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Per una comunicazione delle emergenze più moderna

Niente da dire sull’attività e le procedure di Protezione Civile sul territorio soprattutto dopo le emergenze. Anzi, c’è da dire che dimostra di essere un apparato davvero efficace e tempestivo come anche gli ultimi tragici eventi dimostrano.

Rimane una criticità che è per lo più comunicativa: pensare infatti che in un mondo interconnesso e sempre più dipendente dall’informazione sui social la comunicazione d’emergenza debba essere fatta con modi e tempi di venti anni fa è anacronistico, imbarazzante, pericoloso.

Compito della Protezione Civile in sede di prevenzione e di gestione delle emergenze è avvisare (e gestire) il prima possibile il maggior numero di persone possibile. Usare tutti gli strumenti disponibili per intercettare il maggior numero di persone dovrebbe essere quindi un processo evolutivo naturale. Essere riferimento unico e certo.

Questo attualmente non accade ma non è mio interesse sapere il perché, mi interessa provare a capire come si potrebbe fare diversamente e più efficacemente.

Quando accadono queste tragedie non si possono ridurre gli aspetti comunicativi ad un ruolo irrilevante sottovalutando così un doppio problema. L’organizzazione dell’informazione a monte degli eventi per evitare danni maggiori (ad esempio nelle alluvioni) e l’organizzazione durante e dopo gli eventi per la gestione dell’informazione attendibile e degli aiuti.

Comunicare bene significa evitare danni e disorganizzazione. Significa rassicurare. Significa dare anche il giusto risalto al lavoro oscuro (e quasi sempre eccellente) della Protezione Civile.

Ho scritto alcune considerazioni che vogliono essere spunti di discussione per trovare forse una strada condivisa che sensibilizzi le autorità competenti nell’adeguarsi a un mondo che dal punto di vista comunicativo li ha lasciati indietro. Considerazioni nate dal confronto e l’osservazione continua delle situazioni di emergenza, dalle tante chiacchierate con Luca Zanelli, Giovanni Arata, con l’esperienza del Comune di Trieste, con i lavori di studio eccellenti di Francesca Comunello e Lorenza Parisi, con l’esperienza di AllertameteoSAR, con gli spunti sempre illuminanti di Giovanni Boccia Artieri.

Indicazioni prima delle situazione di emergenza:

• Creare un social media team di protezione civile che gestisca gli account e funga da tramite tra protezione civile sul territorio e cittadinanza;

• Creare liste di volontari digitali pronti ad intervenire in maniera autorevole e capace in loco;

• Codificare gli hashtag di conversazione delle emergenze e georeferenziarli.

Le difficoltà nella veicolazione delle informazioni, strette da una parte dalla giusta prudenza per eventi di questo genere e dall’altra dalle rigide procedure di protezione civile pone come urgente la revisione delle procedure di informazione per gli allerta meteo e per l’informazione post evento.

Innanzitutto la revisione della presenza on line:

• un sito internet più snello dove in home devono comparire in enorme evidenza le news di aggiornamento, poi le procedure, faq e consigli per la cittadinanza e per ultimo, in spazi risibili, le comunicazioni istituzionali;

  • una pagina facebook che veicoli gli allerta e le informazioni di servizio;
  • un account twitter che funga da canale di prima informazione in live twitting;
  • un BOT Telegram che dia informazioni di emergenza via chat testuale;
  • una mappa come aggregatore di contenuti e segnalazione di ermergenze e richieste di aiuto. (come SARDSOS integrato dal livetwitting);
  • un sistema di allerta via SMS;
  • un canale radio FM di emergenza.

La formazione di un social media team d’emergenza coordinato dalla protezione civile è poi una soluzione intelligente: come la protezione civile attiva le squadre di emergenza per aiutare dove è necessario sarebbe auspicabile la creazione di un social media team diffuso che funga da hub informativo autorevole e collettore di informazioni verificate durante le emergenze.

La formazione costante degli addetti di comunicazione degli enti locali è altresì importante. Soprattutto i comuni devono essere in grado di informare tempestivamente la cittadinanza secondo le direttive impartite dalla Regione e quindi saper usare adeguatamente i canali di informazione (sempre che li abbiano attivati). Utile anche fare esercitazioni periodiche per “allenare” i cittadini ad usare e capire come sfruttare le nuove tecnologie per informarsi.

La creazione di un protocollo in cui si indicano con precisione le fonti e come anche condividere i messaggi porterebbe a una copertura più capillare del territorio.

Attenzione particolare agli anelli deboli: anziani, bambini ma anche chi non parla italiano: inserire nel social media team dei punti di riferimento per queste categorie per poter informare tutti.

Indicazioni durante le situazioni di emergenza.

  • Comunicare con chiarezza l’account e il sito dal quale seguire gli sviluppi (ProtezioneCivile) e gli hashtag (HT) per aggregare i contenuti;
  • Utilizzare gli HT dedicati solo per le informazioni di servizio e non per le polemiche;
  • Condividere contenuti di fonti dirette o di contatti di assoluta autorevolezza. Veicolare notizie false o imprecise può provocare ritardi nei soccorsi e mettere le persone in situazioni di pericolo;
  • Condividere contenuti citando sempre la fonte, il luogo e gli HT dedicati;
  • se si è sul luogo dell’emergenza geo referenziare i post per poter individuare con certezza elementi utili ai soccorsi e condividere la propria connessione wifi o 3g;
  • non frammentare l’informazione ma condividere i contenuti originali aggiungendo commenti solo se utili a migliorare l’informazione;
  • Usare la propria rete di relazioni per avere news di prima mano e condividerle se utili;
  • usare il safety check di facebook e non rassicurare con mille messaggi inutili i vostri contatti che state bene;
  • non aderire/condividere a raccolte di materiali e fondi se non espressamente indicati da soggetti accreditati e autorevoli;

In sostanza creare una parallela e simile Protezione Civile Digitale (cit. Giovanni Boccia Artieri) per gestire quei processi comunicativi prima, durante e dopo le emergenze e per far emergere l’attività della Protezione Civile evitando così sovrapposizioni pericolose con i volontari estemporanei e anzi coordinandoli in maniera organizzata e proficua.

