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CSR: Bombas, l'azienda americana che dona calzini ai senzatetto

Probabilmente, non tutti sapranno che i calzini sono gli articoli più richiesti nei rifugi per i senzatetto: un dato di fatto che ha spinto due americani, David Heath e Randy Goldberg, a fondare Bombas, una società che produce proprio questo basilare indumento e che ha sviluppato un innovativo modello di solidarietà.
L’ampia collezione di calze, lanciata nel 2013 dopo una campagna di crowfunding su Indiegogo, è stata pensata sia per garantire elevate prestazioni atletiche, sia per perseguire il modello uno-contro-uno, per cui ad ogni acquisto realizzato corrisponde un immediato gesto di solidarietà.
All’inizio della storia dell’azienda, David Heath aveva fatto alcune ricerche su internet, individuando una no-profit dell’Ohio, Hannah’s Socks, che procurava calzini ai rifugi per senzatetto, e proponendosi per una partnership. Da quel giorno, Bombas ha inviato camion carichi di calzini – pari a 390.000 paia in meno di due anni – ad Hannah’s Sockse ad altre organizzazioni analoghe, comeBack on My Feet e Covenant House. Mano a mano, le donazioni si sono estese fino a comprendere anche scuole in difficoltà e vittime di disastri ambientali.
Quando abbiamo iniziato, donavamo lo stesso identico prodotto che vendiamo.” – ha raccontato Heath – “Tutti i nostri nuovi dipendenti uscivano in strada a donare 10 paia di calzini e tornavano sempre indietro riportando i calzini di colore grigio: alle persone non piacciono i calzini grigi. Apprezzavano, invece, i calzini neri, perché non mostrano lo sporco. È stato allora che abbiamo deciso di sviluppare un calzino Bombas apposito per la donazione.”
E così, Bombas ha creato un calzino ad hoc, che cerca di venire incontro alle necessità di quelle persone che non hanno la possibilità di indossare un paio di calzini puliti ogni giorno. Il calzino utilizzato per le donazioni ha ricevuto dei trattamenti speciali che ostacolano la crescita di funghi, è di colore nero con parti in grigio scuro per rendere l’usura il meno evidente possibile ed è dotato di cuciture rinforzate, in modo da avere una durata maggiore.
E, anche se la produzione di un calzino ad hoc per la donazione rappresenta una spesa aggiuntiva per l’azienda, grazie a questa pratica benefica il valore del marchio Bombas è notevolmente aumentato, attraendo nuovi clienti: non a caso, l’80% dei consumatori dichiara di essere disposto ad acquistare anche un prodotto di marca sconosciuta se questa dimostra un forte e consolidato impegno sociale e ambientale.




La Carta dei Valori del Marketing Umanistico

Carta dei valori del Marketing Umanistico: gli elementi


Dalla customer alla human satisfaction

Nell’impresa, il marketing e la sua comunicazione devono essere completi, chiari, semplici e onesti, basandosi su di una profonda conoscenza degli stakeholder interni ed esterni, ponendo in prima linea l’”ascolto” delle loro necessità. Questa conoscenza dovrà essere antropologica e quindi psicologica, oltre che socio-economica, per essere finalizzata alla soddisfazione dell’essere umano integrale, nella prospettiva della human satisfaction, evolutiva del modello “consumatore” e della “customer satisfaction”.

Necessità emotive, razionali, etiche

Per l’impresa e per il suo marketing, é essenziale la conoscenza dell’essere umano-cliente, analizzando e misurando tutte le sue necessità emotive, razionali, etiche che sono nella psiche, e che presiedono e determinano l’opinione e di conseguenza il desiderio di acquisto e di utilizzo di un bene economico, prodotto o servizio che sia. Con la possibilità di misurare i possibili gap tra offerta e necessità. Il marketing sarà così sempre più espressione della vita reale, evitando scollamenti e frammentazioni che possono crearsi quando della persona/cliente si consideri esclusivamente il momento del “consumo” di prodotti e servizi.

