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GALAXY NOTE 7: LA CRISI COME OPPORTUNITÀ, MA FAVORIRÀ IPHONE 7?

L’affaire Galaxy Note 7 ha assunto ormai dimensioni planetarie. Dopo le prime segnalazioni degli utenti, che non hanno mancato di mostrare online le immagini e i video dei loro nuovi dispositivi esplosi, Samsung ha preso la decisione più dura: il ritiro del prodotto dal mercato.
In realtà, più che di ritiro bisognerebbe parlare di richiamo, visto che il Note 7 a breve dovrebbe ritornare in commercio, senza ovviamente i problemi alla batteria che lo hanno visto protagonista. La scelta è tuttavia stata obbligata, visto che la sicurezza degli acquirenti non era più garantita. Uno dei primi casi, riportati sul forum cinese Baidu, ha visto protagonista un utente che ha assistito all’autocombustione del suo Note 7 durante la ricarica. Lo sfortunato acquirente ha descritto una scena piuttosto preoccupante: non si è trattato di un po’ di fumo e di qualche scintilla insomma. Il telefono ha dapprima emesso uno scoppiettio, poi ha preso letteralmente fuoco, come testimoniato anche dalle numerose immagini.
A seguito di altri incidenti, Samsung ha deciso di interrompere le spedizioni per investigare sull’accaduto, scoprendo che la batteria del Note 7, in rare occasioni, può incendiarsi. All’azienda coreana sono stati segnalati 35 casi di esplosione confermati, anche se il numero potrebbe essere più alto. Questo è bastato a far ritirare dal mercato circa un milione di unità, sul totale di circa 2.5 milioni di pezzi prodotti fino a questo momento, almeno secondo le informazioni disponibili. In totale quindi Samsung si ritrova con 2.5 milioni di Note 7 che non può vendere, un danno enorme, che potrebbe rovinare l’ottimo lavoro svolto con il terminale, molto apprezzato dalla critica nelle prime recensioni. Il ritiro di un milione di unità inoltre pone dei seri problemi di carattere logistico e comunicativo: come avvisare tutti gli utenti che hanno già un Note 7 in tasca? Cosa succederebbe se accadesse un incidente più serio a un utente non ancora informato del richiamo? Insomma, i rischi non sono pochi, soprattutto per un’azienda che punta forte sull’immagine per incentivare le vendite.
Anche per questo Samsung, nel bel mezzo della crisi, ha dimostrato un sangue freddo davvero impeccabile. Non vogliamo dilungarci sugli aspetti che contraddistinguono la comunicazione di crisi, ma la preparazione e la tempestività mostrata da Samsung è stata evidente, a dimostrazione che il management era pronto ad affrontare situazioni di questo tipo. Ecco perché la vicenda, se ben gestita, potrebbe portare qualche beneficio sul lungo periodo, dimostrando al mondo che in Samsung i problemi si affrontano di petto, mettendo anche da parte il profitto se necessario.
Da tutto questo però chi trarrà maggior profitto? Probabilmente Apple, che il 7 settembre presenterà i suoi nuoviiPhone. A questo punto, molto interessante sarà nei prossimi mesi tenere sottocchio i dati di vendita dal Note 7, per capire se Samsung è riuscita a contenere gli effetti collaterali della crisi. Solo allora sapremo se il problema sarà velocemente dimenticato dagli utenti; in caso contrario sarebbe un bel guaio per Samsung, che si troverebbe a corto di nuovi prodotti di fascia alta proprio nel periodo natalizio, e con Apple alle calcagna.




Agras Pet Foods pubblica il suo primo bilancio di sostenibilità

Un passo importante verso la trasparenza e la responsabilità sociale e ambientale per Agras Pet Foods.

