ECBA Project pubblica la classifica dell’intensità dei “costi esterni” ambientali

Riuscire a coniugare efficienza economica e tutela dell’ambiente secondo una visione integrata è la grande sfida che si pone oggi davanti alle imprese del nostro Paese, e non solo. Da uno studio sui costi esterni dei settori dell’economia italiana realizzato e illustrato dalla società di ricerca e consulenza economica ECBA Project, emerge infatti che le attività economiche italiane generano mediamente 24 euro di danni ambientali e sanitari dovuti alle emissioni in atmosfera, ogni 1.000 euro di valore aggiunto prodotto.
Secondo i dati presentati dalla ricerca, fra i dieci macro-settori che contribuiscono maggiormente al valore aggiunto dell’economia nazionale, quello dei servizi di trasporto e logistica presenta la maggiore intensità di danni ambientali e sanitari delle emissioni in atmosfera in relazione al beneficio economico direttamente generato, con un valore di 49 euro ogni 1.000 di valore aggiunto del settore. L’immobiliare, che contribuisce con il 14,3% al valore aggiunto totale, è invece quello che genera minori costi esterni ambientali, con un valore inferiore a 1 euro ogni 1.000 di valore aggiunto.
I primi risultati dello studio sono stati pubblicati sul n. 5/2013 di Nuova Energia, rivista bimestrale dello sviluppo sostenibile, in un articolo che riporta integralmente la stima complessiva dei costi esterni ambientali in base alle emissioni in atmosfera NAMEA dell’ISTAT per l’anno 2012, secondo un primo livello di disaggregazione dei settori dell’economia italiana. L’articolo propone anche un insieme di indicatori, individuati con un approccio  ECBA(Environmental Cost-Benefit Analysis), finalizzato a fornire dati sistematici integrando le tre dimensioni principali dello sviluppo sostenibile: quella ambientale, sociale ed economico-finanziaria.
L’indicatore ECBA Project Environmental Cost-Benefit Index, con cui è stata stilata la classifica dell’eco-efficienza dei macro-settori dell’economia nazionale, rapporta i costi esterni ambientali di un’impresa o di un settore – in termini di danni ambientali e sanitari associati alle emissioni di gas serra e di inquinanti – al beneficio economico netto direttamente apportato alla collettività dalla stessa impresa o dallo stesso settore, misurato in termini di valore aggiunto generato.
Come anticipato, il macro settore dei Servizi di trasporto e logistica, che incide sul valore aggiunto per il 5,7%, presenta un valore di questo indice pari a 0,049 (49 euro di danni ambientali e sanitari su 1.000 di valore aggiunto generato), cinque volte superiore a quello del comparto di appartenenza (Servizi 0,009) e doppio rispetto al valore indice dell’intera economia italiana (0,024).
L’industria manifatturiera, che contribuisce al 15,7% del valore aggiunto, presenta un valore indice di 0,033 (33 euro di danni ambientali e sanitari su 1.000 di valore aggiunto generato): si comporta quindi meglio dell’industria nel suo complesso (0,038). Fra i macro-settori dell’industria, quello delle costruzioni (6% sul valore aggiunto) ha una prestazione di eco-efficienza ancora migliore, con un Environmental Cost Benefit Index di 0,006 (6 euro su 1.000 di valore aggiunto).
Per quanto riguarda gli altri settori del comparto dei Servizi, l’indice del commercio all’ingrosso e al dettaglio, che incide per l’11,1% sul valore aggiunto, è pari a 0,020 ed è quindi oltre il doppio di quello più generale del suo comparto (Servizi – 0,009), principalmente a causa del ruolo dei trasporti nella attività di distribuzione all’ingrosso e al dettaglio.

“La principale innovazione apportata dall’ECBA Project Environmental Cost-Benefit Index“, spiega Donatello Aspromonte, partner di ECBA Project e co-autore dello studio, “è di poter finalmente disporre di un indicatore che rapporta alla ricchezza creata da un’attività economica in un dato anno quella distrutta esternamente dalla stessa attività, e che quindi esprime anche il grado di efficienza delle attività economiche nella prevenzione dei danni ambientali. In base alla nostra indagine, circa il 50% delle esternalità negative è dovuta a settori che concorrono per solo il 10% alla creazione del valore aggiunto nazionale.”
Andrea Molocchi, partner di ECBA Project e co-autore dello studio, aggiunge: “Una delle principali applicazioni dell’ECBA Project Environmental Cost-Benefit Index riguarda la possibilità per le imprese di beneficiare di un’attenta e dettagliata analisi di posizionamento ambientale rispetto al benchmark di settore. Col calcolo dell’indice di ECBA Project, il management e gli stakeholder aziendali possono disporre di un’analisi delle prestazioni ambientali ad alto contenuto informativo ed integrata con i dati di bilancio,  essendo condotta secondo le metodologie raccomandate a livello comunitario per l’analisi costi-benefici, volte all’integrazione dei dati finanziari con quelli economici, sociali e ambientali.
 


CSR: 9 pratiche di sostenibilità nella strategia di Peroni

Birra Peroni, che è oggi parte del Gruppo SABMillerplc, tra i produttori di birra più grandi al mondo, con oltre 200 marchi e circa 70.000 dipendenti in 75 paesi, sta puntando molto sulla diffusione e sulla condivisione di pratiche di sostenibilità.
Il che è un’ottima notizia, soprattutto se si considera la sua capacità produttiva: ogni anno produce e distribuisce 5 milioni di ettolitri di birra; di questi, più di un 1.200.000 sono esportati in oltre 50 Paesi dal brand Nastro Azzurro, la birra Italiana più venduta all’estero.

