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Nelle aziende italiane dipendenti poco coinvolti: le scelte sbagliate che riducono engagement e motivazione

L’engagement dei collaboratori è un fattore di successo per le aziende: ha conseguenze positive su redditività, soddisfazione dei clienti, innovazione, costruzione dei brand e gestione delle crisi. E tuttavia il livello medio dell’engagement dei collaboratori delle grandi aziende italiane è di 3,5 su una scala da 1 a 5: un dato che indica che c’è ancora molto da fare nel nostro paese, soprattutto perché più coinvolgimento significa più motivazione e, quindi maggiore produttività.
Questo, in sintesi, è ciò che emerge dalla prima indagine scientifica sul tema dell’engagement in azienda mai condotta in Italia: realizzata dall’Università IULM, la ricerca ha coinvolto un campione di 375 imprese rappresentativo delle aziende italiane con più di 500 dipendenti per valutare se e come i dipendenti vengono motivati attraverso strategie e azioni di “coinvolgimento” attivo nella vita dell’azienda.
I risultati peggiori nelle aziende di proprietà italiana
“I risultati”, dice Alessandra Mazzei, responsabile scientifico del Working Group Employee Communication dello IULM, “indicano che nelle grandi aziende italiane il livello di engagement è appena sufficiente e peggiora nelle aziende di proprietà italiana, quelle che adottano strategie di riduzione dei costi, che operano solo a livello nazionale e che non sono quotate”. Come a dire, spiega, che la maggiore competizione induce le aziende a prendersi più cura dei propri collaboratori.
Le cause del “disengagement”
“Il disengagement”, prosegue la Mazzei, “cresce quando le relazioni con i collaboratori sono trascurate, la gestione delle risorse umane non valorizza talenti e aspettative ed esiste in azienda un diffuso senso di ingiustizia organizzativa. Tra le principali cause del disengagement ci sono inoltre l’incoerenza e l’arroganza del management, tema questo che chiama in causa in primo luogo i vertici aziendali”.
Cosa si intende con coinvolgimento
Ma cosa si intende esattamente con “engagement”? La prima criticità emerge già in questa prima definizione: l’indagine è stata condotta sui manager che si occupano specificatamente di favorire il coinvolgimento dei collaboratori, i quali ritengono che la componente più importante dell’engagement sia la connessione psicologica ed emozionale del dipendente con l’azienda e i suoi valori. Invece, dicono i ricercatori, gli studi scientifici hanno evidenziato che l’engagement è rilevante se genera nel dipendente comportamenti proattivi, cioè motivazione ad azioni per contribuire concretamente al successo dell’azienda.
Il ruolo della comunicazione (incluse le convention) 
Secondo gli intervistati, l’engagement si genera principalmente attraverso due strumenti: la comunicazione e la gestione organizzativa delle risorse umane. In termini di comunicazione interna, le pratiche ritenute più importanti sono la comunicazione a cascata (cioè quella top-down, che parte dai vertici e arriva a tutti i collaboratori) e le convention, seguite da strumenti quali newsletter, blog e email. Da sola la comunicazione interna non è però una leva sufficiente per coinvolgere le persone: entra quindi in gioco il ruolo dei capi diretti con temi quali il dialogo manager-collaboratori, i gruppi di progetto, le conversazioni informali per raccogliere il feedback dei collaboratori. In particolare, lo studio ha indagato le pratiche volte a creare un clima di comunicazione aperta che stimoli i collaboratori a suggerire nuove idee, esprimere critiche costruttive e segnalare fatti controversi, e i manager hanno evidenziato la rilevanza della politica della “porta aperta” e delle policy che proteggono i collaboratori da ritorsioni e discriminazioni. Sono considerati invece poco rilevanti, ai fini dell’engagement, i social media interni.
Welfare aziendale e smart working considerati poco efficaci
Per quanto riguarda la gestione delle risorse umane, le pratiche che le aziende considerano più efficaci per generare engagement sono job rotation e mobilità orizzontale (cioè spostare periodicamente i dipendenti in settori diversi a parità di retribuzione), il job posting interno e la formazione per lo sviluppo delle competenze personali. Elementi più innovativi di welfare aziendale, quali convenzioni per servizi alla persona, palestre aziendali, offerte per la famiglia sono invece considerati poco importanti ai fini motivazionali. E ancor meno lo sono, secondo le aziende, lo smart working, le iniziative di corporate social responsibility che coinvolgono i collaboratori e i programmi di diversity management