Agras Pet Foods, azienda leader nel mercato del cibo per animali da compagnia con il brand Schesir, si analizza e si racconta. Lo fa con un bilancio di sostenibilità che mostra agli stakeholder i valori che guidano le proprie scelte.
La decisione di pubblicare questo documento, nel trentesimo anno di vita dell’azienda, nasce da una crescente attenzione verso la sostenibilità in tutte le sue accezioni e in particolare verso la conservazione delle risorse naturali. Infatti, spiega l’AD Pietro Molteni, occorre proteggere l’atmosfera, monitorando le emissioni di CO2, e il mare, puntando ad un approvvigionamento sostenibile.
“Crediamo che l’uso sostenibile delle risorse consumate dall’azienda nei propri processi sia un obiettivo non solo etico ma anche economico”, afferma Molteni, “perché se sfruttiamo le risorse naturali senza pensare al futuro mettiamo a rischio la produzione stessa dei nostri prodotti e dunque il futuro della nostra azienda”.
Diventa così parte integrante dell’approccio aziendale il concetto di governo della sostenibilità, inteso come l’integrazione della sostenibilità negli aspetti della gestione dell’azienda, con il controllo e lo sviluppo sostenibile delle proprie opportunità, che siano economiche, sociali o ambientali, sia a livello locale sia globale.
La carta dei valori di Agras Pet Foods accoglie concetti come qualità, responsabilità verso la società e l’ambiente, legalità, ma anche trasparenza, sicurezza, fiducia, innovazione, integrazione e diversità.
L’azienda ricorre a certificazioni esterne che garantiscono il suo impegno in diversi ambiti, ad esempio ha ottenuto la certificazione del Marine Stewardship Council (MSC) e alcuni suoi prodotti sono marchiati MSC. 
Al fine di proteggere la biodiversità, tutto il pesce utilizzato nella preparazione dei prodotti a marchio Schesir, ADoC e Dreesy proviene da pesca sostenibile, e i tonni in particolare appartenengono a due sole specie, che non sono a rischio di sovrasfruttamento: lo skipjack e il bonito.
Nel 2014 Agras Pet Foods ha iniziato a calcolare la propria carbon footprint, quantificando le emissioni di gas serra generate nello svolgimento delle proprie attività, in modo da migliorare al tempo stesso consapevolezza e performance: il valore per l’anno 2014, che sarà ricalcolato e tenuto sotto controllo annualmente, è stato di 3050,5 tonnellate di CO2.
Agras Pet Foods si impegna anche a realizzare un packaging a zero emissioni: a tal fine compensa l’anidride carbonica generata dalla produzione dei cartoncini che rivestono le lattine di cibo per cani e gatti a marchio Schesir con investimenti a sostegno della rigenerazione di foreste in Italia, in particolare nel Gargano, o della produzione di carbonella riciclata in Cambogia, un progetto innovativo realizzato da Sustainable Green Fuel Enterprise.
L’azienda, inoltre, compensa le emissioni prodotte dal sito webwww.schesir.com attraverso il progetto Zero Impact® Web con altre iniziative di riforestazione, questa volta in Costa Rica.
Le sfide per il futuro di Agras Pet Foods riguardano tre ambiti principali: ridurre ilpackaging dei prodotti, spostare ulteriormente il traffico della logistica dalla ruota alla rotaia (attività già partita nel 2015)  e utilizzare più materiale riciclato ericiclabile per gli stampati di comunicazione.
Per ridurre l’impatto ambientale dei prodotti commercializzati e in particolare delle proprie operazioni logistiche, quest’anno Agras Pet Foods ha ridotto l’approvvigionamento da Paesi lontani come Australia o Canada, così da ridurre le distanze. In ogni caso, da sempre l’azienda privilegia i fornitori che possono garantire l’adesione a determinati valori ad esempio il rispetto dell’ambiente o delle condizioni di lavoro del personale impiegato.

Per gli aspetti più strettamente legati al benessere degli animali, che sono anche i consumatori finali dei suoi prodotti, Agras Pet Foods si impegna a non svolgere test di prodotto cruenti, e tutte le confezioni espongono i simboli Cruelty Free eDolphin Safe.
Agras Pet Foods offre sostegno economico al FAI, Fondo Ambiente Italiano e ad organizzazioni a sfondo sociale come Terre des Hommes o la Fondazione Theodora Onlus, impegnate in iniziative per l’infanzia, ma svolge anche attività di solidarietà verso associazioni che si prendono cura di animali, donando loro i propri prodotti.

 




Da Giano bifronte a Pinocchio. Le multinazionali con disturbi di identità

“Solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”. A leggere cosa raccontano di sé, tutte le multinazionali sono “straordinarie”, con un clima interno di lavoro piacevole e orientate al bene della comunità. Ma quante di queste “parole chiave” hanno poi un concreto riscontro nelle loro attività quotidiane?


Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”. Pinocchio, come tutti sanno, è il personaggio di legno inventato da Collodi: sa essere buono, ma cade spesso nella tentazione di farsi trascinare da brutte compagnie, e nell’immaginario popolare è anche simbolo di bugia, con il suo naso che si allunga a dismisura quando mente, fino puntualmente a cacciarsi nei guai.