“Lavoriamo con gli agricoltori e i produttori delle nostre materie prime che curano con passione i loro prodotti e ci impegniamo per migliorare sempre di più la nostra capacità produttiva agendo in maniera sostenibile. Collaboriamo con i clienti per fornire ai consumatori in maniera responsabile, in Italia e in tutto il mondo, un prodotto di altissima qualità da oltre 160 anni. Insieme possiamo costruire un futuro migliore”, ha dichiarato ieri Federico Sannella, Responsabile Relazioni Esterne di Birra Peroni, in occasione della settima edizione del PREMIO “Vincenzo Dona, voce dei consumatori” dell’Unione Nazionale Consumatori.
Ma come si traduce all’atto pratico la sostenibilità di uno dei player principali nel settore dell’industria birraria? Ecco 9 azioni della strategia di Birra Peroni:
1) Lavorare per sensibilizzare e far crescere i partner della filiera di produzione (oltre 1500 agricoltori) sui temi di gestione delle imprese agricole e sullo sviluppo sostenibile. Nel 2013 è nato e si sta evolvendo il progetto “Birra Peroni per l’Agricoltura”;
2) Promuovere il consumo responsabile di alcol attraverso iniziative rivolte ai consumatori, in collaborazione con Assobirra e con l’adozione di una politica e di un Codice di Comunicazione Commerciale che detta le principali linee di comportamento e stabilisce gli standard delle campagne pubblicitarie su tutti i media;
3) Restituire alla comunità parte della ricchezza prodotta, continuando a supportare progetti in favore del sociale e dell’ambiente, oltre a sostenere diverse iniziative pluriennali del mondo accademico-scientifico e del non profit;
4) Assicurare la qualità e la naturalezza dei prodotti lavorando in collaborazione con partner scientifici come l’Istituto di Maiscultura dell’Università di Bergamo, con cui è stato selezionato il Mais Nostrano Peroni. Il Malto di Birra Peroni è 100% italiano;
5) Monitorare e promuovere le pratiche di gestione etica delle imprese nella catena di fornitura: nel 2012 sono stati valutati sul campo 13 fornitori di Birra Peroni che rappresentano il 31% circa della spesa annuale totale effettuata per acquisti di prodotti legati ai processi di produzione
6) Migliorare con l’aiuto di tutti i dipendenti della filiera l’impatto sull’ambiente del processo produttivo, come il risparmio di acqua (-7,6%), la diminuzione di energia utilizzata (-8%) per ettolitro di birra prodotta ed il conferimento a riciclo dei rifiuti, ben il 98% nel 2012;
7) Valorizzare le risorse umane promuovendo la partecipazione delle persone alla vita aziendale, investendo risorse per preservare la loro sicurezza sul posto di lavoro e coltivando il talento di ciascuno;
8) Lavorare insieme alla catena di distribuzione, puntando sulla personalizzazione e sulla differenziazione dell’offerta con un approccio basato sulla collaborazione, per generare un impatto economico maggiore e condiviso lungo tutta la catena del valore;
9) Consultare gli stakeholder con l’obiettivo di registrarne opinioni, indicazioni e suggerimenti preziosi sulle priorità per lo sviluppo sostenibile. Nel 2013 Birra Peroni ha organizzato presso lo stabilimento di Roma, il secondo workshop multi stakeholder.


Autogrill, i panini peggiori d’Italia…?