Buondì Motta, prove tecniche di rilancio grazie agli spot corrosivi

Anche male, purchè se ne parli, diceva un politico della Prima Repubblica. Ma – come dimostra il celeberrimo caso che ha fatto scuola nelle digital pr di Eni vs. Report – oggi la reputazione vale invece, almeno, tanto quanto la notorietà. Sulla notorietà riservata allo spot del Buondì Motta non ci è dubbio, vista l’eco mediatica ricevuta che sembrerebbe confermare che l’advertising è efficace quando è in grado di affrontare la sfida di stupire utilizzando armi non convenzionali (o quasi). Il dibattito resta tuttavia aperto sulla sua effettiva efficacia.
Il caso della mamma colpita dall’asteroide – o meteorite, dubbio che ha alimentato la discussione in rete sullo spot – al termine della pubblicità della merendina, è diventato in poco tempo argomento di discussione e condivisione sui social media, fino a scalare la classifica dei trending topics, ottenere oltre 1,6 milioni di visualizzazioni su Youtube in una settimana, per essere infine analizzato e scandagliato dalla carta stampata, che ha messo in campo fior di critici di comunicazione e costume a interrogarsi sull’opportunità dello spot.
Eh sì perchè – per chi non avesse visto il video – la pubblicità ha fatto notizia proprio per questo: per l’asteroide che colpisce e la mamma (poi anche il papà) che rispondendo alla richiesta della figlia di una colazione «che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità», risponde: «Non esiste una colazione così, cara. Possa un asteroide colpirmi se esiste». L’arrivo dell’asteroide – o meteorite – infuocato a incenerire la mamma viene replicato nel sequel dello spot in cui appare il padre, anch’egli colpito e affondato dal corpo infuocato.
Chiaramente in molti hanno calcato l’accento sull’aspetto più divisivo dello spot, ossia sull’“uccisione” della mamma da parte dell’asteroide: entrando così nel loop della pubblicità provocatoria, alimentandone l’effetto e l’efficacia oltre gli spazi adv acquistati presso i broadcaster tv.
Se molti hanno interpellato esperti, massmediologi, docenti universitari e gli stessi copy che hanno lavorato alla campagna pubblicitaria, pochi hanno monitorato la risposta del pubblico alla “provocazione” Motta. Almeno sulle piattaforme social, analizzate invece da Datamediahub che in questi giorni è andata ad analizzarei i commenti pubblicati dagli utenti di Facebook e Twitter. Pier Luca Santoro e Pierluigi Vitale di Datamediahub hanno processato circa 5500 commenti raggruppandoli in in quattro principali topic di discussioni sullo spot.
Il primo, caratterizzato dall’ironia, ha raccolto circa i due terzi dei commenti, il 64,3% per la precisione. «Sicuramente – dicono i ricercatori – in questo topic si dividono le posizioni pro-contro ma, a dire il vero, sono più i complimenti e l’invito [agli altri] ad accettare l’ironia, che altro».
Da rilevare come la seconda tipologia di commenti sia caratterizzata dall’auspicio che l’asteroide colpisca la bambina, in una sorta di sfogo iconoclasta mascherata da nemesi stessa dell’iperbole del messaggio pubblicitario. Un topic, questo, che raccoglie i commenti di chi ritiene fastidiosa l’immagina della bambina che presenta petulante alla madre una richiesta con un linguaggio davvero poco infantile («Vorrei una colazione leggera ma decisamente invitante, che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità»). Che non a caso è stata accomunata a uno dei classici social “Le frasi di Osho”, ossia espressioni banali e di uso comune espresse fuori contesto. I tifosi dell’asteroide hanno mobilitato il 19,2% dei commenti, uno su cinque.
Rilevanza inferiore, circa il 10%, l’ottiene il cluster che raccoglie i commenti che sottolineano il lato violento dello spot: «Una buona quota di commentatori – dicono Santoro e Vitale – fa riferimento a diversi prodotti decisamente in voga, dal più recente Game of Thrones ai sempre verdi Tom & Jerry e Willy il Coyote. Si tratta inevitabilmente di un modo per porre in evidenza come la tv abbia dei precedenti, quotati e di successo, di format deliberatamente violenti che non suscitano esattamente lo stesso tipo di reazioni indignate. In particolar modo, nel caso di Tom&Gerry e Wile E. Coyote, parliamo di cartoni animati e quindi, a differenza di Game of Thrones, rivolti a un pubblico non adulto». Non supera il 7% il numero dei commenti che sottolineano l’immagine da famiglia da Mulino Bianco dello spot.
In effetti il meccanismo della campagna del Buondì Motta è molto semplice e tradizionale, analogo a quello dell’uomo in ammollo con il suo claim storico: «Non esiste sporco impossibile» e ci inventiamo un modo estremo per proporvelo. Che sia un detersivo o una merendina poco cambia: l’importante è focalizzare l’attenzione del pubblico verso il punto di fuga: ecco il prodotto che esaudisce il più impossibile dei desideri. Un obiettivo assolutamente coerente con l’obiettivo di rilanciare lo storico marchio del Buondì Motta, dopo che negli ultimi decenni la casa dolciaria è passata più volte di mano, prima di essere rilevata da Bauli.
Con un cote in questo caso un po’ inquietante: il desiderio del bambino può essere esaudito dal dio consumo, più e meglio di quanto i genitori – inadeguati, scettici e per questo colpiti d’asteroide – possano fare. D’altronde la forza della procovazione, com’è noto, travalica l’ambito pubblicitario se si pensa all’offerta (supposta) seria di Carpisa che annuncia il sorteggi tra i propri clienti di uno stage di sei mesi per elaborare un piano di comunicazione per l’azienda. Che in questo caso, per ottenere visibilità, ha anche risparmiato sui costi della campagna pubblicitaria.
 




