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Wikipedia, Aranzulla e tutte le regole per cui una pagina può essere cancellata

Wikipedia, Aranzulla e tutte le regole per cui una pagina può essere cancellata

Sta facendo discutere la soppressione della pagina Wikipedia di Salvatore Aranzulla. Le regole secondo cui una pagina può essere cancellata sono chiare, al contrario del modo in cui vengono applicate

Wikipedia è uno strumento meraviglioso, fosse solo perché contribuisce a sottolineare la potenza del web, nella sua accezione di non-luogo in cui possono incontrarsi idee, sapere, coscienze e conoscenze. L’essere risorsa alimentata dalla partecipazione dei singoli, però, è anche il suo più grosso limite, perché ci si aspetta che sia sempre in costante miglioramento e perché l’esercizio di coordinamento tra gli utenti deve essere impeccabile e, alla luce dei fatti, l’assenza di una linea comportamentale omogenea sembra essere il limite più grande da superare.

Ma andiamo con ordine. Un articolo apparso su Vice racconta del caso Aranzulla e di come la cancellazione della sua pagina abbia diviso in due i contributor: quelli contrari alla cancellazione sostengono che la quantità di articoli e libri prodotti dal giovane siciliano siano sufficienti a giustificarne la presenza su Wikipedia mentre nelle fila degli oppositori si cavalca la presunta banalità dei contenuti che Aranzulla produce e che — dicono — non hanno alcuna rilevanza.

Il regolamento di Wikipedia è chiaro e fatto bene, tanto da riuscire a contenere in solo 11 criteri i principi a cui una pagina deve sottostare per essere pubblicabile. A questi si aggiungono dei parametri suddivisi per categorie specifiche di persone, tra le quali appare anche quella dello scrittore in cui Aranzulla, che di libri ne ha scritti diversi, potrebbe essere annoverato.

Facendo scorrere gli 11 criteri principali e quelli settoriali ci si accorge che sono coperte una grande quantità di condizioni e, da questo punto di vista, Wikipedia è inappuntabile. Certo, si può discutere sulla completezza dei parametri, sulla loro verificabilità e, perché no, anche sulla loro opportunità. Ma esistono, sono aperti a tutti e chiari. La pagina di Aranzulla, secondo queste regole, è stata rimossa correttamente. Essere divulgatore non appare in nessuno dei requisiti essenziali per essere su Wikipedia, così come non è sufficiente avere scritto dei libri, perché anche questi devono sottostare a delle regole che ne sanciscono l’enciclopedicità.

Parametri libri Wikipedia 600x335
(Immagine: it.wikipedia.org)

Il parametro numero 5 però è tutt’altro che misurabile“Ha venduto un elevato numero di copie” non significa nulla. Tra i suoi libri, dice Aranzulla, ce ne sono alcuni che hanno venduto 15mila esemplari, un numero di tutto rispetto. Se ne deduce che se la sua persona non ha levatura enciclopedica, i suoi libri sì. Occorre quindi capire qual è il senso e lo scopo di impedire ad uno scrittore di avere una pagina Wikipedia se le sue opere possono invece esservi pubblicate.

Il caso Aranzulla, per concludere, non è nato in tempi recenti. Il log di Wikipedia è piuttosto lungo e, in genere, rimprovera alla pagina del divulgatore una certa inclinazione allo spam autopromozionale. Alcuni wikipediani certificano la pagina altri la cassano. Il che equivale ad un problema.

Il caso Drago

Filippo Drago è un medico siciliano che, per carriera professionale e per numero di pubblicazioni scientifiche, ha tutti i diritti di essere su Wikipedia. Infatti c’è, ma solo su quella in lingua inglese. La sua pagina in italiano è stata cancellata perché ritenuta autoreferenziale, pure essendo la traduzione letterale di quella anglofona.

Le regole della Wikipedia originaria hanno un peso diverso da quella italiana. Il problema, in questo caso almeno, è comprendere quali conoscenze specifiche hanno gli amministratori che promuovono la cancellazione (o l’accettazione) di una pagina. E questo ci porta ai meccanismi di verifica.

Alphabet

Torniamo ai primi giorni di ottobre del 2015, quando Alphabet è diventata di fatto la holding che racchiude tutti i rami di quella azienda che, fino al giorno prima, era nota a tutti con il nome di Google. La nascita della holding, riportata con largo anticipo dalla stampa internazionale, ha spinto gli utenti di molti paesi a creare l’apposita pagina sull’enciclopedia libera, accolta da molti wikipediani tranne quelli in Italia che hanno deciso di cancellare la pagina sostenendo che Alphabet non fosse ancora ufficialmente nata. La discussione che ne è nata mostra come le regole, pure essendo chiare, vengono applicate a geometria variabile da questo o quell’amministratore. Di fatto le voci su Wikipedia si affidano a due principi generali da cui dipendono tutti gli altri, ovvero la verificabilità e l’attendibilità delle fonti.  Nel caso di Alphabet, la cui pagina è stata creata prima che la holding nascesse, è stata ritenuta non degna di pubblicazione nonostante fosse verificabile anche tramite quelle stesse fonti che verrebbero ritenute attendibili in qualsiasi altra pagina, come ad esempio i principali quotidiani nazionali che hanno dato ampio risalto all’aggruppamento di Google.

Wanna Marchi

Wanna Marchi, secondo Wikpedia, è un personaggio televisivo nonché una truffatrice italiana. Non si capisce per quale motivo abbia una pagina sull’enciclopedia poiché, al contrario di quanto elencato tra i requisiti, non ha ricoperto ruoli da protagonista né, tanto meno, è stata insignita di premi.

Giosada

La pagina Wikipedia dedicata a Giovanni Sada, noto con il nome di Giosada, è proprio in questi giorni nell’elenco di quelle da cancellare. La discussione che sta nascendo attorno all’opportunità di lasciarla online descrive bene lo stato di confusione che vige tra gli amministratori e gli utenti della versione nostrana di Wikipedia. I criteri di accettazione di una voce enciclopedica prevedono, tra le altre cose, l’avere vinto un reality show. Sada si è imposto nell’edizione 2015 di X-Factor. Questo non fa di lui, sostiene qualcuno nella discussione, un campione di vendite e incassi quindi si può fare a meno della voce a lui dedicata. Caos allo stato puro.

In conclusione, benché regole e requisiti siano chiari, la loro applicazione è perfettibile. C’è bisogno di una revisione dei ruoli e dei compiti degli amministratori italiani di Wikipedia, peraltro una piccola comunità che potrebbe di certo organizzarsi meglio.




