NEL 50% DELLE AZIENDE COINVOLTE, LA LEGGE NON ARRIVATA IN CDA

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Le ultime foto scattate dai paparazzi ce la raccontano con le orecchie di Minnie, sorridente e divertita, sulle giostre di Disneyland, Los Angeles. È con il marito Cash Warren, produttore cinematografico, sposato nel 2008, e le figlie, Honor e Haven. Jessica Alba, 34 anni, è una delle attrici più sexy di Hollywood, ma negli ultimi anni è stata più impegnata a metter su famiglia e a creare un impero da un miliardo di dollari vendendo “pannolini onesti”.
Non è una battuta: l’azienda da lei fondata si chiama The Honest Company e commercializza pannolini per neonato (ma non solo: anche tutto quello che riguarda l’igiene della casa e della persona) rigorosamente biologici. In meno di quattro anni, la Honest Company, passata dai 10 milioni di ricavi ai 150 milioni del 2014, è valutata un miliardo e dà lavoro a 300 dipendenti. Un successo che ha fatto guadagnare a Jessica l’ultima copertina del bisettimanale economico Forbes. Titolo a piena pagina: “Le donne americane più ricche che si sono fatte da sole”. C’è lei, e le sole altre due celebrities sono la giornalista Oprah Winfrey e la popstar Madonna. Con la differenza che Jessica è partita da zero, creando un’impresa che prima non c’era. E che è decollata.
«Dalla rivista maschile Maxim a Forbes è un bel salto, no?», ci dice sorridendo mentre beve un tè verde nell’area dedicata alle pause del quartier generale dell’azienda, a Santa Monica, in California. «Per Maxim ero la donna più sexy del mondo, per Forbes l’imprenditrice americana del momento. Lo prendo come un premio alla mia tenacia. Qui si lavora seriamente. E, lo confesso, sono un capo dal pugno duro. Pretendo sempre molto. Il mondo degli affari è implacabile. Fare un film, ormai, per me è come prendermi una vacanza».
Ora Jessica è al cinema con Entourage, la versione cinematografica della fortunata serie tv, in cui fa la parte di se stessa in un divertente cameo. E dal 23 luglio la vedremo in Il fidanzato di mia sorella. Si contenderà Pierce Brosnan con Salma Hayek in una commedia romantica prodotta da Brosnan stesso. Ma Alba ha anche altri tre film nel cassetto: l’horror The Veil di Phil Joanou, Dear Eleanor in cui due ragazze adolescenti attraversano gli Stati Uniti durante i giorni della crisi diplomatica con l’Unione Sovietica, nel 1962, e in cui la Eleanor del titolo è la moglie del presidente Roosevelt. E infine il thrillerMechanic: Resurrection, accanto a Tommy Lee Jones.
«Ero incinta di Honor (che oggi ha 7 anni, ed è la sorella maggiore di Haven, 4, ndr). Usavo un detergente per neonati che mi aveva consigliato mia madre, era pubblicizzato come il migliore. Una mattina mi sveglio piena di puntini rossi. Ho chiamato mia mamma, urlando: “Come fa a essere il migliore bagnoschiuma per neonati se a me fa male?”. Lei ha provato a difendersi: “Mi hai chiesto quale fosse il più usato e ti ho risposto”. E aveva ragione: era il numero uno sul mercato, da sempre».
Tutto ha avuto inizio con questa disavventura, quindi?
«Sì. Da lì ho cominciato a leggere le etichette di tutti i prodotti dedicati all’infanzia e ho scoperto che ci sono sostanze chimiche tossiche non solo nei saponi, ma anche negli shampoo. Per non parlare dei prodotti per pulire la casa. Non l’avrei mai immaginato».
E i pannolini? Che cosa c’entrano?
«Scherza? Ha mai letto l’etichetta di un pannolino per neonati? C’è da rimanere inorriditi. Io sono rimasta sconvolta. Ci sono sostanze nocive anche lì. E quando si mischiano con l’urina, è un disastro, irritano da morire. “Devo assolutamente trovare un prodotto migliore”, mi sono detta. “Devo riuscire a trovare articoli che mi diano la certezza di un ambiente sano e protetto”. Non c’era una singola marca di cui mi potessi fidare. C’erano sì delle aziende considerate amiche dell’ambiente, ma poi scoprivi che, confezione a parte, il prodotto era nocivo come gli altri».
