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LE FAKE NEWS NON SONO LA MALATTIA DEL XXI SECOLO

Troppo spesso si confondono malattia segni e sintomi: vale per la medicina, sempre più orientata alla soppressione veloce e temporanea del sintomo tramite farmaci che hanno come scopo non guarire il malato, ma agire da palliativo, cronicizzando il problema e aumentando gli utili di chi il farmaco lo produce, come anche probabilmente per la comunicazione.
Analogamente, nel suo straordinario articolo dal titolo “Our problem isn’t ‘fake news. Our problems are trust and manipulation”, pubblicato su medium.com, la piattaforma creata dal co-fondatore di Twitter, Evan Williams, il giornalista, blogger e docente universitario americano Jeff Jarvis denuncia in modo brillante come le “fake news” non siano una vera e propria “malattia” da trattare di per se – come molti politici italiani si ostinano stupidamente e ingenuamente a fare – ma siano sono solo il “sintomo” di mali sociali ben peggiori.
Jarvis sottolinea come le nostre istituzioni, indipendentemente dal fatto che siano affidabili o no, siano esposte alla manipolazione di elementi esterni, troll attivi per puro divertimento, disinformatori mossi dalla sete di denaro, ideologi motivati dall’orientamento politico, membri di servizi di propaganda stranieri o terroristi: tutte categorie di persone – ben elencate nel rapporto di Alice Marwick e Rebecca Lewis dal titolo “Media Manipulation and Disinformation Online” – che agiscono per motivazioni anche profondamente diverse ma con metodi simili.
Molti cittadini, finiscono per essere “vittima” di queste azioni sistematiche di disinformazione, né più né meno che i membri delle istituzioni, e anzi tendono poi ad “orientare” i politici nelle loro scelte, grazie alla “pressione dal basso” che i primi esercitano sui secondi, meccanismo che alla base dell’estrema “fragilità” del sistema in cui viviamo.
Per discutere di manipolazione, è importante esaminare ad esempio gli strumenti e i metodi russi. Per questo, Jarvis raccomanda la lettura di due rapporti interessanti: uno della NATO Defense College Foundation, dal titolo “Handbook of Russian Information Warfare”, di Keir Giles, e un altro della RAND Corporation, dal titolo “The Russian ‘Firehose of Falsehood’ Propaganda Model”, di Christopher Paul e Miriam Matthews.
Russia e Stati Uniti sono due scenari dove si stanno ripetendo per certi versi gli stessi copioni. La NATO sottolinea come quanto stia accadendo non sia una guerra informatica, quanto piuttosto una “guerra di informazione”: le armi russe funzionano accuratamente non solo on-line ma anche nei media mainstream, consentendo di “rubare, piantare, interdire, manipolare, distorcere o distruggere l’informazione”. Queste tattiche sono quindi diventate un’arma alla pari di un missile o di una bomba, “ma permettono di usare una quantità molto piccola di energia per avviare, monitorare e gestire processi i cui parametri in termini di ‘effetti’ sono di molti ordini di grandezza superiori”.
La Russia ha utilizzato come arma un nuovo standard di “reazione a catena” sui social media. A quale scopo? “L’obiettivo principale del conflitto informatico-psicologico è il cambiamento di regime”, riporta un altro documento analizzato da Jarvis, “influenzando la coscienza di massa della popolazione, dirigendo le persone in modo che la popolazione del paese vittima sia indotta a sostenere l’aggressore, agendo contro i propri interessi”. Le nostre istituzioni inconsciamente favoriscono tutto ciò: “La Russia cerca di influenzare il processo decisionale degli altri Paesi fornendo informazioni inquinate”, spiega la NATO, “sfruttando il fatto che i rappresentanti eletti in occidente sono assai sensibili agli stessi flussi informativi dei loro elettori”.
Quando stanno al gioco, il giornalismo, internet e la libertà di parola che tanto amiamo in occidente – afferma Jarvis richiamando il contenuto dei due rapporti sopra citati – sono usati contro di noi. “Anche una copertura mediatica seria può involontariamente dare autorevolezza a false informazioni”. In questo risiede il pericolo più insidioso: fare il loro gioco dandogli attenzione e amplificando quella informazione scadente. Il loro obiettivo è la polarizzazione all’interno di una nazione e tra i suoi alleati: le loro tattiche, come sostiene Ben Nimmo, ex addetto stampa della NATO, mirano a “respingere, distrarre, sconvolgere, e possono essere messe in campo sfruttando le vulnerabilità della società presa come obiettivo, in particolare la libertà di espressione e i principi democratici”. Per Nimmo, queste persone utilizzano “eserciti costituiti da flussi informativi di massa per gestire un dialogo diretto con la gente su Internet”, usando armi “più pericolose di quelle nucleari”. Come sostengono gli autori russi di un documento citato dal report NATO, “oggi, i mass media possono provocare caos e confusione nei governi e nella gestione militare di qualsiasi paese, infondere idee di violenza, tradimento e immoralità e scoraggiare l’opinione pubblica”. Il documento russo sulla guerra informatica e psicologica citato dalla NATO elenca anche le tattiche chiave della Russia per disinformare:

  • menzogne esplicite ai fini della disinformazione;
  • nascondere informazioni significativamente importanti;
  • seppellire informazioni preziose in una massa di “scorie informative”;
  • sostituzione terminologica, ovvero utilizzo di concetti e termini il cui significato non è chiaro o ha subito un cambiamento qualitativo, che rende più difficile dare forma a una rappresentazione reale degli eventi;
  • fornire informazioni negative, più facilmente accettate dal pubblico rispetto a quelle positive;
  • uso di troll e bot per creare una percezione distorta da parte dell’opinione pubblica che sia poi ripresa dai mass-media;
  • molestie e intimidazioni ai giornalisti, anche tramite troll e bot, che sfruttano il dominio del volume, perchè quando il volume dell’informazione è basso i destinatari tendono a preferire gli esperti, ma quando il volume delle informazioni è alto, i destinatari tendono a preferire l’informazione da altre fonti;
  • velocità, perché la “propaganda” ha la capacità di arrivare per prima, in quanto ci vuole meno tempo a costruire fatti di quello che è necessario a verificarli, e la prima impressione generata detta “l’agenda”;
  • pioggia informativa (questa definizione è mia, ma rende l’idea), ovvero molte falsità – non necessariamente coerenti – che sono progettate in rapida successione per minare la fiducia nell’esistenza di una verità oggettiva.