Quando il pubblico non è uno stakeholder, e la CSR non include il prodotto. Perché dovremmo accontentarci di sfilatini surgelati, francamente indecorosi per un paese come il nostro, che è capitale mondiale dell’enogastronomia? La Csr di un’azienda non può che partire dai propri prodotti
Autogrill Spa non conosce crisi: conta quasi 10.000 dipendenti, e registra delle entrate pari a quasi 6 miliardi di euro l’anno di cui oltre 4 solo nella ristorazione, con un incremento annuale dell’utile netto spesso a due cifre.
Azienda all’apparenza parecchio marketing-oriented, ha preso curiosamente posizione – già da alcuni anni – a favore di un impegno sul fronte della sostenibilità sociale: «Autogrill — dichiarava Silvio De Girolamo, Direttore dell’Internal auditing e a capo dell’area Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR) di Autogrill — vuole far diventare le proprie attività sociali una leva di competizione rispetto alla concorrenza, e non solo una scelta filantropica di maquillage». In quest’ottica, ci segnalava un articolo del Sole 24 Ore, Autogrill ha scelto di non creare una divisione autonoma per la responsabilità sociale, ma vuole che il bilancio sociale diventi uno dei processi di normale attenzione da parte di tutti i dirigenti e del personale. «L’intento – concludeva Silvio De Girolamo sul Sole 24 Ore – è quello di costruire nuovi autogrill, che probabilmente si chiameranno Eco-Autogrill, che siano ecologici da tutti i punti di vista, sia da quello della sostenibilità sia per quanto riguarda la compatibilità, e che siano autosufficienti anche dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico».
Fantastico, nulla da eccepire: ma noi cittadini non eravamo uno tra gli stakeholder di maggiore prossimità? Così dovrebbe essere. Spontanee, affiorano allora delle domande: perchè negli autogrill il pane è congelato, e di non eccelsa qualità? Perchè non esiste alcuna tracciabilità in evidenza per il Cliente sui prodotti utilizzati per farcirli? Perchè si pranza circondati da plastica modello “mensa d’ospedale”? Perchè se vuoi mangiare cibo di buona qualità devi andare ai ristoranti CIAO – self-service della catena Autogrill – e spendere per una piccola mozzarella il corrispettivo delle vecchie otto mila lire? Perché i caffè sanno sempre di “bruciato”, a causa probabilmente di una politica sulle miscele orientata al risparmio? Perché dover costringere gli utenti gioco-forza a un “dribbling” tra le corsie prima di uscire dal negozio, come fossimo capre da instradare verso il consumo a tutti i costi? E perchè negli shop di Autogrill i prodotti confezionati da asporto costano quasi il doppio della media del mercato? E perché – non ultimo – il gruppo è periodicamente coinvolto in polemiche sul trattamento riservato al personale, con licenziamenti “a comando” o trasferimento verso altri locali di ristorazione disposti ad accettare il personale in esubero, dirottato a destra e manca, anche ad una distanza di 70 chilometri, per uno stipendio part-time di 500 euro al mese? Il prodotto e le relazioni con i dipendenti non fanno parte della CSR del gruppo?
Suona tutto come un “prendere o lasciare”, della serie “se vuoi mangiare in autostrada o vieni da noi, e paghi un over-price, oppure digiuni”… Ma soprattutto: può esistere un modello diverso?
C’è un punto di sosta, a Carcare, il primo Tamoil sull’autostrada da Savona venendo verso Torino, che pare un altro mondo: focacce fresche alle cipolle, panini bresaola e funghi, belle pagnotte con dentro peperoni e filetti di acciuga, cassatine siciliane fatte in casa (deliziose!)… un paradiso, non un semplice autogrill (non a marchio Autogrill, ovviamente!). Per non parlare dei prodotti in vendita, primi tra tutti i porcini sott’olio, di prima qualità e neppure carissimi. Un miraggio? Eppure esiste, e guadagna. E – come questo articolo dimostra – si fa ricordare.
Perchè allora dovremmo accontentarci degli sfilatini surgelati di Autogrill, francamente indecorosi per un paese come il nostro, che è capitale mondiale dell’enogastronomia? Cosa ci vuole a dar da mangiare “bene” in un punto di sosta sull’autostrada, ad un prezzo adeguato, che garantisca profitto all’azienda ma non crei imbarazzo al Cliente?
Il proprietario del punto di ristoro di Carcare non lavora certo per beneficienza, ha il Suo tornaconto. La cosa curiosa è che questo omino non sa neppure cosa significhi la parola “CSR”. Se lo interrogate, vi dirà semplicemente che Lui “vuole guadagnare, ma ci tiene che gli automobilisti viaggino contenti”.
Altro che i complessi strumenti di “stakeholder satisfaction”: misuratela Voi, la soddisfazione, dai sorrisi di chi si ferma li a mangiare. Ha anche creato un area gioco per i bambini, e sta esponendo nelle aiuole attorno alle pompe di benzina opere di arte contemporanea. Ma ci vuole tanto, invece di riempirsi la bocca di eco-banalità?
Autogrill – come tanti altri – usa probabilmente la CSR per garantirsi buone uscite stampa, e poi si dimentica di noi, lo stakeholder più importante: gli italiani che viaggiano, e trascura l’ovvietà: sostanzialmente, la CSR di un’azienda non può che partire dai propri prodotti, che sono il “core”, il motivo stesso per cui l’azienda esiste.
Un gruppo come Autogrill dovrebbe sentire come prioritaria la propria importante missione di nutrire e soddisfare il popolo della gente al volante, con un offerta genuina a un prezzo accettabile. Purtroppo la CSR – quella dettata dal buon senso – pare non abitare a casa Benetton: forse, in cima alla loro scala di valori c’è solo il profitto. Con buona pace dell’omino di Carcare, e del nostro stomaco.


Milano, Forum Risorse Umane 2014: dagli USA, CREATING YOUR FUTURE®

Il 27 novembre a Milano al più importante evento italiano dedicato al mondo
delle Risorse Umane, verrà presentata per la prima volta in Italia
la rivoluzionaria tecnica di coaching anti-stress americana “Creating Your Future®”


