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Le aziende cinesi puntano su Csr, così vola la reputazione dei brand

La responsabilità sociale d’impresa fa bene al contesto in cui opera un’azienda, rafforza il rapporto con i dipendenti e con la comunità e a guadagnarci è anche la reputazione del brand. Ed è così che le aziende cinesi che operano all’estero, puntano sempre di più sulla responsabilità sociale. Lo rileva il rapporto pubblicato dal Center for China and Globalization (CCG), secondo il quale in molte aziende è cresciuto l’approccio che porta a una cooperazione win-win con le comunità locali, utilizzando strategie di sviluppo aziendale.
Un esempio? “Nella costruzione della ferrovia Nairobi-Mombasa, ci siamo dedicati alla protezione ambientale e della fauna selvatica – dichiara Wen Gang, vicepresidente della China Communication Construction – Ad esempio, abbiamo costruito passaggi abbastanza alti per permettere alle giraffe di migrare attraversando la ferrovia”. Le imprese cinesi hanno inoltre adottato gradualmente la localizzazione nelle operazioni estere.
Il gruppo cinese HeSteel (HBIS), una delle maggiori aziende siderurgiche cinesi, considera la localizzazione d’oltremare come un concetto importante.
“Crediamo che solo perseguendo la localizzazione culturale, promuovendo l’occupazione locale e condividendo i vantaggi con le comunità locali, sia possibile avere successo nel mondo globale”, dichiara Yu Yong, presidente del gruppo Hbis.
Sarà anche per questo che la reputazione dei brand e l’influenza delle imprese cinesi all’estero sono aumentate negli ultimi anni. Secondo quanto rileva il di CCG, il 43% delle 2.922 aziende intervistate, considera la promozione dell’influenza del brand come leva fondamentale per lo sviluppo a livello globale. Le piccole e medie imprese private hanno partecipato anche al mercato estero, con un volume totale di investimenti di 154,9 miliardi di dollari Usa in 395 casi nel 2016.




Luca Poma: la più bella delle epidemie, un’epidemia di consapevolezza

Luca Poma è giornalista, scrittore e Professore in Relazioni Pubbliche Avanzate all’Università LUMSA di Roma. Ha svolto un interessante intervento al Convegno sulla Libertà di Cura organizzato da AsSIS a Firenze un mese fa. Prendendo spunto da quell’intervento gli abbiamo posto alcune domande

La libertà di cura, la gestione progettuale della salute, passa anche attraverso un’informazione completa e corretta sui temi sanitari? E’ in qualche modo condizionata dal grado di “verità” che caratterizza i turbinosi flussi di comunicazione, spesso digitale, dei giorni nostri…?

Per tentare di rispondere a questa domanda, e anche per non centrare in modo ossessivo il dibattito solo sul tema dei vaccini, è certamente utile esaminare alcuni “casi”, occasioni di visibilità e di confronto/scontro mediatico che hanno coinvolto ad esempio il settore delle medicine non convenzionali negli ultimi mesi, un settore spesso nell’occhio del ciclione per le polemiche alimentate dalla voglia delle persone di curarsi in modo più olistico e meno invasivo e dell’ostilità verso questo differente paradima di salute. Casi davvero “illuminanti” circa il rapporto tra sistema dei mass-media, cittadini e libertà.

Ad esempio, immenso clamore nel settore ha suscitato la pubblicazione di “un nuovo studio scientifico australiano” – così recitavano i pennivendoli italiani – che avrebbe detto, l’ennesima volta, “la parola fine sull’omeopatia”: una metanalisi di una serie di studi che inequivocabilmente dimostravano che etc. etc. Ebbene, una banalissima azione di fact cheking ha dimostrato che:

  • non si trattava di uno studio scientifico in quanto non è mai stato pubblicato da nessuna rivista scientifica indicizzata;

  • si trattava di un’analisi già ampiamente pubblicizzata in passato, semplicemente ripresa nuovamente dai mass-media a caccia di notizie e di polemiche;

  • la ricerca in ogni caso non ha apportato alcun elemento innovativo o prova significativa nel più ampio panorama della letteratura scientifica, e – come vari esperti hanno denunciato – parrebbe gravata da pregiudizio editoriale;

  • il (presunto) articolo del British Medical Journal che riprendeva la ricerca semplicemente non era un articolo del BMJ, bensì un post su un Blog che il BMJ ospita. Blog gestito da chi? Dall’autore della ricerca Australiana, che evidentemente “se le canta e se le suona” da solo…

E’ assodato che esiste una campagna contro le medicine “altre” che non rispettano i canoni commerciali e promuovono altri stili di cura. E che questo si basa sulla circolazione di notizie false o tendenziose.