Credo siano maturi i tempi per parlarne, senza polemiche o strumentalizzazioni.

Emergenza social- Consigli per le istituzioni che usano i social media durante le crisi

Documento preparatorio del report Emergenza social. Scritto di Arata G., Zanelli, L.

Introduzione

I social media sono una componente ormai consolidata delle abitudini- e delle diete- informative di individui e organizzazioni. Le persone li impiegano a supporto della propria azione sociale in qualsiasi situazione della vita, dalla conversazione quotidiana, alla condivisione di informazioni testuali e visuali, fino all’organizzazione delle attività amicali, affettive, organizzative. Ed un discorso per certi versi analogo può essere fatto per le strutture associate, che riverberano online una porzione sempre maggiore delle loro attività specifiche, siano esse di natura squisitamente commerciale, promozionale o informativa.

Immagine tratta da http://goo.gl/6k3cZQ

Ma c’è di più: l’accresciuta capacità dei singoli di creare, distribuire e ricercare informazioni diventa essa stessa un fattore per le istituzioni, che vedono il proprio ruolo, le prerogative e le stesse modalità operative messe in discussione dal protagonismo digitale delle persone.
Lo scenario appena tratteggiato, valido di fatto in tutti i contesti organizzativi e sociali, riguarda anche la sfera della comunicazione d’emergenza. E lo interpella con tanto maggior vigore in virtù della natura tendenzialmente gerarchica e normata delle strutture, della divisione del lavoro e delle procedure che alla comunicazione d’emergenza presiedono.
Il presente documento ambisce ad offrire strumenti conoscitivi, esempi e indicazioni operative utili per le istituzioni che intendano affrontare in modo attivo e consapevole lo scenario testé descritto. Partendo dalla considerazione dell’ineluttabilità dell’attivismo informativo dei cittadini durante le crisi- e dalla potenziale utilità di parte di esso per lo svolgimento della missione istituzionale- il testo ricerca allora risposte teorico- pratiche alla domanda: come possono le istituzioni preposte alla comunicazione d’emergenza dialogare con i volontari digitali, organizzarli e piegare le loro azioni al migliore svolgimento della propria missione istituzionale? La struttura del testo riflette tale ambizione. Dopo una prima sezione dedicata alle definizioni ed alla descrizione puntuale dello scenario, la seconda offre un panorama il più possibile accurato intorno allo stato dell’arte dell’impiego dei social media da parte delle istituzioni preposte- ed accanto ad essi da parte dei volontari digitali- nelle situazioni di crisi, sulle diverse piattaforme. La terza e ultima sezione offre un set di indicazioni più prescrittive, quasi un vademecum, pensato per accompagnare le strutture nella gestione delle fasi pre, durante e post- crisi. Chiude il testo una bibliografia e sitografia dedicata.

Definizioni e contesto

I disastri sono definibili come situazioni in cui il tessuto sociale si disgrega diventando più o meno disfunzionale, con la conseguente ingenerazione di caos nella persone e nella comunità locale coinvolta [Britton, 1988; Fritz, 1961]. Ed è proprio in virtù di tale sfaldamento che le attività di informazione e comunicazione, già socialmente rilevanti in tempo di pace, divengono ancor più strategiche. Tanto per i singoli individui, i quali si rivolgono a media sociali e di massa per capire di più dell’accaduto, per avere/dare informazioni ai propri cari, per trovare rassicurazione emotiva. E così per le istituzioni, chiamate a offrire informazioni, soluzioni, rassicurazioni, coordinamento ed in generale a ridurre l’incertezza e l’ansia ingenerate dalla situazione critica. Il tutto mentre il dipanarsi del disastro rende spesso sommamente difficile lo svolgimento stesso delle attività di informazione.
A fronte di tale cornice, valida grossomodo per tutte le situazioni di emergenza, l’affermazione dei media digitali porta un elemento qualitativamente nuovo e pregno di conseguenze, che può essere definita come volontariato digitale. Come argomentato da Benkler [2007], infatti, l’affermarsi di internet va di pari passo con una rinnovata possibilità per gli individui/cittadini di esprimere, distribuire e far conoscere il proprio pensiero, tale possibilità va a modificare in modo sostantivo il perimetro delle attività di volontariato praticabili dai cittadini stessi, con conseguenze rilevanti per il ruolo e le operations delle stesse istituzioni. Mentre i volontari tradizionali, più o meno vincolati alla compresenza nel tempo e nello spazio di svolgimento del disastro, ricoprono un ruolo molto circoscritto rispetto all’informazione, alla rendicontazione ed alla progressiva ricostruzione di senso posteriore al disastro, i volontari digitali intervengono direttamente ed in tempo reale rispetto a tutte le dimensioni appena descritte, sovrapponendosi ed in alcuni casi addirittura sostituendo il ruolo di istituzioni non presenti o non altrettanto tempestive. Gli studi mostrano come gli impieghi più innovativi dei social media durante i disastri siano stati congegnati nella più parte dei casi da singoli individui, per poi essere fatti propri dalle istituzioni. In altre parole, durante le crisi i volontari digitali fanno emergere modi innovativi per raccogliere, condividere e far circolare l’informazione e le istituzioni si vedono in un certo senso “costrette” a rincorrere, provando ad ascoltare e incorporare le informazioni di merito e le pratiche informative ingenerate.
E le considerazioni appena svolte portano ad una riformulazione della domanda di ricerca iniziale. Che diventa: come possono le istituzioni sfruttare a proprio vantaggio le caratteristiche dell’ecosistema digitale emergente? Primo: che misure possono adottare per ascoltare, decodificare, filtrare, indirizzare e incorporare i flussi informativi ingenerati dai volontari digitali per espletare in modo efficace la propria funzione istituzionale? Secondo: come possono modificare le proprie linee di azione per distribuire informazione in modo efficace e sostenibile a pubblici iper- connessi e iper- esigenti come quelli contemporanei?
Va da sé che non si tratta di una questione meramente operativa, ma anzi sopra tutto di approccio: se da una parte resta ferma l’esigenza per le istituzioni di dare informazioni ufficiali e certe, dall’altra esse sono chiamate ad adottare un’attitudine dialogica e aperta ne i confronti di flussi informativi provenienti da soggetti terzi. Una parziale perdita di controllo che è necessaria per mantenere una organica capacità di indirizzo. Ed in assenza della quale le persone, semplicemente, andranno a reperire le informazioni altrove [si veda al proposito Hagar, 2013].