GUCCI sceglie i meme per parlare ai millennials

Due dei giovani creativi che hanno collaborato con Gucci ci raccontano in un’intervista com’è lavorare su un social network

Baselworld. Siamo al Salone Mondiale dell’Orologeria e della Gioielleria, praticamente la mecca per chi ogni anno ha voglia di scoprire le nuove proposte del lusso di settore. L’orologio è uno di quegli accessori che meglio è stato assorbito dagli smartphones, ma non per questo destinato a diventare obsoleto visto che al passaggio analogico > digitale > multifunzionale sta rispondendo piuttosto bene. Senza dubbio, mai come adesso, è da considerare un oggetto più ornamentale che utile. E qui subentra la moda.
Da quando Alessandro Michele è arrivato a Gucci è riuscito a costruire un immaginario personalissimo, fatto di viaggi esotici e antropologici, di mondi magici e immaginari. Uno stile vintage pensato con un’attitudine sempre e comunque contemporanea. La sua forza sta proprio nel saper giocare col tempo: da una parte uno sguardo al passato e l’altro riflesso nello schermo di un telefono a guardare oltre. Banale? Ma non è forse l’unico modo per parlare oggi ai giovani?
Il popolo di Instagram e la moda hanno un’esigenza in comune: vogliono entrambi presentarsi sempre al meglio. I meme sono immagini che riassumono situazioni o sensazioni che stiamo vivendo, nonché una delle tendenze più forti dei social; un’ossessione che ci vede tutti coinvolti nel mandarci quotidianamente DM. Per la presentazione del suo ultimo orologio, Gucci ha scelto proprio questo linguaggio, invitando artisti e meme creator a collaborare insieme. A riunire il progetto è l’hashtag #TFWGucci (“That Feel When” – quella sensazione che si prova quando).
Per un giorno abbiamo avuto modo di conoscere dal vivo queste persone, che quotidianamente si interfacciano con migliaia o milioni di utenti, anche se in maniera del tutto virtuale. Il loro è un lavoro di ricerca e di copying a tutti gli effetti; lavorano sempre, lavorano ovunque, talvolta part-time e su FaceTime, quando sono un duo. Molti di loro ci tengono a tenere privata la loro identità anagrafica, ma con un paio siamo riusciti a fare due chiacchiere.

Ps.
lallo25, l’Instagram di Alessandro Michele, spacca!

Olaf Breuning
Olafbreuning

Chi è un meme creator?
Sinceramente, prima di fare questo meme su Gucci non ne avevo idea. Sì, ne avevo visti diversi sui social, ma non sapevo che fossero un fenomeno vero e proprio. Sapevo però che il concetto di “meme” è stato creato da Richard Dawkins, ma credo che neanche lui pensasse che sarebbe diventato così conosciuto su internet.
Prova a descrivere il tuo lavoro con un cliché…
Sono un artista contemporaneo, con tutti i cliché che comporta, tipo dormire troppo e non farsi la barba.
Quanto tempo passi su Instagram ogni giorno? Lavori da solo o c’è qualcuno che ti aiuta?
Pubblico una o due foto a settimana, quando vedo una faccia. Non voglio forzare i miei ritmi, deve essere naturale. Ma, come ogni giovane adulto dipendente dall’iphone che si rispetti, controllo ogni giorno quello che pubblicano gli altri. Non seguo troppe persone, quindi comunque non mi porta via troppo tempo.
I tuoi follower sono più di 63k: quali sono i messaggi privati più strani che hai ricevuto?
Adoro quando la gente mi scrive ‘non vedo la faccia!’ e io penso: ‘ma fai sul serio?’ I miei volti sono estremamente semplici, ma sì, esiste chi neanche li vede nelle foto!
Prima di Gucci hai già lavorato a collaborazioni con altri brand?
Sì, negli ultimi dieci anni ho collaborato con diversi marchi di moda, sia grandi che piccoli. In quanto artista, trovo sempre rigenerante interfacciarmi con persone che non fanno parte del mondo dell’arte.

Instagram ha un suo linguaggio, proprio come ogni nuovo mezzo di comunicazione: quali sono le caratteristiche irrinunciabili per dar vita a progetti creativi di valore su Instagram?
Credo che le caratteristiche siano le stesse per ogni lavoro creativo, indipendentemente dal mezzo: un linguaggio forte, unito a una direzione personale onesta e riconoscibile.
Si dice che Instagram sia un nuovo format editoriale. Sei d’accordo?
Onestamente, non mi interessa. Io sono un artista e Instagram è semplicemente un modo per divertirmi un po’. Ma anche se fosse un nuovo format editoriale, probabilmente sarebbe un fenomeno temporaneo. Le cose vanno e vengono. Credo che per far conoscere le proprie idee, oggi sia necessaria una buona dose di velocità e flessibilità!
C’è un’opzione che vorresti aggiungere a Instagram?
Sì! Il pollice in giù. La cultura della felicità a tutti i costi di Instagram mi infastidisce un po’. Sarebbe un modo democratico per poter dire chiaramente: “non mi piace!”
Hai mai pensato di cancellare il tuo account? Lo faresti davvero?
No, Instagram mi piace. Sono interessato alle arti visive! Però, presto cancellerò il mio profilo su Facebook. Se lo farò davvero? Chiedimelo tra qualche settimana.