Aziende Pinocchio Bifronte: le multinazionali farmaceutiche

Ecco quattro brevi storie – ma se ne potrebbe citare molte, moltissime altre – di aziende con un atteggiamento che fonde bene le due figure simboliche sopra richiamate, al punto da generarne probabilmente una terza: il Pinocchio bifronte. A leggere cosa raccontano di sé, sono tutte multinazionali straordinarie, con clima interno di lavoro piacevole, e orientate al bene della comunità.
Partiamo da Big pharma facendo qualche nome: Novartis, Eli Llly, Glaxo, Shire, Gilead. Queste e altre aziende sembrano in varia misura coinvolte in qualcosa di simile ai “disturbi dissociativi d’identità”: sui loro bilanci sociali si fa un gran parlare di parole chiavi quali “solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”, ma quante di queste si traducono poi in comportamenti concreti?
Si dibatte spesso del redditizio business della produzione e vendita di psicofarmaci per bambini – circa 20 miliardi di dollari di incassi all’anno – ma soffermiamoci per un attimo sulla denuncia di Medici senza frontiere: in India le più grandi aziende del comparto farmaceutico e le associazioni di medici e pazienti sono schierati da anni su fronti contrapposti (benché le multinazionali del pharma dichiarino di essere “dalla parte di medici e pazienti”), in quanto la legge indiana permette di rifiutare alle grandi aziende le richieste di esclusive di brevetto per quei farmaci che non presentano “caratteristiche di forte innovazione e unicità”. Le Big pharma amano manipolare i brevetti cambiando appena due virgole per dare ulteriori 20 anni di vita a galline dalle uova d’oro che diversamente finirebbe sul mercato libere da brevetti e a disposizione di tutti. In India le piccole aziende locali fabbricanti di farmaci generici – medicinali i cui brevetti sono scaduti, e che quindi costa molto meno produrre, non dovendo pagare stratosferici diritti a nessuno – lavorano alacremente per mettere medicine a disposizione di pazienti di fasce poveredella società a prezzi 10, 20 a volte 50 volte inferiori a quelli delle grandi case produttrici.
Le pressioni sempre più sfacciate e insistenti di Big pharma potrebbero tuttavia modificare lo scenario in modo certamente non favorevole ai pazienti, come ha denunciato Silvia Mancini di Medici senza frontiere: “Le cose stanno cambiando, e presto probabilmente non potremo più disporre di medicine a basso costo da distribuire nelle zone più povere del mondo”, con buona pace di chi verrà semplicemente condannato a morte da questa scelta di business, e le cui storie probabilmente non troveranno spazio sui patinati bilanci sociali delle grandi multinazionali farmaceutiche.

india farmaci

Impiegati usa e getta

Spostiamoci dall’India agli Stati Uniti, con l’eclatante inchiesta del New York Times, Impiegati usa e getta, sul colosso delle vendite online, Amazon: ritmi di lavoro estenuanti, capi ufficio che penalizzano gli impiegati che non rispondono alle email di lavoro durante la notte o nei giorni di ferie, un sistema informatico che permette di fare delazioni anonime a danni dei colleghi, dipendenti malati di cancro a rischio licenziamento in quanto “le difficoltà della vita privata non devono interferire con le prestazioni lavorative”, o donne vittime di aborto spontaneo mandate in viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento con note del tipo “se hai tutta quest’intenzione di metter su famiglia, come sembra, sappi che questo non è il posto giusto per te”.
L’elenco delle vessazioni in Amazon è lungo pagine e pagine, e tutto ciò fa a pugni con le roboanti dichiarazioni di intenti pubblicate online dall’azienda sui documenti di rendicontazione sociale, tanto che l’amministratore delegato Jeff Bezos – che ogni anno secondo la Harvard Business Review si contende con il Ceodella Apple, Tim Cook, il primo posto come Ceo più performante nel mondo – ha dichiarato al New York Times, “Questa non è l’Amazon che conosco”. Eppure le due realtà paiono convivere in perfetto stile Giano bifronte: un’azienda apparentemente attenta al rispetto dei diritti dei dipendenti e al clima di lavoro interno, e nel contempo la stessa azienda bulimicamente proiettata verso un modello di business che prevede “guadagni, sempre più guadagni, a qualunque costo”.

