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Deepwater Horizon. Non fidatevi più di BP e delle altre aziende colpevoli


Dopo l’invito pubblicato sulla pagina Facebook di LifeGate, molti tra i cittadini più sensibili alle questioni ambientali saranno andati a vedere il Deepwater – Inferno sull’oceano, con Mark Wahlberg, Kurt Russel e John Malkovich. La trasposizione cinematografica – romanzata in alcuni dettagli dagli sceneggiatori di Hollywood, ma, nel suo impianto generale, aderente a quanto realmente accaduto ormai 6 anni fa – riporta con forza all’attenzione di tutti noi la tragedia della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, inabissatasi – anche a causa di evidenti negligenze da parte del personale incaricato della sorveglianza dell’impianto – il 22 aprile 2010 al largo della costa del Golfo del Messico: fu il più grande disastro marittimo della storia del pianeta Terra, con danni ambientali semplicemente incalcolabili, a causa dello sversamento nelle acque dell’oceano di oltre 700mila tonnellate di petrolio greggio.

I fatti del disastro della Deepwater Horizon

La piattaforma di perforazione era di proprietà della società Transocean, un’azienda di servizi petroliferi sotto contratto con l’inglese BP, British Petroleum, uno dei colossi mondiali dell’estrazione di petrolio e di commercializzazione di benzina per autotrazione. Come spiega bene il film, il 20 aprile 2010, mentre la Deepwater Horizon stava completando la perforazione del pozzo Macondo al largo della Louisiana, un’esplosione sulla piattaforma ha innescato un violentissimo incendio, che ha ucciso all’istante 11 operai, causando diverse decine di feriti. In seguito all’incendio, la flotta della BP ha tentato invano di spegnere le fiamme e di recuperare i superstiti. Nella pellicola – per esigenze cinematografiche – tutto avviene in una notte, ma ci vollero invece due giorni per vedere la piattaforma rovesciata, affondata e depositata sul fondale, profondo circa 400 metri: le valvole di sicurezza presenti all’imboccatura del pozzo sul fondale marino non funzionarono infatti correttamente, e il petrolio – spinto dalla pressione del giacimento petrolifero – iniziò a fuoriuscire senza controllo. Tutti i tentativi di bloccare la “marea nera” fallirono: BP riuscì ad arginare il problema solo dopo 3 lunghi mesi. Co-responsabile del disastro, la multinazionale americana Halliburton, gruppo statunitense che opera in 120 paesi, specializzato nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi, strettamente legato all’ex vicepresidente degli Stati Uniti mr. Dick Cheney, più volte accusato nel corso del suo mandato di aver “favorito l’azienda della quale è stato presidente e amministratore delegato”. Il pozzo era stato infatti costruito con la collaborazione appunto della Halliburton, che aveva curato la predisposizione della struttura di cemento che rivestiva il pozzo, il cui “collasso” – secondo quanto emerso dalle ricostruzioni giudiziarie – è stato uno dei motivi principali che hanno causato il disastro.

I danni

Gli effetti negativi sull’ambiente, sulla fauna e la flora marina, sono stati dichiarati “incalcolabili”. Ma anche per l’uomo vi sono – e vi saranno – conseguenze: intensificazione delle malattie respiratorie e delle patologie della pelle, e soprattutto aumento dell’incidenza di tumori e aumenti statistici degli aborti spontanei, a causa del petrolio e delle sostanze chimiche rilasciate sul luogo del disastro per disperdere il greggio, che contamineranno la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria e orale, soprattutto come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare.

La vicenda giudiziaria

Nel 2012 la BP ha raggiunto un accordo con il dipartimento di Giustizia statunitense per il pagamento di una penale di 4,5 miliardi di dollari, dichiarandosi colpevole di undici capi d’accusa per negligenza o colpa grave. Il 2 luglio 2015, inoltre, gli stati americani colpiti dal disastro hanno raggiunto un accordo con la BP sui danni ambientali provocati dall’incidente, a seguito del quale la multinazionale dovrà risarcire circa 18,7 miliardi di dollari nell’arco di 18 anni.