Certamente sì. Un’altra sfacciata bugia, l’ultima in ordine cronologico, di chi fa della manipolazione dei fatti una “regola”, è la clamorosa “fake news” secondo la quale le medicine complementari “sarebbero in crisi”, vero e proprio mantra con il quale i soliti noti hanno asfissiato i massmedia negli ultimi due anni, laddove invece il già citato Rapporto Italia 2017 Eurispes, reso noto recentemente, conferma che l’Italia è in linea con le tendenze europee sull’aumento della fiducia nei confronti di questi paradigmi medici. Secondo poi i dati del Consozio UE CAMbrella, magistralmente rapprentato per l’Italia dal Dott. Paolo Roberti di Sarsina, in Europa non meno di 100 milioni di persone fanno regolarmente uso di prestazioni sanitarie di medicine non convenzionali a livello preventivo e curativo, e – con una crescita del + 6,7% rispetto ai dati del 2012, i: l 21,2% della popolazione italiana utilizza attualmente – anche solo saltuariamente – medicinali non convenzionaliper curarsi o ritrovare il naturale equilibrio omeostatico dell’organismo al fine di alzare le barriere immunitarie e prevenire le malattie.
Insomma, non una di queste prese di posizione critiche, che pure hanno goduto di buona stampa, si è rivelata men che faziosa e totalmente inconsistente. Interessante anche notare l’assenza completa di repliche, perché – come nel caso del presunto “crollo” delle prescrizioni MNC – la tecnica è sempre la medesima: si mette in giro sui mass-media una fake-news, e quando essa viene clamorosamente smentita, invece di fare ammenda o giustificarsi o perlomeno partecipare a un sano contraddittorio, si “sparisce”, cambiando argomento. Ho citato questi esempi per far riflettere su quanto sia poco onesto intellettualmente l’atteggimento di questi signori, veri e propri “sacerdoti della morale scientifica”.

E’ in voga l’Evidence Based Medicine, la medicina che pretende di essere basata su risultati evidenti e sperimentabili. Tu dici che l’EBM è un dogma. Ce lo puoi spiegare?

Quante volte abbiamo sentito dire: “…la scienza dice che”, “è ridicolo, non è provato scientificamente”,  “se è scritto su PubMed è così! ”, etc…? Bene, diamo qualche dato sull’EBM sempre dal punto di vista della comunicazione.

  • almeno il 50% degli studi pubblicati nel settore delle biotecnologie non è ripetibile, e questa potrebbe essere una stima ottimistica. Nel 2012 – ricorda un articolo di “Nature” – i ricercatori dell’azienda biotecnologica “Amgen” hanno scoperto non senza sorpresa che erano in grado di replicare solo 6 dei loro 53 studi oncologici definiti “fondamentali”;
  • sulla base delle risultanze di una verifica pubblicata su “Nature Reviews Drugs Discovery”, la multinazionale Bayer è riuscita a ripetere solo il 25% di 67 esperimenti altrettanto importanti, sui quali aveva in parte basato le richieste di approvazione alla messa in commercio di una serie di farmaci;
  • un’ulteriore ricerca ha dimostrato che – nel decennio 2000/2010 – circa 000 pazienti hanno partecipato a test clinici basati su studi che poi sono stati “ritrattati” a causa di errori o procedure inappropriate;
  • l’allora direttrice del British Medical Journal, Dr. sa Fiona Goodle azzardò pochi anni fa un provocatorio ma significativo test: inviò a 200 revisori della rivista, l’uno all’insaputa dell’altro, un articolo contenente – volutamente – 8 errori di analisi e interpretazione: non solo nessuno dei 200 esperti individuò tutti gli errori, ma la desolante media degli errori individuati si fermò a 2;
  • il biologo e giornalista scientifico John Bohannon ha fatto un altro test, inviando a ben 304 riviste scientifiche indicizzate uno studio sugli effetti di alcuni licheni sulle cellule cancerogene, firmandosi con uno pseudonimo. Ebbene, l’intero studio era totalmente inventato, conteneva errori di progettazione evidenti, e addirittura risultava redatto da un ricercatore di un’Università inesistente. Clamoroso: 157 riviste scientifiche (più della metà) accettarono di pubblicarlo;
  • l’Università di Edimburgo, ha esaminato nel dettaglio inchieste e sondaggi svolti all’interno della comunità accademica nel ventennio 1988-2008: un poco rassicurante 2% dei ricercatori ha ammesso “di aver falsificato i dati”, mentre il 28% di essi ha confessato di “conoscere personalmente colleghi che hanno utilizzato metodi discutibili durante la progettazione o l’esecuzione dei loro esperimenti”.

