sarà sostituita con la logica del meglio produco e meglio riesco a stare su mercato. L’azienda che riflette su se stessa è un’azienda vincente”.
 

Manager alla ricerca di una pausa dalla complessità aziendale

Fonte: BusinessPeople – Il lavoro si fa sempre più complesso e reggere la pressione delle responsabilità è ogni giorno più complicato? Ecco la soluzione di tanti manager: prendersi una pausa per staccare dai pensieri cucinando, studiando musica o semplicemente leggendo
La complessità aziendale  cresce ogni giorno di più? Meglio prendersi una pausa. Così la pensano molti manager e amministratori delegati  che hanno confessato a Boston Consulting Group la scelta – o la necessità – di prendersi una pausa  per staccare durante la giornata di lavoro. Stare concentrati 24 ore su 24 , d’altronde, non è garanzia di migliori risultati ma solo di meno energie. 

MANAGER ALLA RICERCA DI UNA PAUSA 

Negli ultimi 50 anni, secondo Bcg, l’indice di complessità delle maggiori compagnie  è cresciuto a un tasso del 7 per cento ogni anno. I manager sono sotto pressione e devono resistere alla tentazione di rispondere con frenesia . Il più celebre ‘meditatore’ è Warren Buffet , che trascorre almeno sei ore al giorno leggendo. Non bisogna confondere l’iperattività con l’efficacia: essere indaffarati non significa essere produttivi. D’altronde, come aveva rivelato l’Harvard Business School, gli amministratori delegati trascorrono il 60 per cento del loro tempo in riunioni, il 25 per cento al telefono e il restante 15% nel lavoro vero e proprio , compresa la lettura delle mail.
Michele Panzetti, senior trainer della Scuola di Palo Alto, che si occupa di formazione manageriale e life coaching, dice all’Adnkronos che «in Italia c’è ancora una cultura manageriale di basso livello, ma la consapevolezza di come funziona il cervello sta crescendo , anche perché, semplicemente, i dirigenti si rendono conto che lavorare così non assicura migliori performance».  Corsi per imparare a gestire il proprio tempo  tra manager sono in crescita, così come il numero di dirigenti che scelgono di distrarsi facendo corsi di cucina studiando musica.  «Se si lavora dodici ore al giorno tutti i giorni il nostro cervello ci fa andare più lenti , crea meccanismi di difesa, al pari del ‘fiatone’ quando si corre. I manager che funzionano sono quelli che hanno il coraggio di delegare e di avere momenti di stop», continua Panzetti. «Quello è tempo ben speso: riflessione e meditazione – sottolinea la società di consulenza – hanno dato loro risultati migliori e maggiore credibilità agli occhi dei cda, dei dipendenti e di tutti gli altri stakeholder».
Oggi, secondo Bcg, «una delle più grandi sfide per gli amministratori delegati è placare l’iperattività  per impegnarsi nel pensiero critico, facendolo diventare una routine». «Alle aziende interessa chi sa prevedere gli scenari e i trend di cambiamento significativi. E questo arriva solo con un approccio più riflessivo, dedicato alle analisi», conclude  Fabio Massimo Lo Verde, docente all’Università di Palermo di sociologia ed esperto di sociologia del tempo libero.