Gli aspetti etici

Gli “agenti disperdenti” – fra i quali il prodotto commercializzato come “Corexit”, una sostanza chimica utilizzata per disperdere gli idrocarburi in parti più piccole e farli precipitare sul fondale del mare – hanno consentito di“nascondere” la marea nera: queste sostanze tuttavia non hanno ridotto la quantità di greggio, ma l’hanno solo “nascosta alla vista”, a oltre 1.600 metri di profondità, dove continua a esercitare i suoi effetti nefasti sulla catena alimentare, a tutti i livelli, Uomo compreso. Ai primi di luglio 2010 venne denunciato mediante un video che alcune spiagge inquinate dal petrolio non erano state ripulite come promesso dalla BP, bensì solamente ricoperte con sabbia pulita al fine di nascondere l’inquinamento. Inoltre BP durante il procedimento giudiziario si è dichiarata colpevole del capo d’accusa di “ostruzione al Congresso”, a seguito delle evidenti reticenze di diversi suoi alti dirigenti nel collaborare con trasparenza alle indagini. La Halliburton, infine, co-imputata con la Bp, ha anche ammesso di aver intenzionalmente distrutto delle prove chiave dopo il disastro.

Il fattore “fiducia”

Qualche anno prima del disastro, la BP modificò il proprio slogan rinominandolo in “Beyond Petroleum”, ovvero “al di là del petrolio”, facendo anche un rebranding del suo famoso “scudo verde”, modificandolo nel simbolo dell’elio, una specie di margherita con dei raggi verdi e gialli, per enfatizzare il focus aziendale sull’ambiente e sulle fonti di energia rinnovabili. La società – nel decennio tra il 2000 e il 2010 – fu molto attiva sul fronte della responsabilità sociale, partecipando a diversi concorsi e venendo anche ben classificata in ranking internazionali importanti sul fronte ambientale. Per contro, il risultato delle varie commissioni d’inchiesta sul caso fu unanime: alla base del disastro, c’è stato il malfunzionamento di un sistema di sicurezza di un impianto del tutto inadeguato, malfunzionamento causato da una strategia di sistematica e miope riduzione dei costi. In base ad alcune inchieste giornalistiche pubblicate all’epoca dell’incidente, pare che l’importo della spesa per manutenzione non eseguita su alcuni componenti chiave della piattaforma fosse di poche centinaia di migliaia di dollari: è appena utile ricordare ad azionisti e manager che oggi BP capitalizza all’incirca la metà di quello che valeva in Borsa il giorno del disastro. È difficile farsi una ragione dell’arroganza e supponenza di un sistema industriale “a doppio binario”, che da un lato massimizza in modo sfacciato l’impatto pubblicitario delle proprie politiche “green” ed ecosostenibili, e dall’altro – contemporaneamente e schizofrenicamente – per risparmiare misere somme di denaro causa danni incalcolabili di lungo periodo all’ecosistema e all’Uomo. Sul sito della Bp dedicato alla responsabilità sociale si legge tuttora che l’azienda “lavora per evitare, mitigare e minimizzare gli impatti ambientali in tutti gli scenari in cui opera”: dovremmo crederci…? È la medesima cosa – identica – che sostenevano prima del disastro della Deepwater Horizon. Quante altre aziende tra queste stanno mentendo consapevolmente, in attesa del prossimo disastro?




Stili di vita attivi e ambiente: Persone e Pianeta al centro delle politiche Ferrero

Innovazione, cura delle persone, sostegno alle comunità locali, promozione di stili di vita attivi tra giovani e famiglie, pratiche agricole sostenibili e salvaguardia dell’ambiente: sono gli elementi chiave della responsabilità sociale d’impresa della Ferrero.

Un impegno riassunto in due parole ‘Persone e Pianeta’, i due pilastri della sostenibilità, e descritto nel dettaglio nel VII Rapporto di responsabilità sociale d’impresa (Csr) presentato nella Sala delle Statue di Palazzo Rospigliosi, a Roma. Un’occasione per festeggiare anche i 70 anni dell’azienda, nata ad Alba nel 1946.

Ecco i numeri delle attività di sostenibilità sociale e ambientale realizzate dal Gruppo nel mondo tra il 1° settembre 2014 e il 31 agosto 2015. Al centro, dunque, cura delle ‘Persone’ ovvero – si legge nel report – attenzione ai consumatori che si declina con la scelta delle migliori materie prime, continua innovazione, piccole porzioni (80% dei prodotti sotto 130 kcal; apporto calorico per porzione di 100 Kcal) e, nel complesso, un’alta qualità dei prodotti. Oltre alla promozione di stili di vita attivi con l’inizitiva ‘Kinder+Sport’: 4,1 milioni i bambini messi in ‘movimento’ in 25 Paesi con un investimento di 10,6 mln di euro e 3.105 eventi organizzati.
‘Persone’ come anche i dipendenti e gli ex dipendenti del Gruppo, le loro famiglie, oltre alle comunità in cui Ferrero è presente. A questo scopo, l’azienda promuove diverse iniziative attraverso la Fondazione Ferrero e il progetto imprenditoriale Michele Ferrero attivo in Africa ed Asia.