Questo significa che l’EBM è da gettare nel cestino? Ma certo che no. Significa solamente che dobbiamo essere ben consapevoli dei suoi limiti.

Nel tuo ultimo libro “Salviamo Gian Burrasca”, edito da Terra Nuova Edizioni, tu tra le altre cose analizzi un caso di gravi manipolazioni nella diffusione di uno psicofarmaco rivelatosi assai pericoloso

Ti riferisci al caso della Paroxetina, e in particolare, il suo uso in età pediatrica; ci si chiede spesso quanto siano attendibili gli studi finanziati dalle case farmaceutiche o condotti da ricercatori che hanno avuto o hanno incarichi di consulenza presso aziende farmaceutiche. Nel caso della paroxetina e della GlaxoSmithKline, quanto emerso non è rassicurante, come ha spiegato la campagna Giù le mani dai bambini. A confermare la divulgazione di dati non corretti su efficacia e sicurezza del farmaco, utilizzato per il trattamento della depressione anche nei giovanissimi, è stato il British Medical Journal nel 2015 che ha confutato il cosiddetto “studio 329”, pubblicato nel 2001 a firma di 22 ricercatori e che originariamente pareva confermare l’appropriatezza d’uso di questa molecola nei casi di depressione. È emerso che «la ricerca fu redatta da Sally K. Laden, una ghostwriter pagata dalla casa farmaceutica che aveva finanziato la ricerca allo scopo di dimostrare l’efficacia della molecola» si legge nella nota stampa a suo tempo diffusa dalla Campagna. «Ci sono voluti poi 14 anni e la tenacia di validi ricercatori per ribaltare i risultati dello studio e dimostrare che la paroxetina aumenta il rischio di suicidio per i minori che la assumono».
«Dopo lo Studio 329 del 2001, le vendite della paroxetina e di altri psicofarmaci ad azione analoga subirono una fortissima impennata, grazie anche a prescrizioni di medici generici e pediatri, con il risultato che molti adolescenti subirono effetti negativi e alcuni morirono. La paroxetina divenne l’antidepressivo più venduto, con guadagni per centinaia di milioni di dollari e più di due milioni di ricette emesse ogni anno per i soli bambini e adole- scenti» ha commentato Paolo Migone, medico specializzato in psichiatria in Italia e in USA. «Mentre la GlaxoSmithKline continuava a utilizzare lo Studio 329 come dimostrazione dell’efficacia e sicurezza della paroxetina» ha aggiunto Migone, «già nel 2004 la Procura generale di New York denunciò la multinazionale per frode contro i consumatori per aver contraffatto i dati e diffuso informazioni false. La causa si concluse con un accordo: la GSK doveva pagare una multa e si impegnava a pubblicizzare sul suo sito internet i dati effettivi dello Studio 329. Successivamente, anche il Dipartimento di Giustizia americano denunciò la GSK per truffa nei confronti di Medicare e Medicaid, cioè le principali agenzie assicuratrici pubbliche che finanziano la sanità in America, in quanto aveva diffuso affermazioni false o fraudolente. La GSK si dichiarò colpevole e accettò di pagare 3 miliardi di dollari, ovvero la multa più alta comminata a un’azienda farmaceutica nella storia americana».
La GlaxoSmithKline fu quindi definitivamente condannata e obbligata a rendere noti i dati relativi alla paroxetina. Ma come lo fece è un altro capitolo ancora… La multinazionale pubblicò infatti oltre 77.000 pagine di resoconti clinici visibili solo in remoto a video, senza che i files potessero essere scaricati o stampati. Una scelta ridicola e dannosa. Il team guidato dal professor Jon Jureidini dell’Università di Adelaide ha successivamente identificato lo studio finanziato da GlaxoSmithKline come un esempio di un processo autorizzativo da rivedere e, utilizzando documenti in precedenza riservati, ha rianalizzato i dati originali e ha scoperto che quanto all’epoca fornito dalla casa farmaceutica era fortemente fuorviante e che il pericolo per i minori che utilizzano questo psicofarmaco è “clinicamente significativo”