Il potere del dialogo. Creare comunità

Nel processo di marketing e comunicazione, e nel momento stesso in cui un messaggio e un mezzo attirano l’attenzione del cliente-persona, è necessario offrire non solo posizionamento e informazioni, ma anche dialogo, esigenza umana naturale e primaria, da soddisfare con informazioni utili, per far liberamente esprimere il proprio pensiero verso l’impresa e i suoi prodotti, in forme mediatiche il più possibile aperte all’utilizzo di chi desideri partecipare. Il marketing umanistico considera quindi essenziale il parlare a tutto il pubblico potenziale e attuale interno ed esterno all’impresa, ma con l’intenzione di dialogare con ogni singola persona, per tendere a risolvere le sue necessità. Inoltre il marketing umanistico considera come il comunicare significhi anche “creare comunità e comunione”. L’impresa che crea comunità e comunica in modo completo, si riconosce quindi come risolutrice di necessità emotive, razionali ed etiche, contemporaneamente presenti nell’essere umano, e tra di loro in sinergia.

Multidisciplinarietà e fattore sinergico

L’essere umano integrale é al centro degli obiettivi del marketing umanistico, che pertanto considera essenziali le potenzialità offerte dalle discipline umanistiche, oltre che dalle discipline economiche e di marketing, al fine di ottenere strategie realizzate quale “prodotto” di una effettiva partecipazione multidisciplinare. Ne consegue un fattore sinergico – S – amplificatore dell’efficacia delle singole discipline.

Edificio di marketing, comunicazione e sviluppo

Il marketing umanistico considera necessaria per l’efficacia ottimale di una strategia di marketing,
la realizzazione, lo sviluppo e l’evoluzione costante di un olistico “edificio di marketing, comunicazione e sviluppo”, con alle fondamenta l’analisi delle necessità emotive-razionali-etiche dei vari stakeholder, con l’analisi e le motivazioni dei possibili gap da colmare tra le necessità e le soluzioni offerte dall’impresa e dai suoi brand, fino alla costruzione della strategia di sviluppo.
Al primo, e al secondo piano dell’edificio, vi saranno i programmi per obiettivi interni ed esterni, e al terzo piano i programmi per gli obiettivi di costruzione e sviluppo della “comunità di marca” quale parte “alta” della piramide di mercato, dalla quale dipende la massima quota di fatturato.

Profitto come “premio”

Il marketing umanistico contribuisce all’ottenimento del necessario e fondamentale profitto, da considerare come la logica conseguenza della capacità, per l’impresa e per i suoi brand, di soddisfare le necessità integrali emotive, razionali, etiche dell’essere umano-cliente, che offre così il proprio “premio”, acquistandoli con fedeltà. Obiettivo prioritario del marketing umanistico è dunque da considerare l’offerta di valore ai propri clienti e ai propri stakeholder, ovvero soluzioni concrete e documentabili, materiali e immateriali, che determinano la scelta di un prodotto o di un servizio, considerato come investimento sia economico sia esistenziale, per risolvere le necessità e migliorare la qualità della vita.

Informazione

Il marketing umanistico dedica grande importanza, oltre alle necessità emotive ed etiche, ai flussi costanti d’informazione razionale utile per gli stakeholder, basata su fatti e notizie documentabili. Questo non soltanto con l’intenzione di ottenere consenso dai propri pubblici, ma anche di mantenere e sviluppare con essi un dialogo e una relazione stabile e fiduciaria. I flussi informativi verranno adattati ai mezzi interni ed esterni nei tre piani dell’edificio di comunicazione e sviluppo, al fine di ottenere un valore riconosciuto.

Etica e responsabilità

Il marketing umanistico considera fondamentale il principio di responsabilità etica umana e sociale.
Eviterà quindi di creare strategie che non rispettino, ledano e offendano la dignità dell’essere
umano interno ed esterno all’impresa, e in particolare il più condizionabile pubblico dei minori.

Partecipazione

Per il marketing umanistico é determinante il rispetto dell’intelligenza e della “capacità attiva” di ogni singolo essere umano, considerandolo non un’entità da condizionare per un acquisto passivo come “consumatore”, ma come persona da stimolare per una reale e condivisa partecipazione alla missione dell’impresa, e a quanto questa propone per migliorare la qualità della vita.