Della reputazione

Nell’epoca di Snapchat, e della piena realizzazione della profezia di Warren Buffet “sui 5 minuti che servono per distruggerla”, c’è ancora qualcuno convinto che la reputazione – il più importante e prezioso asset intangibile del XXI secolo – sia qualcosa che si costruisce grazie – solamente – a uscite sui giornali…o organizzando eventi dove si discute – con 15 anni di ritardo rispetto a libri “cult” come “Governare le relazioni” – dell’importanza del dialogo con gli stakeholder.
Allora forse, sorprendentemente, c’è spazio per un decalogo di buone prassi, o qualcosa che gli somigli.
Alzo Manuzio, mentre i suoi tascabili diventavano di moda in tutta Europa e Isabella d’Este lamentava che “si potevano leggere ovunque, ma non erano certo economici”, ospitava a casa propria per un anno intero Erasmo da Rotterdam, il quale ebbe a sentenziare su Andrea Torresano – socio e suocero di Manunzio – che si trattava di “uno spilorcio povero di spirito e interessato solo al guadagno”; frase giunta fino a noi, cinque secoli dopo, a dimostrazione che la cattiva reputazione è davvero dura a morire.
Orbene: per cosa e come vogliamo essere conosciuti e ricordati? Ce lo chiediamo ogni qual volta – amministratori delegati, personaggi pubblici, aziende, direttori di ONG, tutti curiosi e insieme nervosi – ci Googliamo per verificare chi dice che cosa di noi. Ma non è solo sfizio: sono soldi, se è vero – ed è vero – che una parte significativa del valore di borsa di una blue-chip deriva sul suo indice reputazionale.
Per chiarirci, quattro parole chiave: l’identità, che riguarda il proprio DNA, la propria essenza, per come il personaggio o l’organizzazione vogliono che sia manifestata visivamente al pubblico, attraverso il proprio nome, logo, pay-off, prodotti, servizi, stabilimenti, sedi; l’immagine che è il riflesso dell’identità dell’organizzazione così come è percepita – anche in modo differente – dai diversi pubblici; infine, la reputazione, ovvero il grado di allineamento tra l’identità dell’azienda e la sua immagine, costruita nel tempo dall’organizzazione insieme ai suoi pubblici. Da non dimenticare che la reputazione può migliorare sempre e solo se la relazione tra i soggetti è basata su criteri di autenticità.
Il dibattito spesso si scatena su breve termine versus medio-lungo termine: “il problema ce l’ho ora” – lato imprenditore – contro “serve un po’ più di tempo per non costruire un gigante su piedi d’argilla, cadere e farsi ancora più male”, lato consulente. Premesso che il tempo è solo una parte dell’equazione – un’altra ad esempio, bisogna essere schietti, è il denaro, che agisce da “acceleratore di processo” – ecco un decalogo – anzi, due – di regole pratiche da ricordare.

10 “Consigli per gli acquisti” a chi la reputazione la vuole costruire/se la vuole comprare

  1. Evita l’eccesso di supponenza, che ti incastrerà in processi decisionali non logici, del tipo “bisognerebbe fare X ma faccio di testa mia facendo Y”. Ricordati che paghi qualcuno: se non ti piace, caccialo, ma finchè lavora per te, segui i suoi consigli;
  2. non dire “certo che si” a qualunque proposta di uscita sui mass-media. “Meglio più che meno” è il motto dei bulimici, dei macellai, dei venditori di enciclopedie porta a porta, degli addetti stampa, e dei centri media, con la loro ottusa strategia di “occupazione di spazi”. A volte tacersi per un attimo, e privilegiare la qualità alla quantità, è indice di buon senso;
  3. non tutto è una crisi reputazionale: se hai appena fatto un regalo costoso a una Tua amica, non c’è problema; se il regalo è un gioiello o un appartamento e la Tua amica è minorenne o un transessuale cocainomane, il problema potrebbe sussistere, agli occhi del pubblico. Devi saper distinguere, ma nel dubbio, chiedi sempre a quello che paghi per darti consigli, e possibilmente farlo velocemente: un reputation manager non si scandalizza se lo disturbi la notte tra sabato e domenica alle 3 di mattina, e – se si scandalizza – cambia consulente;
  4. se il tuo consulente in reputation-management non ti assilla chiedendoti collaborazione per impostare le strategie di difesa per affrontare ipotetici scenari futuri di crisi reputazionale, anche in questo caso cambia consulente. Si, è vero, è fastidioso avere in casa un ibrido tra un uccello del malaugurio e il grillo parlante di Mastro Geppetto, ma d’altra parte, da che mondo e mondo, solo un idiota farebbe la polizza di assicurazione contro i furti dopo che siano passati i ladri; e tu non sei un idiota, vero…?
  5. se il Tuo consulente oltre a non fare previsione di scenario è “una grande e importante agenzia di comunicazione e relazioni pubbliche esperta anche in comunicazione di crisi”, magari che “partecipa a gare al massimo ribasso” pur di fare budget, oltre che mandarla a casa fagli causa chiedigli indietro gli ultimi 10 anni di parcelle. Fai la cosa giusta: aiuta noi poveri professionisti a ripulire il mercato, e a far conoscere i Mc Donald della comunicazione per quello che sono; giuro che ti dimostreremo gratitudine…
  6. ricordati che le relazioni con gli stakeholder sono come i gradi di parentela, vanno coltivate: i parenti lontani che ti lasciano grandi fortune esistono solo nel sogni e nelle favole di Walt Disney;
  7. esistono – almeno – quattro tipi differenti di “scambio” possibili con la tua rete di relazioni: prendere soldi e non dare nulla; prendere soldi e dare poco; prendere soldi e dare esattamente ciò che la gente si aspetta, cosa di per se assai rara; infine, prendere soldi e dare un “x” in più rispetto a ciò che è atteso dall’organizzazione che assistiamo con i nostri consigli. Questo quarto tipo di atteggiamento genera stupore: quell’x in più finirà dritto nel tuo zainetto reputazionale, che costituisce la tua “riserva” in caso di crisi, genererà valore in termini di passaparola sulla tua persona, scambiabile con comportamenti d’acquisto positivi. Quindi, sii intelligente, scaltro ed egoista: regala sempre più di quanto sei obbligato a fare e fai felici le persone;
  8. non esisti solo Tu al mondo, e se non entri nell’ordine di idee di restituire attorno a Te un po’ della Tua fortuna e di prenderti cura e far crescere l’ambiente che circonda il tuo business, finirai per venderti i prodotti a te stesso. Si chiama CSR, inserimento di preoccupazioni etiche nella vita d’impresa, o chiamala come vuoi, anche “Pippo”, ma falla, e fallo sapere: magari qualche altro folle come te t’imiterà, e il mondo migliorerà un poco;
  9. per contro, non insistere a voler costruire reputazione sovra-enfatizzando fino all’ossessione gli aspetti positivi delle tue azioni, dandoti una mano di verde perché è di moda essere “ecò”: ho compreso che paghi la scuola ai bambini in Bangladesh e versi l’obolo alle monache per ristrutturare l’antico altare della parrocchia, ma se non c’è qualcosa più di questo, se la Tua responsabilità sociale non è integrata nel tuo business a livello strategico, quando la vernice verde si scioglierà, avrai pregiudicato irrimediabilmente i comportamenti di acquisto dei tuoi utenti finali;
  10. se commetti un errore, e qualcuno viene a saperlo – il che nel mondo del web 2.0 significa: tra poche ore tutti lo sapranno – non perdere tempo a difendere l’indifendibile: la gente non è stupida, e per effetto di questo tu ti rendi ridicolo e bruci valore. Fai prima, e sei più efficace nel costruire reputazione, se fai la cosa più semplice del mondo: (a) chiedi scusa, (b) rimedi all’errore commesso, e (c ) spieghi perché quella dannata cosa non succederà mai più. Ti sorprenderà notare come le persone ti perdoneranno velocemente…