Quali soluzioni intravedi per una comunicazione al servizio delle persone e per uno sviluppo della società?

Non vorrei prenderla troppo alla lontana, ma vorrei citare alcune riflessioni tratte da un mio recente lavoro pubblicato su una rivista di settore. il Vangelo di Giovanni, scritto in tarda età, è la summa delle riflessioni che l’avevano segnato per tutta la vita, e dice: “In principio era il Verbo (Logos), e il Verbo era presso Dio, e il Verbo ERA Dio”. Il Verbo è anche Verità e Vita. Negli ultimi due millenni, tutta la ricerca di una dimensione spirituale dell’uomo, e quindi del senso e del valore della vita, del significato della morte, della nozione di bene e di male, ha ruotato attorno al sillogismo di Giovanni sul Verbo. La storia ha poi ampiamente dimostrato tutte le aberrazioni che la mente umana è stata capace di produrre “sfornando orrori”, e l’esperienza della cultura giudaico-cristiana non è certo stata da meno di tutte le altre, musulmana, buddista, induista; ma questo è un altro discorso. Ma la ricerca di una qualche Verità, è praticata – consciamente o meno – da chiunque, magari con rimozioni e negazioni immediate. Ecco allora dove voglio arrivare: anche chi non crede, non potrà negare che tra tutti i Valori dell’uomo, la Verità appare quello più centrale, sia per chi ha fede come per chi non ne ha. Volente o nolente, tutti – cittadini, medici, filosofi, scienziati, giudici, operatori dell’informazione – cerchiamo di “tendere verso la Verità”, operando scelte e compromessi continui, guidati purtroppo più dalla convenienza della vita terrena che non dalle categorie “alte” dello Spirito. Le società moderne si evolvono solo a condizione che sia dia per assodato che i fatti (A) devono essere descritti con equilibrio (B) devono essere documentati pubblicamente, e (C) devono tendere alla verità. Il concetto di “Verità dell’informazione” è infatti la base indispensabile dello Stato di diritto: dove non c’è verità, non vi è responsabilità politica – la responsabilità non è mai di nessuno, non si sa di chi sia – e quindi non vi è “salute dello Stato”, si ha uno Stato malato nel profondo, ed è questo il caso dell’Italia negli ultimi anni. Il dibattito allora conta se riesce – ricercando la Verità – a “far parlare i fatti”, per poi costruire in modo equilibrato le opinioni di ognuno, anche magari divergenti. Questo non sta accadendo ad esempio sulla questione vaccini. Ebbene, nel mondo della sanità e della medicina, c’è sistematica *negazione della Verità*

C’è disinformazione, non solo individuale, ma sempre più spesso organizzata, e persino “finanziata” da gruppi di pressione e di interesse?

