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2 italiani su 3 disposti a pagare di più se l’azienda è responsabile e sostenibile

Fare Csr non è solo strategia aziendale, ma una leva di acquisto da parte di consumatori sempre più attenti. Pagnoncelli: “Ripensato il modello di consumo”.

La Responsabilità sociale d’impresa non più solo una vetrina per le imprese. Adottare un modello di sviluppo sostenibile sul lungo periodo si rivela essere un vero e proprio modello di business, che migliora la reputazione e i risultati economici e finanziari.
È quanto emerge dall’ultima ricerca Ipsos “La Corporate social responsibility vista da opinione pubblica e imprese”, presentata in occasione dell’evento organizzato da Autogrill a Milano, “Autogrill 10 – Ten Years of Sustainability Looking at the Future. Business and Sustainability: Opportunities and Developments”, tenutosi per celebrare i 10 anni di Responsabilità sociale d’impresa del gruppo.
Nonostante il termine “Corporate social responsibility (Csr)” sia ancora poco conosciuto, in particolare qui da noi, il 43 per cento del campione intervistato afferma che quest’ultima influisce sugli acquisti. Percentuale che raggiunge il 64 per cento tra coloro che si dichiarano conoscitori di queste tematiche.
“I consumatori hanno adottato delle strategie di adattamento alla crisi ripensando il loro modello di consumo”, spiega Nando Pagnoncelli presidenteIpsos. “Alcuni fenomeni che fino a qualche anno fa erano solo di nicchia, ora si stanno diffondendo sempre di più. Ma soprattutto sono i temi dell’ambiente, del futuro, della sostenibilità ad emergere con grande forza”. I consumatori tornano ad avere un ruolo fondamentale quindi, in grado di influenzare le politiche aziendali, in particolare dei grandi gruppi, che già da tempo hanno sperimentato le pratiche dedicate alla Csr.
consumatori
“Tutto questo inevitabilmente va ad impattare sulle strategie aziendali, che devono tener in considerazione il cambiamento profondo del paradigma di consumo da parte dei cittadini, ma anche dei temi ambientali, energetici, e quelli legati agli sprechi”, continua Pagnoncelli. Ma Corporate social responsibility significa anche sostenibilità sociale all’interno dell’azienda. Per l’87 per cento degli intervistati (dipendenti), la Csr è importante sul luogo di lavoro, mentre il 46 per cento delle imprese dichiara che le iniziative di Csr hanno migliorato il clima all’interno dell’azienda.
“Le aziende che sono in grado di dimostrare quanto sappiano valorizzare e rispettare i dipendenti, assumere giovani, sono aziende che sono considerate in termini positivi dal punto di vista reputazionale”, conclude Pagnoncelli. “E la reputazione ha un ritorno importante in termini di profitto, perché rende le aziende più credibili, in grado di trattenere i talenti e in grado di resistere ai momenti di crisi”.




Nutrire il pianeta, l’economia riparte dalla Csr


Nel corso della mattinata si sono susseguiti gli interventi di numerosi relatori, tra personalità istituzionali e rappresentanti del mondo imprenditoriale. «A Milano abbiamo sperimentato nuovi modelli economici che si collocano tra il mercato e la società» ha dichiarato in apertura l’assessore comunale alle Politiche per il Lavoro Cristina Tajani. Così come il capoluogo lombardo «in tutta l’Italia – ha proseguito il ministro plenipotenziario Fabrizio Petri – esistono realtà sociali importanti e soggiacenti che occorre far emergere con spirito di innovazione e competitività». Immaginare nuovi modelli di business è possibile soprattutto grazie alle partnership tra i settori del pubblico e del privato, le aziende, le ong e le piccole comunità dei Paesi in via di sviluppo. Tutti in campo per perseguire i propri interessi, ma con un’idea comune di futuro.
Un esempio virtuoso è rappresentato dal progetto Ramazzotti che prende il nome dal celebre amaro italiano, nato 200 anni fa da una ricetta a base di 33 erbe e spezie che lo avvicinano all’oriente. Un legame che ha spinto Pernod Ricard, con Positive Planet e l’agenzia federale tedesce Giz, a dare vita ad un progetto volto a favorire i coltivatori di spezie in India.  Le materie prime vengono acquistate da 500 dei 2 mila produttori locali della Cooperativa Pds Organic Spices in Kerala. L’iniziativa ha garantito agli agricoltori un reddito dignitoso e un programma di formazione agraria, commerciale e finanziaria. Il progetto, avviato nel 2010 da una sinergia, ha dato la possibilità a 100 agricoltori indiani di avere accesso ai mercati internazionali e di diversificare la loro produzione. E a 50 donne della comunità di essere coinvolte nella coltivazione del vetiver e nella produzione di manufatti per creare nuove fonti di reddito per le famiglie.