champagneemojis – Less / champagneemojis – Benjamin Langford

ChampagneEmojis
Chi è un meme creator? E cosa fa? Prova a descrivere il tuo lavoro con un cliché…
C’è una grande differenza tra essere un meme creator e gestire un account di meme, ma molte persone non lo sanno. La maggior parte delle pagine di meme più conosciute, quelle a cui si collega automaticamente l’idea stessa di meme, non creano i loro contenuti, sono tutti repost. I miei post sono originali all’80%, e quando faccio un repost solitamente è un meme fatto da un mio amico che mi è particolarmente piaciuto. Ho una decina di chat di gruppo con altri meme creators, che usiamo per collaborare, scambiarci idee e tenerci aggiornati su quanto sta accadendo nel mondo.
Quanto tempo passi su Instagram ogni giorno? Lavori da solo o c’è qualcuno che ti aiuta?
Contando il tempo che passo facendo ricerca, controllando le descrizioni, aggiornandomi sulle ultime novità e parlando con altri creatori di meme, il lavoro di meme creator mi occupa per circa 4-6 ore al giorno. Recentemente ho aperto una nuova pagina con un amico, ma è ancora molto piccola. Ma la pagina principale, ChampagneEmojis, la gestisco da solo.
I tuoi follower sono più di 210k: quali sono i messaggi privati più strani che hai ricevuto?
ChampagneEmojis è il mio primo account, ed è anche quello principale, ma in tutto ne ho 8 (non includendo il mio profilo personale, che non uso mai). L’account su cui ho ricevuto i messaggi privati più strani, i migliori, ma anche i peggiori, è DrunkPeopleDoingThings perché è una raccolta dei contenuti che mi mandano i follower, quindi ricevo più di 50 video al giorno.
Prima di Gucci hai già lavorato a collaborazioni con altri brand?
La collaborazione con Gucci è assolutamente quella più importante, finora. Ho lavorato con altre aziende che mi hanno chiesto di creare contenuti per loro, a volte cose interessanti e altre volte noiose. Con Gucci lavoriamo a un obiettivo è completamente diverso.
Instagram ha un suo linguaggio, proprio come ogni nuovo mezzo di comunicazione: quali sono le caratteristiche irrinunciabili per dar vita a progetti creativi di valore su Instagram?
Il linguaggio di Instagram, e quello dei meme in generale, è piuttosto strano. Molti meme che faccio o che mi piacciono sono auto-referenziali e costruiti sulla base di meme creati in precedenza. E mentre noi ci spingiamo sempre più avanti creando nuovi meme, i nostri riferimenti si fanno sempre più complessi e difficili da capire per chi non fa parte di questo mondo. Vista da questa prospettiva, quella dei meme è una subcultura isolata, in cui i creatori e i loro follower hanno questi scherzi incomprensibili per chiunque altro.
Si dice che Instagram sia un nuovo format editoriale. Sei d’accordo?
Sì, sono d’accordo. Lavoro a stretto contatto con altri 50 meme creator e siamo tutti fan dei contenuti che i nostri colleghi pubblicano. Ognuno comunque ha uno stile e un senso dell’umorismo personale. Il mio stile è un mix di scarsa autostima e attività degenerate.
C’è un’opzione che vorresti aggiungere a Instagram?
Instagram permette di avere solo cinque account collegati contemporaneamente. Spero che aumenteranno il numero almeno a dieci, così potrò sprecare ancora più tempo sui social e meno a fare log-in e log-out.
Hai mai pensato di cancellare il tuo account principale? Lo faresti davvero?
Ogni tanto non mi vengono più idee nuove, quindi devo staccare per un paio di giorni e ricaricare le batterie, ma non ho mai davvero pensato di cancellare il mio account.




"Instagram è una mafia. Non c'è niente di autentico". Una blogger di viaggio svela i trucchi degli influencer

“Ecco come facciamo ad avere così tanti follower”


“I nostri profili Instagram non sono la vita vera. La vita vera la fermiamo per fare questi scatti, per ricevere like e commenti, perché è così che oggi diamo valore a noi stessi”. È tutto racchiuso in questa frase il senso delle “rivelazioni” che Sara Melotti, fotografa di viaggio e influencer su Instagram, ha fatto al DailyMail Australia.


In una lunga intervista ha svelato quali strategie vengono utilizzate dagli utenti per avere milioni di followers sul social network, lamentando come Instagram, da luogo incontaminato e vero in cui postare i momenti più salienti della vita di ciascuno, sia diventato una miniera d’oro per le aziende che intendano arrivare con più facilità ai consumatori e un vero e proprio lavoro per chi riesce a utilizzare questo spazio.
“Io stessa riesco a viaggiare nei posti più belli del mondo, grazie ai finanziamenti che ricevo da hotel e tour operator”, racconta la ragazza.

Ciò che un tempo era contenuto e originalità, ora è ridotto a insensato algoritmo. Chi ha tempo e soldi per fregarlo, ha vinto la partita. So di essere un’ipocrita che ha giocato al gioco per gli ultimi sei mesi, e mi fa sentire una persona pessima. Credo sia giunto il momento di smetterla con le stronzate e dirvi cosa sta succedendo. Noi influencer siamo cartelloni ambulanti di aziende e brand perché attraverso noi raggiungono i consumatori

Inizialmente Instagram utilizzava la la logica dei contenuti in ordine cronologico. Chi prima pubblicava, prima veniva visualizzato. Poi invece ha scelto di mostrare i post secondo la probabilità di interesse verso il contenuto e il rapporto con la persona che posta. “La gente non vedeva più i nostri post, i numeri calavano velocemente e alcuni di noi, nel panico, hanno iniziato a pensare a soluzioni “creative” per ingannare questo algoritmo infernale. Come? Innanzitutto comprando ‘like’ e commenti per avere più follower. Si falsifica la fama on line pagando 5 dollari per 100 nuovi seguaci o centinaia di dollari per acquistarli in quantità dai robot che li offrono”.