Cosa facciamo, nel mondo del giornalismo, per rispondere a tutto questo…? Fact-checking e debunking; ovvero copriamo la notizia, che è proprio quello che vogliono che noi facciamo, dando loro attenzione.
L’ex ambasciatore statunitense in Ucraina, Geoffrey Pyatt, riferendosi alla propaganda Russa, ha pronunciato una frase illuminante: “Potremmo trascorrere ogni ora di ogni giorno cercando di controbattere ogni bugia, al punto da non occuparci di altro, e questo è esattamente ciò che vuole il Cremlino”. Ma questo vale anche per la situazione in USA. Nel rapporto pubblicato da Data & Society, Marwick e Lewis hanno riportato ricerche sulla diffusione dei messaggi populisti pro-Trump, che si diffondono attraverso meme condivisi su blog e Facebook, attraverso i bot di Twitter, i canali YouTube, e qualche volta anche attraverso l’account personale Twitter di Trump, finché non vengono poi diffusi da una stampa faziosa populista o di destra che abbraccia le teorie della cospirazione – un misto di tecno-libertari, nazionalisti bianchi, troll, anti-femministi, attivisti anti-immigrazione e ragazzini annoiati – e quindi “da corpo” alle fake news, influenzando così l’agenda dei media mainstream.
E in questo c’è sintetizzata la morsa paradossale in cui ci ritroviamo: ogni volta che ci rivolgiamo a loro, li controlliamo e li attacchiamo, e li alimentiamo con l’attenzione. L’ex candidata dalla Presidenza USA Hillary Clinton ha imparato, nel modo peggiore, che “controbattendo le idee estremiste, ha offerto loro nuova visibilità e legittimità. Inavvertitamente ha cementato la loro importanza.” Marwick e Lewis sostengono che “coinvolgendo i media nel raccontare determinate storie, anche attraverso il debunking, i manipolatori dei media sono in grado di influenzare l’agenda pubblica”. E la situazione può soltanto peggiorare.
Jarvis prende posizione anche contro l’obiezione dei giornalisti, che si ritengono “obbligati” a raccontare quello di cui la gente sta discutendo; e se non fossero le persone a parlare, ma i bot? Se l’unico motivo per cui la gente finisce per parlare di un argomento è una sorgente inquinata a causa della manipolazione di alcuni fanatici su piattaforme di pubblicazione anonime come 4chan, che arriva poi a Infowars, Breitbart, Fox, e poi fino al cittadino…? Peraltro, ne parlavo diffusamente in alcuni capitoli di un mio saggio, “Il sex-appeal dei Corpi Digitali”, scritto nel 2015 ed edito da Franco Angeli. Jarvis contesta inoltre anche quei giornalisti che affermano che tutto ciò fa dei manipolatori “una storia da coprire” e da raccontare al pubblico; certo, è vero, ma solo in una certa misura, perchè il giornalismo dovrebbe occuparsi dei metodi dei manipolatori, non dei loro specifici messaggi.
Secondo Jarvis, che riporta nel suo lungo articolo anche i contenuti di un recente dibattito che ha moderato su questi argomenti al World Economic Forum di San Francisco, se si prosegue su questa strada alcune previsioni per il futuro potrebbero suonare come spaventose: i prossimi obiettivi saranno infatti “i pilastri della società” – scienziati, esperti, giudici, etc. – così da far diventare le comunità delle “tribù di opinioni”, dove chi non è d’accordo con l’ortodossia sarà automaticamente etichettato come “imbonitore”. La realtà aumentata renderà poi più facile falsificare non solo testi e foto, ma anche audio e video, e quindi identità. E, infine, ed è ciò che più teme Jarvis, una nuova rivoluzione luddista contro la tecnologia ci dividerà in “tribù connesse e tribù disconnesse”…
Ci sono delle prime reazioni, finalmente: alcuni contrastano le falsità con il fact-checking; altri preferiscono accrescere il pensiero critico del pubblico con la cosiddetta “alfabetizzazione delle notizie”; altri ancora compongono liste e indicatori di “vizi” tipici del dominio dell’informazione; Google sta cercando di garantire affidabilità, autorità e qualità delle fonti con una sua classificazione; Facebook sta eliminando parte degli account falsi utilizzati per la conversazione pubblica, anche se così facendo – aggiungo io – rischia di pregiudicare il proprio modello di business basato sulla crescita quadraticamente proporzionale di una platea di “ascoltatori”, quindi dubito lo farà mai convintamente. Vi sono in effetti molti sforzi di classificazione dei siti in base alla qualità, ma tutto ciò – ancorchè importante – non servirà a nulla se non ci decideremo ad andare molto oltre, rispetto a dove ci troviamo oggi, mettendo mano alla vera malattia: l’assenza o carenza di fiducia.
È necessario imparare a “difenderci”, quindi? Certamente, conferma Jarvis. Ecco alcuni spunti utili, e cose urgenti e pratiche da fare.