Quello che fabbricate voi, invece, è perfetto?
«Tutto ecologicamente onesto: The Honest Company. E ne andiamo fieri. Produciamo tutto quello che serve per mantenere una casa pulita e proteggere i nostri bambini dalle sostanze tossiche: pannolini, saponi, shampoo, creme, integratori. Abbiamo appena iniziato a vendere culle fatte con legno eco e pittura atossica che piacciono moltissimo. E per ogni culla acquistata ne regaliamo una a una famiglia in difficoltà».
Si aspettava questo successo?
«No. Vuole sapere la verità? Sento che non è finita qui. Ci siamo appena trasferiti in questa sede più grande. Ma come vede stiamo già stretti perché abbiamo bisogno di più personale. Se il mondo fuori è inquinato, dobbiamo iniziare da casa nostra a renderlo pulito. Si può fare. Chi prova i nostri prodotti torna a comprarli, ci dà ragione, è con noi, partecipa al nostro progetto».
Suo marito Cash ha incoraggiato questa avventura?
«Mi ha presentato un suo caro amico, Brian Lee, un grande uomo d’affari che mi ha aiutata a mettere in moto il tutto. Lui è l’amministratore delegato e insieme guidiamo la squadra verso un mondo migliore e più pulito».
Chi si occupa della parte tecnica?
«Abbiamo assunto i migliori farmacisti e chimici. Dobbiamo fare continui test per passare le leggi, rigidissime, della Food and Drug Administration (l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, ndr). Ma siamo severi con noi stessi e i nostri prodotti superano anche gli standard europei, che sono molto alti. Abbiamo iniziato a muovere i primi passi sul mercato internazionale: Australia, Inghilterra, Cina, Medio Oriente».
Come la vedono i suoi dipendenti?
«Qui sono molto diversa rispetto a Hollywood. Mi guardi: sono vestita come una donna d’affari. E sono molto esigente. Sono dura con me stessa e lo sono con tutti. Stiamo cambiando il mondo in meglio e bisogna lavorare sodo».
«L’estate scorsa, per l’uscita di Sin City. Una donna per cui uccidere, ho affittato un cinema e ho invitato tutti i dipendenti. Alcuni erano imbarazzati perché ho un ruolo supersexy e al lavoro mi conoscono in maniera diversa. Ma è stata una bellissima serata. Momenti così ti aiutano a creare una squadra».
E le sue figlie, le porta mai in azienda?
«Vengono spesso a trovarmi. Ho ideato una sala giochi per i bambini, dove i dipendenti che non possono permettersi una babysitter portano i loro figli. Forse le mie vengono più per la sala giochi che per trovare la mamma».
Quale dei due ruoli, quello di imprenditrice e di attrice, sente più suo?
«Non so rispondere. So solo che sono molto fortunata a fare quello che faccio. Mi piace moltissimo divertire e intrattenere il pubblico e spero di poter continuare per il resto della vita. Ma sono altrettanto contenta di contribuire a creare un mondo più sano. Non ha idea di quante email e lettere ricevo da genitori che mi ringraziano perché, da quando usano i miei pannolini, sono tornati a dormire sei ore per notte perché loro figlio non soffre più di dermatite allergica da pannolino. Sì, in qualche modo sono una benefattrice dell’umanità».
Tra famiglia, set e scrivania, che cosa fa per mantenersi in forma?
«Da bambina ero sempre malata: asma, allergie, polmonite, finivo in ospedale due volte all’anno. Da adolescente ho preso in mano la mia vita. E da allora non ho più smesso. Ho uno stile di vita sano. Mangio cibi freschi, biologici, cucinati in modo semplice e pratico yoga».
Che cosa serve per sentirsi sexy?
«Amor proprio. Amare se stessi. Moltissimo».

Il libro di Sandre, Press and Public Affairs Officer dell’ambasciata italiana a Washington diventa manuale indispensabile per la diplomazia ai tempi degli smartphone
Se ancora ci fosse qualche dubbio, l’abilità con cui i terroristi dell’Isis stanno usando la rete e i social media per fare conquiste dovrebbe convincerci che la comunicazione digitale è un terreno dove la diplomazia non può più essere assente. Quello del terrorismo è il caso estremo, ma chiunque voglia avere una voce nel mondo su qualsiasi tema non può rinunciare a questo strumento. Perciò converrebbe a tutti gli addetti ai lavori di leggere “Digital Diplomacy”, il nuovo libro di Andreas Sandre che offre un manuale per la diplomazia ai tempi della comunicazione che ormai ci insegue ovunque sui nostri smartphone.