Qualche numero: 40.721 collaboratori (al 31 agosto 2015), +19% rispetto allo scorso anno di cui 42,4% donne, 71,8% dei dipendenti a tempo indeterminato; 394.957 ore di formazione nella Ferrero University; +3.500 ex collaboratori e coniugi serviti dalla Fondazione Ferrero con 40 gruppi di attività, 580 visite mediche svolte 2015; 4.330 collaboratori del progetto Imprenditoriale Michele Ferrero.
L’azienda è anche impegnata nello sviluppo di pratiche agricole sostenibili e nel minimizzare il proprio impatto ambientale attraverso i progetti F-Acts (Ferrero Agricultural Commitment to Sustainability) e Fer Way (Ferrero Environmental Responsibility Way). Oltre alla nuova partnership con Save the Children, volta a rendere ancora più concreto l’impegno del Gruppo per la tutela dei diritti dei bambini nella filiera del cacao in Costa d’Avorio.
Ecco i numeri della sostenibilità ambientale: 100% olio di palma sostenibile certificato; 44% cacao certificato sostenibile; +22% potenza installata proveniente da fonti rinnovabili; 36% materiale riciclato negli imballaggi; 91,6% rifiuti recuperati; 100% di uova da galline allevate a terra in Europa.
Nel testo di introduzione al rapporto, il ceo Giovanni Ferrero ha ricordato: “Essere un Gruppo globale non ci impedisce di agire localmente mantenendo così il forte legame con le Persone e il territorio in cui operiamo. Ciò è dimostrato anche da una particolare attenzione alla mitigazione del cambiamento climatico: a settembre 2014 il gruppo Ferrero ha sottoscritto un accordo che prevede come obiettivo di dimezzare la deforestazione entro il 2020 e di bloccarla definitivamente entro il 2030”.
Videopillole nell’articolo originale




Marino Golinelli: “La mia fede laica: restituire la fortuna che ho ricevuto”

Ha investito 80 milioni per spingere i ragazzi a trovare le proprie passioni e aiutarli a realizzarle