Il bilancio sociale

Il marketing umanistico si inserisce nella prospettiva della funzione sociale dell’impresa e del bilancio sociale che l’impresa stessa offre ai propri pubblici. Considerando che le necessità delle persone-clienti sono emozionali, razionali ed etiche, per il marketing umanistico é sempre più determinante calarsi nella realtà dei propri clienti e stakeholder per rispondere a queste loro semplici domande:
• Questo marketing e questa comunicazione a cosa mi servono ?
• Come possono migliorare la qualità della mia vita?
Manifesto completo a questo link.




Il manifesto di Digidig

L’ALGORITMO COME TECNOLOGIA DI LIBERTÀ?

La pervasività della rete digitale, mentre ha accelerato l’esaurimento della  rivoluzione fordista, ha anche raccolto una irrefrenabile domanda di autonomia individuale che già (alla fine degli anni ’50) Adriano Olivetti intercettava quando definiva l’informatica come “tecnologia di libertà destinata a liberare l’uomo dalla fatica e dall’umiliazione del lavoro materiale”.
Una domanda di libertà che ha squassato codici professionali, gerarchie sociali ed economiche creando grande disorientamento, ma anche aprendo straordinari spazi di evoluzione per ogni progettualità individuale. Dal giornalismo alla finanza e alla medicina, dalla ricerca scientifica al governo della cosa pubblica e alle scelte di consumo individuali, la variabile che rompe equilibri e modifica comportamenti è un’inedita  possibilità di concorrere, condividere, controllare e partecipare ai processi decisionali – anche se a determinate condizioni di consapevolezza.
Le grandi corporation che oggi guidano i listini su tutti i principali mercati  del mondo quasi non esistevano solo 20 anni fa. Eppure oggi, nello zainetto di ogni giovane si trova un “bastone da maresciallo”: questa la grande differenza rispetto  al modello economico del ‘900. Ma quei gruppi, impugnando la bandiera della condivisione e del libero accesso alle risorse intellettuali, hanno paradossalmente costituito nuovi monopoli, che oltre a ridurre le opzioni e le alternative per ognuno di noi, concentrano con inusitata opacità ’tecnica’ la produzione di intelligenza.
Il tema che oggi ci sembra centrale riguarda la natura stessa del processo di riorganizzazione della vita sociale ed economica che prevalentemente ormai ruota attorno allo sviluppo e all’interscambio di prodotti cognitivi dell’intelligenza artificiale.
Nell’attuale fase che ci porta, grazie agli algoritmi, alla semplificazione delle procedure  digitali e all’automazione delle più delicate attività discrezionali, non crediamo accettabile che questo processo si realizzi senza trasparenza, informazione e partecipazione ai suoi dispositivi di funzionamento.
Se davvero, come affermano i loro creatori, dirigenti e proprietari, questi grandi gruppi sono ‘uno spazio pubblico’ – e noi crediamo che sia così – riteniamo che anche i loro meccanismi che producono linguaggi, strutturazioni sociali e influenze determinanti sulle scelte individuali, debbano essere intellegibili, condivisi, socialmente negoziabili ed integrabili.
Così come nella fase storica precedente, l’asimmetria nell’accesso e nell’organizzazione delle informazioni determinava uno squilibrio di poteri e di ricchezze, oggi la differenza nella capacità di riconoscere, modificare e integrare i sistemi intelligenti che formattano la nostra vita áltera, ma in proporzione infinitamente superiore, le condizioni di competizione economica e sociale.
Chiediamo con forza e determinazione che le imprese, le associazioni, le professioni e le istituzioni alle quali ciascuno di noi appartiene si rendano non soltanto pienamente consapevoli dell’impatto di questi soggetti digitali, ma agiscano per ridurre – anche e perché no? – insieme a loro, le distorsioni sui nuovi meccanismi e le nuove regole economiche, formative e relazionali.
Se la matematica è il linguaggio con il quale è possibile scrivere il libro della vita (Galileo Galilei), l’algoritmo (la formula che organizza azioni e processi che risolvano automaticamente un problema) ne è la sintassi contemporanea. Un ordine mentale ed espressivo che non può rimanere dominio esclusivo di poche e riservate élites o di organizzazioni chiuse.
DigiDig vi propone di condividere lo sforzo per aumentare consapevolezze e  competenze comuni per rendere più trasparenti, condivisi e adattabili forme e contenuti delle nuove potenze tecnologiche che ci circondano.
 