Olio di palma e strumenti retorici: il caso Ferrero

Qualche tempo fa, si è cominciato a parlare di una (presunta) pericolosità dell’olio di palma. Le maggiori industrie dolciarie italiane lo hanno tolto dagli ingredienti dei loro prodotti, ma con un’eccezione: la Ferrero ha deciso di distinguersi, compiendo una scelta opposta e perciò ha manifestato l’intenzione di continuare ad utilizzarlo.
Lo ha fatto con un’efficace campagna di comunicazione, attuata pure con l’organizzazione di eventi. Come riportato dal quotidiano economico-finanziario Il Sole 24 Ore, Alessandro D’Este, amministratore delegato della Ferrero Commerciale Italia, ha dichiarato: “Vogliamo far parlare gli esperti per la responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri consumatori”. Nello stesso articolo si può leggere: “Non è vero che l’olio di palma produce alla salute danni diversi dagli altri oli e grassi (Elena Fattore, Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri). Non è vero che viene danneggiato l’ambiente, se si usa l’olio di palma certificato secondo gli standard più severi (Chiara Campione, Greenpeace)” (1).
In uno spot, intitolato “Ferrero. Da 70 anni la qualità prima di tutto”, come avviene nella migliore pubblicità, si ricorre agli strumenti della retorica, come quello di ordine affettivo, l’ethos, cioè “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio”. Infatti “quali che siano i suoi argomenti logici, essi non hanno alcun potere senza questa fiducia” (2).
A parlare è la società, per bocca di alcuni suoi dipendenti, i quali trasmettono al pubblico cinque messaggi:
“Eravamo una piccola famiglia. Se in 70 anni siamo diventati un grande successo italiano nel mondo è perché da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”.
“Preserviamo i profumi del cacao con una lavorazione nata da un’esperienza di decenni”
“Come tutti gli oli vegetali di qualità, il nostro olio di palma è sicuro. Proviene da frutti spremuti freschi e da fonti sostenibili ed è lavorato a temperature controllate, perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
“E le nocciole? Tostate all’ultimo per esaltarne gli aromi”.
“Perché, sì, lo sappiamo. Ogni scelta che facciamo in questa famiglia, sarà anche per la tua. E per la mia”.
Sul piano strutturale, il motivo centrale, ossia il procedimento che svolge la funzione di principio organizzatore di un testo, è la sua costruzione circolare, dovuta all’epanadiplosi, ovvero alla ripetizione, all’inizio e alla fine e quindi in una posizione di peculiare rilievo, del concetto dell’azienda come una famiglia. Esso rimanda all’idea di persona, che, secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “introduce un elemento di stabilità. Qualsiasi argomento sulla persona ha come fondamento questa stabilità: la si presuppone, interpretando l’atto in funzione della persona”. Tuttavia “la stabilità della persona non è mai del tutto sicura: certe tecniche linguistiche contribuiranno ad accentuare l’impressione di permanenza” (3).
Perciò il commercial della Ferrero contiene espressioni-chiave, come “in 70 anni”, “da sempre”, “un’esperienza di decenni”. In tal modo si crea un senso di affidabilità, di estrema importanza per l’immagine di un’industria e vi contribuisce pure l’occorrenza per tre volte della parola “qualità”.
Già nel titolo si trova un vero e proprio luogo comune, che, nonostante il suo frequente impiego in pubblicità, conserva sempre la sua forza persuasiva: quello dell’ordine, basato sulla “superiorità dell’anteriore sul posteriore” (4) (“Da 70 anni […]”). Evidentemente nessuno fra i concorrenti può vantare un simile primato.
Ed eccoci passati pertanto allo strumento retorico di carattere razionale, il logos, contraddistinto dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e che “concerne l’argomentazione propriamente detta del discorso” (5).
Il primo messaggio è incentrato sulla relazione causa (“da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”) – effetto (“siamo diventati un grande successo italiano nel mondo”).