 10 “Consigli per gli acquisti” a chi una consulenza in reputazione pretende di venderla

  1. se l’unica cosa che hai in mente quando il tuo mandante ti chiede un parere è “signorsì, ha ragione lei”, cambia immediatamente mestiere prima di far danni irreparabili. A volte le scelte possono apparire dolorose, ma – come per il medico, che è tenuto a far sempre una diagnosi onesta – anche Tu sei deontologicamente impegnato a dire al Tuo mandante sempre l’assoluta e sacrosanta verità. Se non gli piace, se ne farà una ragione; se non se ne fa una ragione, è meglio che gli stringi la mano e lo saluti, prima che le sue crisi reputazionali incontrollate travolgano anche te;
  2. il web oggi come oggi è un driver importante per la sfera reputazionale di individui, organizzazioni, aziende, personaggi pubblici, etc. Ma non è una casa di tolleranza: non è che “più paghi e più godi”. Quindi, trova una “posizione” assolutamente geniale che ti garantisca i migliori “amplessi”, tenendo però a mente che non sono le campagne di ADV a pagamento, ma soprattutto la creatività, la tempestività, il giusto tone of voice e l’empatia verso i vari pubblici che costruiscono una reputazione di successo;
  3. il ristorante migliore è sempre quello dietro l’angolo, a 50 metri da dove ti sei appena seduto: quindi non smettere mai di guardare oltre;
  4. il rapporto con i mass-media è tanto essenziale quanto complesso, e anche in questo caso è una questione di relazioni, non di quantità: in ogni caso, quando, sempre al ristorante, arrivati al caffè, il giornalista dice “non c’è problema, useremo solo le parti migliori dell’intervista”, non gli credere; se lo ripete due volte, uccidilo; se non lo uccidi, sarà il tuo Cliente a uccidere te;
  5. il mondo non finisce con l’incarico che stai seguendo ora, ed esiste anche la Tua di reputazione. Se ti stai dando da fare per spiegare al mondo che Mengele era in fondo una brava persona, che Matteo Renzi non è sempre attaccato allo smartphone come dicono i pentastellati, e che Donald Rumsfeld non ha fatto una porcata nel convincere George W. Bush a invadere l’Iraq, forse – udite udite, relatori pubblici – stai sbagliando qualcosa. Incasserai delle parcelle, è vero, ma il valore immateriale che brucerai oggi, alleggerendo il tuo “zainetto reputazionale”, faticherai quattro volte di più a recuperarlo domani;
  6. il mondo non finisce neppure con l’incasso della prossima fattura mensile: se non ti spacchi la testa a fare previsione di scenario, immaginando problemi reputazionali futuri tali da mettere in crisi il tuo assistito, arriverai tragicamente impreparato ai prossimi appuntamenti cruciali: quando ciò accadrà, avrai poche decine di minuti per decidere la cosa giusta da fare, e – per quanto ti reputi intelligente e preparato, e tutti pensiamo di esserlo più di chiunque altro – se non hai masticato in anticipo lo scenario, sarà un vero disastro;
  7. nel delirio più nero dell’entropia della comunicazione, quando tutto è caos, c’è un punto altissimo della curva gaussiana delle polemiche on-line nel quale ti chiederai “chi me l’ha fatto fare ad aprire questo thread”. Resistere, resistere, resistere, diceva quel Magistrato: prosegui testardamente e con sangue freddo ed equilibrio nel tuo lavoro di “manipolazione” – cosa mai ci sarà di così scandaloso nel plasmare con le mani…? – e impegnati per risolvere il conflitto muovendoti sulla linea di “minor resistenza”, applicando la tecnica del Tai Chi Chuan in chiave di comunicazione e scoprendo qual è la breccia nel punto più debole delle argomentazioni del tuo interlocutore… e a un certo punto, “magicamente”, ciò che è negativo passerà a neutrale e – se sei davvero bravo – ciò che è neutrale passerà a positivo. Soprattutto, fallo tu, non farlo fare a un tuo stagista: non è vero che siamo tutti intercambiabili, serve una particolare “sensibilità” per fare questo lavoro, e i soldi che ti paga il tuo Cliente mi pare siano buoni…
  8. solo il 7% delle organizzazioni comprendono il valore reale delle interazioni e l’81% non ha una chiara strategia sui Social. Aprire e gestire una pagina Facebook o un account Twitter non può essere una questione di onanismo: non sono luoghi “dove bisogna essere” ed è finita li. Facebook dovrebbe inserire nel proprio algoritmo un automatismo: al terzo commento di utenti senza risposta, puff… la pagina sparisce, si chiude senza chiedere il permesso. Ai politici che usano Facebook solo per pubblicare i loro comunicati stampa e “le cose che fanno”, alle celebrities che non interagiscono con i fans, e alle aziende che pubblicano compulsivamente post promozionali del tipo “accattati il prodotto con lo sconto mirabolante”, non dovrebbe essere permesso essere sui Social. Disturbano;
  9. spiega al Tuo assistito che il motore della reputazione sono le emozioni. Non sono la macchina enorme, i vestiti firmati e le scarpe costose, la bionda o il biondo accanto, le foto delle spiagge esotiche ossessivamente postate su Facebook, il curriculum senza fine o l’amicizia con il potente di turno a fare dell’organizzazione una “Lovemark”. Mi ripeto: sono le emozioni. E posto che – come dicevano quei quattro già vent’anni fa – “i mercati sono conversazioni”, come generare emozioni sul pubblico in modo coerente con la storia e l’identità del proprio Cliente è la vera sfida di ogni reputation manager;
  10. infine, non dimenticare mai il ruolo delle immagini nella civiltà contemporanea: le statistiche dimostrano che sono foto e video gli strumenti migliori per trasmettere il senso della propria identità, toccando le corde più profonde, generando empatia, e facendoci “sentire con” un brand, una persona, un leader politico. Quando è stata l’ultima volta che il Tuo assistito ha fatto uno shooting decente?