Visita il sito e scopri tutto sul progetto Digidig.




La Rai vara la sua Unità di Crisi. Gestirà i rapporti con i media in casi di emergenza

Il gruppo speciale verrà collocato dentro una mega Direzione che ora unirà comunicazione, relazioni esterne, istituzionali e internazionali. Giovanni Parapini a capo della struttura. Tra i dossier più sensibili, il rinnovo della Concessione, il tetto degli stipendi a 240 mila euro e l’inclusione di Viale Mazzini nel perimetro della Pubblica Amministrazione

Azienda molto amata ma anche assai contestata, la Rai si dota di una task force per gestire la comunicazione in caso di attacchi, critiche violente, difficoltà inattese. Questa speciale unità gestirà, dunque, la “comunicazione di crisi” cercando di spiegare le ragioni di Viale Mazzini ai siti Internet, alle televisioni, ai giornali e alle radio che stanno sparando a zero. Tra i suoi compiti anche frenare l’onda d’urto – a volte impressionante – che monta sui social network. Bruno Vespa sotto botta perché ha ospitato il figlio di Totò Riina; una bestemmia che passa sullo schermo durante il Capodanno; una trasmissione molto attesa, che fallisce negli ascolti. Casi come questi hanno impegnato la Rai in una strategia difensiva sul fronte caldo dei media. Da domani, questa strategia sarà – si immagina – più ragionata.
L’idea di mettere in piedi questa Unità di Crisi è di Giovanni Parapini, dirigente Rai tra i più vicini all’amministratore delegato Campo Dall’Orto. Parapini sistemerà il gruppo di lavoro per le emergenze dentro la sua Direzione, che cresce molto come perimetro d’azione. Il dirigente avrà sotto di sé la Comunicazione, ma anche le Relazioni esterne, ma anche le Relazioni istituzionali, ma anche le Relazioni internazionali. La concentrazione di competenze è del tutto inedita per Viale Mazzini e inaugura un modello coordinato che poche aziende hanno, almeno in Italia.
Questa Direzione, dunque, parlerà anche con la politica. Dovrà decifrare gli umori di Palazzo Chigi (e del premier Renzi). Ragionare con le correnti del Pd che non amano l’amministratore delegato Campo Dall’Orto. Tendere l’orecchio alle ragioni delle opposizioni. Rapportarsi con i due ministeri che hanno competenza sui fatti della Rai: l’Economia – che detiene il controllo azionario della televisione di Stato – e lo Sviluppo Economico, dove siede tra gli altri l’influente sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli.
Sul tavolo dei politici, ci sono già dossier delicatissimi. Serve ad esempio, e con urgenza, una norma salva-Rai. L’Istat ha appena incluso la tv di Stato dentro il perimetro della Pubblica Amministrazione su richiesta dell’istituto statistico europeo Eurostat. Viale Mazzini teme adesso di restare imbrigliata nella rete di vincoli che investono un ministero, una scuola, una Asl al momento di fare una gara d’appalto o di comprare un qualsiasi bene. Per scrollarsi di dosso la nuova etichetta di “ente statale”, la Rai ha bisogno di una legge ad hoc oppure di un decreto del Presidente del Consiglio. Cha va convinto a scriverlo.
Il ministero per lo Sviluppo Economico – altro dossier caldo – sta preparando la Concessione che assegnerà alla televisione pubblica il servizio radio tv per i prossimi dieci anni. Si tratta di un atto chiave per regolare i rapporti tra Viale Mazzini e lo Stato. Ma le grane sono anche altre: l’applicazione puntuale della par condicio in vista del referendum istituzionale; ad esempio; e così l’attuazione del nuovo tetto agli stipendi che il Parlamento fissa a 240 mila euro per dipendenti, collaboratori, consulenti della Rai.
Parapini ha reclutato molti uomini e donne con cui gestire la sua mega Direzione. Fabrizio Ferragni arriva dal Tg1, dove era vice direttore vicario, per tenere i rapporti (istituzionali) con i palazzi del potere. Simona Martorelli, già a Bruxelles, sarà l’ambasciatrice del servizio pubblico in campo internazionale. Il capo ufficio stampa Luigi Coldagelli guiderà ora il Media Office che, almeno in prima battuta, ospiterà l’Unità di Crisi per le emergenze (dove Celestina Pistillo sarà sentinella dell’area social network). Fabiana Cutrano, già capo staff a Rai Cinema, avrà le chiavi del patrimonio di marchi e brand della televisione pubblica.