E’ al via la VI edizione del Forum delle Risorse Umane che si terrà il 27 novembre a Milano, presso l’Auditorium Testori, nel centralissimo Palazzo della Regione Lombardia.
Con il contributo di oltre 100 relatori e 29 sessioni previste, il Forum anche quest’anno si conferma come il principale evento dedicato ai temi del lavoro e dell’HR Management. L’evento sarà un’occasione esclusiva per aziende, istituzioni pubbliche, università, business school, associazioni e sindacati, di incontrarsi per confrontarsi, attrarre nuovi talenti, e allo stesso tempo dialogare con la comunità politica, economica, scientifica e sociale del Paese.
Il Forum – patrocinato da Regione Lombardia, dalla Provincia Milano, dal Comune di Milano e dai più importanti partner associativi HR, come AICP, AIDP e ASFOR – è promosso dalla business community “Comunicazione Italiana”, dalla Presidenza Italiana del Consiglio dell’Unione Europea, dal Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, oltre che dall’UNAR, Ufficio Nazionale Anti-discriminazioni Razziali. L’evento è stato individuato come iniziativa di rilievo per sensibilizzare il management ad una riflessione approfondita sul tema della lotta alle discriminazioni, partendo dalle sollecitazioni che provengono dalle Istituzioni europee e inserito nell’agenda degli eventi rilevanti del semestre europeo.
I temi centrali della sesta edizione sono la “Business Partnership”, argomento ampiamente discusso dalla business community e che costituisce un punto di svolta e cambiamento nell’organizzazione moderna. Sarà ampiamente trattato il “Jobs Act” con tutte le sue novità rispetto al passato. C’è poi il tema della “Diversity”, quello della “trasformazione digitale”, non solo a livello aziendale ma anche per i dipartimenti HR, sino ad affrontare dal punto giuslavoristico i cambiamenti normativi e organizzativi dell’era digitale. Ma di particolare interesse si rivela essere la presentazione, inedita per l’Italia, di “Creating Your Future®”, la tecnica innovativa di gestione dello stress e delle interferenze sul lavoro, in grado di fornire strumenti ai team professionali agendo come “accelleratore di performance”, inventata da Tad James, e presentata al Forum HR da Francesco Pellegatta, il più giovane e nel contempo il più certificato formatore di coaching in Italia, in uno speech di 60 minuti, dalle 15:30 alle 16:30 di giovedì 27/11.
“Il ruolo delle Risorse Umane è sempre più complesso – ha dichiarato Pellegatta – perché le responsabilità in carico a questa funzione sono sempre pressanti e complesse. La risposta delle organizzazioni di successo a queste tensioni ha un comun denominatore: la felicità. Chiunque viaggi frequentemente, avrà notato come un numero sempre maggiore di aziende considerino fondamentale la serenità dei propri collaboratori, anche per aumentarne la produttività. Una persona priva di paure, ansie e “problemi”, è sicuramente anche un membro della squadra più efficiente e produttivo, e le tecniche che presenterò al Forum HR costituiscono le due principali innovazioni nel settore del coaching degli ultimi anni. Quanto tempo e quante energie spreca un lavoratore durante la giornata a causa del continuo “rimuginare” sui propri problemi? E se potessimo – in un tempo ragionevolmente breve – far sì che le persone vengano liberate da questo genere di “interferenze esterne”, quanto ne gioverebbe la loro produttività? Durante questo breve workshop – conclude Pellegatta – illustrerò – con la collaborazione di Emilia Costa, nota psichiatra e professore universitario, autrice di 370 pubblicazioni scientifiche – soluzioni concrete ed efficaci per trasformare il posto di lavoro in un luogo dove spendere il proprio tempo felicemente e produttivamente, restituendo centralità all’azienda come organizzazione sociale realmente vicina alle persone”
L’agenda del Forum è ricca di appuntamenti, prevede keynote speech, main session, workshop verticali su temi specifici, HR focus di settore e una serie di interventi dove saranno evidenziate le best practice innovative nella gestione delle risorse umane.
La partecipazione al seminario è gratuita, ma è necessario registrarsi preventivamente al link http://www.comunicazioneitaliana.it/agenda/prossimi-appuntamenti?option=com_agendapubblica&view=dettagli_appuntamento&id_appuntamento=556&Itemid=96
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Intervista al Dott. Pier Mario Biava

Intervista al Dott. Pier Mario Biava

Medico del lavoro, già Primario di Medicina del lavoro all’ospedale di Sesto San Giovanni e Docente alla Scuola di Specializzazione di Medicina del Lavoro di Trieste, Pier Mario Biav attualmente lavora presso l’Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico Multimedica di Milano. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di alcuni libri: “L’aggressione nascosta – Limiti sanitari di esposizione ai rischi” edito da Feltrinelli, “Complessità e biologia” edito da Bruno Mondadori e “Il cancro e la ricerca del senso perduto” edito da Springer. È presidente onorario di Redonda Onlus (www.redonda.it) e della Fondazione per la Ricerca delle Terapie Biologiche del Cancro e vice presidente della Società Scientifica International Academy of Tumor Marker Oncology. Fa parte dei comitati scientifici di alcune riviste internazionali nel campo dell’oncologia e dell’epidemiologia

Come è nata la Sua pista di ricerca nell’area oncologica?

Sono un medico del lavoro, quindi neanche un oncologo tradizionale, ma da moltissimi  anni, fin dalla fine degli anni ’70, m’interesso di cancerogenesi ambientale, cioè dello studio di quegli elementi nell’ambiente che ci circonda che possono causare il cancro. Ero all’Università di Trieste, allora, e mi ero interessato in modo particolare di problemi relativi all’esposizione dell’amianto, che incrociava direttamente l’area del mio lavoro. Lì a Trieste non erano segnalati casi di malattia professionale di mesotelioma della pleura (un tipo di tumore causato dalle fibre di amianto disperse nell’aria) e a me la cosa sembrava strana: ho fatto una ricerca retrospettiva negli archivi degli Ospedali Riuniti e ho trovato ben centoventi casi di tumori non diagnosticati. Così Trieste è diventata una delle città con la più alta incidenza di mesoteliomi in Italia. Peraltro a Trieste queste ricerche hanno portato dopo alcuni anni a sospendere l’utilizzo dell’amianto sia nei cantieri navali che nel porto, quindi queste indagini hanno  avuto un impatto positivo molto importante a livello locale, perché mentre in Italia è andato avanti l’utilizzo dell’amianto ancora per anni, a Trieste l’hanno bloccato completamente molto prima.

Un successo notevole

Si, questo era già un successo, si sono impegnate le organizzazioni sindacali e in pratica hanno fatto un contratto con i cantieri navali di Trieste e Monfalcone e con il Porto di Trieste per non utilizzare più l’amianto. Da allora mi sono interessato di più, in modo approfondito, dei problemi legati alla cancerogenesi ambientale, e quello che mi aveva colpito erano i diversi effetti che si hanno a seguito della  somministrazione di cancerogeni  durante la gravidanza.

Cioè
l’esposizione a fattori di rischio durante la gravidanza?