Conclusioni

Come ho ricordato in un mio precedente short-form, Calvino venne definito da un articolo della Harvard University Press «…Uno dei migliori storyteller del mondo» – e morì alla vigilia della partenza per le sue “Lezioni americane”.
E’ evidente la possibile correlazione tra i “Six Memo” e le tecniche di gestione della reputazione, se richiamiamo la necessità di togliere fronzoli, tornare all’essenziale e a un approccio quasi impalpabile, ma al contempo netto, nel disegnare l’opera, come mirabilmente faceva lo scalpello del veneziano Canova, in grado di trasferire all’occhio di chi guarda plasticità, grazia, leggerezza e luce pura, ma senza fronzoli; lo scopo finale è senz’altro quello di tentare di far interiorizzare ad altri parte del DNA del nostro Cliente, costruendo non “discussioni”, dove qualcuno deve per forza alla fine aver ragione, bensì “dialoghi”, dove il punto di vista nostro può “impollinare” l’altro, arricchendolo e regalandogli valore, in modo naturale e senza forzature, maturando quindi un “credito” di reputazione, appunto, a nostro favore.
Inoltre, sempre per citare lo straordinario scrittore italiano nato a Cuba, per gestire bene la reputazione di altri, costruirla, o evitare che crolli inaspettatamente, è essenziale avere Quickness, ovvero intuizione, capacità di sintonizzarsi velocemente con i frequenti cambiamenti di stato dell’ambiente che ci circonda, e abilità di collegare punti dell’equazione apparentemente lontani tra loro, ricordando che la leggerezza nella forma e la rapidità nella trasmissione – tipici del secolo del virtuale e degli scenari “liquidi” – non devono mai far abdicare alla consistenza del messaggio.
Sempre Calvino scrive: «Chi è ognuno di noi, se non una combinatoria di esperienze e informazioni, che può essere rimescolata e riordinata in tutti i modi possibili…?». Questo è probabilmente il lavoro di un reputation manager: essere un buon sarto, maniacalmente accurato, appassionato nel cucire un abito haute-couture che ben si adatti alla configurazione fisica del proprio assistito, quindi ogni volta differente e personalizzato.
Allora – come tante piccole parti di una grande mappa, nella quale ogni elemento è fortemente interconnesso con tutti gli altri che lo circondano – quando immaginiamo, scriviamo e attuiamo le nostre strategie di comunicazione dovremmo riflettere più incisivamente sugli effetti concreti che le nostre azioni hanno a 360°, non solo sull’organizzazione al servizio della quale lavoriamo, ma su tutto l’ambiente che la e ci circonda, dal momento che siamo agenti attivi in una rete neurale sociale molto più ampia di quanto apparentemente potremmo sospettare.




Nuove Tesi

Dagli autori del “Cluetrain Manifesto”, le nuove tesi, pubblicate “open source” nel 2015

Ascolta, Internet.

Sono passati quindici anni dal nostro precedente messaggio.

A quel tempo la Gente di Internet – io, te e tutti i nostri amici degli amici degli amici, fino all’ultimo
Kevin Bacon — ha fatto di Internet un luogo stupendo, pieno di meraviglie e di portenti.

Dalle cose serie a quelle scherzose fino alle più assurde, abbiamo distrutto giganti, creato eroi e modificato le più semplici convinzioni su
Chi Siamo e Come Va il Mondo.

Ma adesso, tutto il buon lavoro fatto insieme sta per affrontare pericoli mortali.

Quando ci siamo rivolti a te per la prima volta, volevamo metterti in guardia della minaccia rappresentata da chi non capiva di non aver capito Internet.

Questi sono “Gli Stolti”, i business che hanno semplicemente fatto proprie le trappole di Internet.

Ora due nuove orde minacciano quello che noi abbiamo costruito l’uno per l’altro.

I Marauders capiscono Internet fin troppo bene. Pensano che appartenga a loro e che possano depredarlo, prelevando da esso i nostri dati e i nostri soldi, convinti che noi siamo cretini.

Ma l’orda più pericolosa è la terza: Noi.

Un’orda è una massa indifferenziata di persone. Ma la vera essenza di Internet è che ci permette di connetterci, in quanto individui diversi e distinti.

A tutti noi piace l’intrattenimento di massa. Diamine, al giorno d’oggi la TV ne sta facendo delle belle, e la Rete ci permette di guardarcele quando ci pare. Fantastico!

Ma dobbiamo tenere a mente, che trasmettere mass media è solo l’ultimo dei poteri della Rete.

Il super-potere della Rete è la connessione senza bisogno di autorizzazione. Il suo massimo potere è che possiamo fare di essa quello che ci pare.

Dunque non è il momento di metterci comodi e consumare il ma-che-buon cibo spazzatura che Stolti e Marauders hanno creato, come se il nostro lavoro fosse finito. È il momento di soffiare sul fuoco della Rete e trasformare tutte le istituzioni che vorrebbero prenderci in giro.

E’ già iniziata l’invasione sistematica di Internet da parte degli ultracorpi. Non fare errori: con un tratto di penna, una stretta di mano segreta o permettendo ai meme di coprire le grida dei più disperati, rischiamo di perdere l’Internet che amiamo.

Ci siamo rivolti a te negli anni della nascita del Web. Siamo invecchiati insieme a Internet.
Il tempo che ci rimane è poco.

Noi, il Popolo di Internet, dobbiamo ricordare la gloria della sua rivelazione, per poterlo rivendicare ora in nome di ciò che è veramente.

David Weinberger

Doc Searls

8 gennaio, 2015

 

Un tempo eravamo giovani nel giardino…

a. Internet siamo noi, connessi.

1. Internet non è fatto di cavi, di fibre ottiche, di onde radio e neanche di tubi.

2. I dispositivi che usiamo, per connetterci a Internet, non sono Internet.

3. Verizon, Comcast, AT&T, Deutsche Telekom e 中国电信 non possiedono Internet.
Facebook, Google e Amazon non sono i re della Rete, né lo sono i loro servitori o i loro algoritmi.
Né i governi della terra né le loro Associazioni per il Commercio hanno il consenso dei connessi

per cavalcare la Rete come sovrani.

4. Internet è un nostro bene comune, non una nostra proprietà.

5. Da noi e da quello che abbiamo costruito su di esso deriva tutto il valore di Internet.

6. La Rete è di noi, da noi, per noi.

7. Internet è nostro.

b. Internet non è niente, e non serve a niente.

8. Internet non è una cosa, più di quanto non lo sia la forza di gravità. Entrambe ci tengono insieme.

9. Internet è una totale non-cosa. Alla sua base c’è un insieme di accordi,
che i più nerd fra noi (benedetti siano i loro nomi nei secoli) chiamano “protocolli”,
ma che noi potremmo, nel fervore del momento, chiamare “comandamenti.”

10. Il primo e il più importante è: La tua rete muoverà i pacchetti a destinazione
senza favoritismi o ritardi in base a origine, sorgente, contenuto o intenzione.

11. Possa dunque questo Primo Comandamento aprire Internet a ogni idea, applicazione,
business, avventura, vizio o qualsiasi altra cosa.

12. Non si è mai visto uno strumento così generalmente utilizzabile dall’invenzione del linguaggio.

13. Questo significa che Internet non è fatto per qualcosa in particolare. Non è fatto per i social network,
né per i documenti, né per la pubblicità, né per il business, né per l’educazione, né per il porno,
né per qualsiasi altra cosa. È adatto nello specifico a fare qualsiasi cosa.

14. Ottimizzare Internet per una singola cosa significa de-ottimizzarlo per tutto il resto.

15. Internet, come la gravità, è indiscriminato. Ci tiene insieme, giusti e ingiusti allo stesso modo.

c. La Rete non è contenuto.