Lo stato dell’arte

I social media sono ormai parte integrante della dieta informativa di individui, grandi media e istituzioni durante i disastri. E questo sia nel mondo che nella stessa Italia.
A livello globale il primo evento di rilievo nel corso del quale i social hanno giocato un ruolo attivo è probabilmente costituito dal terremoto ad Haiti nel 2010. fin dai giorni immediatamente successivi al disastro, infatti, molte comunità in giro per il mondo si resero conto che non era necessario trovarsi ad Haiti fisicamente per fornire aiuto. Attraverso gruppi di lavoro costruiti già anni prima, come CrisisCamp e CrisisCommons, singoli individui, organizzazioni non- governative, governi, istituzioni e aziende private unirono i loro sforzi per raccogliere dati e riversarli in mappe dedicate. Queste mappe furono poi affidate al governo haitiano, alle istituzioni preposte alla gestione dell’emergenza ed allo stesso esercito statunitense, anch’esso presente sul posto. Il sistema trovò ulteriore consolidamento attraverso l’impiego di Ushaidi, il sistema di mapping distribuito che consente di integrare flussi social provenienti da fonti eterogenee e di indirizzare operazioni e reportistica a partire da essi.
Durante le alluvioni del 2011 negli stati australiani di Queensland e Victoria, d’altra parte, Facebook si affermò lo strumento primario di diffusione delle informazioni al pubblico. Nelle 24 ore successive agli eventi. il numero di “Mi piace” attribuiti alla pagina della Poilizia del Queensland salì da 17000 a oltre 100000. I media tradizionali, tra di essi la tv e la radio, facevano perno sulla pagina in questione per garantire i propri aggiornamenti.
A livello di adozione da parte delle istituzioni, la prima realtà a fare un uso organico dei social a livello interno e nella comunicazione con il pubblico è stata probabilmente la polizia di Londra, che ha impiegato massivamente i propri canali social, in modo ulteriore e complementare ai media classici, in occasione dei disordini del 2008 e poi del 2011. Un secondo episodio storico è stato il succitato terremoto di Haiti. E poi l’uragano Sandy del 2012, in occasione del quale le istituzioni preposte sulla costa Est degli Stati Uniti hanno iniziato a usare i social come spazio di dialogo primario con il pubblico. O ancora gli attacchi terroristici a Nairobi del 2013, quelli a Boston del 2014 e poi a Parigi del 2015.
Con riferimento all’Italia, il primo impiego su larga scala dei social media per l’informazione e il support post- disastro è probabilmente dato dall’alluvione in Liguria e basso Piemonte dell’autunno 2011, in occasione della quale un circuito di volontari digitali e operatori dell’informazione strutturati collaborò attivamente e intensamente per far circolare informazioni di servizio. Un secondo caso di scuola è dato dai terremoti che colpirono l’Emilia tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 2012, ed in corrispondenza dei quali vi fu per la prima volta un più corposo ed attivo intervento nella copertura e ricostruzione informativa post- disastro da parte di istituzioni pubbliche, per lo più territoriali [comuni, province] o turistiche. Altri momenti di assoluto rilievo sono stati successivamente le alluvioni in Toscana [2012] ed in Sardegna [2013].

Consigli per la gestione della crisi

Veniamo ora alla parte di consigli e prescrizioni per le istituzioni che intendano interpretare attivamente il proprio ruolo all’interno dell’ecosistema digitale emergente. Le azioni suggerite vi sono suddivise in tre sotto-sezioni, analiticamente e operativamente distinte ma tra loro fortemente interrelate. Partiamo.