Sì, andando a studiare la letteratura scientifica internazionale sugli effetti dei cancerogeni in gravidanza mi ero accorto che questi erano la causa di due effetti molto diversi: se si somministrano i  cancerogeni durante l’organogenesi, cioè nel periodo in cui si formano tutti gli organi e apparati dell’embrione, non si riesce mai a indurre tumori nella prole, si inducono solo malformazioni ma non tumori; poi invece, finita l’organogenesi, se si somministrano gli stessi identici fattori cancerogeni si inducono tumori nella prole. Allora la domanda era: perché in presenza degli stessi identici fattori cancerogeni prima io induco delle malformazioni e dopo induco dei veri e propri tumori? Questa domanda me ne generò naturalmente un’altra: che cosa succede durante l’organogenesi? Ebbene, in quel periodo di vita dell’embrione si differenziano tutti gli organi e tutti i tessuti, cioè da una cellula staminale embrionale totipotente attraverso vari stati di differenziazione si formano tutte le cellule del nostro organismo. Allora mi dissi: vuoi vedere che durante il processo in cui le staminali si differenziano esistono delle sostanze regolatrici che sono in grado di “correggere” il comportamento delle cellule tumorali? La pista di ricerca era assai intrigante, ed è facilissimo intuirne l’importanza: compreso il meccanismo di regolazione, si sarebbe fatto un enorme balzo avanti nella cura di certe forme di tumore…

Quindi
è partita da lì, l’intuizione era basata sulla differenziazione delle
staminali…

Da lì, esatto, questa è stata la storia di questa ricerca, è partita dalla medicina del lavoro, che è il mio campo, e dagli studi sulla carcerogenesi ambientale, e a un certo punto quando ho capito che quella strada poteva essere giusta, non l’ho più abbandonata. A quel punto, bisognava fare tutti gli esperimenti, erano gli inizi degli anni ‘80, stiamo parlando di tempi lontani. Il primo lavoro infatti l’ho poi pubblicato  nel 1988 su “Cancer Letter”, e già parlava in modo chiaro della possibilità di far ritornare i tumori ad un comportamento normale, cioè l’idea originaria è stata proprio sempre quella di “correggere il comportamento” delle cellule tumorali, pensando a queste malattie come malattie in parte reversibili. Questo concetto non era assolutamente accettato, all’epoca, e inoltre io venivo visto in modo anche abbastanza strano perché non ero un oncologo ortodosso

Immagino che anche questo abbia contribuito all’inizio ad una certa
diffidenza…

All’inizio è stato molto  difficile, sembrava una specie di  “eresia”, anche se com’è ovvio io non proponevo di curare in modo balzano i tumori, bensì inseguivo una ben precisa pista di ricerca scientifica assai seria, però il nuovo genera sempre diffidenza

Lei per contro l’ha percepita come una sfida?Si, un po’ come una sfida, mi sentivo dire “Interessante, ma questo medico ricercatore non ha le carte in regola, non è dei nostri”. All’inizio è stato molto, molto difficile. Però naturalmente da lì è partito tutto lo studio dei rapporti fra cellule staminali e cancro, e da lì è partito anche il rapporto con Guna, l’azienda leader in Italia nella ricerca sulle medicine non convenzionali, perché già da allora avevo chiaro che per correggere il comportamento di una cellula tumorale non bastava utilizzare una singola molecola come propone la medicina convenzionale, ma occorreva un network di molecole che potesse correggere il comportamento di queste cellule tumorali. Mi spiego: la mia intuizione, se così possiamo dire, era che le cellule tumorali erano nient’altro che cellule staminali mutate, bloccate in una fase di moltiplicazione compresa fra due stadi di differenziazione cellulare. A loro mancherebbe l’informazione per procedere nel  normale sviluppo e andare avanti nei processi differenziativi. Allora, se noi diamo a queste cellule tumorali le informazioni per procedere nel loro regolare sviluppo, vengono bypassate le mutazioni che sono all’origine della malignità e le cellule tornano a differenziarsi e si normalizzano.

Dottore, questa sarebbe niente meno che la cura per il cancro, si rende
conto?

Certo
che mi rendo conto, ma vorrei frenare gli entusiasmi: tutto ciò è vero per ora
solo per certi tipi di cellule, e siamo ancora a livello sperimentale. Tuttavia
gli esperimenti sono confortanti, gli esperimenti in vitro che abbiamo fatto
hanno dimostrato quanto ho detto. Abbiamo studiato otto linee di diversi tumori
umani e le abbiamo trattate con proteine prelevate da embrioni di Zebrafish, piccoli
pesci i cui embrioni sono usati come modelli di studio del differenziamento
cellulare. I modelli di studio sono quattro: la Drosophila
melanogaster
cioè il moscerino della frutta, il Caenorhabditis
elegans
cioè un verme nematode, lo Xenopus
Laevis
che è la rana, e il Brachydanio Rerio,
che è appunto lo Zebrafish. Fra tutti quello più vicino all’uomo da un punto di
vista evolutivo è il Brachydanio Rerio, lo Zebrafish, che ha circa il 95% di
proteine simili all’uomo. Quindi con i laboratori di ricerca di Guna, con la
Dottoressa Carluccio e con il Dottor Pizzoccaro, avevamo deciso già da allora
di studiare in modo preciso lo Zebrafish e loro avevano quindi allestito degli
acquari per la ricerca, allevavano questi pesci e io per gli esperimenti ne
utilizzavo gli embrioni prelevati in precisi momenti del differenziamento
cellulare, perché naturalmente bisognava conoscere quando le cellule staminali
si differenziavano.

Nel momento preciso…

Si, nel momento preciso, perché queste proteine non sono sempre attive come agenti di differenziazione durante tutto l’arco della vita embrionale, ma solo in precisi momenti. Abbiamo identificato il momento in cui questi fattori di differenziazione erano maggiormente presenti, scegliendo per esempio l’inizio della differenziazione delle cellule staminali da totipotenti a pluripotenti, cioè abbiamo scelto il periodo in cui l’embrione era allo stadio di medio-blastula-gastrula, ovvero il momento in cui dalla cellula staminale totipotente si formano tre cellule staminali pluripotenti che sono l’endoderma,  l’ectoderma e  il mesoderma. Questa era la prima fase, poi andando avanti negli studi abbiamo individuato altre fasi, e alla fine ci siamo resi conto che le fasi di differenziazione delle cellule staminali sono cinque, e anzi questo studio mi è servito anche per concepire un modello di differenziazione cellulare che interpreta in modo molto chiaro come avviene il fenomeno del differenziamento.