Introducendo l’incontro Giovanni Davoli, portavoce della Missione italiana, ha detto che “un tempo la regola aurea per i diplomatici era non parlare mai con i giornalisti. Oggi la diplomazia raggiunge il pubblico dove il pubblico si trova: sugli smartphone e sui tablet”. Dunque non solo è necessario parlare con i giornalisti, ma anche rivolgersi direttamente alla gente, altrimenti si lascia la comunicazione nelle mani degli avversari, che non hanno alcuna remora ad usare questo vantaggio. Qui dunque serve la “Digital Diplomacy” di Sandre, che ascoltando protagonisti del settore come l’ex guru digitale del dipartimento di Stato Alec Ross, Teddy Goff e tanti altri, spiega come usare questi nuovi strumenti.
Già nella prefazione, l’ambasciatore italiano a Washington, Claudio Bisogniero, avverte: “La tecnologia è ovunque: i cellulari presto supereranno la popolazione globale. Esistono miliardi di oggetti collegati a Internet. La comunità di politica estera si sta adeguando, ma lentamente e senza sistematicità”. Quindi è indispensabile fare di più, anche perché secondo la Seward i quattro milioni di esseri umani che seguono l’Onu su Twitter “non solo ricevono informazioni, ma parlano con noi”. La comunicazione sui social media è uno scambio, dove gli utenti non sono più passivi. Anche per questo, secondo Dujarric, finora il segretario generale Ban Ki moon non ha aperto un account: “Non sarebbe autentico. Lui viaggia in continuazione, è troppo impegnato per gestirlo di persona. E siccome noi riteniamo che l’autenticità sia fondamentale in questo settore, preferiamo esserci con altre persone che hanno la possibilità di comunicare direttamente”.
I social media sono diventati una opportunità per raggiungere milioni di persone, e per essere più trasparenti, comprensibili. Qualche tempo fa all’ambasciata americana all’Onu ci fu una discussione, sull’opportunità di passare notizie e comunicati alle agenzie di notizie tradizionali, oppure metterli direttamente in circolazione attraverso Twitter e simili. Inutile dire che la seconda ipotesi fu quella che prevalse. Ormai però l’obiettivo non è più solo quello di passare qualche documento o qualche dichiarazione, ma di influenzare il dibattito. L’abilità con cui l’Isis riesce a trasmettere i propri messaggi e reclutare per via digitale impone agli altri di rispondere, perché la battaglia contro il terrorismo si vince anche presentando una visione diversa che screditi quella degli estremisti e convinca il pubblico.
Sandre sottolinea che “c’è una differenza fondamentale. Loro hanno completa libertà di azione, mentre noi dobbiamo operare in una cornice di legalità che limita quali dati possiamo raccogliere e come li utilizziamo”. Proprio per questo, però, è necessario fare un lavoro ancora più sofisticato, “andando a cercare le voci positive che esistono là fuori, e aiutandole a diffondersi”. La diplomazia digitale dunque non è più solo parlare sulla rete, distribuire documenti o presentare i propri punti di vista, ma frequentare i social media, partecipare ai dibattiti e influenzarli. In fondo è quello che la diplomazia ha sempre fatto, con altri mezzi, e ora deve adeguarsi alla nuova realtà.

Il fondatore Branson: l’impiegato può decidere di stare dove preferisce se riesce a portare a termine i compiti assegnati
Tempo d’estate, tempo di vacanze. Stavolta illimitate, senza un datore di lavoro che tiene più il conto dei giorni passati in ferie.
I dipendenti della multinazionale britannica sono liberi di prendere tutte le vacanze che vogliono, in qualsiasi momento dell’anno, a condizione che questo non comprometta i progetti a cui stanno lavorando.