  1. I media devono prendere coscienza e riconoscere come e quando sono oggetti di manipolazione.
  2. Condividere informazioni. Le principali redazioni dovrebbero avere personale che si occupi di riconoscere la manipolazione prima che le notizie vengano coperte in modo poco veritiero. Le persone preposte a questo compito dovrebbero comunicare con i loro colleghi di altre redazioni, mentre attualmente i media più importanti gestiscono gli attacchi di disinformazione senza condividere però tra di loro le informazioni. Dovremmo invece sviluppare reti di sicurezza all’interno dei mass-media in modo da condividere le informazioni, le valutazioni delle minacce, gli avvisi, le migliori pratiche e le lezioni che di volta impariamo dalla gestione di questi delicati scenari.
  3. Ignorare i disinformatori. Dobbiamo privarli di attenzione, senza minimamente dare peso al contenuto dei loro messaggi, usando i loro stessi metodi, pur consapevoli che i manipolatori vinceranno sempre la battaglia della “velocità”.
  4. Affamare i manipolatori. Dobbiamo privarli del sostegno economico loro garantito attraverso la pubblicità, che attualmente viene canalizzata automaticamente sulle pagine più visitate al di la della veridicità delle notizie su di esse contente. Per fare ciò, dovremo aiutare i gruppi pubblicitari, le aziende e le agenzie a evitare che diano loro i propri soldi, scegliendo invece di sostenere la qualità nei mass-media. Dobbiamo inoltre mettere in difficoltà gli aggregatori di notizie, i motori di raccomandazione, etc. (Jervis fa anche nomi: Revcontent, Adblade, News Max, Taboola e Outbrain…) che sostengono e guadagnano dalle fake news, come anche quegli editori che ridistribuiscono a piene mani le “scorie” di quelle piattaforme. Questo include la necessità di batterci per inserire il fattore della “qualità” direttamente negli algoritmi digitali, aiutando così gli utenti a selezionare meglio le fonti d’informazione, e questo mi richiama alla mente il bellissimo progetto Digidig.it lanciato da Toni Muzi Falconi proprio sulla trasparenza e sul controllo degli algoritmi.
  5. La battaglia non si vince sperando di rispondere nel merito ai manipolatori, ed è profondamente sbagliato usare il proprio flusso di informazioni e la propria autorevolezza, per spegnere il fuoco della falsità: si deve “puntare l’idrante” verso qualunque altra cosa e cerca di spingere quel pubblico in direzioni più produttive, aumentando il flusso di informazioni convincenti, dettando l’agenda del pubblico attraverso giornalismo e contenuti affidabili.
  6. Giocare a carte scoperte. Bisogna avvertire velocemente il pubblico che qualcuno sta cercando di manipolarlo. Questo include il cambiare direzione del flusso informativo: non sono i cittadini a dover venire incontro ai mass-media per essere informati, ma i mass-media a dover portare il giornalismo al pubblico, usando le tecniche dei manipolatori per diffondere notizie vere, convincendo la gente a preferire fatti e ragionevolezza, ricostruendo la fiducia nei confronti delle fonti di “buona informazione”.

Soprattutto però è necessario prendere coscienza che i media “tradizionali” non godono di fiducia e di buona reputazione – per molte ragioni che andrebbero discusse e affrontate – e proprio questo mi pare il messaggio centrale di Jarvis: di sicuro, questa importantissima, epocale sfida, verrà vinta solo se l’ecosistema mediatico nel suo complesso diventerà più equo, inclusivo, riflessivo, trasparente e responsabile nei confronti dei cittadini.
In Italia, e altrove, si continua invece a dibattere appassionatamente – quanto inutilmente – del dito, mentre la luna si allontana sempre di più, a gran velocità.




Mostra di Helmut Newton a Venezia

Helmut Newton: a Venezia esposti 200 suoi indimenticabili scatti. Un breve reportage dalla mostra, per riflettere sulla figura di questo grande artista.
Ascolta l’audio:



Ogni Oceano ha il suo ha il suo eco-resort

Dall’America latina all’Africa, all’Indonesia: ecco le mete esotiche dove rilassarsi nel rispetto della natura. Tra foreste pluviali, spiagge dorate e animali selvaggi. In nome del turismo compatibile