Ma non è l’unica strategia rivelata da Sara Melotti. Un’altra, banalmente, è quella di seguire o commentare profili di persone che una volta fatti entrare nei nostri follower abbandoneremo. Oppure quella di rivolgersi ai “collective accounts”: pagare per vedere il proprio lavoro su profili di successo, ripostati e ricondivisi da altra gente di successo.

Una volta, per postare una mia foto su uno di questi account, mi sono stati chiesti oltre 500 euro. Altra tattica sono i ‘comment pod’, 10/15 blogger di un gruppo privato: ogni volta che qualcuno di loro posta qualcosa on line, manda anche via messaggio il contenuto agli altri, che così commentano subito e mettono Mi Piace. Il nostro segreto è ottenere un alto engagement (like e commenti) entro i primi 30 e 45 minuti dal caricamento (ad esempio dell’immagine), così finirai nella pagina ‘explorer’ e riceverai migliaia di like. Per non far scoprire i ‘comment pod’, gli influencer si sono trasferiti su Whatsapp e Facebook. Lì si accordano per commentare le reciproche immagini ad una determinata ora e apparire così tra i più popolari. Non si tratta di veri follower ma i brand non lo sanno, guardano i numeri e sponsorizzano.

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Sono Diego, risolvo problemi

Il capo della strategia digitale del governo è a metà mandato e ci spiega come si fa una riforma impossibile

“Sto cercando di non dire ‘politica’. La parola politica è come la parola ‘cosa’, la puoi usare un po’ dappertutto. Io preferisco essere più specifico”. Diego Piacentini, vicepresidente di Amazon, nell’ultimo anno ha vissuto sulla sua pelle una contraddizione in termini. Nominato un anno fa Commissario Straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale per via squisitamente politica, uomo di punta della fase più dinamica e rottamatrice del governo Renzi, ha capito che per avere qualche remota possibilità di successo deve volare sempre più alto di ogni possibile attribuzione di tipo, appunto, politico. Numero due di una delle più innovative aziende private del mondo, si è trovato per sua volontà a mettere le mani nella realtà più farraginosa del sistema nostrano, l’amministrazione pubblica. Dotato della carica altisonante di Commissario Straordinario, il suo compito principale è quello di portare l’Italia il più possibile vicino a una normalità europea. Giunto dall’America per essere il mister Wolf del sistema Italia, l’uomo che risolve i problemi, da mesi nuota controcorrente per non farsi trascinare nella melma, e, dice lui, “per non abituarmi al sistema, perché per fare la disruption, per cambiare le regole, non puoi essere abituato alle cose che non funzionano, non puoi pensare che siano inamovibili e non possano cambiare”.
Diego Piacentini parla con accento del nord e con una erre arrotatissima. Fa molte brevi pause tra una frase e l’altra. A volte per essere sicuro di quello che sta dicendo, a volte perché non ha sulle labbra il corrispettivo italiano della parola inglese che gli passa per la testa. Allora si gira verso uno dei venti-trentenni del suo team. “Questo si dice in italiano?”. Gli rispondono di sì, perché nonostante i dubbi non fa un errore e quando i dubbi sono troppi usa direttamente l’inglese, ma si vede che dopo tanti decenni passati in America parte del suo cervello è rimasta a Seattle da Amazon.

Per fare la disruption, per cambiare le regole, non abituarti alle cose che non funzionano, non pensare che siano inamovibili

È per questa sua natura marziana, per il suo venire da fuori, che Piacentini è stato scelto, simbolo di un governo capace di richiamare in patria le eccellenze di livello mondiale, anche se solo in aspettativa e con un mandato di un paio d’anni, e di metterle in condizione di cambiare le cose. Al momento della sua nomina, Piacentini è stato sventolato come una bandiera, ha avuto qualche mese di intensissima esposizione mediatica. C’è stata anche qualche dose di immancabili polemiche, qualcuno disse avrebbe aiutato Amazon a conquistare l’Italia, poi si è capito che Amazon fa attività di conquista abbastanza bene anche da sé, senza bisogno di aiuto. Piacentini per allora si era già allontanato dai riflettori e inabissato nel lavoro, si è messo a “montare i tubi”, come dice lui. Il governo è caduto, ne è subentrato un altro, e lui riemerge raramente, rimane sottotraccia, a preparare le fondamenta. E intanto ha avuto modo di capire molte cose sul sistema Italia e sul suo futuro digitale, sul ruolo della tecnologia nella PA e sulle possibilità di riformare ciò che sembra refrattario a ogni cambiamento, fino allo spauracchio della democrazia diretta.
Oggi Piacentini è a metà del suo mandato e sa che lascerà tutti i cantieri aperti –  lo sapeva fin dall’inizio: non si realizza in due anni un progetto che richiede un’intera generazione –, ma lavora come se il suo progetto dovesse durare vent’anni dopo di lui. “Tempo tempo tempo, ci vuole tempo”, ripete più volte, tempo per radunare le competenze e le eccellenze, tempo per creare le infrastrutture, tempo per cambiare la testa della classe politica.
“Il rischio che il nostro lavoro sia eliminato completamente quando ce ne andremo c’è, guarda cosa sta facendo Trump”, dice. “Ma qualunque nuova leadership arriverà potrà valutare ciò che abbiamo fatto – dal Piano triennale per la trasformazione digitale della PA alle altre iniziative –, avrà delle nostre proposte scritte ben chiare e potrà decidere cosa fare. Questo sarà il nostro lascito, un modello che poi potrà essere sviluppato. Comunque vada c’è bisogno di un’Agenzia digitale centrale, forte, competente, con budget, con capacità d’intervento. L’Italia ne ha bisogno”.