Luca Poma sui "corpi digitali"

Corpi digitali Fanco Angeli editore

Corpi reali e corpi digitali: ogni giorno diventiamo a nostra insaputa merce sfruttabile senza limiti di forma e di tempo, rivendibili, capaci di sopravvivere alla nostra stessa morte. È la rivoluzione epocale del web che Luca Poma ci ha raccontato a partire dal suo nuovo libro “Il sex appeal dei corpi digitali”, edito da FrancoAngeli per la collana Neo
Cosa sono i corpi digitali e dove finisce la capacità di controllo che abbiamo del nostro corpo digitale?
Come scrive la giornalista RAI Silvia Rosa-Brusin nell’introduzione al libro, l’età digitale sta diffondendo una “malattia” di proporzioni bibliche, alla quale nessuno sembra poter sfuggire. Basta accendere un computer e intraprendere la più banale e innocente delle navigazioni: da quell’istante hai potenzialmente consegnato una parte di te stesso a un potere oscuro e a tratti smisurato che incomincia a impossessarsi di te, “tracciando” la tua personalità e incominciando a creare un simulacro che altri governeranno. E’ il “Corpo digitale”, un tuo doppione, attraverso il quale un potere che non conosci tenterà di usarti in ogni  modo. Ogni corpo reale che si avvale di mezzi di comunicazione digitale è già in fase di trasformazione in “Corpo digitale”: un nostro “io” in proprietà altrui, un’entità che non corrisponde semplicemente a noi stessi mentre navighiamo sul web, né alla sola traccia della nostra presenza sui Social Network e Digital Media. Quando parliamo di “Corpo Digitale” intendiamo la rappresentazione più estesa possibile e la ricostruzione digitalizzata di tutte informazioni che produciamo nelle nostre interazioni digitali, di qualsiasi tipo, costantemente aggiornate e archiviate in una miriade di piattaforme e database diversi, che fanno “golosamente” e bulimicamente propri i dati che ci appartengono, ma soprattutto “disegnano” i confini di chi noi siamo”. Spiati dunque da occhi misteriosi ad ogni passo online, dall’acquisto di un DVD ad un’eventuale sbirciatina a un sito “hard”, dalla comunicazione d’affari alla prenotazione turistica, dalla notizia sanitaria alla confidenza professionale: tutto serve, anche l’inezia, al Demiurgo fabbricatore del nostro “io digitale”, per catalogarci in archivi di dimensioni inimmaginabili, capaci di stipare un doppione d’umanità. Nell’immane magazzino, il Corpo digitale diventa a nostra insaputa merce sfruttabile senza limiti di forma e di tempo, rivendibile, capace di sopravvivere alla nostra stessa morte, a meno che un limite non venga fissato da regole, peraltro di là da venire.
Internet ha appena compiuto 25 anni e rappresenta una delle più grandi opportunità della nostra epoca. In che modo la Rete è diventata anche una “trappola”?
E’ nel contempo un’enorme opportunità, ma – è vero – anche una trappola, per gli effetti nefasti che può avere anche sulla nostra salute. Nel libro si affronta per la prima volta anche questo tema: l’influsso negativo che l’abuso del web – e segnatamente dei Social Network – può avere sull’equilibrio ormonale dell’individuo e financo sul suo patrimonio genetico, dal momento che l’eccesso di stress ambientale – e perché no, da Social – può danneggiare i filamenti di micro-RNA umano. Occorre quindi ritrovare equilibrio e consapevolezza nell’uso di questi potenti strumenti.
Lo scenario che descrivi ricorda il Grande Fratello di Orwell… è possibile sottrarsi a questa realtà?
Non è uno scenario irrimediabilmente nefasto. E’ come di fronte ad ogni rivoluzione epocale: nel corso della storia, e cito di nuovo la Rosa-Brusin – la moltiplicazione del potere di uno strumento ha creato bene e male in misura che nessuna bilancia potrà mai “pesare”, perché né il Bene né il Male hanno mai saputo o potuto amministrare per intero quello strumento. Al punto in cui siamo, scrivo nel libro, “con un piede nel mare digitale e l’altro ancora a riva, in preda alla vertigine, anche il più volenteroso ottimismo non ci concede che una risposta: non sappiamo. Siamo immigrati digitali, in parte diffidenti verso un mondo così nuovo, e comunque in preda alla corrente, che trasporta il barcone della nostra vita – reale e virtuale – verso continenti davvero sconosciuti, dei quali a malapena riusciamo a intravedere gli esatti confini.” Pagine come quelle di questo libro servono a farci aprire gli occhi, e a renderci collaboratori consapevoli di una salvezza. O di un’apocalisse.
(leggi l’intervista con la scheda del libro su: http://www.ferpi.it/quale-futuro-per-i-corpi-digitali/)
 