magazzino amazon

Un magazzino Amazon in Inghilterra © Peter Macdiarmid/Getty Images

Creare obbedienza con la paura

Dagli Stati Uniti, diamo un’occhiata in casa nostra, con la storia di un’azienda apparentemente molto attenta, secondo le solite dichiarazioni sui bilanci sociali, buone per comunicati e conferenze stampa, ai risvolti etici e sociali della propria attività: Enel.
Francesco Starace, amministratore delegato della nostra azienda elettrica nazionale ha illustrato il suo pensiero durante un incontro tenuto a Roma con gli studenti dell’Università Luiss, dove ha spiegato come “generare cambiamento nelle aziende”. In riposta all’innocente domanda di uno studente, che chiedeva “quanto contano i propri collaboratori, e quali sono gli ingredienti di successo per un cambiamento”, Starace ha risposto: “È facile. Alla gente non piace soffrire”. Dimenticatevi ogni buon corso di leadership e di motivazione del personale, perché il principio cardine secondo Starace è il seguente: “Per spingere all’obbedienza e al cambiamento i sottoposti è necessario distruggere chi ha idee diverse da quelle del leader. Per farlo ci sono alcune cose abbastanza semplici da fare: innanzitutto ci vuole un gruppo di persone fedeli all’idea del capo; successivamente, si devono distruggere fisicamente i centri di potere che all’interno di un’azienda si oppongono al volere del leader, inserendo persone fedeli all’interno dei gangli dell’organizzazione dove lavorano coloro che hanno idee diverse (…), e creando malessere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento nel modo più plateale e manifesto possibile, in modo da ispirare paura agli altri”.
Come mai questi “illuminati” principi di leadership aziendale non sono declinati sui siti web aziendali e sul bilancio sociale Enel, firmato paradossalmente dallo stesso Starace, dove al contrario si fa un gran parlare di “coinvolgimento”, “creazione di valore”, “collaborazione”, “piani di sviluppo individuali delle persone” e addirittura di “wellness aziendale”.

lavoratori enel multinazionali

Lavoratori a una centrale Enel © Alessandra Benedetti/Corbis via Getty Images

Gay-friendly – a corrente alternata

Ultima storia, quella di Fiat, o meglio Fiat Chrysler automobiles (Fca), che ha segnalato con un comunicato stampa in olandese, poi tradotto in inglese per i mercati esteri, ma mai proattivamente diffuso in Italia, di aver sostenuto attivamente il Gay pride di Amsterdam, grazie anche alla lodevole sensibilità personale sui temi Lgbt di Cristiana Alicata, responsabile di Fca Olanda. In effetti, come certifica il portale Gay.it, l’auto che più di tutte “ci ha messo il muso” per la comunità Lgbt è la Fiat 500: è stata per ben due volte eletta Gay car of the year, e come le migliori drag queen la baby di casa Fiat “ha saputo travestirsi e trasformarsi come una vera regina del palcoscenico, assumendo colori ispirati a Barbie e Gucci”. In occasione appunto del Gay pride di Amsterdam è stata dipinta completamente di rosa, con l’hashtag #welovepink e ha sfrecciato orgogliosa sulle acque dei canali della capitale olandese. Già per altri Gay Pride, questa volta negli Stati Uniti, la 500 prese le tinte della bandiera arcobaleno, troneggiando tra carri e partecipanti alle parate che celebravano la legalizzazione del matrimonio egualitario in America, e, ancor prima, si distinse nell’Orgullo di Madrid del 2010 con 5 modelli speciali a rappresentanza di diverse “specie della fauna Lgbt”, quali Drag, Leather, Lesbo, Orso e Cool. Si era “travestita” con paillette, cuoio, pelliccia, rossetto e persino gli specchietti in palla da discoteca, che ne avevano decorato la carrozzeria, per richiamare in modo scherzoso alcuni stereotipi del mondo queer.
Ma tutto questo orgoglio gay sparisce purtroppo quando si varcano i confini del Bel Paese, che tra l’altro – troppo spesso qualcuno lo dimentica – alla Fiat ha dato i natali. Nel bilancio sociale della multinazionale dell’auto la parola “Lgbt” o simili non compare infatti neppure una volta, se non indirettamente e molto genericamente nella sezione in lingua inglese Culture of diversity and inclusion, quando si cita tra le molte associazioni alle quali la Fabbrica italiana automobili Torino aderisce anche la californiana Gay and lesbian alliance.
“Trovo sconcertante questo comportamento ambiguo. Evidentemente, per quanto un’azienda sia grande, in quanto con Dna italiano resta sempre e comunque un’azienda ‘provinciale’ ”, ha dichiarato Fabio Canino, presentatore Rai e noto attivista Lgbt, che della promozione della “pink economy” ne ha fatto una vera e propria battaglia, anche nel suo ultimo libro dal titolo Rainbow Republic, aggiungendo: “Posso solo augurarmi che prima o poi anche la Fca riesca a mettere la freccia e a sorpassare i pregiudizi che evidentemente dimostra ancora in Italia verso il mondo Lgbt”.
Nei prossimi anni scopriremo se questo è solo l’inizio di un percorso di maturazione culturale interno, iniziato in Olanda e negli Stati Uniti, e che si manifesterà poi anche nel nostro Paese.