Questa
ricerca quindi rappresentò un’innovazione, anche già in questa fase iniziale,
dico bene?

Fu un trovare conferme, innovative per l’epoca, su cose che si sospettavano ma per le quali non vi era ancora una prova scientifica certa. In fondo la vita – pur nella sua complessità – per formarsi utilizza degli algoritmi molto semplici. Ci siamo resi conto che gli stadi di differenziazione come le dicevo sono cinque: da cellula staminale totipotente a pluripotenti, da plutipotenti a multipotenti, da multipotenti a oligopotenti, da oligopotenti a cellule in via di differenziazione definitiva, infine cellule completamente differenziate. Cinque stadi. Se noi pensiamo che per ogni stadio da una cellula progenitrice si formano tre cellule figlie, e  ripetiamo l’evento cinque volte, il numero di cellule completamente differenziate da che cosa è dato?  Da una potenza che ha per base 3 ed esponente 5: 3⁵, quindi sono duecentoquarantatre cellule somatiche, a cui, se noi aggiungiamo le cellule germinative, che sono nove tipi, cioè le cellule sessuali maschili e femminili che si differenziano  per  una via diversa rispetto alle cellule somatiche, il numero di cellule completamente differenziate sale a duecentocinquantadue. Su miliardi di cellule, sa quante sono le cellule del nostro organismo, come tipologia? Duecentocinquantadue, appunto. Quindi con una formula matematica tutto sommato molto semplice noi interpretiamo come si sviluppa la vita. Allora il problema vero per trovare una terapia efficace dei tumori è quello di regolare e differenziare le cellule staminali mutate prima dell’ultima differenziazione definitiva.

Tra
la quarta e la quinta differenziazione, quindi?

Tra la prima e la seconda, tra la seconda e la terza, eccetera, e in rapporto alla diversa malignità dei tumori noi dobbiamo utilizzare diversi fattori di regolazione, perché tra l’altro con questo modello noi abbiamo interpretato anche quante sono le malattie tumorali, cosa che è facile anche da capire: infatti, se i tumori sono tutte le cellule staminali alterate che non si sono differenziate, allora il numero di tumori è dato dalla formula 3 + 3² + 3³ + 3⁴, cioè 120 tipi di tumore, a cui se lei somma i tumori dell’ovaio e del testicolo più il coriocarcinoma, il teratocarcinoma e il carcinoma embrionario, arriviamo a centotrenta malattie diverse, e per queste 130 malattie diverse lei vede già come ognuna deve essere trattata, perché se lei si trova di fronte a una leucemia a cellule staminali multipotenti è ben diverso che se si trova di fronte ad una leucemia linfatica cronica dove le cellule sono quelle dell’ultimo stadio di differenziazione. Stadio diverso di differenziazione delle cellule staminali, uguale tipo diverso di tumore, uguale differente strategia terapeutica, sempre però basata sulla “riprogrammazione” delle staminali non differenziate.

Si
personalizza il trattamento, quindi, in modo ben più marcato che con le attuali
terapie d’urto indifferenziate…

Si personalizza il trattamento, esatto, molto più di quanto si fa adesso. Cioè, questa prospettiva di regolazione e di riprogrammazione delle cellule staminali tumorali permetterà di arrivare – perlomeno questo è il nostro auspicio – a delle terapie individualizzate del cancro. Ora, tutto questo discorso, che allora era fatto quasi esclusivamente solo da me ed era considerato in parte non credibile, negli ultimi cinque anni invece ha preso molto piede,  perché è stato dimostrato che la malignità dei tumori è legata alla presenza di cellule staminali tumorali. In pratica si è visto che alla base della malignità dei tumori, che resistono alla radio e alla chemioterapia e che dunque metastatizzano, c’è un gruppo di cellule, cosidette staminali tumorali, che è quello che riperpetua la malattia e non ne permette la guarigione definitiva. Si ha magari all’inizio delle terapie un miglioramento, ma poi si ricade nella malattia. Queste cellule staminali tumorali sono state trovate in quasi tutti i tumori. Man mano che si sta andando avanti con gli studi, stiamo comprendendo questo. Quindi il primo concetto da cui ero partito è cioè che le cellule tumorali fossero cellule staminali alterate, è stato acquisito.

È stato accettato dalla scienza più ortodossa?

(Biava)
Dopo tanti anni, finalmente si, Adesso l’obiettivo di molti ricercatori e’
quello di riuscire a riprogrammare non solo le cellule staminali normali, ma
anche quelle tumorali. Per questo una rivista importante, che si chiama “Current pharmaceutical biotechnology”, lei deve andare sul
sito Current pharmaceutical biotechnology, e
selezionare sul volume 12, numero 2 del febbraio 2011…

Ah, è recente, cosa dice?

Lì vede che c’è un numero speciale, di cui sono stato il guest editor e che si chiama “Reprogramming of normal and cancer stem cells”, dedicato alla riprogrammazione delle cellule staminali normali e tumorali. Ci sono quindici articoli, di cui tre scritti anche da me, gli altri da importanti ricercatori di fama internazionale, come il Direttore del Centro Tumori di Tokyo, molti Direttori di Istituti Oncologici delle Università italiane – Milano, Roma, Pisa, Varese – e da Centri di Ricerca Americani e Asiatici, indiani, indonesiani eccetera: sono  tutti articoli che dimostrano la possibilità di riprogrammare le cellule staminali normali e che fanno intravvedere la possibilità di riprogrammare le cellule staminali tumorali. Io lì ho scritto anche un’editoriale che introduce il numero, se lo leggete capite bene il senso, la portata di questo approccio innovativo al cancro: in quel numero della rivista vengono illustrate quali sono le prospettive future in questa direzione.