16. Su Internet ci sono contenuti fantastici. Ma, maremma formaggina, Internet non è
fatto di contenuti.

17. La prima poesia di un adolescente, la tanto attesa rivelazione di un segreto custodito a lungo; un bel disegno
buttato giù da una mano paralitica; il post di un blog in un regime politico che odia il suono delle voci del suo popolo:
nessuna di queste persone aveva intenzione di creare un contenuto.

18. Abbiamo usato la parola “contenuto” senza virgolette? Ce ne vergogniamo.

d. La Rete non è un medium.

19. La Rete non è un medium più di quanto non lo sia una conversazione.

20. Sulla Rete, il medium siamo noi. Noi portiamo i messaggi. Lo facciamo ogni volta che
pubblichiamo un post, ritwittiamo, mandiamo un link in una email o lo postiamo su un social network.

21. Contrariamente a un medium, tu ed io lasciamo le nostre impronte digitali, e talvolta il segno dei denti,
sui messaggi che passiamo. Diciamo alle persone perché mandiamo quel messaggio. Lo rafforziamo.
Vi aggiungiamo una battuta. Tagliamo la parte che non ci piace. Ci appropriamo di questi messaggi.

22. Tutte le volte che portiamo un messaggio attraverso la Rete, esso porta con sé un piccolo pezzo di noi.

23. Portiamo un messaggio attraverso questo “medium”, solo se esso è importante per noi, in uno qualsiasi
degli infiniti modi in cui gli esseri umani possono avere a cuore qualcosa.

24. Avere a cuore — ritenere importante— è la forza motrice di Internet.

e. Il Web è World Wide.

25. Nel 1991, Tim Berners-Lee usò la Rete per creare un regalo, che donò gratis a tutti noi:
il World Wide Web. Grazie.

26. Tim ha creato il Web fornendo dei protocolli (di nuovo questa parola!)
che dicono come scrivere una pagina che può linkare a un’altra pagina senza chiedere
il permesso a nessuno.

27. Boom. Nel giro di dieci anni abbiamo avuto miliardi di pagine sul Web: un’impresa collettiva
delle dimensioni di una Guerra Mondiale, e tuttavia così positiva che la più grande lamentela è stata per il tag <blink\>.

28. Il Web è un regno gigantesco e semi-eterno, fatto di cose da scoprire nelle loro fitte inter-connessioni.

29. Questa l’ho già sentita. Ma certo, è esattamente come il mondo reale.

30. Diversamente dal mondo reale, ogni cosa e ogni connessione sul Web è stata creata da qualcuno di noi,
mostrando un interesse e un punto di vista su come piccoli pezzi
si combinano tra loro.

31. Ogni link creato da una persona, con qualcosa da dire, è un atto di generosità e altruismo,
che invita i lettori a lasciare la pagina dove stanno, per guardare il mondo dal punto di vista di qualcun altro.

32. Il Web ricrea il mondo nella nostra forma feconda e condivisa.

 

Ma ahimè, come abbiamo potuto allontanarcene, fratelli e sorelle…

a. Tuttavia, come abbiamo potuto lasciare che la conversazione fosse trasformata in un’arma?

33. È importante riconoscere e aver cura del dialogo, dell’amicizia e dei mille gesti di empatia,
gentilezza e gioia che incontriamo su Internet.

34. E ancora sentiamo le parole “frocio” e “negro” molto più in Rete che fuori.

35. La demonizzazione degli ‘altri’ — persone con look, linguaggi, opinioni, appartenenze o
altri modi di stare insieme che non capiamo, apprezziamo o tolleriamo —  su Internet è peggiore che mai.

36. Le donne in Arabia Saudita non possono guidare? Nel frattempo, metà di noi non può
parlare liberamente sulla Rete senza doversi guardare alle spalle
.

37. C’è odio in Rete perché c’è odio nel mondo, ma la Rete rende più facile la sua espressione e il suo ascolto.

38. La soluzione: se avessimo una soluzione, non staremmo qui a scocciare con tutte queste dannate tesi.

39. Possiamo però dire questo: non è stato l’odio a creare la Rete, ma sta portando la Rete — e tutti noi — indietro.

40. Ammettiamo almeno che la Rete ha i suoi valori impliciti. Valori umani.

41. Ad uno sguardo freddo la Rete è solo tecnologia. Ma è popolata da creature che si scaldano
per quello a cui tengono: le loro vite, i loro amici, il mondo che condividiamo.

42. La Rete ci offre un luogo condiviso dove possiamo essere noi stessi, insieme ad altri che apprezzano
le nostre differenze.

43. Nessuno è padrone di questo luogo. Tutti possono usarlo. Chiunque può migliorarlo.

44. Ecco cos’è un Internet libero. Sono state combattute guerre per molto meno.

b. “Siamo d’accordo su tutto. Ti trovo affascinante!”

45. Il mondo ci si offre davanti come un buffet, eppure noi vogliamo sempre la nostra bistecca
con patate, l’agnello con hummus, il pesce con riso, o qualsiasi altra cosa.

46. Facciamo così in parte perché la conversazione ha bisogno di un terreno comune: linguaggi, interessi,
regole, punti di vista condivisi. Senza di questi è difficile, se non impossibile, avere una conversazione.

47. Terreni comuni generano tribù. Il Mondo con la sua dura terra ha tenuto a distanza le tribù,
permettendo loro di sviluppare incredibili diversità. Evviva! Le tribù hanno fatto crescere
il Noi invece del Loro e della guerra. Evviva? Mica tanto.

48. Su Internet, la distanza tra le tribù parte da zero.

49. Apparentemente, essere capaci di trovarci l’un l’altro interessanti non è così semplice come sembra.

50. Questa è una sfida che possiamo affrontare essendo aperti, empatici e pazienti.
Possiamo farcela ragazzi! Siamo i numeri 1! Siamo i numeri 1!

51. Essere accoglienti: ecco un valore che la Rete ha bisogno di imparare dalle nostre migliori
culture del mondo reale.

c. Il marketing rende ancora più difficile parlare.

52. Avevamo ragione la prima volta: i Mercati sono conversazioni.

53. Conversazione non significa tirarci per la manica, per mostrarci un prodotto di cui non vogliamo sentir parlare.

54. Se vogliamo sapere la verità sui vostri prodotti, la scopriremo da qualcun’altro.

55. Ci rendiamo conto che queste conversazioni sono incredibilmente interessanti per voi.
Peccato. Sono nostre.

56. Se volete partecipare alla nostra conversazione siete i benvenuti, ma solo se ci dite per chi lavorate e
se potete parlare in modo autonomo e personale.

57. Tutte le volte che ci chiamate “consumatori”, ci sentiamo come mucche che cercano il significato della parola “carne”.

58. Smettetela di trivellare le nostre esistenze per estrarre dati che non vi riguardano e che le vostre macchine
interpretano male.