Mettiamo le multinazionali sul lettino

Ebbene, che siano le aziende citate in quest’articolo, piuttosto che Shell, la società petrolifera “green” i cui impianti hanno causato danni ambientali per miliardi di dollari nel Golfo del Messico, o la banca “attenta alle persone”  che poi vende obbligazioni tossiche rovinando decine di migliaia di famiglie e facendo suicidare vari imprenditori, c’è da chiedersi quanto spazio separa la verità dalla finzione. Quanto è sottile la patina di smalto verde che le aziende si danno compulsivamente per apparire più eco e trendy agli occhi del mondo, al solo fine di orientare in modo più profittevole i comportamenti di acquisto dei cittadini. Quanto è fragile e traballante l’impalcatura di bugie della quale si circondano. Quanto è ampio il solco tra l’unità interna che si occupa di politiche sociali, di sostenibilità e di rendicontazione ambientale, e il top management che poi prende realmente le decisioni strategiche. Che ruolo hanno i “complici” di questi “delitti”, ovvero i consulenti, i comunicatori e i relatori pubblici, i Mandrake dei nostri giorni, che truccano le carte migliorando il percepito, e aiutando le grandi aziende nella loro opera di lifting”, chiudendo tutti gli occhi possibili in nome della pubblicità, del marketing e del business.
Abbiamo citato i Disturbi dissociativi dell’identità, o Disturbi da personalità multipla, fenomeni di forte disagio la cui caratteristica essenziale, seconda la psichiatria, è la presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento dell’individuo, con incapacità di ricordare notizie importanti troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza, e con pensieri ed emozioni della cosiddetta “personalità secondaria” che risultano assai differenti da quelli da quella principale. Le aziende sono gruppi umani organizzati per raggiungere uno scopo comune. Probabilmente ne riflettono in qualche modo le patologie, il che riporterebbe di stringente attualità le intuizioni di Adriano Olivetti, grande estimatore dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, al punto da creare con lo psicologo Cesare Musatti già negli anni Sessanta uno dei primi e più importanti gruppi di ricerca di psicologia del lavoro in Italia, che aveva come centro di sperimentazione proprio la grande fabbrica Olivetti di allora.
Il problema tuttavia è mettere le multinazionali sul lettino: c’è da chiedersi quante accetteranno di farlo spontaneamente, prima che si renda necessario un Trattamento sanitario obbligatorio con camicia di forza, come quello che ha costretto Volkswagen a rivedere bruscamente le sue policy di responsabilità sociale in occasione del recente Dieselgate, a seguito dei miliardi di euro persi in borsa proprio a causa delle menzogne raccontate al mercato.
 