Esatto. Nella medicina molti sono spinti non dall’interesse a guarire il malato, bensì dall’interesse a perpetuare la malattia, costruendo artatamente un paradigma di salute poggiato su bugie, su falsità, ma così ben “decorato” dal punto di vista estetico, da apparire l’unico paradigma possibile, o perlomeno l’unico percorribile: proprio quello che invece lo è meno e che sta condannando il pianeta al disastro e alla patologia cronica, e, in quanto cronica, data ormai serenamente per scontata. Dobbiamo prendere lezioni forse dall’arroganza da una certa medicina, con i suoi 250.000 morti all’anno per effetti collaterali a causa di farmaci somministrati con leggerezza o impropriamente e per malepratiche sanitarie? Dobbiamo prendere lezioni da quelle case farmaceutiche che per solo scopo di lucro immettono sul mercato psicofarmaci come la Paroxetina, consci del fatto che stimola idee suicidarie su bambini e adolescenti, e ostacolano poi deliberatemente la giustizia quando si scopre che gli studi scientifici alla base dell’autorizzazione alla messa in commercio erano stati manipolati? O forse dobbiamo prendere lezioni dall’Agenzia Italiana del Farmaco, che a distanza di 2 anni dalla questa scoperta agghiacciante, ammette candidamente in una corrispondenza con il Ministero della Salute italiano di “non aver ritenuto di far nulla” per allertare le famiglie relativamente a questo vergognoso scandalo? C’è voluto un nuovo Presidente dell’AIFA, l’Agenzia Italiana del Farmaco, persona degnissima, per sbloccare la cosa, proprio poche settimane fa.
Lancio una provocazione: coloro che criticano chi pensa con la propria testa, facciano una ricerca scientifica importante, sugli abomini delle pratiche mediche mainstream, totalmente disumanizzate, e sui disastri perpetrati da questi signori che salgono in cattedra per poi dare il loro quotidiano e sistematico contributo alla distruzione dei delicati equilibri dell’ambiente nel quale tutti viviamo.

E’ necessario essere diversi?

Si. Dobbiamo passare oltre a quei processi cognitivi che vorrebbero una Verità soggettiva, prestata a questo o quell’interesse, deformata, alterata per le più diverse convenienze, e impegnarci a cercare, costruire, narrare, una Verità che in quanto oggettiva è lapalissiana, chiara, cristallina: ovvero che l’Uomo è al centro dei processi di salute, e la Medicina o è centrata sulla Persona o semplicemente non è Medicina; è vendita di prestazioni, è mercato, è un’altra cosa, e non ci interessa più, esce necessariamente dal perimetro dello sguardo del Medico.
Dobbiamo impegnarci con molta più energia per stimolare un “risveglio” di almeno qualche coscienza, generando – come mi ha insegnato anni fa il mio fraterno amico Dott. Paolo Roberti di Sarsina – la più bella delle epidemie, la più mirabile e straordinaria delle “malattie”: un’epidemia di consapevolezza, ed eventi come quello di oggi servono proprio a questo. Lavoriamo tutti assieme, tutto coloro che per i più diversi motivi credono nella necessità di raffermare la Verità, perché semmai riusciremo a raggiungere anche solo in parte questi obiettivi, potremo farlo solo essendo coesi.  E se vi riusciremo, ci sarà da andarne davvero fieri. Perché solo affermando queste Verità potremo dare un contributo a cambiare il mondo e a far crescere il Pianeta.




Papa Karol Wojtyla “Il più grande comunicatore del secolo”