Vacanza ecologica, con il comfort del lusso ma a costi contenuti. La domanda di turismo sostenibile p sempre più imperiosa: chi viaggia valuta la destinazione per i sevizi e prezzo ma per fare la scelta, l’impatto ambientale diventa un fattore determinante. Oggi molte strutture nel mondo hanno dotato eco-accorgimenti, ma poche possono autenticamente definirsi  “absolute green”. Nascosto nella foresta pluviale di Mata Atlantica, riserva ecologica a sud di Rio de Janeiro, l’eco-resort del Club Med Rio Das Pedras è stato appena insignito del Green Globe, riconoscimento mondiale della qualità dei servizi nel rispetto dello sviluppo sostenibile.
Costruito in stile coloniale ospita nei bungalow mimetizzati tra i giardini di bromelia, hibiscus e alberi di pitaga, ai cui piedi c’è il mare e una baia di 600 metri di sabbia d’oro. In Rio Das Pedras si specchia un Paese, il Brasile, particolarmente attivo in tema di sostenibilità. L’Amazzonia è il più esteso cuore verde del pianeta, l’85% dell’elettricità brasiliana è fornita da fonti rinnovabili e il Paese ha imboccato una politica turistivca verde tanto da radunare gli eco-hotel e gli eco-resort in una sezione di destinazioni verdi sul portale del Ente del Turismo (www.embratur.gov.br). Per condividere la biodiversità in questo Club Med sono previste anche diverse attività ad doc, come le escursioni ecologiche per conoscere la Mata a piedi, in canoa a mountain bike, adatte per tutta la famiglia. Pacchetto 7 giorni da 2.000 euro, volo Tam tutto compreso (www.clubmed.it).
Dall’America Latina all’Africa, il verde è una realtà importante anche a Mauritius dove l’Ente del Turismo insieme a Air Maruritius ha creato Mauritius Essentia (www.mauritiusessenti.com), collezione di indirizzi di eccellenza sul web dove si possono trovare i consigli e i suggerimenti sui luoghi dell’isola divisi per temi: spa, resort, eco, food, sport. In questo modo si pianifica la vacanza secondo il gusto, cliccando eco e Troux aux Biches Resort & Spa si entra nel primo resort eco-friendly dell’isola apparentemente al gruppo Beachcomber. Appena riaperto, ora monta pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua, trasforma i rifiuti in concime e si è dotato di un impianto di riciclo dell’acqua e di desalinizzazione per rifornire   le 106 piscine. Trouc aux Biches si trova nella parte nord occidentale, adagiato su giardini e lagune smeraldo, con una spiaggia bianca di 2 chilometri. Qui, solo suite e ville di pietra, legno e foglie di palma e illuminazione a led.
Per fare un’esperienza immersi nella natura si imbocca la via del tè, tra le piantagioni di canna da zucchero, e si arriva all’interno del Black River Gorges National Park, orgoglio di Mauritius: 6.500 ettari di foresta endemica ideale trekking, percorsi avventura, equitazione e kayak tour. Per vedere gazzelle, scimmie, uccelli tropicali c’è un angolo di isola che sembra Africa nera, la Domaine di Ylang Ylang, riserva privata (visitabile con guida) tra coltivazioni di geranio, pepe rosa, vaniglia e Ylang Ylang, da cui si ottengono oli essenziali nella distilleria di profumati sul luogo. Pacchetto 8 giorni/6notti da 1.721 euro per persona (bambini 0/17 anni soggiorno gratuito in camera con i genitori), volo Air Mauritius (www.beachcomber-hotel.it).
Infine, andando ancora più a est, in Indonesia la natura è la manifestazione del divino, forse è per questo che piante e fiori hanno colori così esuberanti. Ubud è la città degli artisti, furoi del turismo “di massa” della città di Bali. Il mare è lontano, ma le terrazze di risaie di Yeh Ganfa, la foresta pluviale e il fiume Ayung non lo fanno rimpiangere, chi è in fuga dal mondo o in cerca di trascendenza, può rifugiarsi nel Como Shambhala Estate (www.cse.como.bz), ex monastero Zen, ristrutturato con il solo impiego di materiali ecocompatibili, intitolato al benessere. Si alloggia in camere, ville tra gli alberi e residenze private, con piscina a filo e 8 ettari di giardini. La cura dell’anima e del corpo è affidata ai ritiri di meditazione, yoga, ayurvedici e Qi Gong, tenuti da guru di fama internazionale; ma anche chi sceglie un ritiro più fisico può fare esperienze autentiche: trekking e mountain bike tra le risaie all’alba. Pacchetto 5 notti da 2.685 euro a persona, volo Thai Airways (www.mappamondoescapes.travel).