59. Non preoccupatevi: vi diremo noi quando scenderemo sul mercato per qualche motivo. A modo nostro. Non vostro.
Fidatevi: sarà meglio per voi
.

60. Gli annunci pubblicitari che suonano umani ma provengono dagli intestini irritabili
del vostro ufficio marketing, macchiano la stoffa del Web.

61. Quando la personalizzazione porta a cose raccapriccianti, è un chiaro segnale che non capite
cosa significa veramente essere una persona.

62. Umano è Personale. Non Personalizzato.

63. Più le macchine sembrano umane, più scivolano nella uncanny valley dove ogni cosa è raccapricciante .

64. E poi: smettetela di travestire gli annunci pubblicitari da news, nella speranza che non ci accorgiamo dell’etichetta
appesa alle loro mutande.

65. Quando fate “native advertising” non solo intaccate la vostra stessa credibilità, ma anche la credibilità
di tutto questo nuovo modo di entrare in relazione gli uni con gli altri.

66. A proposito, che ne dite di chiamare la “native advertising” con uno dei suoi veri nomi come “product placement”,
“pubbliredazionali”, o “notizie finte del cazzo”?

67. Gli inserzionisti sono andati avanti per generazioni senza essere raccapriccianti. Possono cavarsela
senza essere raccapriccianti anche sulla Rete.

d. La Gitmo della Rete.

68. Tutti amiamo le nostre scintillanti app, anche quando sono blindate quanto una base lunare. Ma se metti insieme
tutte le app blindate del mondo avrai soltanto un mucchio di app.

69. Metti insieme tutte le pagine del Web e avrai un nuovo mondo.

70. Le pagine web creano connessioni. Le app, controllo.

71.Se passiamo dal Web ad un mondo fatto di app, perdiamo tutto ciò che di condiviso stavamo costruendo
insieme.

72. Nel Regno delle App siamo utenti, non creatori.

73. Ogni nuova pagina rende il Web più grande. Ogni nuovo link rende il Web più ricco.

74. Ogni nuova app ci dà qualcos’altro da fare sull’autobus.

75. Ahi, un colpo basso!

76. Ehi, “ColpoBasso” potrebbe essere il nome per una nuova app! Già me la immagino,
con su scritto “Acquistala nell’App Store”.

e. La gravità è una gran cosa, fino a quando non ci risucchia tutti in un buco nero.

77. Le applicazioni non-libere sviluppate a scapito della Rete libera stanno diventando inevitabili,
quanto la forza di attrazione di un buco nero.

78. Se per te la Rete è Facebook, allora ti sono stati messi addosso degli occhiali da un’azienda
che ha la responsabilità, nei confronti dei suoi azionisti, di impedirti di toglierli.

79. Google, Amazon, Facebook e Apple fanno tutte il business degli occhiali. La prima verità, che i loro occhiali
nascondono, è che queste aziende vogliono impossessarsi di noi proprio come i buchi neri
si impossessano della luce.

80. Queste singolarità aziendali sono pericolose, non perché sono cattive. Molte di loro infatti
sono impegnate in ottime iniziative di pubblica utilità. Dovrebbero essere applaudite per questo.

81. Ma esse traggono beneficio dall’attrazione gravitazionale della socialità: l’”effetto network” è quello che
si verifica quando molti usano qualcosa perché è già usato da molti.

82. Dove non ci sono alternative competitive, dobbiamo stare iper-attenti, per ricordare
a questi Giganti della Valley i valori del Web che all’inizio li hanno ispirati.

83. E poi abbiamo bisogno di onorare il suono che facciamo quando uno di noi si allontana
coraggiosamente da loro. E’ un suono a metà tra il boato di un razzo, in partenza dalla piattaforma di lancio,
e lo strappo del Velcro quando ci si slaccia un vestito troppo stretto.

f. La privacy nell’era delle spie.

84. Ok governi, avete vinto. Avete in mano i nostri dati. Ora, cosa possiamo fare per assicurarci
che userete questi dati contro di Loro e non contro di Noi? Anzi, sapreste dirci che differenza c’è?

85. Se vogliamo che i nostri governi facciano un passo indietro, dobbiamo accettare che se – e quando – ci sarà
un nuovo attacco, non ci potremo poi lamentare, dicendo che avrebbero dovuto sorvegliarci meglio.

86. Non c’è scambio equo, se non siamo consapevoli di quello a cui rinunciamo. Non hai mai sentito dire che
per la Sicurezza bisogna rinunciare alla Privacy?

87. Con una probabilità, che si avvicina all’assoluta certezza, ci pentiremo di non aver fatto di più
per proteggere nostri i dati dalle mani dei governi e dai signori supremi
delle grandi aziende.

g. La privacy nell’era dei disonesti.

88. È giusto garantire la privacy personale a chi la vuole. Tutti stabiliamo dei limiti a un certo punto.

89. Domanda: Quanto pensi ci sia voluto affinché la cultura pre-Web capisse dove stabilire i limiti?
Risposta: “Quanti anni ha questa cultura?”

90. Il Web è appena uscito dall’adolescenza. Ci troviamo all’inizio, non alla fine, della storia della privacy.

91. Potremo comprendere che cosa vuol dire privato, solo quando avremo capito cosa vuol dire social.
Abbiamo appena iniziato a reinventare questi concetti.

92. Gli incentivi economici e politici, per farci abbassare i pantaloni e sollevare la gonna, sono così forti
che faremmo meglio a investire in mutande di stagnola.

93. Sono gli hacker ad averci portato a questo, gli hacker dovranno tirarcene fuori.

 

Per costruire e seminare

a. Kumbaya è bellissima se sei in una cassa di risonanza.

94. Internet è sbalorditivo. Il Web è fantastico. Tu sei bellissimo. Connettiamoci tutti e saremo
più incredibilmente meravigliosi di Jennifer Lawrence
. È un dato di fatto.

95. E allora, non sminuiamo quello che la Rete ha fatto negli ultimi vent’anni.

96. C’è molta più musica in giro per il mondo.

97. Ora siamo in grado di farci una cultura da soli, salvo occasionali incursioni al cinema
per qualcosa di spumeggiante e una busta di pop-corn da 9 dollari.

98. Ora i politici devono spiegare le loro posizioni in modo ben diverso rispetto
al vecchio volantino elettorale ciclostilato
.

99. Per tutto ciò che non capisci, puoi trovare una spiegazione. Puoi parlarne con altri. Puoi persino litigarci.
Non è evidente quanto tutto ciò sia fantastico?

100. Vuoi sapere cosa comprare? L’ultimo a cui chiedere è quel business che fa di tutto per creare
un oggetto del desiderio. La migliore fonte di informazioni siamo noi tutti.

101. Vuoi un corso di livello universitario su un argomento che ti interessa?
Cerca su Google
. Scegline uno. È gratis.

102. Certo, Internet non ha risolto tutti i problemi del mondo. Ecco perché l’Onnipotente
ci ha fatto dono delle chiappe: per farcele alzare dalla sedia.