Prima del disastro

Le attività pre- disastro sono fondamentali e ineludibili per garantire un’adeguata copertura nelle fasi più critiche dei fenomeni. A mo’ di semplice elenco esse possono essere così sintetizzate:

  • Progettare e codificare una strategia di fondo e linee guida operative per la gestione della comunicazione durante le situazioni critiche, prestando particolare cura alla definizione degli attori deputati a esprimersi per conto dell’istituzione, nonché alla definizione di quali messaggi veicolare su quali piattaforme [c.d. divisione del lavoro social];
  • Coinvolgere nella progettazione i decisori e i tecnici apicali dell’istituzione, oltre naturalmente agli altri uffici dell’istituzione, così da tenerli “a bordo” e guadagnarne, per il possibile, il supporto rispetto al dispiegamento delle attività durante i disastri;
  • Identificare e codificare, nella misura del possibile, termini e parole chiave [i c.d. #hashtag] per la gestione dei singoli problemi e situazioni problematiche, diffondendo la conoscenza alla comunità locale ed agli altri operatori professionali;
  • Partecipare attivamente e pariteticamente alle conversazioni online, favorendo così la costruzione di una community intorno all’istituzione e favorendo il posizionamento dell’istituzione stessa come nodo credibile e rilevante dell’ecosistema digitale locale;
  • analizzare e misurare i comportamenti online di altre istituzioni e volontari digitali in occasione di disastri remoti nello spazio e nel tempo, ove possibile attraverso l’adozione e/o lo sviluppo di cruscotti di monitoraggio ad hoc.

Durante il disastro

  • Pubblicare informazioni e dati verificati con continuità e partendo, ove possibile, tempestivamente fin dallo scaturire dei fenomeni calamitosi;
  • identificare, contattare e coinvolgere i volontari digitali più rilevanti in termini di: conoscenza specifica, rilevanza e reach online, utilità;
  • Filtrare, verificare e ove utile ed opportuno rilanciare le informazioni provenienti da altri hub della rete online;
  • Adottare, moderare e ove possibile indirizzare lo sviluppo dei principali #hashtag impiegati dai volontari digitali nello svolgimento delle loro attività;
  • Armonizzare l’attività social con le altre attività digitali e non dell’istituzione. In particolare, curare e aggiornare una sezione [se possibile ad hoc] del sito istituzionale dell’ente. E distribuire i key facts distribuiti sui social anche con sistemi tipo SMS a tappeto, in grado di coprire per intero le celle interessate dalla situaizone di crisi;
  • analizzare e misurare i comportamenti online di altre istituzioni e volontari digitali durante lo svolgimento dei fenomeni, ove possibile attraverso l’adozione e/o lo sviluppo di cruscotti di monitoraggio ad hoc.

Post- disastro

  • Dar conto del processo di ricostruzione- materiale, informativa, economica- anche attraverso i media sociali, continuando a dar conto dell’istutuzione.
  • promuovere periodicamente esercitazioni e prove simulate di gestione delle situazioni di disastro social, ove utile impiegando account “gemelli” di quelli noti al pubblico, così da evitare cortocircuiti informativi nei bacini di attenzione principali;

Biblio e sitografia




Responsabilità sociale d’impresa e Direttiva Ue: a che punto è l’Italia?

In vigore dal 2017, impatterà su circa 400 aziende italiane, 6mila in Europa

Entrerà definitivamente in vigore il 1 gennaio 2017 (ma il termine ultimo per il recepimento sarà il 6 dicembre 2016) la Direttiva europea 95/2014 sulla comunicazione delle informazioni non finanziarie, in fase di recepimento. Le imprese con più di 500 dipendenti, e quelle aziende che il legislatore riterrà di interesse pubblico, saranno chiamate a comunicare informazioni relative a sostenibilità ambientale, sostenibilità sociale, catena di fornitura, gestione delle “diversità” e dei rischi.
Se non lo faranno dovranno spiegarne il motivo, secondo la regola del comply or explain. Ma che punto è l’Italia? Secondo i dati del VI Rapporto sull’impegno sociale delle aziende, in Italia sono ben 73 su 100 le aziende che si sono già portate avanti dal punto di vista delle buone prassi. A fare il punto della situazione nazionale è l’Osservatorio Socialis che ha promosso un incontro in collaborazione con il Gruppo Parlamentare del Pd.
Ma quante sono le aziende su cui andrà ad impattare la norma? Secondo i dati riferiti da Tiziana Pompei, vicesegretario generale di Unioncamere, in Italia saranno circa 400 e in Europa circa 6.000. La Direttiva, però, rimanda ad ogni Stato la possibilità di ampliare i destinatari includendo anche quelle che sono considerate “aziende di interesse nazionale”.
La Direttiva 95 fa parte di un’Europa “moltiplicatore di opportunità”, come la definisce Sandro Gozi, sottosegretario della Presidenza del Consiglio con delega alle Politiche Comunitarie. E’ infatti centrale per il rilancio della competitività, per valorizzare le buone prassi che molte imprese hanno già messo in campo. Non si tratta di una Direttiva che mette nuovi vincoli: basta solo sistematizzare quanto già a disposizione, come ad esempio il ricorso agli indicatori già elaborati attraverso una procedura partecipata ed in uso attraverso la piattaforma del Mise.
Chiara Scuvera (Pd) richiama l’attenzione su alcuni fenomeni che caratterizzano ad esempio, il settore dell’agricoltura, anch’esso destinatario della norma, in cui persiste il fenomeno del caporalato. Questa direttiva costringerà le grandi aziende a riflettere anche sulla qualità ed eticità della prioria filiera.
Ad emergere, in occasione dell’incontro, anche la necessità di trovare un meccanismo premiante per quelle aziende che, pur non essendo direttamente interessate all’adempimento, accolgano però volontariamente la sfida della comunicazione delle informazioni non finanziarie. Attraverso la trasparenza delle informazioni non finanziarie si porrà, poi, in maniera più forte il tema del rapporto tra imprese e territori. Un tema che riguarda più le imprese di grandi dimensioni che non le piccole, per evidenti ragioni di diversa dimensione dell’impatto.