Si segue lo stesso schema nel terzo messaggio. Infatti, a sostegno della tesi (“il nostro olio di palma è sicuro”), si porta una prova, si fa un ragionamento, cioè si ricorre ad un argomento: quello che deriva, appunto, come ha scritto Olivier Reboul, dal “mostrare il valore dell’effetto a partire da quello della causa” (6), nella fattispecie costituita da “frutti spremuti freschi”, “fonti sostenibili”, lavorazione “a temperature controllate”.
Non a caso la creativa Annamaria Testa dà agli aspiranti copywriter il seguente consiglio: “Mettete in evidenza i nessi causali: le affermazioni pubblicitarie suonano sempre così vaghe e sfumate… Per questo conviene, non appena è possibile, avvitarle l’una all’altra con un bel legame causa-effetto, in modo che il risultato finale abbia un aspetto abbastanza solido” (7).
Inoltre l’opinione, espressa da quello che nel telecomunicato appare come un tecnico, viene rafforzata con l’argomento che consiste in “un’azione reciproca fra i fini che si perseguono e i mezzi messi in opera per attuarli” (8). Difatti l’ingrediente di cui si parla, è considerato “perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
L’aggettivo possessivo di prima persona plurale, ripetuto due volte (“nostro olio di palma” e “nostriprodotti”), svolge un’importante funzione, perché, attraverso di esso, si sottolinea una differenza rispetto alle altre aziende.
Secondo Perelman e Olbrechts-Tyteca, “l’argomentazione non potrebbe procedere di molto senza ricorrere a paragoni, nei quali diversi oggetti siano posti a confronto per essere valutati l’uno in rapporto all’altro” (9).
Tuttavia, in concreto, il raffronto non si attua direttamente, esplicitamente, come avviene nella pubblicità comparativa, ma indirettamente, implicitamente, per mezzo dell’allusione, che viene classificata fra le tecniche d’attenuazione, le quali “dànno un’impressione favorevole di ponderatezza, di sincerità e concorrono a distogliere dall’idea che l’argomentazione sia un espediente, un artificio” (10).
Invero tale figura retorica consiste nel dire una cosa (“il nostro olio di palma è sicuro”) per farne intendere anche un’altra più profonda e nascosta, che non si vuole dichiarare apertamente e quindi si sottintende e comunque si evoca: i competitor evidentemente non possono offrire la stessa garanzia, in quanto si sono affrettati a stampare sulle loro confezioni la dicitura “senza olio di palma”.
Ma è difficile dimenticare in un attimo che quella sostanza entrava nella composizione dei loro dolci fino a poco tempo prima. E dunque, in qualche modo, la loro decisione di rinunciarvi si configura come il riconoscimento di un errore, l’ammissione di una colpa, con un danno alla propria reputazione e una perdita di credibilità. Per di più si avvia un altro meccanismo argomentativo, quello del precedente, che consiste nel presumere come possibile la persistenza in avvenire di ciò che si è verificato in precedenza: nel nostro caso, chi ha sbagliato in passato, potrebbe farlo pure in futuro. Tutto ciò è in relazione con il pathos, lo strumento retorico di ordine affettivo con il quale l’emittente del messaggio tende a provocare vari sentimenti nel ricevente: nella fattispecie, la Ferrero cerca di suscitare sfiducia verso le altre industrie dolciarie.
La distinzione della Ferrero nei riguardi dei concorrenti rimanda ad un tópos. Ne hanno parlato – li citiamo ancora una volta – Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca: “Al limite, il luogo della qualità giunge alla valorizzazione dell’unico che […] è uno dei cardini dell’argomentazione”. Effettivamente “è ciò che ci sembra unico, che diviene per noi prezioso”, giacché il suo valore “può essere espresso contrapponendolo al comune”. Perciò diventa “degno di nota e piace anche alla moltitudine” (11).
Qualcuno si chiederà se, al momento della sua ideazione, gli autori dello spot fossero consapevoli della presenza di simili elementi e del loro legame di complementarità. Ovviamente non siamo in grado di dare una risposta. Tuttavia, come ha ricordato Olivier Reboul, “esiste una retorica spontanea, un’attitudine a persuadere per mezzo della parola che forse non è innata – non entriamo in questa discussione – ma che non è dovuta nemmeno a una formazione specifica; e poi una retorica che si insegna […] e che serve a formare dei venditori o degli uomini politici, a insegnare loro ciò che altri venditori, altri uomini politici sembrano sapere naturalmente” (12).
 