Una “personal factory” in Calabria

Cemento a chilometro zero?
Se le parole cemento e Calabria compaiono nella stessa frase di solito è per parlare di speculazione selvaggia. Dei chilometri di costa deturpati, di intere città fatte di case non finite che sembrano bombardate o di viadotti incompiuti, tristi ecomostri che allungano il loro collo di dinosauro sul nulla. Questa volta, invece, si parla di un calabrese che il cemento ha voluto reinventarlo fino al punto di smaterializzarne la produzione. Francesco Tassone, ingegnere trentenne di Simbario (Vibo Valentia), folti capelli ricci e tono di voce pacato, è convinto che il materiale più pesante da trasportare, più sporco e più old economy che esista possa diventare impalpabile, ecologico, in una parola intelligente.
“ Mio padre aveva un impianto di produzione di malte”, spiega Francesco. “ Sono prodotti per l’edilizia composti al 98 per cento da materiale inerte come la sabbia. Il restante due è chimica che aggiunge al materiale il colore o il grado di impermeabilizzazione. Gli impianti di produzione tradizionali sono grossi stabilimenti, con torri alte fino a cento metri che servono a miscelare i componenti”. Movimentare una merce così pesante ne fa crescere non solo il prezzo, ma soprattutto il costo in termini di inquinamento. “ Si calcola che il cemento sia responsabile del 6 per cento delle emissioni di CO2 di tutto il pianeta” chiosa Francesco.
La sfida di Francesco, fin dai tempi dell’università che ha fatto a Trento, è smantellare il vecchio modello per inventarne uno a chilometro zero. Perché non usare materie prime locali e non fornire solo la chimica? Perché non mettere in Rete l’esperienza e i bisogni di tutti gli utenti sparsi per il mondo? Nasce così a Simbario (30 chilometri dal Tirreno e 30 dallo Jonio, nel cuore verde delle Serre Calabresi) Personal Factory, una fabbrica smaterializzata in cui a viaggiare è solo il know how e non quintali di materiali inerti. Alla base del sistema c’è un brevetto, un macchinario chiamato Origami 4. Origami proprio perché è come se un grande stabilimento si ripiegasse su se stesso in appena sei metri quadrati. La mescola dei materiali inerti con la parte chimica (venduta da Personal Factory in apposite buste sigillate e dotate di un codice che ne identifica con precisione i componenti) avviene all’interno di un cilindro, mentre peso, quantità di materiali e tipo di malta da produrre sono regolati da un software. La macchina ha una capacità di sei metri cubi di materia prima ed è in grado di produrre e insaccare dagli 80 ai 100 quintali di prodotto finito senza essere ricaricata. Ogni ricarica richiede all’operatore all’incirca 10 minuti. Inoltre gli scarti sono quasi inesistenti e i tempi di pulizia sono inferiori a 10 minuti.
“Sono partito dall’idea del cloud computing per arrivare al cloud factoring”, spiega Francesco. “ Come nel cloud computing si offre un software comune che serve alle persone per lavorare insieme, così noi offriamo un software che permette alle nostre macchine di lavorare insieme. L’obiettivo è smaterializzare la produzione e distribuirla sul territorio mantenendo però la gestione dei dati in un cervellone centralizzato. È come avere una stampante a centinaia di chilometri dal mio computer”.
A oggi sono state installate macchine in Tunisia, Calabria, Sicilia, Puglia, Abruzzo, Toscana,Lombardia e, a breve, anche in Campania e Lazio. E ogni microbetoniera è monitorata dal software collegato via Internet al centro di controllo di Simbario. Ogni busta di componente chimica (il know-how “fisico” che Personal Factory vende ai clienti), grazie al suo codice che la macchina è in grado di riconoscere, è la “chiave” che permette alla Origami 4 di procedere con la mescola e l’insaccamento delle malte. “ Nell’era di Internet non è più necessario spostare merci. Basta spostare le informazioni”, conclude Francesco. “ Non servono più le grandi fabbriche ma strumenti flessibili, connessi e intelligenti da dare agli uomini: strumenti programmabili in base al contesto in cui si trovano”. Se la Origami 4 è il braccio, una specie di microbetoniera evoluta, il sistema centralizzato di cloud manufacturing è il cervello. Della squadra fanno parte anche il babbo Giuseppe Tassone, 66 anni, e Luigi, il fratello venticinquenne di Francesco, ma chi ha in mente la solita aziendina familiare è fuori strada. Questa è piuttosto l’avanguardia di una rivoluzione possibile. Quella che il blogger inglese Cory Doctorow ha battezzato la subcultura dei “makers”, cittadini comuni capaci, grazie all’innovazione tecnologica e all’hacking di hardware e di modelli di business, di togliere all’industria manifatturiera il monopolio della produzione in serie. Personal Factory però è anche la storia di ragazzi calabresi che potrebbero lavorare benissimo altrove, ma hanno scelto di non arrendersi e non andare via.
“Questa è casa mia”, sottolinea Francesco Tassone. “ Ma non sopporto il fatalismo di qui: l’idea che siccome non c’è niente, allora non potrà mai esserci niente”. In un territorio dove l’unica economia è quella dell’assistenzialismo (il Comune con i suoi 50 dipendenti è il principale datore di lavoro) Personal Factory potrebbe presto diventare il nuovo motore di sviluppo della zona, ma la strada è tutt’altro che in discesa. “ Oggi finalmente è arrivata l’Adsl in tutto il paese”, spiega Francesco, “ ma solamente perché il ministero degli Interni ha cablato tutte le caserme dei Carabinieri. C’è una sola ragione che mi spinge a rimanere qui: voglio trasformare questo paesino di montagna in un posto in cui una nuova generazione di innovatori possa essere in grado di fare impresa e produrre tecnologia. Spero che guardando a quello che stiamo realizzando qualche giovane calabrese diventi più audace e invece di pensare che “tanto non cambia mai niente” possa convincersi che sì, “‘si può fare’”.