Stupida stupida pubblicità

Il fatto è che i pubblicitari non sanno nulla di me. Provano da anni a seguirmi in rete o al casello dell’autostrada, al bancomat o quando compro il vino online, ma di me continuano a non sapere un accidente. Usano tecnologie sofisticate, misteriose e un po’ angoscianti, comprano montagne di dati da spacciatori poco raccomandabili, li incrociano e li confrontano ma alla fine continuano a non sapere nulla di me. Si comportano con me da stupidi, forse perché sono stupidi.
Se non fossero stupidi avrebbero capito che a me la pubblicità piace, che sono curioso, che se l’invito è ben proposto ed elegante, ironico o strano, io sono disposto a seguirlo. E magari perché no a comprare il prodotto. Ciò non accade mai (praticamente mai) non perché io odi la pubblicità ma perché la pubblicitá sembra scritta da qualcuno che non mi conosce e non sa nulla di me. Qualcuno che dopo l’analisi di migliaia di dati che mi riguardano produce un oggetto medio che mi indispettisce. Un oggetto in molti casi respingente e molesto fino al sadismo, che urla e disturba e inquina il mondo.
La pubblicitá è un business talmente evoluto e che riguarda così tanti specialisti che una volta uscito dalla sua fase più artigianale ha finito per costruire attorno a sé il mito della propria complessità. Sono pieni di sigle ed acronimi i pubblicitari, snocciolano target, focus group e numeri con grande naturalezza. Seguono gli sguardi dei navigatori dentro le pagine web e gli sbadigli delle patate da divano di fronte alla TV. Hanno maghi e guru molto rispettati che tutti ascoltano in ipnotizzato silenzio: c’è una tale iperspecializzazione nell’ambiente che provare anche solo a ipotizzare – osservandolo da fuori – che tanta professionalità e ricerca producano alla fine un prodotto stupido sembra quasi un’affermazione da ignorante vero.
Il risultato che io ho di fronte agli occhi è invece quello di un prodotto stupido, massificato, pensato per altri stupidi. Nessuno è ovviamente interessato a dirlo troppo forte per il rischio concreto di essere poi in qualche misura iscritto al club. Invece oggi spesso la pubblicità è un prodotto violentemente imperfetto, che, molto prima di reclamizzare qualcosa, illustra con esattezza la stupidità del mondo.
Se la pubblicità non fosse stupida e non avesse sprecato così vistosamente tutti i numeretti che ha raccolto su di me negli ultimi decenni saprebbe che a me le pubblicità piacciono. Mi piacciono per esempio quelle sui giornali non italiani. Sono addirittura una delle ragioni che me li rendono interessanti. Per esempio io sono abbonato al New Yorker ed una delle cose che osservo per prima quando lo sfoglio, sono le pubblicità. Immagini e testi che molto spesso dicono moltissimo del luogo da cui provengono. Per esempio qualche settimana fa sul New Yorker c’erano 4 pagine di pubblicità di un chemioterapico di nuova generazione per certi tipi di tumore del polmone inoperabili. “Chiedi al tuo dottore di prescrivertelo” diceva la pubblicità: e insomma, raccontano più quelle pagine di un lungo racconto di Gay Talese. Ma non si tratta solo di bassa sociologia: le automobili in vendita sono differenti dall’altra parte del mondo, i frigoriferi sono giganteschi sul New Yorker, osservarli e fare confronti (e magari comprarli) è interessante.
Se la pubblicità che mi insegue ogni giorno non fosse stupida e non continuasse tranquillamente a non sapere nulla di me, saprebbe che a me, per esempio, quando apro il sito web del Guardian non piace troppo vedere i banner della Coop di Forlì o quelli dell’albergo che ho prenotato su booking la settimana scorsa. Che una simile scelta ottiene l’effetto opposto a quello prefissato: non mi invoglia ad acquistare un prodotto (tantomeno uno che ho appena acquistato, figuriamoci) ma si appunta al mio petto come un promemoria potentissimo: questa roba che stai apparecchiando per me è stupida e non funziona.
Io trovo incredibile che un simile tempesta di cervelli, dopo aver sondato la mia vita in grande profondità, produca risultati tanto miseri. Se la pubblicità non capisce che a me i video con l’audio acceso disturbano più di una coltellata significa che ha fallito. Avessi una azienda che vuole aumentare il fatturato non mi rivolgerei a gente del genere. Qualcuno in questo momento da qualche parte del mondo sta spiegando a qualcun altro che i video con l’audio acceso sui siti web funzionano, che fanno aumentare le vendite, che hanno un (aggiungi acronimo tecnico a caso) superiore del 32% al (aggiungi altro acronimo tecnico a caso). E nessuno da nessuna parte del mondo sta dicendo a questi tizi: guardate siete dei falliti, siete stupidi e superficiali e invece che vendere merendine ed automobili inquinate il mondo e basta.
Non sono così naive da pensare che la pubblicità debba acconsentire alle esigenze del pollo da spennare che sta scrivendo queste righe. Ma lo sono abbastanza per dire che se a questo punto questo è tutto quello che mi sapete proporre allora forse siete degli incapaci. O degli stupidi. O tutti e due.