Che
era una domanda che volevamo porle, appunto. Il carattere innovativo di queste
ricerche, comunque direi che è già emerso da tutto quello che ha detto…

Assolutamente, è una visione differente dei tumori, ma nel contempo non balzana, cioè, è basata su ricerca scientifica, non su fantasie. Si ipotizza che i tumori possano essere riprogrammati, quindi l’approccio non è più quello distruttivo, non è più la ricerca di “pallottole intelligenti”, cioè delle singole molecole che possono bloccare il tumore, ma è l’approccio di una strada individualizzata, di una terapia individualizzata di riprogrammazione. In poche parole possiamo dire che la soluzione dei tumori e nei tumori stessi. Da questo punto di vista allora la medicina complementare e non convenzionale può offrire molto, perché chiaramente il paradigma scientifico va cambiato a questo punto: bisogna passare dal paradigma riduzionista a quello della complessità, in quanto quello che si è visto è che non sono importanti i singoli punti e le singole molecole, in quanto le singole molecole danno solo qualche “Bit” di informazione e invece nel caso della riprogrammazione noi dobbiamo puntare su un network, una rete informativa che riprogrammi e ripristini gli equilibri biologici che sono andati persi. Sono terapie specifiche, come abbiamo detto addirittura individualizzate, ma sono terapie che mirano al microambiente e alla rete d’informazione, che interessa l’intero organismo, non la singola molecola. Questo è già accennato nell’editoriale di “Current Pharmaceutical Biotachnology” dove per altro sono stati pubblicati articoli, in cui si è dimostrato che non vi è alcuna incompatibilità tra le chemioterapie e queste terapie di nuova generazione che stiamo studiando.

Cioè
possono essere complementari?

Possono essere complementari, questo è importante, perchè per un certo periodo bisognerà utilizzare tutti gli approcci integrati al cancro: come abbiamo visto le malattie tumorali sono complesse e difficili da trattare: sono malattie in cui è stato perso in parte o quasi completamente il programma del differenziamento cellulare. Integrare il programma mancante non è facile e dunque per un tempo abbastanza lungo occorrerà utilizzare tutti gli approcci integrati, utili a bloccare o a sconfiggere la malattia.

Qual’è
la prospettiva di medio periodo?

La prospettiva è quella di cambiare l’approccio  e quindi  di utilizzare un approccio complesso: quest’idea si sta già facendo strada nella comunità scientifica.

Quindi
proseguono le ricerche in questa direzione?

Sì, adesso anche gli ultimi studi vanno in questa direzione: si studiano sia le alterazioni genetiche, sia quelle epigenetiche del cancro, compresi i fattori del microambiente che possono favorirne l’attecchimento e/o la progressione o al contrario contrastarne lo sviluppo. In quest’ottica come può essere definita questa terapia basata sui fattori di differenziazione?  La potremmo definire “terapia epigenetica” del cancro. Che cos’è il codice epigenetico? E’ il codice che è in grado di programmare e regolare il codice genetico, che è un codice che di per sé non sa fare nulla se non viene programmato e informato. Al di sopra del DNA che costituisce il codice genetico, c’è un altro codice, che si definisce appunto “epigenetico”, che è costituito da tutta questa rete regolatoria molto complessa, che decide come far funzionare il codice genetico sottostante, un po’ come il software che controlla e programma l’hardware. Se io non programmo il computer il computer non sa fare niente di suo, e così il DNA: se lui non è programmato adeguatamente, non può dare origine alla vita. Nel codice epigenetico c’è il segreto del differenziamento cellulare, che da luogo alla vita.

Voi
lavorate su un codice superiore?

Epigenetico. Di fatto i fattori di differenziazione delle cellule staminali costituiscono il codice epigenetico. Perché le cellule staminali si differenziano? Perché questi fattori detereminano quali geni devono essere spenti, quali geni devono rimanere attivi, quale proteine devono essere sintetizzate.

Quindi
è lì che bisogna indagare?

È come il Direttore d’orchestra… La differenziazione delle cellule staminali consiste in una specifica e selettiva programmazione di queste cellule, per cui alla fine del differenziamento tutte le cellule del nostro corpo alla base hanno tutte lo stesso codice genetico, la differenza tra una cellula del cervello rispetto a una cellula del rene o del fegato è che i geni che sono rimasti attivi e che quindi vanno a sintetizzare le proteine sono selettivamente diversi nel cervello rispetto al rene e rispetto fegato, tutto qui. Il “disco rigido” è sempre uguale, il DNA non cambia, ma il programma di espressione genica quello si che è diverso, i fattori di differenziazione delle cellule staminali sono il programma che decide cosa deve stare spento e cosa deve stare acceso. Quindi nel tumore che cosa succede? Succede che una parte di questo programma, che ha “silenziato” i vari geni e ha fatto sì che una cellula diventasse per esempio una cellula del cervello, viene riattivato. Vengono riattivati quelli che si chiamano protoncogeni, ovvero geni embrionari silenziati durante il processo di differenziazione e a volte questi protoncogeni vengono mutati – e in questo caso vengono chiamati oncogeni – e inoltre vengono disattivati o mutati i geni oncorepressori: i geni riattivati producono fattori di crescita embrionari, che costringono la cellula ad una moltiplicazione indefinita, mentre la disattivazione degli oncorepressori impedisce che vi sia un freno a questa moltiplicazione. Allora, se noi lavoriamo sul programma che ha spento i protoncogeni e cerchiamo di attivare gli oncorepressori, allora noi spegniamo il processo di moltiplicazione indefinita. Gli studi che vengono fatti adesso, per lo meno quelli più avanzati, dimostrano che nei tumori ci sono moltissimi geni attivati ed alterati: con programmi matematici complessi, mettendo insieme la rete di geni alterata, si è riusciti a capire, per certi tipi di tumore, quali sono i  geni più importanti che determinano l’attivazione del processo nel suo complesso.