Tra le donne coinvolte nel progetto Betty Joseph, vincitrice dell’International Micro-Entrepreneurship Award 2014. Betty, con altre donne della comunità, ha iniziato a coltivare e lavorare il vetiver per fare cestini. «Ero solo una casalinga – ha raccontato – e all’inizio ho avuto difficoltà nel lavoro, ma adesso mi sento molto più sicura». Madre di tre bambini, adesso Betty riesce a contribuire al sostentamento della sua famiglia: «Vorrei poter mandare i miei figli a scuola per fare in modo che un giorno possano conquistarsi un buon posto in società. E vorrei che molte altre donne fossero coinvolte nel progetto, che imparassero a fare altre cose utili».
«La micro finanza – ha spiegato Attali – è solo un elemento di un sistema con cui vogliamo pensare alle nuove generazioni, formando le persone e preservando le risorse. L’economia non deve essere pensata come qualcosa di negativo. In Europa stiamo procedendo in direzione giusta. Possiamo fare molto di più, ma siamo solo all’inizio. La gente ricca – ha concluso – ha un interesse egoistico nell’aiutare gli altri. Ma essere altruisti è una cosa splendida. Dobbiamo fare in modo che diventi un’attitudine quotidiana»



Isaac Asimov: "In che  modo le persone trovano delle nuove idee?"

Presumibilmente, il processo di creatività, qualunque cosa sia, è essenzialmente eguale  in tutti i rami di applicazione, quindi l’evoluzione di una nuova forma d’arte, un nuovo “gadget”, un principio scientifico nuovo… hanno tutti dei fattori in comune. Quello che ci interessa di più è la “creazione” di un nuovo principio scientifico o una nuova applicazione di una vecchia, ma possiamo concordare su questo punto.
Nota di Arthur Obermayer, amico dell’autore:

Lavoravo  come scienziato alla Allied  Research Associates di Boston nel 1959, una filiale del MIT inizialmente coinvolto nello studio sugli effetti delle armi nucleari sulle  strutture dei aeromobili. La società avviò un progetto denominato dall’acronimo GLIPAR per conto della Advanced Research Projects Agency. Il mandato era di trovare gli approcci più creativi possibili per la creazione di un sistema di difesa anti missili balistici. Il governo si era reso conto che qualunque cifra avesse speso per migliorare ed implementare la tecnologia esistente, essa sarebbe comunque rimasta inadeguata. Volevano che noi ed altri soggetti esterni ci mettessimo a pensare a soluzioni assolutamente al di fuori dei schemi normali.
All’inizio del mio coinvolgimento nel progetto, ho suggerito che Isaac Asimov, un mio amico, sarebbe stato una persona giusto per questo progetto. Egli ha mostrato interesse ed è venuto ad alcune delle riunioni. Però, alla fine decise di non partecipare poiché avrebbe dovuto avere accesso ad informazioni segrete e  classificate, e sentiva che questo avrebbe limitare la sua libertà di espressione.
Comunque, prima di partire, scrisse un saggio sulla creatività come unico contributo al progetto. Il suo saggio non fu mai ne pubblicato né utilizzato al di fuori del nostro piccolo gruppo. Quando, di recente, mi capitò di ritrovalo mentre facevo la cernita di alcuni vecchi archivi, lo trovai pertinente oggi come era allora. In fatti descrive il processo creativo e la natura di persone creative insieme con il tipo di ambiente che favorisce la creatività.

    

Parlando di Creatività

In che  modo le persone trovano delle nuove idee?