La reputazione degli organi finanziari di regolazione e controllo

I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato (i bond subordinati), e questo è successo soltanto in Italia, così Stefano Feltri su Il Fatto riferendo le dichiarazioni del commissario UE alla concorrenza la danese Margrethe Vestage.
Parto da qui per sottolineare che il mercato bancario e finanziario italiano è solo una minuscola componente di un sistema globale… che –nel suo insieme- sfugge a qualsiasi, anche la più benevola, interpretazione del termine  inglese ‘accountability’ e nessuno lo sa meglio delle persone che oggi sono qui.
Non è certo casuale che solo poche settimane fa a Davos, alla presentazione del Trust Meltdown Report VII – 2016, si è appreso che l’industria bancaria globale, nonostante la sua ripresa ‘reale’ avviata già nel 2014 e 2015, ha invece in questi ultimi anni, e di parecchio, peggiorato il proprio rating intangibile e reputazionale.
Secondo l’analisi di Media Tenor International, il sistema globale dei media trasmette oggi del sistema bancario una reputazione peggiore –nell’ordine- di quella dell’ISIS, dell’industria della droga, delle armi, del tabacco e della farmaceutica…
Sicuramente non possiamo trascurare che la reputazione del sistema bancario italiano nel nostro Paese risente anche di questo, ma – come abbiamo già indicato prima citando Feltri – l’Italia ha anche le sue specificità.
Parliamo allora di reputazione, di come la si valuta e di come -se solo ne fossero consapevoli- Consob e Banca d’Italia potrebbero ‘pungolare’ (inteso come ‘nudging’… e ne approfitto per informarvi che la prossima settimana a Bruxelles (http://www.eesc.europa.eu/?i=portal.fr.events-and-activities-nudge-thinking)  la Commissione Europea (honny soi qui mal y pense) tiene il suo primo symposio/colloquio ufficiale sul nudging (inaugurato da Obama già a conclusione del primo mandato, poi recentemente assunto a dogma da Cameron e per ora soltanto ‘sognato’ dal nostro Renzi)… la pratica comunicativa che interpreta la reputazione anche come strumento di controllo sociale.
Per prima cosa, la reputazione di una organizzazione è ben diversa dalla identità, o dalla immagine.

  • L’identità è l’insieme dei fondamentali di un soggetto (storia, missione, visione, strategia, valori guida: epigenetica)
  • L’immagine è quello che gli altri ‘percepiscono’ del soggetto sia attraverso l’esperienza diretta che la sua comunicazione
  • La reputazione invece è ciò che gli altri dicono agli altri dell’organizzazione.

L’implicazione è che la reputazione è un giudizio, seppur mutabile, ma relativamente consolidato: al punto che le persone si sentono libere di esprimere quel giudizio con gli altri sapendo però di mettere in gioco anche  la propria reputazione.
E’ dai primi anni novanta del secolo scorso che gli studiosi del management e della comunicazione organizzativa dibattono la complementarietà o la contrapposizione fra la scuola delle relazioni e quella della reputazione, e il dibattito continua.
Negli anni ho maturato la convinzione – grazie anche a esperienze concrete, professionali, sul campo – che la comunicazione è sì un importante strumento a diposizione dell’ organizzazione, ma lo è sopratutto se contribuisce a creare relazioni con gli stakeholder (soggetti consapevoli, interessati e influenti sul raggiungimento degli obiettivi che persegue).
Va da sé che relazioni efficaci con gli stakeholder rafforzano la reputazione dell’organizzazione.
E’ raro, infatti, osservare organizzazioni di buona reputazione prescindere dal tentativo di governare con sagacia le relazioni con gli stakeholder orientandole al dialogo e al coinvolgimento attivo (bridging). Mentre può accadere che organizzazioni di scarsa, o cattiva o  inconsapevole reputazione investano per lo più in attività tattiche di comunicazione orientate alla propria difesa (buffering).
E’ certo possibile monitorare la reputazione, individuandone anche i punti deboli e forti, ed è certo possibile operare per migliorarla, ma non è possibile gestirla perché la reputazione la determinano gli stakeholder.
In questa prospettiva sono proprio le relazioni che vanno migliorate, e queste non solo si possono monitorare e valutare, ma anche gestire.
Gli indicatori che si usano per valutare l’efficacia delle relazioni sono perlomeno quattro:

  1. la soddisfazione nella relazione,
  2. l’impegno nella relazione,
  3. la fiducia nella relazione,
  4. l’equilibrio di potere nella relazione.