NOTE
(1) JACOPO GILIBERTO, <Ferrero si schiera in difesa dell’olio di palma>, in Il Sole 24 ore, 28 ottobre 2016 (in sito web).
(2) OLIVIER REBOUL, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 21 e 69.
(3) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, pp. 318-319.
(4) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 101. La parola “luogo” è la traduzione del termine greco tópos. Il suo plurale, tópoi, indicava originariamente le sedi, dove sono conservati gli argomenti (nel senso di prove, ragionamenti). Ancora oggi si fa dunque riferimento alla loro presenza nella memoria collettiva.
(5) OLIVIER REBOUL, op. cit., pp. 36 e 70.
(6) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 211.
(7) ANNAMARIA TESTA, La parola immaginata, Pratiche, 1992, p. 138.
(8) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 296-297.
(9) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 262.
(10) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 503.
(11) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 97-98.
(12) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 20.




Le bolle informative nell’oceano digitale

Ho affrontato il tema assai attuale delle fake news in un recente articolo per addetti ai lavori, Le fake news non sono la malattia del XXI secolo, pubblicato sul mio blog, concludendo che la disinformazione non è “il problema del XXI secolo”, bensì è solo il sintomo di un malessere assai più profondo, che affonda le radici nell’ormai cronica mancanza di fiducia dei cittadini verso i mass-media tradizionali e – in senso più esteso – verso le istituzioni in generale.

Andiamo con ordine, ripercorrendo il senso di una conversazione che ho avuto ieri con l’amico e collega giornalista Luca Yuri Toselli.

Velocità e modalità della comunicazione contemporanea

Vorrei brevemente riflettere sulle forti correlazioni tra velocità e modalità della comunicazione contemporanea, e in particolare sulle bolle informative annegate nell’oceano digitale della post-verità, sommerse dalle onde dell’analfabetismo di ritorno, che lambiscono le spiagge dell’informazione alla quale tutti noi quotidianamente attingiamo attraverso i nostri device.
Torniamo per un istante ai bei tempi che furono. In Liguria, il Signor Crotti ti affittava la casa al mare, e, se glielo chiedevi, ti calava dal terzo piano, con una cordicella, un cestello di vimini con 25 gettoni del telefono, per il controvalore di 5.000 lire. Andavi in cabina e provavi a chiamare tuo papà; se era in casa tutto ok, parlavi da Diano Marina a Torino, sennò dovevi riprovare 24 ore dopo.
Ancor prima c’era la lettera scritta su carta spessa, pergamena prima e canapa poi. La spedivi, quando trovavi il tizio sul cavallo che andava nelle Marche, e gli chiedevi se magari poteva fare una deviazione fino a Recanati, e Leopardi riceveva la tua lettera, che forse aspettava con ansia, e poi la rileggeva ancora, e ancora, e rifletteva, e dopo qualche settimana rispondeva, e dopo due mesi sapevi com’era finita la storia. Ma andava bene così, era quello l’unico mezzo, non desideravi altro, l’attesa faceva parte del gioco. Era il 1820.
Oggi, c’è la doppia spunta su WhatsApp. Se vedi che lei/lui ha letto dopo due o tre secondi, ma non ti risponde entro un paio di minuti, scatta il dramma, quasi la depressione, e giù di cortisolo, l’ormone dello stress.
È questa, appunto, la tribù di WhatsApp, che a scuola non si pone domande perché ha già tutte le risposte. Impara delle date, in base ai “programmi ministeriali”, vittorie, sconfitte, formule, elenchi… deve saper ripetere, non deve imparare a costruire il futuro. Soprattutto, non è stimolata a contestualizzare, a chiedersi com’era quel mondo di Leopardi, o il mondo di Seneca, o quello di Lorenzo il Magnifico. Quei mondi per loro non esistono, semplicemente: cosa esiste sulla traccia temporale prima di me?… Nulla, ovvio. Per chi è nato dopo il 2004 – e oggi inizia il Liceo – non è mai esistito un mondo senza Facebook. Il mondo è Facebook, perché Facebook è sempre esistito.