…e per i “palati più fini”,  la trascrizione del mio discorso dal titolo “LUHMANN E CORPI DIGITALI” pronunciato alla cerimonia di nomination dei premi “GrandesignEtico 2016”, a Milano, il 04 novembre 2016
 
 
Buongiorno a tutti. Denoto – a proposito del “vuoto quantistico” citato dal relatore che mi ha preceduto – come la sala si sia svuotata del 50% non appena abbiamo iniziato a parlare di cose più serie…
Come tutti sappiamo, il filosofo Niklas Luhmann è stato uno dei maggiori esponenti della sociologia tedesca del XX secolo. Luhmann applicò alla nostra società la teoria generale dei sistemi, che ebbe appunto un forte riscontro anche nel campo della filosofia, e “radicalizzò” il concetto di comunicazione, definendolo come unità o sintesi di tre parti: emissione, informazione e comprensione, quest’ultima intesa come osservazione della differenza generata dal confronto diretto delle due precedenti.
Interessante notare come secondo Luhmann, ogni sistema sociale si definisce sulla base esclusivamente della quantità e qualità dei flussi di comunicazione che costantemente lo attraversano, ma ci torneremo sopra tra poco.
Tra l’altro, il sistema sociale così inteso è anche autopoietico: il sistema “produce” e definisce continuamente se stesso, soggiacendo a una “chiusura operativa” che può rendere superflui input e output dall’esterno; si tratta quindi, ci ricorda l’enciclopedia online Wikipedia, di un sistema omeostatico in equilibrio, identificato dall’autonomia dell’ambiente esterno, al quale pure è correlato tramite i propri confini.
Il funzionamento dell’organismo umano ad esempio è basato su paradigmi autopoietici: in astratto, può definirsi a prescindere dall’ambiente che lo circonda in quanto gli elementi di base che lo compongono – le cellule, ad esempio – riproducono ricorsivamente gli elementi che producono essi stessi.
Un sistema autopoietico è in grado di discriminare tra cause interne e cause esterne, e di condizionare queste ultime, che lascia filtrare in modo che queste possano proseguire secondo le esigenze della propria autopoiesi; il sistema può dunque aprirsi selettivamente all’ambiente e può sviluppare una complessità propria, facendola evolvere in relazione alla complessità esterna, e mantenendo tale dislivello di complessità, se e finché ne è capace.
Infine, e anche questo è interessante, l’atto dell’osservazione da parte dell’Uomo modifica il sistema sociale stesso, in ragione del fatto che l’Uomo ne è parte integrante e non è un elemento esterno all’osservazione; non può quindi esistere un’osservazione “neutrale”, perché ogni atto osservativo modifica il sistema, e rende quindi necessario un nuovo atto osservativo per ridefinirne le variazioni, e via discorrendo potenzialmente all’infinito.
Potremmo quindi aggiungere che ogni atto comunicativo teso a definire il sistema di relazioni del quale facciamo parte modifichi il sistema stesso, rendendo necessaria una nuova comunicazione che lo ridefinisca, in un circolo senza fine…? Certo che si; ma qui volevo in realtà solo rappresentare la forza delle innovazioni di Luhmann, che era di fatto un “radicale”, non solo in ragione delle sue teorie, ma anche nel merito delle sue riflessioni di carattere più “politico”.