Stiamo montando i tubi, prepariamo il lavoro sotterraneo, ma ci piace far vedere alcuni progetti di punta

Qui bisogna usare un trucco trito, e dire a Piacentini: se dovessi spiegare a mia madre cosa fa l’Agenzia digitale, cosa le dovrei dire? Lui sta al gioco e dice: “Ho avuto lo stesso problema con mia madre, e ho deciso di usare la metafora dell’idraulico. Stiamo lavorando a quelle componenti della costruzione della casa che sono assolutamente necessarie perché la casa funzioni ma non sono immediatamente visibili da chi ci abita. Montare i tubi vuole dire lavorare duro per creare piattaforme abilitanti che restino, per cambiare le norme, le regole”. Piattaforma abilitante è un termine che Piacentini usa spesso, e indica piattaforme realizzate centralmente per consentire che un servizio sia usato da un intero ecosistema. Dal lavoro sulle norme e sulle regole è disceso il già citato Piano triennale, che è il grande manuale della digitalizzazione della PA in Italia e contiene le regole da seguire e le pratiche a cui ispirarsi per qualsiasi amministratore che voglia iniziare a cambiare le cose. L’ha scritto l’Agid, Agenzia per l’Italia digitale, in collaborazione con il team digitale di Piacentini. E’ un lavoro mastodontico ma chiaro e dettagliato, e sarà aggiornato ogni anno da un team apposito perché, appunto, l’innovazione non si ferma mai. Piacentini continua parlando delle nostre madri: “Visto che non siamo solo idraulici ma vogliamo fare anche gli artisti, ci sono due-tre cose che ci fa piacere che si vedano”. Facciamole vedere. “Quella che secondo me è più evidente di tutte anche nel breve periodo sono i pagamenti digitali”. Il progetto di Piacentini in quest’ambito si chiama PagoPA, che è una piattaforma abilitante (vedi sopra) che consente di pagare tutti i servizi della Pubblica amministrazione (tasse, imposte, bollette) tramite un unico sistema sia online sia fisico. PagoPA esisteva già prima dell’arrivo di Piacentini, ma giaceva praticamente inutilizzato. Il team digitale l’ha ripreso in mano e lo ha reso graficamente gradevole e usabile, l’ha integrato con tecnologie di facile accesso come PayPal, sta sostenendo la sua crescita e la sua diffusione. “PagoPA è importante perché oltre ad aiutare il cittadino nei pagamenti rende più efficiente lo stato, che con i pagamenti attraverso questo sistema ha la riconciliazione automatica dei conti, con risparmi notevoli”.
Un altro progetto visibile che porterà benefici nel medio-breve periodo, dice Piacentini, è l’Anagrafe nazionale della popolazione residente, Anpr, un lavoro enorme perché significa riunire entro uno stesso sistema digitale tutte le anagrafi disparate degli ottomila comuni italiani. “Quando Anpr sarà eseguita completamente avremo creato tutte le condizioni affinché l’amministrazione cambi i processi con cui lavora, non ci sarà più bisogno che tre uffici diversi richiedano i dati anagrafici allo stesso utente per tre volte”. Collegato ad Anpr c’è Spid, il sistema di identità digitale (un altro progetto che già esisteva e che il team Piacentini ha rivitalizzato) il cui obiettivo finale è quello di dare a ogni cittadino un set unico di credenziali per accedere a tutti i siti della PA. “Stiamo parlando con Inps per fare in modo che Spid diventi il sistema di riconoscimento unico per entrare nel loro sito, e man mano che i servizi aumenteranno Spid diventerà sempre più conveniente”.
Già così i miglioramenti tangibili non sono niente male. Poter pagare la PA con un solo sistema digitale e poter accedere ai servizi della PA con credenziali uniche e semplici (niente Pec, niente password mandate mezze via mail e mezze via posta, niente code agli uffici con file di identificazioni stampati) è un assaggio di normalità europea apprezzabile.
A questo punto però viene da fare a Piacentini una domanda strana: “Perché sei qui?”. “Qui” è Palazzo Chigi, un ufficio poco lontano da quello del premier Gentiloni, ed è anche la carica di Commissario straordinario. Il “perché” che non riusciamo a comprendere è: sul serio per dare all’Italia un assaggio di normalità europea come pagare le tasse online serve il vicepresidente di Amazon? Sul serio per fare quello che altrove hanno già fatto degli onesti burocrati bisogna andare a prendere un’eccellenza dall’America e conferirle la carica altisonante di Commissario straordinario? Rispondere a questa domanda significa entrare davvero in profondità nella filosofia di Piacentini.
 