Le parole che ricorrono più spesso nelle frasi di Marino Golinelli sono domani e futuro. Insolito per una persona di 95 anni. Giacca alla coreana, fazzoletto rosa, quest’industriale farmaceutico, fondatore di un gruppo che fattura 900 milioni con quasi tremila dipendenti, è una sfida ai luoghi comuni. Pochi avrebbero potuto immaginare che il figlio di un contadino, uno che nel dopoguerra comprava lo zucchero al mercato nero per confezionare sciroppi e poi li portava alle farmacie in bici cercando di non far cadere la damigiana, quasi 70 anni dopo sarebbe stato qui.
Siamo in un ufficio vetrato nella zona industriale di Bologna, sospeso sopra l’opificio Golinelli, un laboratorio della conoscenza di novemila metri quadri, che da oggi sarà pieno di ragazzi. Il luogo scelto da questo imprenditore per restituire la fortuna ricevuta, con un investimento di oltre 80 milioni di euro.
Golinelli, perché tutto questo?  
«Per fornire ai giovani dai 18 mesi ai 35 anni strumenti per la conoscenza. Vogliamo prepararli alla società che noi non possiamo neppure immaginare».
Avete chiamato questa sede opificio, un nome che sa di passato, di manualità.  
«La dimensione del fare è fondamentale per capire. Partiamo dal passato per immaginare il futuro. Tutte le domande della cultura, in ogni tempo, alla fine si misurano con un perché. Perché facciamo, perché siamo a questo mondo?»
Già, perché?  
«Siamo qui per formare le persone che costruiranno il rinascimento del paese. Cosa posso fare per restituire alla società quel che ho avuto?»
Come mai questa domanda?  
«Ho avuto la fortuna di avvicinarmi al mondo della scienza. Ero un ragazzo amorfo, non di particolare intelligenza a livello scolastico. Per caso a 16 anni ho trovato un libro sulla teoria atomica di Niels Bohr. Da qui è nata la mia passione, l’impresa. Credo che queste potenzialità le abbiano tutti i ragazzi. Credo nell’uomo».
È religioso?  
«Sono un evoluzionista, penso finiremo per essere pietra. Ma questo aumenta la nostra responsabilità di lasciare come testamento qualcosa per gli altri. La creatività è in tutti, va liberata e fatta crescere attraverso la preparazione. Quel che noi lasciamo segnerà l’evoluzione culturale. Ripeto: ho fiducia nell’uomo».
Come ha trovato questa fede laica? 
«Oggi guardo la società che ho fondato, Alfa Wassermann, e vedo un’azienda internazionale. Ma molte volte ho rischiato di fallire. Se ho continuato è perché credo. Mi ripeto spesso una frase: opera come se Dio ci fosse».
Oltre che di scienza, lei è appassionato d’arte.  
«Molto. Vedo l’artista come un ricercatore della società, in questo non è diverso da uno scienziato. Anzi spesso l’estetica individua prima i bisogni del futuro. L’arte per me è un modo per capire il mondo. Ma non sono un collezionista, tantomeno un mecenate».
Non le piace la parola?  
«Il mecenate è una persona che ha mezzi e fa cose molto belle, ma sempre donando, con un’idea di sussidiarietà, si tratti di un restauro o di un macchinario per un ospedale. Mi sento un filantropo, uno che ama l’uomo, crea, ragiona su un piano operativo, costruendo cose che resistano nel tempo. È per questo che è nata la fondazione Golinelli. Sono danari miei, non dell’azienda. Per rendere quel che ho ricevuto».
Nel nostro paese non è comune.
«Infatti non vado d’accordo con i colleghi imprenditori».
Come mai?
«Pochi, forse il 10 o il 20 per cento, hanno il concetto della responsabilità sociale».
I nvece stare in mezzo ai ragazzi le piace.
«È una bella energia passeggiare con loro. A volte si perdono per responsabilità dei genitori, che non sono culturalmente preparati. Ma ce ne sono moltissimi in gamba. Purtroppo viviamo in un ambiente corrotto. Il nostro è un paese con poca cultura e molta corruzione».
Perché?  
«Si pecca. Poi una misericordia, un pater, un’ave e un gloria, ed è tutto perdonato».
Ci frega la confessione?
«In qualche modo. E il benessere non sempre aiuta. Chi nasce povero ha una marcia in più».
A proposito di frugalità: è vero che non ha la macchina?  
«Nemmeno la casa».
Cioè?  
«Vivo in affitto. Avere case comporta solo gran confusioni ereditarie».
Ma i suoi figli hanno capito? 
«Sì, e non è stato difficile spiegarglielo, conoscono bene le mie idee».
Cosa dice ai ragazzi che incontra per motivarli?  
«Spesso scambiamo gli agi per diritti, scordiamo le responsabilità verso gli altri. Il mio modo per spronarli è stato far nascere tutto questo. Bisogna insegnare loro la passione, si tratti di correre in bici o di fare impresa. Abituarli a cercare la propria luce».
Segue ancora l’azienda?  
«Certo (e mostra la trimestrale ndr)».
Che rapporto ha con la tecnologia? 
«C’è il timore che schiacci l’uomo, ma non sarà così. Dico spesso una frase di papa Francesco: “Non abbiate paura”».
Francesco, Dio: la religione è una presenza continua.  
«Non la religione, l’etica. Le religioni sono necessarie perché ancora la cultura non basta a far capire a un uomo di non aver paura della morte. Si parla così poco della morte, non la insegnano neppure agli studenti di medicina. E come possono curare bene i malati?»
Ha paura della morte?
«Un po’ sì, ma cerco di rimediare con un dovere: pensare a quel che lascio ai giovani. La formazione, la cultura.
Se ne avesse uno qui, ora, che precetto gli impartirebbe?  
«Credi. E fai, come ho fatto io».




Simposio Medicine Non Convenzionali

Appena svolto a Roma, in una sala del Senato, un importante Simposio delle medicine Non Convenzionali e Complementari. L’intervista è un’occasione per sentire come è andata.
Ascolta l’audio:




Il consumatore conta più dell’elettore: perché il caso Foodora è una piccola rivoluzione

Appellarsi ai consumatori, non alla politica: questa la scelta dei lavoratori sottopagati del colosso tedesco per la consegna di cibo online. Una scelta che dimostra come ormai si voti anche con la carta di credito. E che il potere del consumatore è enorme, se impara a usarlo