Ad esempio, Luhmann ce l’aveva con quelli che definiva i “preti laici”, ovvero coloro che all’interno del nostro sistema sociale predicano la necessità di “trovare la felicità”, “avvicinarsi al ciò che c’è di positivo”, “ricercare la sostenibilità”, eccetera. Luhmann non era infatti affatto certo che ciò fosse nella vera natura dell’Uomo, ma – al di là di ciò – sottolineava come questa attitudine generasse a volte “effetti indesiderati”: si pensi ad esempio alla virtuosissima casa farmaceutica che inventi una molecola in grado di aumentare significativamente l’aspettativa di vita dell’umanità, impattando però così – negativamente – sullo sfruttamento delle risorse naturali di ampie zone del pianeta, che sarà necessario depauperare per mantenere più persone più a lungo, generando quindi nuove tensioni, squilibri, guerre, etc.
Luhmann osservava poi come la democrazia fosse un’utopia, ovvero mera narrazione simbolica, narrazione che è tanto più efficace tanto più legittima il lavoro dell’oligarchia che è realmente al potere “sopra” di noi. Paradossalmente, se vi fosse quindi vera democrazia, essa “ucciderebbe” la reale governabilità del sistema, mettendo in crisi se stessa. Ecco quindi, aggiungo io, come i nuovi movimenti orizzontali di cittadini impegnati in politica per – a loro dire – risanare la cosa pubblica, potrebbero invece generare il collasso definitivo della cosa pubblica.
Ho citato questi due pensieri di Luhmann per evidenziare come noi si sia sempre alla perenne ricerca di “semplificazione”; la semplificazione è molto rassicurante. Ma le cose non sono mai come sembrano, e vengo al dunque del messaggio contenuto nel mio ultimo long-form dal titolo “Il sex-appeal dei Corpi Digitali”, nominato quest’oggi, che segue altri precedenti lavori sullo stesso filone. Sono due, le cose che volevo brevemente evidenziarvi.
Primo: basta con questa narrazione dei Social network come “arena di libertà”. E’ falso, sono raffinate operazioni di business che ben poco hanno degli spazi di libertà che ossessivamente evocano nella speranza di auto-definirsi agli occhi degli utenti, il che è dimostrato dalla continua e artificiosa manipolazione dell’algoritmo che ne regola il funzionamento, e del quale – come denuncia la straordinaria piattaforma collaborativa di dibattito e di proposta Digidig.it, lanciata recentemente online dall’inesauribile Toni Muzi Falconi – ignoriamo contorni, confini e meccanismi di implementazione e modifica.
Secondo: il tema della salute in relazione al digitale. Ci ostiniamo a ignorare dolosamente, o nella migliore delle ipotesi a sottostimare, gli effetti nefasti che la dipendenza da social e da digital genera nel nostro organismo vivente: proiettili di dopamina a ogni Like di altri su un nostro post di successo; produzione di ossitocina quando inseguiamo una nuova preda sentimentale online; eccessi di cortisolo a ogni insulto o litigio sul web; fino a vere e proprie – possibili – alterazioni del micro-RNA, in grado di traghettare le nostre ossessioni e le nostre reazioni negative all’ambiente virtuale fino alla terza generazione reale dopo di noi, attraverso il pregiudizio che la compulsiva e stressante fruizione dei social può arrecare al nostro patrimonio genetico.
Termino questo breve intervento assai inelegantemente, autocitandomi, dalle conclusioni del libro: “Come tutti sanno, il lusso più costoso nel mondo contemporaneo è avere tempo e conquistare spazio. L’artista Marcin Rusak per questo ha inventato un kit di sopravvivenza contenente: una bussola che indica direzioni a caso; un orologio che perde i minuti; una coperta per scaldarsi mentre cerchiamo di percorrere la strada verso l’illuminazione. Quindi, spegniamo i nostri device, ogni tanto, e ri-prendiamoci il tempo che ci appartiene”.