Il profilo Twitter di Diego Piacentini
 
Su Twitter e su Medium, i due social che usa di più per raccontare l’attività del suo team, Piacentini si definisce “preoccupato ma ottimista”. E’ lo stato d’animo praticamente perfetto, da far applaudire un filosofo stoico. Sarebbe comprensibile, però, che dopo un anno trascorso intento nella trasformazione digitale della PA la preoccupazione abbia preso il sopravvento sull’ottimismo. “L’ottimismo rimane ma è di un grado diverso, nel senso che mentre pensavo prima che alcune cose potessero essere fatte in un certo modo adesso conosco di più l’essenza degli ostacoli”. Il punto centrale però è la preoccupazione. “Devi essere sempre preoccupato per affrontare la complessità dei problemi. Non riesco a misurare se la complessità che avevo in mente quando ho iniziato era più o meno elevata di quella di adesso. Ora capisco molto di più quali sono i singoli ostacoli, i singoli blocchi, i singoli difetti di processo”. Per esempio? “Prima di venire in questo ruolo non avevo considerato, perché semplicemente non le conoscevo, le complessità derivate dal procurement, quindi dall’acquisto delle soluzioni tecnologiche – che non è un problema dell’Amministrazione italiana ma di tutte le PA del mondo. Come compri? Non solo devi rifinire la tecnologia e disegnare l’architettura, ma si aggiunge la complessità di fare l’acquisto. Questo è uno degli ostacoli più grossi”. Il problema di come lo stato acquista tecnologia aiuta a capire quanto lavoro c’è da fare. “L’Italia, rispetto ad altri paesi, ha una complessità superiore determinata dal fatto che le regole di acquisto sono governate da Anac, l’anticorruzione. Questo fattore è meno rilevante in altri paesi europei, e quindi è più facile semplificare – anche se qui non sto dando giudizi di valore sul fatto che esistono complessità determinate dall’Anac”. Poi ci sono le metodologie d’acquisto. In Italia e pochissimi altri paesi del mondo si usa il sistema dei “punti funzione”, vale a dire: quando un progetto parte, deve aver aggiunto l’obiettivo x entro un anno, l’obiettivo y entro due anni e l’obiettivo z entro cinque anni. “Ma non è così che funziona l’innovazione tecnologica”, dice Piacentini. “Già è complicato stabilire gli obiettivi di un progetto quando si costruisce un’autostrada, figuriamoci in una realtà tecnologica in cui tutto cambia nel giro di pochi mesi”.

Il problema sono i governi. I governi sono statici e fanno fatica a evolvere. Per questo c’è bisogno di un cambiamento profondo

Qui esce il primo di quelli che Piacentini chiama “colli di bottiglia”: l’eccesso di formalismo. “Per valutare la riuscita di un progetto in Italia non si valuta il risultato, ma l’aderenza ai ‘punti funzione’. Prendiamo l’esempio di Anpr. L’azienda che aveva avuto l’incarico di crearla, Sogei, dopo aver creato il prodotto e aver soddisfatto tutti i requisiti del contratto ha considerato il lavoro completo. Avevano ragione. Ma nessun comune stava usando il prodotto! Questa è la differenza tra agire in base a formalismi e valutare il risultato. Le aziende tecnologiche realizzano un prodotto e poi lo fanno crescere, c’è un’evoluzione continua. Nella PA un progetto finisce quando sono soddisfatti i requisiti del contratto, ma questo è l’anti tecnologia”.
“C’è una certa tendenza ad abituarsi a condizioni che apparentemente non si possono cambiare e finire per assecondarle. Prendiamo per esempio il blocco della assunzioni nella PA. Come fai a trasformare digitalmente l’amministrazione se non puoi assumere le persone competenti che servono per farlo? Però da tutti sento dire: la finanziaria è così, non ci possiamo fare niente. Invece no. Il presidente del Consiglio è in questo corridoio, ovviamente non fa tutto quello che gli diciamo ma abbiamo la possibilità quanto meno di descrivere i colli di bottiglia, i difetti di processo. Dobbiamo creare le condizioni per portare nella PA eccellenze anche dal privato, magari per uno-due anni, come abbiamo fatto noi, fornendo la possibilità di incidere e di cambiare le cose”.
Altra complessità inizialmente non prevista sono i personalismi. “Molta gente non ha il coraggio di concordare su un’opinione anche quando è giusta. Molti vogliono far valere le proprie idee anche quando sanno che sono sbagliate pur di affermare la propria posizione. Sono poche le persone con cui lavoriamo che dicono: ok, questa è la strada giusta, seguiamola. Molti invece devono imporre la loro presenza perché altrimenti perdono il loro ruolo, perdono il loro valore. Questa cosa è molto forte in Italia. Lavorando per Amazon sono stato esposto a decine di paesi, sono stato in Cina cinquanta volte, trenta in India, e tra i paesi a cui sono stato esposto l’Italia è quello che ha il minor senso del bene comune, della cosa comune, di fare qualche cosa per il bene del paese o per il bene della comunità. Non è istintivo, non è nel nostro dna”.
E qui torniamo al discorso dell’inizio, e a quella parola terribile e troppo generica: politica. Perché tutto quello che abbiamo raccontato finora potrebbe tranquillamente essere catalogato nel calderone troppo grande di ciò che è politico, gestione della polis. Tra le complessità c’è anche quella di avere a che fare con una classe politica che considera Uber una minaccia, Flixbus un’aberrazione, Amazon una compagnia troppo grande e pericolosa da attaccare con l’antitrust – una classe politica che, insomma, ha seri problemi con l’innovazione?
“La questione va oltre la classe politica, e riguarda quanto la politica in generale abbia la capacità di adeguarsi ai cambiamenti sociali e tecnologici. Prendiamo l’intelligenza artificiale: per la classe politica si tratta di qualcosa che porterà soltanto via posti di lavoro, mentre il focus dovrebbe essere posto su come l’intelligenza artificiale può essere usata per migliorare i rapporti tra noi e il cittadino. Ovviamente in Italia ci sono tante persone ragionevoli, penso per esempio al ministro Calenda, che sulle startup sta facendo un’operazione moderna ed efficace. E poi appunto: la ritrosia nei confronti dell’innovazione non è solo italiana. Le web taxesistono in tutti i paesi occidentali, e tempo fa il consulente tecnologico di Michael Bloomberg, allora sindaco di New York, mi raccontava che tra i requisiti per entrare nel team tecnologico del comune di New York avevano trovato la conoscenza di Ms-dos (un sistema obsoleto e non più usato da almeno vent’anni, ndr): gli ufficiali del comune ancora pretendevano questo requisito”. Piacentini fa una pausa. “Il problema sono i governi. I governi sono statici e fanno fatica a evolvere. Per questo c’è bisogno di un cambiamento della classe politica, di un nuovo sistema educativo. Ci vorranno tanti, tanti anni”.
“Paradossalmente, potrebbero essere i paesi in via di sviluppo quelli che riusciranno a cambiare la classe politica più rapidamente”. Forse perché hanno meno lacciuoli democratici? “Anche. Ho visto in India progetti tecnologici eccezionali realizzati con facilità che in occidente non sarebbero mai accettati per ragioni di privacy – e certo non lo contesto. Ma nei paesi in via di sviluppo è anche molto più forte il concetto di problem solving. I politici devono mettersi in testa che sono lì per risolvere i problemi” mentre, si capisce dal discorso di Piacentini, da noi ciò che è politico rischia spesso di trasformarsi in ostacolo.