Aziende e sostenibilità, la legge non certifica l'eticità del business

Gestire eticamente il proprio business. Le aziende ci provano o almeno così dicono. Lo dimostra il bilancio di sostenibilità, il documento volontario dove le imprese comunicano le ‘buone azioni’ in ambito sociale e ambientale. Dalle emissioni in atmosfera all’uso razionale delle risorse idriche fino ad arrivare alle politiche a favore dei dipendenti: sicurezza, formazione parità di genere e chi più ne ha più ne metta.

Ma chi controlla quello che le aziende dichiarano? E ancora: per un’azienda presente in diversi paesi è giusto adottare un unico bilancio di sostenibilità nonostante le leggi sul lavoro e sull’ambiente, siano diverse? Il problema, spiega all’Adnkronos, Mario Molteni, direttore scientifico del Csr Manager Network, l’associazione che riunisce i manager della responsabilità sociale d’impresa, “è duplice”.
Da una parte, spiega Molteni, “c’è uno standard internazionale, il Gri, (Global reporting initiative, ossia le linee guida per l’elaborazione di un bilancio di sostenibilità, ndr), giunto alla quarta edizione. C’è un movimento convergente dei grandi gruppi internazionali rispetto a questo standard, e ciò è bene. Anche perché nel tempo la qualità delle informazioni è destinata a migliorare”.
Dall’altra parte, “le legislazioni locali possono imporre informazioni specifiche. In tal senso spesso le ‘società nazionali’ delle multinazionali fanno anche un bilancio di sostenibilità specifico nel Paese”. Ma non è sempre così. Non succede, infatti, né in Schindler, la multinazionale svizzera nel settore degli ascensori, nè in Henkel, multinazionale tedesca dei detersivi, dove il bilancio è unico.
L’obiettivo, spiega Luca Miolo, Csr manager Schindler Italia, “è avere a livello globale una fotografia dell’azienda. Poi è chiaro che questo bilancio viene alimentato da ogni consociata che mette a disposizione del gruppo le informazioni che vengono raccolte. La sede centrale va molto a fondo nei controlli ma a livello esterno ha senso comunicare un unico bilancio”. La Schindler però è presente in oltre 140 paesi e le leggi ovviamente non sono le stesse.
Per fare un esempio basta guardare alla Svizzera, sede centrale del gruppo, dove il lavoro è più flessibile e il licenziamento più liberale. Basta dimostrare il calo del rendimento sul posto di lavoro. Se poi questo calo sia dovuto ad una condizione particolare, come un problema di salute certificato, poco importa. Di certo, commenta Miolo, “il tentativo è di migliorarsi continuamente. Un altro dei nostri valori è l’integrità che implica il rispetto della legge. L’azienda si muove sempre all’interno della normativa nazionale. E questa è un po’ la complicazione. A volte è il bello e a volte è il brutto dei contesti multinazionali”. Insomma, bene essere responsabili ma la legge prima di tutto.
In Henkel, multinazionale presente in oltre 120 paesi, il Rapporto per lo Sviluppo Sostenibile, spiega Cecilia de’ Guarinoni, responsabile della comunicazione corporate e membro del Comitato Sviluppo Sostenibile di Henkel Italia, “si basa sullo standard internazionale Gri ma si tratta di una rendicontazione interna e non è certificata da enti esterni”. Il consumatore quindi si deve fidare oppure può sempre verificare di persona se quanto dichiarato dall’azienda corrisponda al vero.
Eppure non ci sono dubbi: “certamente la certificazione innalza la qualità e l’affidabilità dei dati socio-ambientali” commenta Molteni che sottolinea: “i costi sono alti e le imprese di minori dimensioni difficilmente possono permetterselo”. Ma questo, appunto, riguarda solo le piccole imprese.
“Se nel Paese il comportamento dell’impresa pone un’asticella più alta di quanto imposto dalla legge, allora l’azienda ha tutto l’interesse a comunicarlo” commenta Molteni che aggiunge: “se non lo fa, si espone alle critiche di un movimento di opinione che ha un profilo globale. A questo proposito, internet sta innalzando il potere d’influenza degli ‘attivisiti’”. Non ci resta, dunque, che augurare lunga vita al web.

 




Minecraft è l’ultima vera avanguardia?

Trovate un bambino tra i nove e i dodici anni e chiedetegli se conosce Minecraft; poi preparatevi a passare l’ora successiva a farvi raccontare per filo e per segno la sua esperienza di architetto, i suoi ambiziosi progetti urbanistici, i suoi problemi con le pecore e i creeper. A questo punto potrete considerare il vostro interlocutore con sufficienza, oppure prenderlo sul serio e cercare di capire che cosa vi state perdendo.
Minecraft è un mondo fatto di cubi, tantissimi cubi, un universo virtuale nel quale è possibile costruire praticamente qualsiasi cosa. Minecraft è il videogioco per pc più venduto della storia. Ha superato i cento milioni di giocatori registrati su tutte le piattaforme. Gli studios Mojang l’hanno venduto a Microsoft per 2,5 miliardi di dollari. Si trova anche in libreria, con guide e manuali che hanno venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo. Contrariamente a molti altri fenomeni che la stampa si era affrettata a sovraesporre — pensiamo a Second life nel periodo 2006-2008 – Minecraft è restato per qualche anno “fuori dai radar”, malgrado il suo successo crescente tra preadolescenti e adolescenti.