Il dott. Valls – era nel Suo Studio medico, l’orologio segnava le 12:45, aveva appena visitato l’ultimo paziente della mattinata e si accingeva ad andare a pranzo. Il seguito della giornata si preannunciava tranquillo: qualche altra visita, un appuntamento presso la sede della Stampa Estera in Italia – il Dottore aveva la passione per il giornalismo – cena in famiglia, ma prima magari una preghiera nella cappella sulla strada tra lo Studio e casa.
La segretaria entrò nella sua stanza con il viso pallido e visibilmente turbata: “Dottore, è arrivata una chiamata per Lei. Dal Vaticano. La vogliono a pranzo…”. Valls rispose sorridendo: “Ma chi? Sarà uno scherzo, sicuramente! Richiami la Santa Sede, scopra che succede…”.
La segretaria rientrò dopo 5 minuti, confermando che la chiamata era autentica. “A che ora?”. “Tra 45 minuti Dottore. Pare che la attenda il Papa in persona”. A quel punto anche Valls sbiancò in viso…
Meno di un’ora dopo il medico era nelle Sacre Stanze, e mangiava con il Papa, che si rivolse a Lui dicendo: “So che Lei è una persona stimata: mi deve aiutare. Io voglio sapere: come possiamo comunicare meglio al mondo intero i valori – spirituali ma anche umani – dei quali siamo depositari?”. Ecco com’è iniziata la collaborazione tra Giovanni Paolo II e Joaquin Navarro Valls, di professione medico, e giornalista per passione, che per 22 anni governò la comunicazione della Santa Sede in tutto il mondo. “Il Papa quel giorno – ha dichiarato Valls recentemente in un’intervista a RAI 1 – mi disse ‘ho bisogno di Lei, la prego di riflettere su questo. Può anche prendersi del tempo per pensarci, diciamo fino a domani mattina…’. Vi confesso avevo molti, troppi dubbi, ma… come potevo dire di no al Papa?”.
In ogni caso, proprio il tema della comunicazione – e a che livello! – è stato al centro del primo colloquio tra il più amato Pontefice della storia della Chiesa e l’uomo che lo rappresentò nei confronti dei mass-media – e quindi del mondo – per l’intero pontificato.
La forza comunicativa straordinaria di Papa Wojtyla era emersa con chiarezza già nel suo primo discorso, dal balcone dell’insediamento: “Questo discorso proverò a farlo nella Vostra lingua… nella nostra lingua italiana… vorrà dire che se sbaglio mi corigerete…” (l’errore è nel discorso originale, fatto dal Pontefice a braccio). L’applauso scoppiò fragoroso in piazza e nel mondo intero, a qualcuno vennero i brividi e scesero le lacrime, e nacque immediato l’amore tra la gente comune e il modo di comunicare snello, diretto e appassionato del Cardinale polacco.
L’opera di Navarro Valls si concentrò da subito sulla necessità di rinnovamento del modo di gestire le media-relations della Chiesa Cattolica, peraltro in perfetta sintonia con gli spunti forniti dal Pontefice stesso, che con la Sua impronta particolare e modernissima spesso “scavalcava” lo stesso portavoce in termini di capacità di innovazione, rompendo gli schemi e spiazzando i mediatori della comunicazione di tutti i paesi del mondo.
E’ impossibile comprendere il “taglio” di Wojtyla se non partendo dal quotidiano. Navarro Valls racconta le “fughe” del Papa per andare… a sciare! “Il Papa – ha dichiarato Valls – mi faceva chiamare, e mi diceva ‘Oggi ci prendiamo qualche ora di pausa’. Allora dovevo organizzare un’auto, senza targa del Vaticano: salivamo l’autista, io, il Papa e il Suo segretario personale. Dietro, un’auto di appoggio, sempre anonima, e ci tuffavamo nel traffico romano all’ora di punta…vi lascio immaginare che situazione! Arrivavamo al casello, pagavamo il pedaggio, e io avevo una paura che ci riconoscessero…! L’unico tranquillo era Lui. Poi, arrivati sul posto, il Papa sciava per circa 4 ore, poi rientravamo alla Santa Sede…”