Il sub-pianeta Facebook

Facebook è un sub-pianeta, un pianeta più piccolo della Terra – ha solo 2 miliardi di abitanti, non 7 miliardi, e poi non emette passaporti – ma ha tutto quello che serve a un pianeta per essere tale. Per alcuni, come ho detto, è l’unico mondo.
Ci si informa, lì sopra. Il wall è l’autorevolezza: per nonna Tina, che abitava a Vallunga, frazione di Piea d’Asti, era vero “perché l’hanno detto in TV”; per loro è vero “perché è su Facebook”, né più né meno. I siti di fake news, come Il fatto Quotidaino, Skynews24 o Lagazzettadellasera sono eguali alla BBC o a qualunque altro mass-media. Se non hai la percezione della complessità del mondo, tutto è semplice. E se non è semplice, lo riduci tu a semplicità: perché così puoi capirlo facilmente.
Oggi allo straordinario Museo Mimara, a Zagabria, inquadrando una Madonna con bambino di scuola pisana vecchia di oltre 800 anni, l’algoritmo di Zuckerberg mi ha suggerito di taggare i due volti, quello dell’Immacolata e quello di Gesù… Sono scoppiato a ridere. E se la giuria divina dovesse giudicare il ragazzo di White Plains, per questo lo condannerebbe: un misto di eccesso di velocità, iper-semplificazione ai limiti dell’idiozia, e incapacità totale di comprendere il contesto. E i nostri ragazzini gli vanno dietro sulla medesima lunghezza d’onda: il vero problema, per il nostro Paese, composto da una percentuale sempre maggiore di analfabeti funzionali e di ignoranti di ritorno, non è tanto la corruzione, i terremoti, o le violenze sui minori, bensì è l’incapacità di saper distinguere. Per il popolo del web – anzi, per il popolo – ha ragione chi dice cose semplici e che garantiscono di guadagnare con pochissimi punti la patente dell’“avere ragione”.

Concludiamo, facendo un altro piccolo salto indietro nel tempo, fino al 1933: non era colpa mia, era colpa degli Ebrei. E quant’era liberatorio, avere qualcuno a cui dare la colpa. Non dovevi leggere i libri: potervi bruciarli. Oggi per certi versi ci risiamo, non è cambiato nulla. Solo che le norme anti-incendio sono più rigide e non si possono più fare falò in piazza. E allora li fanno sul web, i falò, dove un burino leader movimentista, che fa il saluto fascista e si tuffa nel Tevere gelido perché è un “gesto maschio”, ha lo stesso ascendente di un ricercatore che ha due lauree e tre dottorati. E va bene così, nessuno si stupisce.
Se il livello è questo, allora, importiamo 10 milioni di negri dall’Africa: sono ignoranti, ma almeno lo sappiamo, sia noi che loro. È il Piano Kalergi…? Magari, purtroppo quello era un “fake”. Perché se fosse vero, molto probabilmente, perlomeno, quei 10 milioni prenderebbero senza mezzi termini a schiaffi i propri figli dicendogli: “Tu studia, così non resterai ignorante come una capra come me”. E forse – alla lunga – avremmo un mondo migliore.