Presumibilmente, il processo di creatività, qualunque cosa sia, è essenzialmente eguale  in tutti i rami di applicazione, quindi l’evoluzione di una nuova forma d’arte, un nuovo “gadget”, un principio scientifico nuovo… hanno tutti dei fattori in comune. Quello che ci interessa di più è la “creazione” di un nuovo principio scientifico o una nuova applicazione di una vecchia, ma possiamo concordare su questo punto.
Un modo di studiare la questione sarebbe  quello di considerare le grandi idee del passato per capire come sono state generate. Sfortunatamente, il metodo usato per generarle non è mai chiaro nemmeno ai loro creatori.
Ma che fare se la medesima idea capace di scuotere il mondo venisse in mente a due uomini, indipendentemente e contemporaneamente?  Forse i fattori in essa ci illuminerebbero. Prendiamo la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, creata in modo indipendentemente da Charles Darwin e Alfred Wallace. Hanno molto in comune  in quanto entrambi hanno viaggiato in largo e in lungo, osservando specie di piante e animali, e il modo in cui differivano da luogo a luogo. Entrambi  erano determinati a trovare una spiegazione per questo ed entrambi fallirono fino a quando non lessero “Essay on Population” di Malthus. Allora entrambi capirono come la nozione di sovrappopolazione e la “cernita” (che Malthus applicò al genere umano) sarebbero stato in linea con una dottrina di evoluzione per selezione naturale (se applicata alle specie in generale).
Fu ovvio, quindi, che quello che è necessario non è solo un buon background culturale in un determinato campo, ma anche la capacità di creare un nesso fra “A e B” che, normalmente,  non sembrano essere connessi  fra di loro.
Senza dubbio, la prima metà del 19° secolo testimoniò numerosi naturalisti che studiavano per capire come le diverse specie differivano fra di loro. Molti avevano letto Malthus. Forse alcuni avevano fatto entrambe le cose. Ma quello di cui c’era bisogno era qualcuna che avesse letto Malthus, studiato le specie e forse capace di fare un collegamento trasversale.
Questo è il punto cruciale, ed una caratterista rara che a trovarsi. Una volta che il collegamento trasversale è stato trovato, diventa tutto ovvio. Si dice che T. H. Huxley, dopo aver letto On the Origin of Species, esclamò “che stupido da parte mia non averci pensato”.
Però, perché non ci aveva pensato? La storia del pensiero umano sembrerebbe portarci a pensare che vi è una certa difficoltà nel formulare un’idea, perfino quando tutti i fatti sono spiattellati davanti a noi. Ci vuole una certa audacia per fare un collegamento trasversale. Un qualsiasi collegamento trasversale che non richiede audacia dovrebbe essere messo in atto subito e da molti… e si sviluppa non come una “nuova” idea ma come un semplice rimescolatura  di una vecchia.
Sembra che solo dopo un certo tempo, una qualsiasi idea nuova diventi “ragionevole”. All’inizio, di solito sembra proprio irragionevole. Sembrava il culmine dell’irragionevolezza pensare che il mondo fosse rotondo invece di piatto, o che si muovesse la terra e non il sole, o che oggetti hanno bisogno di una forza per fermarsi quando sono in movimento, e cosi via…
Chiunque disposto a prendere di petto la ragione, l’autorità e il pensiero unico, deve necessariamente essere una persona che possiede una forte sicurezza di se. Siccome questo tipo di persona appare piuttosto raramente, deve allora per forza sembrare eccentrico(almeno in quello) confronto tutto gli altri.
Di conseguenza, la persona a cui è più probabile che vengano nuove idee, è una persona con una buona preparazione culturale nel campo specifico, ed uno che per abitudine non bada alle convenzioni. Essere comunque un poco pazzoide non è una condizione, di per se, soddisfacente.
Una volta trovate le persone giuste, la domande è: desiderate che queste persone discutano il problema insieme o preferireste informare ogni uno del problema e lasciarli lavorare isolati?
Il mio pensiero è che, per quanto riguarda la creatività, è necessario lasciali isolati. La persona creativa è, in ogni caso, sempre li che ci lavora.  La sua menta fa il giocoliere con l’informazione, senza sosta, perfino quando non è consapevole  (il famoso esempio di Kekule che calcola la strutture del benzene mentre dorme è un esempio ben noto).
La presenza di altri non può far altro che inibire il processo, visto che la creazione è imbarazzante. Per ogni buon idea che venga in mento vi sono centinaia o diecimila idee sciocche, che chiaramente, non si desidera condividere.
Ciònonostante, potrebbe essere una buon idea far incontrare queste persone per motivi che vano al di la della creazione stessa.
Non esistono due persone che replichino esattamente i depositi mentale l’uno dell’altro. Uno potrebbe conoscere A e non B, e pur conoscendo entrambi gli elementi potrebbero avere comunque idee diverse sull’argomento.
Inoltre, tale informazione potrebbe non  essere composta di voci individuali “A e B”, ma magari di combinazioni di A e B,  che prese da sole non sono significative o sufficienti. Comunque, se uno menziona l’insolita combinazione di A e B e un’altra combinazione di A e C , potrebbe darsi che la combinazione di A-B-C, che nessuno delle due aveva contemplato da solo, potrebbe divenire una soluzione.