103. Gli oppositori di Internet ci aiutano a mantenerci onesti. Ma li apprezziamo di più
quando loro stessi non si comportano da ingrati.

b. Una tasca piena di buone intenzioni.

104. Stavamo per dirvi come aggiustare Internet in quattro semplici mosse, ma l’unica che ci viene in mente
è l’ultima: il profitto
. Così, invece, ecco alcuni pensieri sparsi…

105. Dovremmo sostenere gli artisti e i creativi che ci danno gioia o ci fanno sentire più leggeri.

106. Dovremmo avere il coraggio di chiedere l’aiuto di cui abbiamo bisogno.

107. La nostra cultura porta naturalmente alla condivisione, mentre la legge porta naturalmente
alla difesa del copyright. Il copyright ha la sua funzione, ma nel dubbio, open
è meglio .

108. Nel contesto sbagliato sono tutti str–zi. (Anche noi, ma lo sapevate già). Perciò se inviti le persone
a fare una nuotata, stabilisci prima delle regole. Tutti i troll, fuori dalla piscina.

109. Se le conversazioni sul tuo sito prendono una brutta piega, la colpa è tua.

110. Laddove c’è una conversazione, nessuno è tenuto a risponderti, non importa quanto sia condivisibile
il tuo punto di vista o quanto smagliante sia il tuo sorriso.

111. Sostieni le aziende che hanno davvero capito il Web. Le riconoscerai non tanto
perché ci assomigliano, ma perché sono dalla nostra parte.

112. Certo, le app offrono una bella esperienza. Ma il Web è fatto di collegamenti che si diramano in continuazione,
connettendoci senza fine. Per la vita e le idee, la completezza è la morte.
Scegli la vita.

113. La rabbia è la patente della stupidità. Le strade di Internet sono già troppo affollate di guidatori patentati.

114. Vivi i valori che vuoi promuovere su Internet.

115. Se è un po’ che parli, prova a star zitto. (Tra poco lo faremo anche noi).

c. Stare insieme: la causa e la soluzione di ogni problema.

116. Se ci siamo concentrati sul ruolo del Popolo della Rete  —  tu e noi  — nel declino di Internet,
è perché conserviamo ancora la stessa fede che avevamo all’inizio.

117. Noi, il Popolo della Rete, non riusciamo a comprendere quanto si possa fare insieme, perché siamo ancora lontani
dall’aver finito di inventare come stare insieme.

118. Internet ha liberato una forza primordiale  — la gravità in grado di tenerci insieme.

119. L’amore è la forza di gravità della connessione.

120. Lunga vita a Internet libero.

121. Che si possa avere a lungo un Internet da amare.

Link originale:  http://newclues.cluetrain.com

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Disastri naturali: una comunicazione responsabile?

Disastri naturali: una comunicazione responsabile? Modelli, casi reali e opportunità nella comunicazione di crisi. Scheda del libro

Il volume propone una riflessione sul tema della comunicazione di crisi offrendo al Lettore una consultazione articolata in merito alle nuove sfide, alle criticità ancora presenti, ai modelli applicabili e alle opportunità potenziali che ogni crisi – in qualunque ambito – genera.
Sorretto ed aiutato da un timbro narrativo immediatamente comprensibile e focalizzato sui due terremoti che hanno colpito L’Aquila e l’Emilia, il testo propone chiavi di lettura dei principali passaggi che riguardano l’accadimento di una calamità naturale: dalla gestione dei pubblici (con particolare attenzione alle dinamiche interne) all’attuale modello di comunicazione ambientale; dagli strumenti e dai modelli comunicativi fino al ruolo della comunicazione e del comunicatore. Un testo utile ed attuale, per affrontare i cambiamenti organizzativi e relazionali che ogni situazione di crisi comporta, con la giusta dose di consapevolezza e attenzione.

Indice

1. Un punto d’inizio nella definizione e gestione delle relazioni con i pubblici in caso di calamità naturali
Stefano Martello, Biagio Oppi
2. La comunicazione di crisi. Il crisis management
Luca Poma
3. Il ruolo della comunicazione interna durante una crisi
Stefano Martello, Biagio Oppi
4. La comunicazione ambientale
Sergio Vazzoler
5. I terremoti dell’Aquila e dell’Emilia: due crisi a confronto
Massimo Alesii
6. I social nella gestione della crisi
Massimo Alesii
7. Il ruolo del comunicatore pubblico
Fabio Montella
8. Multiutility, Multistakeholder. La gestione dell’emergenza
Monica Argilli
9. Innovazioni e sviluppo dopo il sisma in Emilia
A cura di Giovanni Bonifati, Elisabetta Gualandri, Francesco Pagliacci, Anna Francesca Pattaro, Alessia Pedrazzoli,
Silvia Pergetti, Marco Ranuzzini, Manuel Reverberi, Giovanni Solinas, Paola Vezzani del gruppo di ricerca Energie
Sisma Emilia, coordinato da Margherita Russo e Paolo Silvestri
10. Disastro naturale: tra crisi e opportunità
Stefano Martello, Biagio Oppi
Bibliografia
Sitografia
Parole chiave

Autori

Massimo Alesii, Monica Argilli, Gruppo di ricerca Energie Sisma Emilia (coordinato da Margherita Russo e Paolo Silvestri), Stefano Martello, Fabio Montella, Biagio Oppi, Luca Poma, Sergio Vazzoler.

Curatori

Stefano Martello, consulente in comunicazione e componente del Gruppo Comunicare le professioni intellettuali di Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana). s_martello(at)hotmail.com
Biagio Oppi, responsabile comunicazione di una multinazionale biofarmaceutica, svolge ruoli di advocacy per la professione in seno a Ferpi (Federazione Relazioni Pubbliche Italiana). biagio.oppi(at)gmail.com

Editore

Bononia University Press, Bologna, 2016 – pag. 160 – euro 15,00 – ISBN 978-88-6923-152-0 www.buponline.com

Blog

http://disastrinaturalicomunicazione.blogspot.com
Per acquistare il libro: Bononia University Press a 15.00 euro spese di spedizione incluse.