Olio di palma e strumenti retorici: il caso Ferrero

Qualche tempo fa, si è cominciato a parlare di una (presunta) pericolosità dell’olio di palma. Le maggiori industrie dolciarie italiane lo hanno tolto dagli ingredienti dei loro prodotti, ma con un’eccezione: la Ferrero ha deciso di distinguersi, compiendo una scelta opposta e perciò ha manifestato l’intenzione di continuare ad utilizzarlo. Lo ha fatto con un’efficace campagna di comunicazione, attuata pure con l’organizzazione di eventi.Come riportato dal quotidiano economico-finanziario Il Sole 24 Ore, Alessandro D’Este, amministratore delegato della Ferrero Commerciale Italia, ha dichiarato: “Vogliamo far parlare gli esperti per la responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri consumatori”. Nello stesso articolo si può leggere: “Non è vero che l’olio di palma produce alla salute danni diversi dagli altri oli e grassi (Elena Fattore, Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri). Non è vero che viene danneggiato l’ambiente, se si usa l’olio di palma certificato secondo gli standard più severi (Chiara Campione, Greenpeace)” (1).
In uno spot, intitolato “Ferrero. Da 70 anni la qualità prima di tutto”, come avviene nella migliore pubblicità, si ricorre agli strumenti della retorica, come quello di ordine affettivo, l’ethos, cioè “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio”. Infatti “quali che siano i suoi argomenti logici, essi non hanno alcun potere senza questa fiducia” (2).
A parlare è la società, per bocca di alcuni suoi dipendenti, i quali trasmettono al pubblico cinque messaggi:
“Eravamo una piccola famiglia. Se in 70 anni siamo diventati un grande successo italiano nel mondo è perché da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”.
“Preserviamo i profumi del cacao con una lavorazione nata da un’esperienza di decenni”
“Come tutti gli oli vegetali di qualità, il nostro olio di palma è sicuro. Proviene da frutti spremuti freschi e da fonti sostenibili ed è lavorato a temperature controllate, perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
“E le nocciole? Tostate all’ultimo per esaltarne gli aromi”.
“Perché, sì, lo sappiamo. Ogni scelta che facciamo in questa famiglia, sarà anche per la tua. E per la mia”.
Sul piano strutturale, il motivo centrale, ossia il procedimento che svolge la funzione di principio organizzatore di un testo, è la sua costruzione circolare, dovuta all’epanadiplosi, ovvero alla ripetizione, all’inizio e alla fine e quindi in una posizione di peculiare rilievo, del concetto dell’azienda come una famiglia. Esso rimanda all’idea di persona, che, secondo Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca, “introduce un elemento di stabilità. Qualsiasi argomento sulla persona ha come fondamento questa stabilità: la si presuppone, interpretando l’atto in funzione della persona”. Tuttavia “la stabilità della persona non è mai del tutto sicura: certe tecniche linguistiche contribuiranno ad accentuare l’impressione di permanenza” (3).
Perciò il commercial della Ferrero contiene espressioni-chiave, come “in 70 anni”, “da sempre”, “un’esperienza di decenni”. In tal modo si crea un senso di affidabilità, di estrema importanza per l’immagine di un’industria e vi contribuisce pure l’occorrenza per tre volte della parola “qualità”.
Già nel titolo si trova un vero e proprio luogo comune, che, nonostante il suo frequente impiego in pubblicità, conserva sempre la sua forza persuasiva: quello dell’ordine, basato sulla “superiorità dell’anteriore sul posteriore” (4) (“Da 70 anni […]”). Evidentemente nessuno fra i concorrenti può vantare un simile primato.
Ed eccoci passati pertanto allo strumento retorico di carattere razionale, il logos, contraddistinto dalla “attitudine a convincere grazie alla sua apparenza di logicità e al fascino del suo stile” e che “concerne l’argomentazione propriamente detta del discorso” (5).
Il primo messaggio è incentrato sulla relazione causa (“da sempre abbiamo a cuore la stessa cosa: la qualità”) – effetto (“siamo diventati un grande successo italiano nel mondo”).
Si segue lo stesso schema nel terzo messaggio. Infatti, a sostegno della tesi (“il nostro olio di palma è sicuro”), si porta una prova, si fa un ragionamento, cioè si ricorre ad un argomento: quello che deriva, appunto, come ha scritto Olivier Reboul, dal “mostrare il valore dell’effetto a partire da quello della causa” (6), nella fattispecie costituita da “frutti spremuti freschi”, “fonti sostenibili”, lavorazione “a temperature controllate”.
Non a caso la creativa Annamaria Testa dà agli aspiranti copywriter il seguente consiglio: “Mettete in evidenza i nessi causali: le affermazioni pubblicitarie suonano sempre così vaghe e sfumate… Per questo conviene, non appena è possibile, avvitarle l’una all’altra con un bel legame causa-effetto, in modo che il risultato finale abbia un aspetto abbastanza solido” (7).