Allora, certi incontri informali tra creativi hanno lo scopo non tanto di favorire l’invenzione di nuove idee quanto piuttosto quello di istruire I partecipanti sui fatti e in modo da rendere possibile la combinazione dei fatti, teorie e pensieri vaganti.
Ma come si può convincere le persone creative che fare questo sia giusto? In primis, ci devo essere calma, una sensazione di agio e di generale permissività. Il mondo in generale disapprova la creatività, ed essere creativi in  pubblico può essere addirittura esecrabile.  Perfino speculare in pubblico desta preoccupazione. Quindi, l’individuo deve avere la sensazione che non riceverà obiezioni dagli altri intorno a se.
Se solo una persona presente non mostra simpatia o comprensione con le sciocchezze che sicuramente uscirebbero nella sessione congiunta, gli altri si congelerebbero.  Quello che non mostra accettazione potrebbe essere una miniera di informazioni, ma il male che fa, annullerebbe  tutto quanto di positivo avrebbe potuto dare. Quindi, a me sembrerebbe necessario che tutte le persone in un una sessione creativa dovrebbero essere disponibili a sembrare schiocchi ed a ascoltare anche gli altri quando sembrano altrettanto.
Se solo un singolo elemento nella sessione ha una reputazione superiore agli altri o è più articolato nell’eloquio, o ha una personalità più dominante, allora potrebbe prendere il commando della conferenza e cosi facendo ridurrebbe gli altri a poco più che passivi ed obbedienti esecutori. L’individuo di per se potrebbe essere molto prezioso, ma tante vale che lavori da solo in quanto in un gruppo neutralizza gli altri.
Molto probabilmente il numero ottimale di individui in un gruppo creativo non sarebbe molto alto. Oserei dire poco più di 4 o 5.  Un gruppo più ampio potrebbe raggruppare un maggior quantità di informazioni, ma ci sarebbe tensione a causa dell’attesa di parlare,  il che può essere molto frustrante. Sarebbe una buona idea fare più riunioni in cui gli invitati siano diversi ogni volta, piuttosto che una plenaria.  Anche se ciò significherebbe una certa ripetizione, la ripetizione stessa non è di per se, un male. A contare non è che tanto quanto viene detto a queste conferenze, bensì quello che le esse stimolano nei partecipanti, per i giorni successivi agli incontri.
Dovrebbe regnare un atmosfera di informalità e giovialità, l’uso dei nomi primi, lo  scherzo, una sorta di atmosfera rilassato dove nessuno si prende sul serio, sono essenziali, non tanto di per se, tanto quanto per favorire la disponibilità ad essere coinvolti nella follia della creatività. A questo scopo credo che un incontro in casa di qualcuno o in un ristorante sia più consono che in una sala conferenza.
Il fattore che inibisce più di tutto è molto probabilmente il senso di responsabilità. Le idee più grandi, nei secoli, sono venute da persone che non erano pagate per averle, ma che lavoravano come insegnanti o impiegati di brevetti o persone con posti di bassa responsabilità. Le grande idee erano conseguenze casuali.
La sensazione di colpevolezza quando una persona non pensa di meritare lo stipendio perché non ha avuto una idea grandiosa è, seconda me, il modo sicuro per assicurarsi che nessuna grande idee verrà nemmeno nel prossimo futuro.
La vostra azienda potrebbe quindi decidere di organizzare dei party per creativi usando il denaro del governo. Ma solo l’idea che membri del congresso – o il pubblico in generale – possano venire a sapere che scienziati scherzano, raccontano barzellette sporche e altre sciocchezze usando denaro pubblico, fa  sudare freddo. Infatti, lo scienziato medio ha sufficienza coscienza pubblica da non accettare questo metodo di lavoro, anche se molto probabilmente nessuno lo verrà mai a sapere.
Suggerirei che ai membri venissero assegnati dei compiti palliativi – tipo commissionare brevi testi o riassunti delle loro conclusioni, o risposte brevi a problemi suggeriti – e che tali incarichi siano retribuiti, per l’importo che spetterebbe loro per la partecipazione agli incontri informali cui sono invitati.  Questo significherete che I festeggiamenti sarebbero ufficialmente non pagati ed anche quello renderebbe l’atmosfera notevolmente  rilassata.
Non sono dell’opinione che tali feste dovrebbero essere lasciate “libere”. Ci dovrebbe essere qualcuno responsabile che gioco un ruolo equivalente ad uno psicoanalista. Come lo percepisco io, uno psicoanalista, che fa le domande corrette (e tolto quello non  interferisce quasi per nulla), fa in modo che il paziente discuta del suo passato in un modo tale modo da facilitare una nuova prospettiva  partendo dal suo punto di vista.
Ed è in modo analogo che l’arbitro della sessione di festeggiamenti dovrebbe stare seduto, mescolato agli altri, facendo domande acute, facendo i commenti necessari, riportando tutti con dolcezza di nuovo al punto. Visto che l’arbitro non saprà quale domanda acuta fare, quale commento sia necessario, ne quale è il punto, il suo compito è lungi dall’essere facile.
Se gli scienziati sono completamente rilassati, liberi di ogni responsabilità e stanno discutendo qualcosa di interessante, e per loro natura sono persone non convenzionali, allora  saranno gli partecipanti stessi a creare modi per stimolare le discussioni.
Published with permission of Asimov Holdings.
 