Lo stile di comunicazione del Papa nel suo “privato”, con i collaboratori, era congruente con lo stile “pubblico”, in un’assoluta corrispondenza di stile, molto rara tra personaggi notissimi come Wojtyla. Valls conferma che non esistevano distonie: “Come era in pubblico, come lo vedevate Voi, era anche in privato, quindi per Lui era assai facile comunicare”. L’assenza di “sovra-strutture” rendeva al Pontefice assai facile entrare in sintonia diretta con la gente, “Quando parlava, avevi la sensazione che si stesse rivolgendo proprio a te, personalmente”, ricorda l’ex portavoce Vaticano.
Una grande capacità strategica e di governo delle complessità, unità a una straordinaria sobrietà: “Una sera a cena portai al Pontefice una copia fresca di stampa del TIME, che lo ritraeva in copertina come uomo dell’anno. Lui la guardò, e la posò sul tavolo, rovesciata. Parlammo del più e del meno mentre mangiavamo, poi quando finimmo Lui si alzò, e la lasciò sul tavolo. Gliela porsi di nuovo, e lui la prese e la mise sotto il braccio, sempre dandogli pochissima importanza, mentre a me pareva un gran risultato sotto il profilo della comunicazione pubblica. Mi azzardai allora a chiedergli: ‘Santo Padre… forse non le piace la fotografia?’. E lui mi rispose, con un bellissimo sorriso: ‘No, il problema è che forse mi piace troppo’…”
La sofferenza è stata la cifra di una parte significativa di quel Pontificato, tanto che Valls ama ripetere che ‘L’enciclica più bella Wojtyla l’ha scritta non con le parole su un foglio, ma con la vita che ha vissuto”. Il Papa ha “comunicato” al mondo anche mediante il suo sguardo malato, in un periodo di forte relativismo etico. Questo Suo voler restare al governo della Chiesa Universale anche in condizioni di fortissimo disagio psico-fisico rese complesso anche il lavoro di Valls.
In particolare negli ultimi 2 mesi di vita del Santo Padre, Valls scelse di dare un’informazione ancor più completa del solito, in perfetta consonanza con un Pontificato che non aveva mai nascosto nulla: due conferenze stampa al giorno, puntuali, una al mattino e una al pomeriggio, per aggiornare la stampa mondiale sulla situazione del Pontefice. Un unico momento di esitazione, quando un giornalista della stampa estera domandò a Valls: “Dal punto di vista strettamente personale, come vede Lei questa situazione del Papa?”. Valls rallentò il suo abituale eloquio immediato e snello, ebbe un’esitazione, gli occhi gli si velarono di lacrime, e rispose con parole di circostanza, visibilmente emozionato. Una relazione professionale ed umana – quella tra Valls e Wojtyla – che ha costituito il vero tandem vincente del XX° secolo: dai concerti rock in presenza del Papa, al crollo del muro di Berlino, frutto di un lavoro incessante durato oltre 10 anni, dalla visita al Lìder Màximo a Cuba all’incontro con i pellerossa, con tanto di Papa che indossa davanti ai giornalisti il tradizionale copricapo di piume del Sioux.
“Quando per la prima volta incontrammo Gorbachov – racconta Valls – il capo dell’URSS era agitato, quasi a chiedersi che tipo di atteggiamento avrebbe dovuto tenere con il Papa. Wojtyla invece era in una stanza, e pregava. C’era tensione nell’aria. Un’ora dopo, a colloquio in corso, entrai, e tutto era rilassatissimo. Il Papa ‘comunicava’ nel senso più alto del termine. Posso garantirvi che era una persona emozionante, l’avete visto tutti, ma di persona emozionava ancora di più”.
“Alle 21:37 di oggi, due aprile, il nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo II è tornato alla Casa del Padre”. Questo l’annuncio dato al mondo. L’ultimo sguardo, due ore prima di lasciare definitivamente il corpo, Wojtyla lo riservò proprio a Jioaquin Navarro Valls.
Il portavoce del più grande comunicatore del secolo ricorda così quel momento: “Uno sguardo carico di significato, ci siamo guardati a lungo e abbiamo ripercorso nella mente, in silenzio, quei vent’anni di avventure in giro per il mondo. Lui soffriva, era evidente. Ma era anche straordinariamente lucido”.
Come la Sua comunicazione, che rivoluzionò l’ingessato protocollo della Chiesa e insegnò alla Santa Sede a parlare direttamente alle folle di tutto il mondo.
 