In situazioni specifiche si possono anche considerare l’attrazione’, la necessità e l’intensità come ulteriori variabili. La prima e la terza intese come forze emotive che connettono i soggetti della relazione e la seconda intesa come reciproca interdipendenza.
La rilevazione presso gli stakeholder di questi indicatori (da 1 a 10, o da 1 a 100, o con altre scale) consente all’organizzazione non solo di valutare il punto di partenza, ma anche di decidere, per un certo periodo e a fronte di determinati investimenti di tempo e di risorse, obiettivi specifici di miglioramento da raggiungere e poi verificare se siano stati raggiunti.
Rispetto invece allo specifico della reputazione vi sono altri indicatori di valutazione e i più aggiornati sono le sette dimensioni del Reputation Institute e riferite alla specifica organizzazione:

  • qualità del prodotto/servizio,
  • qualità della sua innovazione,
  • qualità del luogo di lavoro,
  • qualità della sua governance,
  • qualità della sua responsabilità sociale,
  • qualità della sua direzione e
  • qualità della sua performance.

E’ quindi essenziale per prima cosa selezionare con accuratezza gli stakeholder veri (consapevoli, interessati e influenti nel sostenere oppure ostacolare gli obiettivi dell’organizzazione, e quindi verosimilmente in grado di valutare le variabili).
Può la reputazione di una organizzazione rappresentare – dal punto di vista dell’interesse pubblico e di quello dei pubblici interessati e consapevoli (stakeholder) – una forma di ‘controllo sociale’ dell’organizzazione?
E’ una domanda importante in un mondo dove il capitale sociale appare in via di estinzione, ma dove si potrebbe fare molto interpretando la resilienza e i suoi relativi ‘rimbalzi’ come nuova forma di capitale sociale basata sulla qualità delle relazioni fra i soggetti attori di un qualsiasi mercato o spazio.
Un inconsapevole e sostanzioso ‘assist’ è  venuto dalla recente intervista a Repubblica del direttore generale della Banca d’Italia dove, riferendosi alla propria comunicazione dice, testuale:

Qui si poteva fare meglio, ed è una responsabilità che riguarda tutte le istituzioni, incluse quelle politiche. Nella nostra storia di Banca d’Italia, la riservatezza totale era un valore fondante, come per il resto delle banche centrali. Poi il mondo è cambiato, siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata. Venendo però da un mondo di quel tipo ed essendo ancora vincolati al segreto d’ufficio e istruttorio a volte incontriamo difficoltà. La comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa. Stiamo imparando”.

Prendendola alla lettera, si potrebbe dire che la reputazione (quel giudizio che gli altri esprimono di te quando non ci sei) del sistema bancario presso i suoi stakeholder sia negativa anche perché ‘il mondo è cambiato e siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata’.
Si aggiunga che le reputazioni di Bankitalia e Consob oggi  traballano anche perché sono pessime le reputazioni dei singoli istituti bancari che i due sono chiamati a vigilare. Se, come ha argutamente detto qualche giorno fa a la Stampa l’ex Ministro Vincenzo Visco evocando ‘la cattura del vigilante da parte del vigilante’, è scontato che il controllore sia sempre influenzato dai controllati e viceversa. Ulteriore preziosa e utile distinzione è quella, sempre di Visco, sul diverso ruolo di Bankitalia (tutelare la stabilità del sistema) e Consob (assicurare la trasparenza del mercato).
Se poi analizziamo con gli stessi criteri i recentissimi discorsi del Presidente della Consob prima e dopo la trasmissione di Milena Gabanelli e i successivi commenti critici anche di esponenti autorevoli del Governo, possiamo concludere che, pur sapendo che i poteri reali della Banca d’Italia e della Consob sono ormai molto limitati, fra questi rimane sicuramente da esercitare, se solo lo si volesse, la facoltà di ‘nudging’, inteso qui come potere di ‘pungolare’ i singoli istituti bancari, grandi e piccoli -promettendo premi e minacciando punizioni ai cda in base alle loro dinamiche reputazionali valutate secondo indicatori e criteri ormai validati e consolidati in tutto il mondo.
In questo senso si può parlare, credo, di ruolo sociale della reputazione e di quest’ultima come componente del ‘capitale sociale’ di una nazione, di un territorio, di una istituzione, di una banca, di un gruppo dirigente, di un insieme di persone che ci lavorano. Un capitale monitorabile e valutabile come valore, sia aggiunto che sottratto.