Si riesce quindi a capire come bisogna intervenire per “spegnere” i
geni che sono all’origine della malignità?

È corretto. Aggiungo che il cancro è una patologia che richiede un vero e proprio cambio di paradigma, è una malattia molto complessa, che non può più essere affrontata con le armi tradizionali, che vanno bene, ma solo nei casi nei quali la malattia non è dovuta alla presenza di cellule staminali tumorali. Negli altri casi va cambiato l’approccio: finché la medicina rimane agganciata a un paradigma riduzionista, non riusciremo a inquadrare la questione in una sintesi più generale: ci mancherà sempre la visione d’insieme. Lo sforzo che dobbiamo fare è lavorare per un cambio di paradigma.

Un quadro più ampio della malattia, e quindi delle possibili terapie oncologiche?

Si, perché se l’unica via è quella di continuare a combattere il cancro con “pallottole intelligenti”, si rischia di non sconfiggere definitivamente la malattia, perchè le cellule tumorali sono a loro volta cellule intelligenti che imparano a resistere agli attacchi, rendendo inattive le armi che andiamo di volta in volta ad utilizzare.

In
questo momento c’è disponibilità quanto meno al confronto da parte degli
specialisti più ortodossi su queste piste di ricerca innovative?

Certo, adesso mi è stato chiesto di  fare l’editor di un numero monografico per una rivista scientifica di medicina convenzionale molto importante. Quindi vuol dire che l’atteggiamento di molti oncologi tradizionali è cambiato, anche se ovviamente rimangono ancora molte sacche di resistenza da parte degli oncologi, soprattutto clinici.

Quindi è iniziata la fase vera dell’approfondimento, per trovare
riscontri definitivi…

Sì, oggi i ricercatori che fanno ricerca di base non mettono più in dubbio che la malignità dei tumori sia legata alla presenza di cellule staminali alterate, come da me ipotizzato tanti anni fa. La ricerca più avanzata oggi sta arrivando a identificare le vie metaboliche che sono comuni e condivise dalle cellule staminali normali e da quelle tumorali, in modo da capire poi le “correzioni specifiche” che vanno apportate. Io cerco di essere molto prudente e di stare attento a trasferire i risultati delle ricerche sperimentali a livello clinico. Vi sono però due studi clinici controllati nel caso di tumore primitivo del fegato, cioè nell’epatocarcinoma, che sono abbastanza significativi. C’è un trial clinico, durato quaranta mesi, su centosettantanove pazienti affetti da epatocarcinoma in fase intermedio-avanzata nei quali non erano più possibili terapie antitumorali tradizionali di consolidata efficacia: un trattamento basato sull’utilizzo dei fattori di differenziazione a bassi dosaggi ha dimostrato il 20% di regressioni, di cui 2,3% di regressione completa, e il 16% di non progressioni, con assenza di effetti collaterali avversi, ma comunque un notevole miglioramento del performance status e della qualità della vita. Soprattutto per questo 36% di pazienti che ha risposto al trattamento, da una speranza di vita di 6 od 8 mesi, si è passati ad una sopravvivenza per il 65% di essi di oltre 5 anni. Nel numero monografico già citato, che ha come titolo “Reprogramming of normal and cancer stem cells”, c’è poi un articolo redatto da Professori dell’Università di Milano e della Clinica Humanitas, che descrive i casi di regressione completa del tumore primitivo del fegato trattato con i fattori di differenziazione delle cellule staminali: i casi di regressione completa sono stati il 13,1%.

Lei ha la sensazione che la scienza sia a una svolta nella cura
integrata dei tumori?

Penso che questa sia una strada estremamente interessante, sarei tentato di dire la “strada giusta”, o  per lo meno, una delle strade giuste. Però la strada da percorrere è ancora lunga, perchè come già detto, ogni tipo di tumore richiede un trattamento specifico. Io oggi non posso dire che abbiamo in questo momento una cura generale per il cancro. Ho cercato di sottolineare questo concetto anche nel numero speciale della rivista che ho citato: infatti nell’editoriale parlo dell’utilizzo dei fattori di differenziazione staminali a livello clinico solo per il tumore primitivo del fegato, al quale per ora tale trattamento va limitato.

Quale messaggio vuole lanciare alla comunità scientifica, ai suoi
colleghi?

Il
messaggio più importante è che è necessario cambiare il paradigma scientifico,
inglobando la visione riduzionistica nel più efficace “paradigma della
complessità”. Quello che qui ho cercato di sottolineare è che il cancro
rappresenta una patologia complessa, che va affrontata con una visione nuova:
non ci si può più limitare allo studio dei meccanismi puntuali, cercando poi di
intervenire solo su quelli. Questa strada si è dimostrata capace di ottenere
risultati, certamente, però molto limitati, come dimostrano anche i più recenti
e moderni approcci basati sull’impiego delle cosiddette molecole biologiche,
quali gli anticorpi monoclonali o gli inibitori delle tirosino-chinasi. Molti
oncologi tradizionali cercano di dare il meglio, ma sono ancora fermi lì. La
ricerca biologica è andata per fortuna avanti, verso una visione più complessa
della vita e delle malattie ed è sperabile, che in un tempo non troppo lontano,
i risultati di queste ricerche possano essere trasferiti a livello clinico, a
beneficio di tutti.


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