Branson aveva deciso questa nuova linea nel settembre scorso, rendendola nota con la pubblicazione del suo libro «The Virgin Way». Aveva candidamente ammesso che l’idea non era sua, ma di sua figlia e di Netflix, dove era già applicata. «Non abbiamo più un orario di lavoro dalle 9 alle 5, e quindi non ci serve neppure una policy per le vacanze». Poi sul suo blog aveva spiegato perché: «Il lavoro flessibile ha rivoluzionato come, dove e quando svolgiamo le nostre mansioni. Perciò, se lavorare dalle 9 alle 5 non esiste più, perché dovremmo avere linee rigide annuali per le vacanze?». Di conseguenza, «starà al dipendente decidere se e quando ritiene di prendersi qualche ora, un giorno, una settimana o un mese libero». Supponendo, però, che «lo farà solo quando sarà sicuro al cento per cento che la sua assenza non danneggerà in alcun modo il business, o la propria carriera».
La nuova policy era stata varata inizialmente per gli uffici di New York, Londra, Ginevra e Sydney, e riguardava circa 160 dipendenti per vedere come funzionata. Quindi ora che è arrivata l’estate è in corso la vera prova della sua sostenibilità, su cui si gioca la possibilità di estenderla all’intera compagnia. Se l’esperimento andrà bene, le ferie smetteranno di far parte del contratto di lavoro, e quindi anche di pesare sui bilanci delle aziende quando non vengono godute. Un vantaggio per i dipendenti, ma anche per le compagnie.
L’idea di Branson, e di chi ha già adottato altrove questa linea, è che i suoi impiegati «non abuseranno dell’opportunità offerta». Saranno liberi di gestire il loro tempo come preferiscono, e quindi diventeranno più felici, creativi, riconoscenti e motivati. Nello stesso tempo saranno più responsabili e leali, perché dovranno sempre tenere conto dello stato dei progetti su cui stanno lavorando, prima di andare in vacanza.
Questa è la ragione principale che ha spinto alcuni a criticare la scelta di Branson. E’ vero, infatti, che da una parte consente ai dipendenti ferie illimitate; dall’altra, però, crea un senso di responsabilità, e magari di colpa, che potrebbe spingere molti di loro a lavorare tutto l’anno senza mai fermarsi.
L’innovazione, però, sta facendo breccia anche in questo campo. Il miliardario messicano Carlos Slim ha proposto la settimana lavorativa di tre giorni, in cambio di giornate lunghe 11 ore e l’impegno a non andare in pensione prima dei 70 anni. Il cofondatore di Google Larry Page ha detto che viviamo nell’era dell’abbondanza, e i robot dovrebbero sollevarci da molte incombenze: «L’idea di dover lavorare così tanto per soddisfare i nostri bisogni è semplicemente falsa».

Gli scienziati dell’Università di Udine che l’hanno brevettata l’hanno chiamata Elsa, come la leonessa protagonista del bestseller “Nata libera”. Perché si augurano che la loro stufa a pirolisi, in grado di produrre calore e carbone vegetale a basso impatto ambientale, si diffonda in Africa di villaggio in villaggio senza troppi ostacoli, ma anche perché per i piccoli artigiani e imprenditori africani Elsa Stove è libera da copyright. Oggi questa stufa ecologica che brucia scarti agricoli senza produrre fumo è già presente in Ghana, Togo, Etiopia, Zimbabwe, e sta prendendo piede in Tanzania, Nigeria, Camerun.
La storia inizia nel 2007, quando nell’ateneo friulano si iniziano a studiare gli effetti positivi del carbone vegetale sui suoli: “E’ un fertilizzante molto utile, soprattutto nel caso di terreni molto acidi come sono quelli africani, difficili da coltivare”, spiega Alessandro Peressotti, docente del dipartimento di Scienze Agrarie e Ambientali, che oggi presenterà la storia di Elsa anche a Lignano Sabbiadoro, per la rassegna “€conomia sotto l’ombrellone”. “A quel punto – continua Peressoti – ci siamo chiesti come potevamo produrre il carbone vegetale in modo sostenibile, senza ricorrere alle carbonaie ancora oggi diffuse in Africa, che però inquinano e liberano una grande quantità di calore”. Si pensa così a sfruttare il processo della pirolisi, grazie al quale si scindono i legami chimici attraverso il calore, ma senza la produzione di composti gassosi, perché tutto avviene in assenza di ossigeno. “Abbiamo scoperto che era possibile fare pirolisi in piccoli bruciatori realizzabili in modo semplice e con materiali anche di recupero e di diversa qualità”. Nel 2010, Peressotti, insieme a un suo studente neolaureato, Davide Caregnato, e al fisico e imprenditore agricolo Carlo Ferrato, brevetta Elsa Stove. I soldi arrivano in buona parte dalla Commissione Europea, che sostiene con circa 840.000 euro il progetto BeBi, focalizzato sui benefici agricoli e ambientali legati all’uso del biochar nei Paesi in via di sviluppo.