Conosci i tuoi prodotti

È una cosa assai comune criticare i Social media dal punto di vista dell’utente-consumatore, ma in realtà gli User sono il vero il “soggetto” di business delle società che gestiscono i social media: impacchettati e venduti – loro, più i dati che li riguardano – agli inserzionisti.
Noi tutti partiamo dal presupposto di non essere dei “Prodotti” e ci connettiamo a Facebook con l’intento di poterci esprimere liberamente e sentire cosa dicono i nostri amici, mentre in realtà entriamo in una “sala degli specchi”, che riflettono – artatamente – le nostre convinzioni in modo totalmente autoreferenziale. Come già scrissi in passato, gli utilizzatori dei social media non capiscono quando è il momento di fermarsi, quando gli strumenti li irretiscono e istupidiscono. Dovrebbero inoltre fare una valutazione “costi benefici”, prima di concedere tutti i propri dati personali in cambio della gratuità di un servizio.
Considerando ciò, sto iniziando a pensare che gli utenti “apprezzino” il fatto di diventare essi stessi un prodotto. Grazie ai servizi che i social media offrono – come ad esempio mappare le proprie connessioni, ammassare dati personali, la chimera di raggiungere la propria audience personalizzata, permettere modi preconfezionati di espressione, algoritmi che suggeriscono in modo mirato cosa leggere, comprare, sapere etc. – essi sostengono il processo di trasformazione da “utilizzatore” a “commodity” insito nel pacchetto. Un po come la salsiccia dell’hot-dog, che si spalma da sola il ketchup addosso. Questa “auto commoditificazione” non intacca la considerazione che l’utente ha di se, anzi, la rende più accettabile. Io, come prodotto, sono automaticamente deresponsabilizzato in certi miei comportamenti, e ho una visione più semplificata e diretta di me stesso. Solo vedendoci come “prodotti”, possiamo riconoscere noi stessi come meritevoli di attenzione e di riconoscimento in una società e una cultura che è consumistica e capitalistica.
Siamo intrinsecamente e ideologicamente indotti ad amare i beni di consumo, e quindi spontaneamente desideriamo esserlo anche noi, divenendo così meritevoli di amore attenzione e considerazione da parte di noi stessi e degli altri, come ad esempio la gratificazione del ricevere “Like” (ai nostri post, ndt). In una cultura consumistica, i prodotti perdono velocemente la loro “amabilità” (da lovability, capacità di ottenere affezione, ndt) e divengono quindi inutili, obsoleti, spazzatura. Il consumismo è la incessante creazione di nuovi bisogni e nuovi prodotti per soddisfarli, in un ciclo infinito che alimenta la crescità dell’economia. Io “cresco” e miglioro in misura di quanto sono sempre più capace di comprare e possedere, quindi devo ampliare il mio potenziale per esprimermi – consumando – sempre più, o fallirò come individuo.