Inoltre l’opinione, espressa da quello che nel telecomunicato appare come un tecnico, viene rafforzata con l’argomento che consiste in “un’azione reciproca fra i fini che si perseguono e i mezzi messi in opera per attuarli” (8). Difatti l’ingrediente di cui si parla, è considerato “perfetto per esaltare il gusto dei nostri prodotti e renderli così cremosi”.
L’aggettivo possessivo di prima persona plurale, ripetuto due volte (“nostro olio di palma” e “nostri prodotti”), svolge un’importante funzione, perché, attraverso di esso, si sottolinea una differenza rispetto alle altre aziende.
Secondo Perelman e Olbrechts-Tyteca, “l’argomentazione non potrebbe procedere di molto senza ricorrere a paragoni, nei quali diversi oggetti siano posti a confronto per essere valutati l’uno in rapporto all’altro” (9).
Tuttavia, in concreto, il raffronto non si attua direttamente, esplicitamente, come avviene nella pubblicità comparativa, ma indirettamente, implicitamente, per mezzo dell’allusione, che viene classificata fra le tecniche d’attenuazione, le quali “dànno un’impressione favorevole di ponderatezza, di sincerità e concorrono a distogliere dall’idea che l’argomentazione sia un espediente, un artificio” (10).
Invero tale figura retorica consiste nel dire una cosa (“il nostro olio di palma è sicuro”) per farne intendere anche un’altra più profonda e nascosta, che non si vuole dichiarare apertamente e quindi si sottintende e comunque si evoca: i competitor evidentemente non possono offrire la stessa garanzia, in quanto si sono affrettati a stampare sulle loro confezioni la dicitura “senza olio di palma”.
Ma è difficile dimenticare in un attimo che quella sostanza entrava nella composizione dei loro dolci fino a poco tempo prima. E dunque, in qualche modo, la loro decisione di rinunciarvi si configura come il riconoscimento di un errore, l’ammissione di una colpa, con un danno alla propria reputazione e una perdita di credibilità. Per di più si avvia un altro meccanismo argomentativo, quello del precedente, che consiste nel presumere come possibile la persistenza in avvenire di ciò che si è verificato in precedenza: nel nostro caso, chi ha sbagliato in passato, potrebbe farlo pure in futuro. Tutto ciò è in relazione con ilpathos, lo strumento retorico di ordine affettivo con il quale l’emittente del messaggio tende a provocare vari sentimenti nel ricevente: nella fattispecie, la Ferrero cerca di suscitare sfiducia verso le altre industrie dolciarie.
La distinzione della Ferrero nei riguardi dei concorrenti rimanda ad un tópos. Ne hanno parlato – li citiamo ancora una volta – Chaïm Perelman e Lucie Olbrechts-Tyteca: “Al limite, il luogo della qualità giunge alla valorizzazione dell’unico che […] è uno dei cardini dell’argomentazione”. Effettivamente “è ciò che ci sembra unico, che diviene per noi prezioso”, giacché il suo valore “può essere espresso contrapponendolo al comune”. Perciò diventa “degno di nota e piace anche alla moltitudine” (11).
Qualcuno si chiederà se, al momento della sua ideazione, gli autori dello spot fossero consapevoli della presenza di simili elementi e del loro legame di complementarità. Ovviamente non siamo in grado di dare una risposta. Tuttavia, come ha ricordato Olivier Reboul, “esiste una retorica spontanea, un’attitudine a persuadere per mezzo della parola che forse non è innata – non entriamo in questa discussione – ma che non è dovuta nemmeno a una formazione specifica; e poi una retorica che si insegna […] e che serve a formare dei venditori o degli uomini politici, a insegnare loro ciò che altri venditori, altri uomini politici sembrano sapere naturalmente” (12).
 

NOTE

(1) JACOPO GILIBERTO, <Ferrero si schiera in difesa dell’olio di palma>, in Il Sole 24 ore, 28 ottobre 2016 (in sito web).
(2) OLIVIER REBOUL, Introduzione alla retorica, Il Mulino, 1996, pp. 21 e 69.
(3) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, 2013, pp. 318-319.
(4) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 101. La parola “luogo” è la traduzione del termine greco tópos. Il suo plurale, tópoi, indicava originariamente le sedi, dove sono conservati gli argomenti (nel senso di prove, ragionamenti). Ancora oggi si fa dunque riferimento alla loro presenza nella memoria collettiva.
(5) OLIVIER REBOUL, op. cit., pp. 36 e 70.
(6) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 211.
(7) ANNAMARIA TESTA, La parola immaginata, Pratiche, 1992, p. 138.
(8) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 296-297.
(9) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 262.
(10) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., p. 503.
(11) CHAΪM PERELMAN, LUCIE OLBRECHTS-TYTECA, op. cit., pp. 97-98.
(12) OLIVIER REBOUL, op. cit., p. 20.