Ancora oggi, se dobbiamo credere al relativo silenzio dei mezzi d’informazione e all’assenza di precisi dati demografici, sembrerebbe trattarsi solo di un passatempo di nicchia. Eppure basta esaminare le tendenze di ricerca su Google per misurare l’entità del fenomeno: lanciato nel 2009, Minecraft supera oggi di varie lunghezze videogiochi apparentemente più noti come Angry birds o Grand theft auto, ma anche star del pop come Lady Gaga, Rihanna o (per restare in ambito prepuberale) la Violetta della Disney. Solo il porno e Facebook ottengono risultati migliori. Forse anche perché, come ha affermato lo scrittore Robin Sloan, si tratta di un gioco che richiede un lavoro di studio, di ricerca, di scambio d’informazioni che si svolgefuori del gioco.
I casi di “notorietà percepita” sono sicuramente indizi del fatto che viviamo tutti dentro la nostra bolla informazionale. In questa materia specifica, a tenerci dentro una bolla è – ahinoi – l’età. Minecraft è un gioco che richiede molta pazienza e un rapporto con il tempo spesso incompatibile con la vita di un adulto socialmente integrato: blocco dopo blocco si costruiscono case, palazzi e città; e poi in questo mondo s’inventano delle avventure.
Ma soprattutto non c’è crafting senza mining, e per ottenere la materia prima – granito, legno, sabbia, lana, eccetera – si scava, si scava, si scava. Esistono sicuramente giocatori adulti di Minecraft (J. K. Rowling di recente ha fatto coming out) ma il loro numero incide in minima parte sulla dimensione del successo. Di regola i nostri coetanei, quando giocano, preferiscono il tennis sulla Wii, Candy crush sullo smartphone o, per i più raffinati, qualche ipernarrazione realistica tipoCall of duty.
Insomma se la stampa tace su Minecraft ovviamente non si tratta di censura. Tace per ignoranza; e ignora perché di norma chi scrive sui giornali non ha undici anni. Gli adulti impongono, per ragioni comprensibili, la loro egemonia sui bambini. Ma a furia di considerare con sufficienza gli usi e costumi di questo piccolo popolo, non staremo perdendo di vista qualcosa d’importante?
Non si tratta solo di una questione di numeri, sicuramente impressionanti; quello che sta accadendo dentro Minecraft è singolare soprattutto sul piano culturale. O perlomeno questa è l’idea che ce ne possiamo fare osservando dall’esterno una realtà che, bisogna ammetterlo, per gran parte ci sfugge. Eppure nella logica delprosuming videoludico descritta dal critico Giuseppe Frazzetto, Minecraft ci appare come un universo di creazione particolarmente ricco e vivace. Forse proprio perché noi, classe d’età egemone, custode dei valori dominanti, ne siamo esclusi.
Discutendone con il gif artist Gualtiero Bertoldi, che nelle sue animazioni riutilizza immagini di videogiochi d’epoca, possiamo capire meglio questa dimensione generazionale:

Essendo sempre stato appassionato di computer e pixel art, ho acquistato quasi subito Minecraft nel 2010, dopo averne visto parlare sul sito 4chan. Si trattava di una versione beta molto primitiva ad appena due dollari, che mi avrebbe garantito l’aggiornamento imperituro a tutte le successive versioni senza ulteriori esborsi. Dopo un paio d’ore a scavare, sminare e tirar frecce contro gli scheletri, chiusi tutto senza troppi patemi, e me lo dimenticai. Poi circa sei mesi fa due miei nipoti, due fratelli uno di 13 anni e l’altro di 10, hanno passato un intero pranzo domenicale a parlare di Minecraft, così gli ho offerto quel mio vecchio account diventando di fatto il miglior zio del mondo. In sei mesi hanno costruito una serie di fattorie, minicomplessi edilizi e industrie che mi hanno lasciato basito. Tutto grazie non solo grazie all’esplorazione personale, ma pure per mezzo d’uno studio attento e preciso di centinaia di video su YouTube, oltre che al download di moduli particolari messi a disposizione da altri utenti.

Su Minecraft nascono e prosperano grandi città immaginarie (Imperial City, Greenfield…), leggendarie (Atlantide, Xanadu…), letterarie (Harry Potter, Il signore degli anelli…), storiche (New York negli anni trenta, Babilonia…). Su Minecraft esiste un’economia, con beni preziosi che possono essere scambiati e perfino prestati a interesse. Su Minecraft è stata ricostruita la Danimarca in scala 1:1, anche se sfortunatamente è stata subito attaccata e molti edifici dinamitati. Su Minecraft, mattoncino per mattoncino con l’aiuto di una spolverata della cosiddetta Redstone, è stato fabbricato un minicalcolatore munito di ram capace di fare calcoli matematici (è grande come un palazzo) e, più recentemente, un rudimentale word processor. E una stampante 3D. Su Minecraft puoi visitare Auschwitz e presto ilBritish museum. Su Minecraft c’è una porta che si aprirà solo dopo la morte termica dell’universo. Su Minecraft vige di norma una sorta di elementare fisica newtoniana, ma è anche possibile installare una modalità conforme alla meccanica quantistica. Su Minecraft, come raccontato dal New Yorker, il trentenne Kurt J. Mac sta camminando dal 2011 per raggiungere i limiti del mondo, documentando su YouTube l’intero suo viaggio e gli strani fenomeni di sfaldamento della realtà determinati dalla mole crescente di dati da calcolare per generare il territorio. Gli esempi potrebbero continuare a lungo.
Come chiarisce Giuseppe Frazzetto, bisogna suddividere i giocatori in diverse categorie che coincidono in parte con una segmentazione per età. Oltre ai giocatori occasionali, le categorie sono tre:

1) la ‘base’, ovvero i milioni di preadolescenti conquistati dal fascino diMinecraft, che ne rendono materialmente possibile l’esistenza e quindi che ne orientano l’evoluzione; 2) i ‘quadri’, ovvero quelli che fanno i tutorial, le guide, animano i forum o gestiscono i server, e che tendenzialmente sono un po’ meno giovani; 3) gli ‘avanguardisti’, che fanno cose eclatanti, tra i quali troviamo sicuramente degli adulti geniali come l’esploratore sopracitato. Alcuni di loro con Minecraft si guadagnano pure da vivere grazie alle centinaia di migliaia di visualizzazioni su YouTube, in maniera simile agli artisti contemporanei che monetizzano le loro performance (Minecraft è il videogioco di cui esiste il maggior numero di video-tutorial). Un’altra fonte di guadagno è la gestione dei server di gioco, un gigantesco giro d’affari paragonabile a un franchising.

Secondo Gualtiero Bertoldi, il successo di Minecraft è legato alla sua originalità e alle sue caratteristiche peculiari:

All’inizio pensavo che l’attrattiva consistesse nel suo essere una sorta di Lego virtuale, e che quindi facesse leva sul sempiterno fattore nostalgia. Ma dopo essermene stufato quasi subito e aver visto come piaccia a chi, invece, dei Lego non ha (ancora) nostalgia, mi sono dovuto ricredere. In parte è una sorta di prefigurazione della cosiddetta internet of things, in parte lavora su un aspetto per così dire fisico-ingegneristico: penso non solo alle Redstone, ma a tutti i meccanismi interconnessi che si potevano creare anche nelle primissime versioni.

Qualcuno sostiene che l’estetica di Minecraft sia poco gradevole, con i suoi cubettoni pixelati; eppure è del tutto coerente con le recenti tendenze artistiche che proprio nel recupero ironico della forma-pixel hanno trovato un efficace modulo espressivo. Come dice ancora Bertoldi:
Minecraft permette quell’interattività aperta e totale che in tutti gli altri videogiochi è limitata, per questioni narrative o di design. Ecco, anche la bassa definizione ricopre un ruolo fondamentale, sia per la gestione tecnica del tutto, sia perché è un tipo di grafica che appartiene oramai all’inconscio videoludico collettivo, e ha una particolare matrice visiva di calore e giocosità che tutte le altre megaproduzioni contemporanee non hanno. Penso alla noia e alla totale mancanza d’invenzione visiva di certi videogiochi iperealistici, e alla ribalta nuovamente conquistata da giochi low budget che sfruttano sempre la pixel art.
In Minecraft tutte le forme sono composte da iper-pixel cubici a loro volta ricoperti da texture di grossi pixel bidimensionali. Si tratta di un aspetto riconoscibilissimo e a suo modo seducente, ma questa cifra stilistica ha soprattutto delle ricadute importanti sull’economia dello sviluppo del software, del suo consumo di risorse hardware e della sua giocabilità. Minecraft partecipa a una specie di “rivoluzione impressionista” della computer-generated imagery, che aggiusta il piano ideologicodel gusto al piano materiale delle risorse disponibili.
Non è un caso, quindi, che questa rivoluzione estetica sia stata portata avanti da sviluppatori indipendenti come Mojang in Svezia o da strutture ancora più piccole e fragili come la Polytron di Phil Fish raccontata nel documentario Indie game; proprio come alla fine dell’ottocento a proporre il nuovo linguaggio pittorico erano artisti estranei alle accademie. L’artista Nicholas Ladd ha esibito in maniera efficace l’analogia tra Minecraft e impressionismo trasponendo nell’universo cubico del videogioco il celebre quadro puntinista di Seurat, Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte.
Il successo di Minecraft, proprio come quello degli impressionisti oltre un secolo fa, tiene nella congiuntura perfetta tra cultura ed economia. Restituire in maniera esaustiva la realtà, nei videogiochi proprio come nella pittura accademica ottocentesca, è innanzitutto costoso e talvolta superfluo. La “molteplicità” della quale parlava Calvino nelle Lezioni americane bisogna potersela permettere. La realizzazione di un dipinto di Bouguereau costava di più di quella di un Manet, perché la tecnica “alla prima” e le pennellate “più veloci della luce” (cioè delcambio di luce) permettevano all’impressionista un notevole risparmio di tempo.
Nello stesso modo oggi per renderizzare un mammut ricoperto di centinaia di migliaia di peli, come nei film della serie L’era glaciale, ci vogliono macchine molto più potenti del pc di casa. Anche in questo caso si tratta di una questione di tempo (di calcolo) e quindi un arbitraggio di tipo economico: quanti peli possiamo permetterci? E di quanti peli abbiamo bisogno? Dipende.
L’illustrazione scientifica ottocentesca, come ricorda Riccardo Falcinelli nella suaCritica portatile al visual design, si concentrava “sulla raffigurazione accurata degli animali in ogni singolo pelucco” (o quasi). Invece nel mondo di Minecraft non si trova un pelo nemmeno a pagarlo oro, e anche la lana è fatta a cubi. I mammut sono, come dire, piuttosto rudimentali. In compenso possiamo farli girare su qualsiasi piattaforma.
Gli economisti sostengono che l’incontro tra domanda e offerta definisce un equilibrio di mercato e con ciò il prezzo di un bene in funzione della quantità prodotta. Ma forse possiamo aggiungere che sul piano economico, alla convergenza tra le due curve, si determina anche un equilibrio formale: ovvero uno specifico registro linguistico compatibile con i costi e con i bisogni di un insieme di consumatori; un certo grado di precisione nel rappresentare la complessità del mondo; una certa “esattezza” per citare ancora Falcinelli.
Con i suoi cubetti glabri, sgraziati oppure terribilmente alla moda, Minecraft oggi incarna questo equilibrio nel campo della modellizzazione videoludica dello spazio. E se questo gioco a cui si dedicano milioni di bambini in tutto il mondo fosse effettivamente l’ultima vera avanguardia artistica? Qualcuno dirà che si tratta di un altro modo per sfuggire alla realtà rifugiandosi in un mondo virtuale. Ma vediamola altrimenti: abbiamo finalmente trovato un modo per mandare questi benedetti ragazzi a lavorare in miniera.