Oggi non si vota più solo nelle cabine elettorali. E forse non è solo l’indifferenza ad aver svuotato di senso le elezioni e le istituzioni democratiche. È anche la fine di un monopolio. Perché oggi si vota pure coi piedi, andandosene, cercando un Paese a misura delle proprie ambizioni e delle proprie necessità, perlomeno fino a che sarà consentito farlo. E si vota pure con la carta di credito – o col portafoglio, se preferite, come dice l’economista Leonardo Becchetti – comprando beni e servizi che rispondano ai propri valori, al bisogno di costruire una relazione attraverso l’acquisto, al sentirsi parte di una comunità.
Aria fritta? Forse. Ma con ogni probabilità oggi non esisterebbe Eataly se non ci fosse stata alle spalle una comunità come Slow Food, in grado di canonizzare un sistema di valori che è penetrato persino in una multinazionale come McDonald’s, cambiandone il modello di business. E le stesse realtà selezionate e presentate al Festival delle Comunità del Cambiamento promosso da Rena a Milano, raccontano proprio questo: che oggi per stare sulla frontiera dell’innovazione l’impresa – come dicono chiaramente economisti quali Stefano Micelli e Paolo Venturi – deve essere anche un attore sociale, ibrido, capace di costruire relazioni oltre che prodotti.
In altre parole, deve imparare a caricarsi sulle spalle il cambiamento della propria comunità di riferimento. Dal Laboratorio Creativo Geppetto, che offre soluzioni IoT alle imprese artigiane, a Maam – acronimo di “maternity as a master”, la maternità è un master: a proposito di #fertilityday – che propone alle grandi aziende percorsi di reinserimento ed empowerment professionale alle mamme lavoratrici. Da Eattiamo, che spedisce box di prodotti alimentari italiani, per promuovere il cibo made in Italy di qualità in America, al Progetto Quid, un marchio di moda che nasce da tessuti di qualità del miglior Made in Italy recuperati localmente per mano di donne con un passato di fragilità.
Il sottotesto politico non è banale: in quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Pensate al danno reputazionale per la Barilla dopo le frasi dell’amministratore delegato in difesa della famiglia tradizionale, ai guai che l’azienda ha dovuto sopportare per una protesta estemporanea, non certo organizzata. Pensate cosa potrebbe accadere se questo potere venisse compreso e utilizzato fino in fondo dai consumatori per promuovere o bocciare un marchio o un prodotto che non rispetta l’ambiente, i suoi lavoratori, i territori in cui opera.

In quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Il caso Foodora ne è l’esempio

Il caso Foodora, in qualche modo, rappresenta un ulteriore passo in avanti, perlomeno in Italia, nell’acquisizione, di tale consapevolezza. Difficile non conosciate l’azienda tedesca, leader di mercato nella consegna di cibo a domicilio, o che mai abbiate incrociato uno dei suoi ciclisti in giacca fucsia. Succede che alcuni di loro, segnatamente quelli che lavorano a Torino, decidano di incrociare le braccia. Hanno tempi di consegna strettissimi e per rispettarli – e non essere “disattivati” – sono costretti a prendersi un bel po’ di rischi. Devono metterci loro bicicletta, telefono e pure il casco. Sono pagati malissimo, 2,70 euro a consegna – valore complessivo della startup: 3 miliardi di dollari, per la cronaca. E se qualcuno protesta, viene messo alla porta senza troppi complimenti.
Fino a qualche anno fa, o in altri contesti, la cosa sarebbe passata sotto silenzio. Oggi non più. Oggi di fronte ai numeri da capogiro dell’azienda tedesca non fa nemmeno sorridere la patetica – e pure un bel po’ ipocrita – giustificazione dei suoi amministratori italiani, che raccontano che lavorare per Fooodora sia «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio», come se sotto questa patina buonista in salsa sharing economy non si celi un rapporto di lavoro para-subordinato e per giunta sottopagato. E dietro quella disponibilità ad «ascoltare i ragazzi», non collettivamente ma «face to face» non si nasconda un tentativo nemmeno troppo velato di intimidazione.
Nel Paese della disoccupazione giovanile al 40%, della fuga dei cervelli e del record di giovani che né studiano né lavorano, il loro sciopero fa rumore, così come la loro campagna di boicottaggio dell’azienda per cui lavorano. Non è la prima volta che accade nel mondo – negli Usa la class action degli ex-autisti contro Uber ha fatto molto rumore – ma è il segnale di una nuova consapevolezza dei lavoratori. Magari sarà una bolla di sapone, ma finalmente hanno capito che per contare qualcosa devono rivolgersi al consumatore, non al parlamentare o al ministro. Di una cosa però siamo certi: c’è molta più politica qui che in tutta la campagna referendaria o in quella per eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America.