E i vantaggi sono parecchi: “Elsa Stove produce carbone vegetale, ottimo ammendante per i suoli delle aree tropicali e strumento di stoccaggio della CO2 nel sottosuolo. Inoltre, ottimizza il processo di combustione, fornisce calore per cucinare e non produce fumo”. Aspetto, quest’ultimo da non sottovalutare: se infatti l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda che all’interno delle abitazioni la concentrazione di particolato non superi i 50 microgrammi per metro cubo, la stessa OMS ha calcolato che nelle capanne, quando si accende il fuoco per cucinare, il dato arrivi a 30.000 µg/m3.
La stufa può essere alimentata con vari tipi di scarti agricoli, che spesso non vengono valorizzati: “Gusci di arachidi o di noci, foglie di pannocchie, nocciolino di palma da olio. Oggi per cucinare si va nella foresta a fare legna, in un processo di deforestazione continua. Non solo Elsa permette di evitare queste pratiche, ma grazie al carbone vegetale permette anche di recuperare quelle zone aride totalmente desertificate”, continua Peressotti, che è anche coordinatore di BeBi.
Il professore di Udine, che con un nuovo progetto finanziato dall’Europa, Biochar Plus, e partner come le Nazioni Unite e l’Unione Africana, sta lavorando per la diffusione di Elsa, si sta trovando davanti a un ostacolo oggettivo: “Non c’è abbastanza combustibile per tutti. Gli scarti utilizzabili non possono soddisfare il fabbisogno di tutta la popolazione”. Per questo, si è deciso di partire da aree dove gli scarti sono più abbondanti: “In Ghana, per esempio, sono presenti piccole coltivazioni familiari di palma da olio, che rendono disponibile sufficienti quantità di nocciolino utilizzabile in Elsa”. Nel frattempo si studiano anche soluzioni alternative: “In Kenya, Etiopia, Ghana, Tanzania, le segherie non recuperavano la segatura, che invece adesso viene utilizzata per produrre pellet. In Zimbabwe ogni famiglia ha circa mille metri quadrati di terreno, in grado di assicurare cibo per tutto l’anno. Abbiamo pensato di destinare una parte di questi appezzamenti alla produzione di combustibili vegetali per Elsa, e ottimizzare la produzione agricola nell’altra parte grazie alla concimazione con il carbone vegetale”. Un’idea forse non attuabile su grande scala e che in Europa ci apparirebbe poco logica, ma che nei piccoli villaggi africani, dove nelle capanne l’aria è soffocante a causa del fumo e la deforestazione sta distruggendo i polmoni verdi del continente, ha un suo perché.
Grazie all’assenza di copyright per gli artigiani africani e all’attività di formazione sul campo in diversi Paesi del continente, Elsa si sta lentamente diffondendo. 15.000 le stufe attive in Ghana, 5.000 in Etiopia, 1.000 in Togo. “Ci sono diverse produzioni attive, anche con diverse fasce di prezzo: si va dai 10 dollari per la stufa prodotta con lamiere di recupero, ai 100 dollari per quella a due fornelli, destinata alle classi più agiate delle città. Molti vedono in Elsa e nei suoi benefici un’opportunità di sviluppo sostenibile, tanto che Biochar Plus vede tra i suoi partner l’Unione africana e l’Unido, l’organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale”.
E nel frattempo all’Università di Udine si lavora anche ad altri progetti futuri: “In Zimbabwe e Guinea Bissau realizzeremo due piccoli gassificatori a biomasse: saranno alimentati dagli scarti di una fabbrica che confeziona noci di Macadamia. Forniranno energia agli stabilimenti e ai villaggi di operai”. E presto Elsa Stove sarà commercializzata anche in Europa, attraverso lo spin off universitarioBlucomb: “Nel nostro continente buona parte delle emissioni derivano dal riscaldamento. Per questo abbiamo pensato che anche qui Elsa potesse avere un mercato”.