Con Internet è andato tutto storto

Il co-fondatore di The Pirate Bay Peter Sunde spara a zero sui giganti della tecnologia e su quello che internet è diventato: “I governi dovrebbero fare qualcosa”


Credere in qualcosa fino in fondo, e poi trovarsi con un pugno di mosche in mano: sembra che alcuni dei protagonisti della rete, di quelli che ci credevano quando erano in pochi a farlo, stiano gettando la spugna. Dopo Evan Williams — ex presidente e Ceo di Twitter, che aveva affidato al New York Times un poco speranzoso “internet non funziona più” — arriva Peter Sunde, co-fondatore di The Pirate Bay, ad alzare le mani.

È andato tutto storto

“Il punto non è quello che accadrà in futuro, ma quello che sta succedendo adesso”, ha detto in un’intervista a The Next Web, durante la quale ha attaccato duramente il Ceo di Facebook: “Abbiamo centralizzato tutti i nostri dati a un ragazzo chiamato Mark Zuckerberg, che è fondamentalmente il più grande dittatore del mondo, visto che non è stato eletto da nessuno”. Non solo: anche lui è nelle mani della politica. “Trump ha di fatto il controllo sui dati in possesso di Zuckerberg, quindi ci siamo già.
Tutto ciò che potrebbe andare storto è già andato storto e non credo che ci sia un modo per arginarlo”.
Il problema è stato “tradire” la missione iniziale della rete: “Internet è stato creato per decentralizzare, e invece continuiamo a centralizzare ai livelli più alti di internet”.
La riprova, secondo lui, starebbe nel fatto che negli ultimi 10 anni quasi tutte le tecnologie emergenti sono state acquistate dai grandi cinque:Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook. Il mercato, poi, si è spostato da un modello basato sul prodotto, a un modello basato sulprodotto virtuale (porta ad esempio Airbnb, Uber, Alibaba). Tutto questo, per Sunde, si chiama centralizzazione, rischio che correrebbero anche le tecnologie più promettenti in arrivo, come le macchine che si guidano da sole: “Chi le possiede e chi possiede le informazioni su dove possiamo o non possiamo andare?”
Dovrebbe esserci una discussione più accesa e più etica in merito a tecnologia e proprietà, dice il pioniere del Torrent. L’unico modo in cui possiamo fare qualsiasi differenza è limitare i poteri di queste società, ma purtroppo l’UE o gli Stati Uniti non sembrano avere alcun interesse a farlo”. Tuttavia, una via d’uscita ci sarebbe, e potrebbe essere quella di un’azione dei singoli governi, che pian piano potrebbero, sempre secondo le sua tesi, indirizzare gli enti sovra nazionali in una diversa direzione.
In tutta questa nuova economia della rete, i big data giocano un ruolo importantissimo e delicato: secondo Sunde, le aziende li sfruttano, dando indietro qualcosa, come i servizi e una buona comunicazione.

“I big data e le grandi multinazionali del Tabacco sono simili, in un certo senso. Prima non ci siamo resi conto di quanto fosse pericoloso il tabacco, ma ora sappiamo che provoca il cancro. Non sapevamo che i big data avrebbero potuto diventare così importanti, ma ora lo sappiamo. Allo stesso modo, abbiamo basato le nostre vite sui big data, e ora non possiamo smettere”.




Il cervello è fatto per dimenticare

Cancella le informazioni irrilevanti per fare scelte intelligenti


Il cervello e’ fatto per dimenticare: lo fa costantemente, per cancellare i ricordi inutili e dare spazio a quelli piu’ rilevanti che servono a prendere decisioni sagge e intelligenti, in modo da adattarsi meglio alla realta’ che cambia. Lo dimostra uno studio pubblicato su Neuron dai neuroscienziati dell’Universita’ di Toronto, in Canada, i cui risultati trasformano radicalmente il concetto di memoria: non piu’ definita come la capacita’ di conservare il maggior numero di informazioni nel tempo, alla Pico della Mirandola, ma come l’abilita’ di saper dimenticare le cose superflue.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana, che gia’ da qualche anno ha cominciato a farsi strada nel campo delle neuroscienze con un numero crescente di studi che hanno acceso i riflettori sull’importanza del dimenticare, e non solo del ricordare. Passando in rassegna la letteratura scientifica piu’ recente, “abbiamo trovato molte prove che dimostrano l’esistenza di meccanismi che promuovono la perdita di ricordi e che sembrano essere differenti rispetto a quelli coinvolti nell’immagazzinamento delle informazioni”, spiega uno degli autori dello studio, Paul Frankland.
Uno dei meccanismi individuati, ad esempio, serve a indebolire o eliminare le connessioni fra i neuroni che custodiscono il ricordo. C’e’ poi anche un secondo meccanismo che consiste nella produzione di nuovi neuroni nella centralina della memoria, l’ippocampo: quando si integrano nei circuiti li rimodellano e sovrascrivono sui vecchi ricordi, rendendoli meno accessibili. Quest’ultimo fenomeno potrebbe spiegare perche’ i bambini, che continuano a produrre nuovi neuroni nell’ippocampo, finiscono per dimenticare tante cose. Sebbene possa sembrare un controsenso che il cervello spenda tante energie per dimenticare, in realta’ lo fa per eliminare vecchie informazioni fuorvianti e per non perdersi in dettagli inutili, secondo gli stessi principi che regolano l’apprendimento anche nel campo dell’intelligenza artificiale.