La crescita personale nel capitalismo diviene quindi la possibilità crescente di accumulare beni, e l’evoluzione è quindi una continua insoddisfazione e rifiuto di accontentarsi. E questo si riflette anche sulla percezione del se: tutto ciò che già so di me non è interessante, ciò che conta è solo ciò che scopro nuovamente di me, ciò che ancora di nuovo voglio consumare o possedere. Quindi, il “se” come prodotto, ogni qual volta cessa di essere affascinante, ha bisogno di essere rivitalizzato divenendo nuovamente familiare, conosciuto, compreso. Noi amiamo noi stessi quando siamo “novità”, e perdiamo appeal quando diventiamo un bene già posseduto e già visto. Vogliamo scoprire sempre di noi nuovi lati che ci rendano nuovamente desiderabili, da consumare e godere. Solo questo ci rende “marketabili” (in grado di avere mercato, ndt). Il nostro desiderio di noi stessi ci spinge a renderci rinnovati, “repackaged”, per avere sempre nuovo appeal.
I social media nutrono la contraddizione di riuscire ad essere autentici solo quando noi risultiamo “sorprendenti” ai nostri stessi occhi; ci offrono modi per “consumare” noi stessi ogni volta come fossimo nuovi; gli algoritmi sono studiati per suggerirci nuove identità nelle quali calarci; ampliano la nostra capacità di desiderare, e affinarci all’idea che ci facciamo di essere desiderabile. Ciò che hai colto, consumato e rimesso in rete, viene purificato e riproposto per generare nuovi desideri e un nuovo te. Gli algoritmi di Facebook fanno questo: processano i nostri dati e ci ripresentano in una nuova più appetibile “confezione”. Noi apriamo la scatola, e ci stupiamo di ritrovarci così “nuovi” e allettanti. Ma è una scatola che continua a illuderci, e a nutrire le nostre illusioni, e a trarre nutrimento da esse.




La scuola costruita con le bottiglie di plastica

Sono già 61 gli edifici realizzati in EcoBricks, i mattoni ricavati dai rifiuti non biodegradabili.

Sono già 61 le scuole realizzate con EcoBricks, i “mattoni” ecologici che altro non sono se non bottiglie di plastica riempite di rifiuti non biodegradabili, in appena 69 mesi (meno di 6 anni).
L’idea è nata grazie all’inventiva dell’attivista Susana Heisse e all’attività della fondazioneHug It Forward, il cui scopo è «promuovere l’educazione e la consapevolezza dando alle comunità dell’America Latina la possibilità di costruire “scuole di bottiglie“».
Gli edifici così realizzati hanno una struttura in cemento armato, ma tutte le pareti adoperano, al posto dei mattoni, bottiglie di plastica piene di altri rifiuti che, se non venissero utilizzate in questo modo, finirebbero nelle discariche.
Il tutto viene poi coperto di cemento, intonacato e dipinto, nascondendo le bottiglie alla vista e restituendo una parete che non si discosta per nulla, almeno all’apparenza, da una parete di mattoni.
Grazie a Susana Heisse, invece, è nato un nuovo modo per riciclare la plastica che offre anche un’opportunità alle comunità più povere: una scuola costruita con le bottiglie ha infatti costi di realizzazione inferiori rispetto a una costruita con i metodi tradizionali; inoltre è educativa, in quanto la sua stessa esistenza impartisce un importante insegnamento sul rispetto per l’ambiente.
C’è poi un altro vantaggio, sottolineato da Hug It Forward: la costruzione di questi edifici coinvolge l’intera comunità, che così sente come proprie le scuole.

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