Vogliamo comunicare che bisogna uscire  dalla mentalità di chi dice che in Italia non funziona niente

Dunque come si fa ad attuare sistemi di decisionismo non democratici rimanendo democratici? Andrebbe digitalizzata anche la politica? “La tecnologia aiuta a trovare soluzioni non complesse per risolvere problemi complessi. Prendiamo il nostro Piano triennale. E’ aggiornato ogni anno per mantenerlo sempre al passo. Ma questo non sarebbe possibile con i normalissimi metodi della democrazia, con i tavoli, le consultazioni, parlare con la conferenza delle regioni, con la conferenza dei comuni, con dodicimila persone che devono avere un’opinione. Così abbiamo installato un forum diretto che ci consente di avere immediatamente tutte le osservazioni della PA, dei comuni grandi e piccoli, dei responsabili tecnologici. Non tutti i consigli sono poi assorbiti, ma grazie alla tecnologia possiamo aggiornare molto più velocemente il nostro Piano. Questo può essere un nuovo modo di fare democrazia, cioè la possibilità di parlare direttamente e di ricevere input senza gli intermediari. La tecnologia ti permette di eliminare i broker, i layer. Peccato che i broker e i layer esistano e non sanno cos’altro fare nella vita, ed è difficile eliminarli. Però la tecnologia ti permette di farlo”.
Non stiamo entrando forse nel terreno scivoloso della democrazia diretta? “La democrazia diretta è un’astrazione. La tecnologia può fornire piattaforme che consentono di raccogliere le opinioni e di comunicare direttamente con il maggior numero di cittadini possibili. Ma poi sono le regole di questo colloquio che determinano il modello. La tecnologia può aiutare la democrazia rappresentativa a evolvere, ma non la sostituisce”.
Sei un fautore del small government à la Thatcher? “No, perché alla fine gli stati servono. Certo, digitalizzare uno stato piccolo è più facile, guarda all’Estonia, a Singapore, alla Norvegia. Ma solo per una questione di popolazione”. Piacentini sorride al nostro tentativo e dice: “Non è facile etichettarmi. L’unica etichetta che mi si può dare è quella di interista”.
E quindi iniziamo a capire perché questa eccellenza interista è dovuta volare fin da Seattle per fare qualcosa che negli altri paesi già esiste. Per impiantare una cultura. Piacentini si ribella a questa definizione che rischia di trasformarlo non in un tecnico, ma in un simbolo: “Non voglio essere solo un simbolo, altrimenti duro niente, appena vado via dicono: è stato lì un anno e non ha fatto un… non ha fatto niente”. E’ ossessiva in lui l’attenzione al problem solving, alla necessità di applicare un attento project management. Piacentini parla di “eccellenza operativa” per spiegare come il suo lavoro sia quello di prendere dei progetti morti e trasformarli in avanguardia europea. E certo i progetti ci sono, si toccano. Ma il lavoro di Piacentini è generazionale, e lui ha solo due anni di tempo. Dunque è chiaro che oltre alle cose, il suo lascito sarà anche fatto di culture. “Noi siamo qui a risolvere problemi, ma vogliamo comunicare che bisogna uscire dalla mentalità di chi dice che in Italia non funziona niente”.