Intervista ad Andrea Stanich

Luca Poma intervista Andrea Stanich, Direttore creativo dell’agenzia di pubblicità che promuove il marchio Ceres on-line.
 Ceres ha uno stile di comunicazione tutto suo. Qual è la cifra del vostro lavoro, che vi distingue dagli altri?
Quello che ha funzionato molto bene – e che sta tuttora funzionando sui canali social di Ceres – è stato il mettersi a tavolino e studiare un “personaggio”, trasformare quelli che sono i valori, le caratteristiche del brand, in qualcosa di diverso, cioè quasi nelle caratteristiche di una “persona”, un personaggio narrativo. Questo personaggio noi lo definiamo “un eroe senza gloria”, quindi è un personaggio che ha una certa spregiudicatezza, un po’ di irriverenza, è sicuramente audace, e ha anche un occhio al divertirsi. Insomma: c’è una vera e propria “carta d’identità”, declinata su diverse caratteristiche, che rende questo personaggio per noi abbastanza tangibile, esattamente come nella narrativa, quando il personaggio vive di vita propria. Il tutto concordato con Ceres – ovviamente – che è un Cliente molto aperto e per certi versi illuminato, e ci ha dato modo di non porre limiti preordinati su ciò che il personaggio potesse andare a dire o a raccontare. Un altro elemento di successo è stato l’aver presidiato per la prima volta alcuni territori che appartengono agli interessi delle persone, ma che altri brand non avevano mai cavalcato; un esempio su tutti è la politica – area assai delicata – sulla quale Ceres è però entrata più volte, in modo credibile, grazie appunto a questo progetto articolato di narrazione.
Non avete quindi avuto paura di affrontare temi “delicati” …
Ci rivolgiamo a un target molto specifico di persone, lavorare sui social sicuramente ti dà la possibilità di parlare con un pubblico abbastanza evoluto. Nella comunicazione pubblicitaria tradizionale ci sono tante paure, vincoli, scrupoli, anche legati ai grandi investimenti, per cui a fronte di un grande investimento hai paura di dire una cosa che sia anche soltanto leggermente criticabile. Fai in fretta a sbagliare, e se sbagli paghi un prezzo alto: una campagna che naufraga, nella comunicazione convenzionale sono tanti soldi gettati via. Sul digital, ovviamente, non hai questi vincoli, e inoltre c’è un dialogo quotidiano con le persone, che ti porta a capire sempre meglio quello che “ti puoi permettere” di dire, e quello che invece dovresti evitare, e soprattutto quello che è rilevante e quello che interessa alle persone. Ma non finisce qui: dirò una cosa banale, ma una volta che hai pubblicato un post divertente, furbo, intelligente, che fa parlare e che stimola, devi continuare a coltivare la conversazione e costruire un dialogo quotidiano con gli utenti, personalizzandolo di continuo…
Voi siete in presa diretta su tantissimi fatti quotidiani, avete una rapidità di risposta incredibile. Che modello adottate internamente?
Abbiamo un modello abbastanza flessibile, in Agenzia tutti conoscono bene Ceres e quel personaggio, per cui anche le persone che magari non lavorano direttamente sul brand contribuiscono in qualche modo a dare degli stimoli. Uno che magari non lavora specificamente sul brand, dice: “ragazzi, è successa questa cosa, e questa cosa la potrebbe dire Ceres…”. C’è un nucleo di persone che lavorano direttamente sul brand, ma la nostra modalità di lavoro, come Agenzia medio-piccola, ci dà la possibilità di essere davvero flessibili. La tempestività è anche facilitata da un rapporto con un tipo di Cliente che io francamente in tanti anni di lavoro ho incontrato poche volte, sia in termini di fiducia sia in termini di rapidità del feedback, cosa che si rivela davvero cruciale.
Voi vi distinguete da Heineken e da altri players per un modo di fare che è diventato come abbiamo detto “la cifra” di Ceres sui digital. Questo modello di lavoro e questo imprinting non sarebbe replicabile automaticamente in altri casi? O è il brand Ceres che ha connotazioni un po’ specifiche e particolari?
E’ un punto di domanda per certi versi anche per noi, però credo che Ceres si trovi in una situazione particolarmente fortunata: è un brand danese, che però ha una fortissima autonomia sul mercato italiano, quindi diciamo che prende un po’ il meglio dell’apertura di una multinazionale e il meglio del fatto di poter avere la libertà di essere molto “local”, che è una cosa che ad esempio Heineken non ha e che non avrà mai, perché i brand che sono molto legati ad una comunicazione “global” difficilmente possono essere così reattivi sul locale. Oggi Ceres vanta molti tentativi d’imitazione, alcuni anche piuttosto ben riusciti. Sono convinto che tutti i brand possono diventare degli interlocutori social credibili: certo, una birra ha più appeal di una fabbrica di bulloni o di una scopa per pulire i pavimenti, ma tutti i brand hanno questa potenzialità. Devono però cercare di costruire un personaggio coerente con quello che fanno, con se stessi e con il proprio pubblico. Quale che sia il “loro” personaggio, non è detto che debba essere per forza super audace o super provocatorio… La sfida vera non è essere particolarmente dissacrante o graffiante a tutti costi, bensì è quello di cercare di essere “rilevante” perlomeno quanto tutti gli altri messaggi che si trovano sulla wall di una persona, e per farlo bisogna avere delle idee che interessino realmente le persone.
Tre post che ti vengono in mente, che ti sembrano particolarmente riusciti, o che hanno ottenuto più attenzione…
Io sono molto legato al primo post veramente di rottura che abbiamo fatto, quello che ci ha lasciato a bocca aperta per i risultati che ha dato. Mi sembra fosse del 12 febbraio 2015, occasione in cui i tifosi del Feyenoord hanno devastato piazza di Spagna e hanno fatto danni alla Barcaccia, lasciando centinaia di bottiglie di birra galleggianti. Noi, il giorno dopo, uscimmo con quella foto, e un titolo che diceva: “Se non sapete bere statevene a casa”, il che per chi vende birra non è proprio così scontato. In quel caso ci stupimmo anche noi, perché il counter dei like cominciò veramente a impazzire, e quel post a tutt’oggi è uno di quelli che ricordiamo con più divertimento. Poi il Festival di Sanremo, è stato un evento che ci ha davvero regalato moltissime soddisfazioni quest’anno, perché è stato il primo vero evento che noi abbiamo fatto su Twitter, canale che avevamo aperto da pochi mesi. E #SanremoCeres” è stato il quinto hashtag più utilizzato delle serate di Sanremo. E’ stata anche una grandissima fatica, perché in quei giorni siamo stati attaccati ai computer a Sanremo veramente dalla mattina presto fino alle tre di notte, senza sosta, facendosi venire in mente storie, battute… però è stata un’esperienza davvero fantastica: un balcone accanto all’Ariston sulla cui ringhiera – diventata la nostra bacheca social! – appendevamo i tweet più intriganti che circolavano in quel momento in rete, con il risultato di un cortocircuito on-line/off-line, perché poi le persone da sotto fotografavano e rimettevano in rete… Infine, la terza cosa a cui siamo molto legati, è quella per il Gay Pride dell’anno scorso, dove Ceres ha accettato di distribuire alla parata del Pride romano una bottiglia completamente senza brand, unbranded, soltanto con un collarino che diceva: “No alle etichette”. È stato un messaggio forte, che ci è piaciuto dare, ed è stata di nuovo un’operazione che ci ha regalato delle grandi soddisfazioni, perché abbiamo visto un nostro gesto ripreso, fotografato e rilanciato sui social. Noi poi crediamo molto che a un certo punto che tutto quello che fai sul digital debba avere degli appuntamenti diciamo “off-line”, calati nella vita delle persone, sulla strada, sul territorio, dove le cose succedono realmente. Perché quando i pixel si trasformano in qualcosa di più concreto, dai testimonianza di quello che stai facendo sulla rete. E mantenere il contatto con la realtà è veramente fondamentale per chi fa il nostro lavoro.