Trash is for Tossers, Lauren Singer racconta due anni di vita "a spazzatura zero". Tra prodotti handmade e spazzolini di bambù

“Non è tanto una questione di come vivi, ma di che scelte fai. Ci sono sempre delle alternative”. Lauren Singer ha 24 anni e vive senza produrre spazzatura. Newyorkese, laureata in Studi Ambientali, conduce una “Zero Waste Life” a Brooklyn. “Un mio compagno di università si portava tutti i giorni il pranzo da casa in un sacchetto di plastica, con un contenitore usa-e-getta accompagnato da una bottiglietta d’acqua monouso. Mi ha fatta riflettere: Noi dovremmo costruire il futuro del nostro pianeta, ed eccoci qui a incasinare tutto con la nostra spazzatura”.

Lauren è già diventata un punto di riferimento internazionale per la lotta agli sprechi, e sul suo blog Trash is for Tossers ha documentato il processo di cambiamento della sua vita, da eticamente indirizzata a praticamente etica. “Volevo vivere davvero seguendo i miei valori”, racconta. Perciò evita di comprare prodotti confezionati in contenitori non riciclabili o riutilizzabili, compra nei mercati alimentari, fa i cosmetici in casa (il cosiddetto “spignattare”), fa la differenziata e il compost dei rifiuti organici, mette solo vestiti di seconda mano.

 
La mattina, dopo colazione, si lava i denti con uno spazzolino in bambù riciclabile. “Prima pensavo di avere bisogno di mille prodotti diversi, ma quando ho iniziato a fabbricarmi saponi e creme in casa ho ridotto il numero al necessario: pochi, ma buoni”, racconta ad HuffPost. Per contenere cosmetici e alimenti usa tantissimi vasetti di vetro, come quelli per le conserve e le marmellate. “Quando sono fuori per i pasti o mi porto il pranzo da casa, oppure scelgo ristoranti che siano in linea con la mia etica: biologici, con contenitori biodegradabili… Non è un problema trovarne, anche in viaggio: al massimo vado a cercare ingredienti nei mercatini”.

Ovviamente c’è voluto tempo – spiega Lauren – per raggiungere questo livello assoluto di zero sprechi. Un processo sempre dinamico (si augura di imparare a cucirsi i vestiti da sola, un giorno), raccontato tra blog, video-tutorial Youtube e profili social: “Non cerco di imporre la mia scelta agli altri, ma voglio dare il buon esempio sperando di potere influenzare qualcuno. Dimostrando che non solo è possibile, ma semplice.”

Questa semplicità ha dato il nome alla sua ultima avventura: la creazione, a inizio 2015, di The Simply Co., un’azienda di prodotti naturali e fatti a mano. Il progetto è stato finanziato tramite crowdfunding su Kickstarter, con 820 donatori e un totale di 42mila dollari (in due giorni ne aveva già raccolti 10mila). Il “primo nato” è un sapone per la lavatrice fatto di tre soli ingredienti, bicarbonato, soda e sapone di Marsiglia, in due profumi, lavanda o neutro. “Il crowdfunding è un ottimo metodo di testare il mercato quando si lancia un nuovo progetto, perché ti permette di avere già alle spalle fin dalla partenza dei potenziali interessati – sottolinea Lauren – inoltre puoi trasmettere le tue idee a chiunque, nel mondo”.
Ovviamente non tutte le idee funzionano. Ma Lauren, di spazzatura, non ne produce.

Trash is for Tossers