Congressi medici: da giacca e cravatta a pantofole e vestaglia

Il congresso tradizionale passa da giacca e cravatta a pantofole e vestaglia.

Tra gli speech che ho ascoltato a Eyeforpharma Barcellona 2015, quello di Len Sternes mi è sembrato uno dei più interessanti e colti, in quanto mi è apparso molto centrato sull’attualità della relazione con il medico.
Secondo i dati citati da Len, la vendita di stand all’European Society of Cardiology (ESC) – uno dei congressi medici più importanti e seguiti in Europa – è calata del 30% rispetto al 2009.

Congressi virtuali

Il caso ESC, però – come brillantemente sottolinea Len – è ancora più interessante se si considera il numero e la tipologia di visitatori: 25.000 visitatori fisici e25.000 visitatori virtuali, questi ultimi aumentati del 30% rispetto all’anno precedente. L’aumento dei visitatori virtuali è un elemento che accomuna i più acclarati congressi internazionali.
La trasformazione dei congressi tradizionali in congressi virtuali, per essere completa, richiederà tempo e risorse che già oggi sono a disposizione delle principali organizzazioni.
Questa sfida, da una parte consente una maggiore sostenibilità finanziaria e più visibilità ed impatto a parità di costo; ma dall’altra consente anche a molti medici di partecipare ai congressi, attivamente, mentre sono a casa, comodi, in vestaglia.
E mentre le aziende sono ancora nella fase di comprensione del modello multichannel e provano a rendere più efficace il proprio ISF investendo – al massimo – il 20% del loro budget nel digitale; i medici si informano informarsi sempre di più su internet, fino al 90% secondo le ultime ricerche internazionali di Manhattan Research.

Medici, Congressi e Pharma

Mentre il medico vuole ricevere informazioni 365 giorni l’anno, l’informazione che sinora ha subito è stata push, ha interrotto il proprio lavoro. Mentre il medico vuole poter decidere cosa leggere e cosa approfondire, le aziende hanno sempre voluto promuovere comunicazioni monodirezionali. E così mentre i medici hanno iniziato ad assistere ai congressi in modo virtuale, le aziende farmaceutiche si sono ritratte dalle sponsorizzazioni, in quanto i congressi risultano troppo costosi, inefficaci, poco misurabili e soprattutto non più adeguati alle normative interne.
Oggi la possibilità di comunicazione con il medico durante i congressi è cresciuta, ma le industrie non se ne sono ancora accorte. Ora è possibile invitare un medico ad assistere ad un congresso, senza costi di trasferimento e con tutta comodità.
Len Sternes, ancora una volta, ci offre una conferma che, solo interpretando il presente, è possibile accordare le proprie spese ed il proprio budget ai veri bisogni dei medici. Oggi, anche promuovendo i congressi e la partecipazione virtuale a questi, si può andare incontro alla necessità della rete di tenere le relazioni e a quella del medico di avere un trasferimento culturale.
Se non volete guardare il futuro, almeno cavalcate il presente, chiosa Len, i medici nativi digitali si aspettano nuovi modelli comunicativi. E questi – come ha notato anche Pharmaguy – già esistono, basta coglierli.
 

I medici italiani e DottNet

Di questo già parlavamo, spiace citarmi, un po’ di tempo fa, nell’articolo Zero congressi o non-promotional marketing? ed è una certezza che viene dalla pratica. Oggi su DottNet abbiamo tempi di permanenza superiori ai 7 minuti, escluso la formazione, e praticamente sempre una visita di un medico su DottNet dura più di una visita frontale. Se fosse necessario l’ultima conferma fortissima viene proprio da DottNet: un terzo delle visite al sito avviene tra le ore 20 e le 8 della mattina seguente.
Proverò a dirlo a Len. Il medico in Italia, già oggi su DottNet, si aggiorna in vestaglia.