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Ecopsicologia: connettersi con l’ambiente per ritrovare se stessi

Quello che facciamo al mondo fuori è collegato anche al benessere del nostro mondo interno, e l’ambiente in cui viviamo è un fattore determinante per come ci sentiamo a livello psicologico. Pensiamoci un attimo: sentire un senso di oppressione interiore è abbastanza comune quando ci si trova in città, imbottigliati nel traffico, mentre fare una passeggiata in mezzo al verde spesso porta serenità e armonia. Se questo è solo uno un piccolo esempio, c’è tutta una branca della psicologia applicata che valorizza i legami tra ambiente esteriore e ambiente interiore, tra la connessione che abbiamo con la natura e quella che sentiamo con il nostro io.
L’ecopsicologia è nata in California negli anni ’90, ed è poi stata portata in Italia da Marcella Danon, psicologa e fondatrice di Ecopsiché, una vera e propria scuola per studiare questi temi e apprendere pratiche di “sintonizzazione ecologica”. Da lì sono nati percorsi di formazione, progetti in collaborazione con parchi naturali e istituzioni e anche una nuova professione, quella dell’ecotuner.
“Il termine ecopsicologia nasce nei primi anni ’90 all’università di Berkeley, dove, sulla spinta di  Robert Greenway si incontrano un gruppo di professionisti nel campo della psicologia e dell’ecologia per trovare un denominatore comune tra tante correnti di pensiero simili che stavano nascendo, come l’ecologia transpersonale e la psicologia verde. Fa parte del gruppo anche lo storico della cultura Theodore Roszak, che nel 1992 con il libro The voice of the Earth lancia l’ecopsicologia a livello mondiale”, racconta Danon, che viene a conoscenza della disciplina da un libro di Fritjof Capra pochi anni dopo. “Da lì, avvantaggiata anche dal fatto che io stessa avevo vissuto per un periodo a Berkeley, ho iniziato a prendere contatti a livello internazionale”. Nel 1999 il primo convegno in Italia sul tema, nel 2004 nasce la scuola Ecopsichè, nel 2006, in collaborazione con altri studiosi e psicologi, Danon fonda anche la Società Europea di Ecopsicologia (EES).
Da lì, “sono nati percorsi che, portando le persone in natura, si propongono di facilitare loro la connessione con il proprio mondo interiore e, viceversa, da un processo di maggior introspezione accompagnano a ritrovare un rapporto più profondo con la natura. I campi di azione sono diversi: si va dal lavoro su di sé alla crescita relazionale, dalla pet therapy a un’educazione ambientale di natura esperienziale, da percorsi di progettazione partecipata a nuove forme di organizzazione del lavoro e della vita, in azienda così come negli ecovillaggi, fino alla green mindfulness, in cui la natura diventa facilitatrice di un percorso di ricerca spirituale”.
Il forte impatto della natura sulla psiche è già riconosciuto dalla psicologia ambientale: “Per esempio ci sono studi che hanno dimostrato che i pazienti che dalla finestra dell’ospedale vedono il paesaggio guariscono prima degli altri, o che i bambini che a scuola, negli intervalli, possono giocare in natura sono meno soggetti a problemi di depressione, sindrome da deficit di attenzione, problematiche relazionali e obesità”. L’ecopsicologia ha ampliato questo approccio sia sul versante filosofico che su quello pratico: “Da una parte ha trasformato questi presupposti in un modo di vedere il mondo che abbandona l’antropocentrismo in favore dell’ecocentrismo, e dall’altra si è focalizzata anche su modi concreti di riconnettersi con la natura”.
Nello specifico, per esempio, le pratiche di ecocounseling propongono la natura – un parco, un prato, un bosco – come luogo di incontro per colloqui tra counselor e cliente, tra psicologo e paziente,  in cui c’è un’interazione diretta con l’ambiente: “La natura non fa solo da sfondo, ma offre spunti concreti per la relazione d’aiuto”. Per i gruppi, l’ecopsicologia “crea un’occasione per entrare in natura con una propensione che rende più sensibili e attenti, e allo stesso tempo più rispettosi anche verso gli altri. Anche nelle aziende porto queste pratiche, in percorsi di team building”. Un percorso formativo specifico è dedicato all’ecotuning, ossia la risintonizzazione con l’ambiente naturale, e dunque anche con la nostra parte più istintiva, creativa e spontanea: “E’ come se ognuno di noi fosse un pianeta, di cui frequenta però solo certe zone e strade. L’ecotuning serve a farci capire come possiamo ampliare la conoscenza di noi stessi, facendoci scoprire aspetti spesso trascurati”.
Chi aveva già una preparazione psicologica o un interesse forte per questi temi ha potuto ricavarne una vera e propria professione, per molti è stata l’occasione per unire passioni e interessi diversi: “Una docente dell’università spagnola di Burgos, grazie al nostro corso di formazione professionale, ha creato un percorso di ecoleadership. Una donna ingegnere ambientale ha iniziato a dedicarsi anche all’educazione ambientale dei bambini, una musicoterapeuta ha tratto dall’ecotuning spunti interessanti per il suo lavoro, che ha trovato espressione anche in natura”.
Ma oltre alla formazione, Ecopsiché è attiva anche in progetti istituzionali per lo sviluppo della green economy e la valorizzazione dei territori: “Stiamo lavorando in Sardegna a un progetto finanziato con fondi POR per la formazione ecologica di 15 giovani, che hanno imparato a progettare giardini terapeutici, i cosiddetti healing garden. In Abruzzo con la Comunità Montana e il Centro Servizi volontariato siamo impegnati in un progetto nell’area del sisma che punta a favorire la nascita di start up capaci di valorizzare le risorse naturali, culturali e paesaggistiche del territorio”.




Luci e ombre del Kamut, il grano col marchio registrato

Il frumento orientale o grano grosso o Khorasan, meglio conosciuto come Kamut, è una specie (Triticum Turanicum) appartenente allo stesso gruppo genetico del frumento duro: presenta un culmo (fusto) alto anche 180 cm; ha la cariosside (chicco) nuda e molto lunga, più di quella di qualunque altro frumento.
Il Khorasan è originario della fascia compresa tra l’Anatolia e l’Altopiano iranico (Khorasan è infatti il nome di una regione dell’Iran). Nel corso dei secoli si è diffuso sulle sponde del Mediterraneo orientale, dove in aziende di piccola scala è sopravissuto all’espansione del frumento duro e tenero. Dopo che esperimenti di agricoltura intensiva effettuati in Egitto e Iran hanno dato rese troppo basse, che non ripagano le spese di irrigazione e le assidue cure richieste, dai primi anni Ottanta ha trovato terreno, clima e produttività ottimali solo in Canada (Alberta e Saskatchewan) e Stati Uniti (Montana), dove viene coltivato con agricoltura industriale e metodo biologico.
Non molti sanno però che Kamut non è il nome di un grano, ma il marchio commerciale (come “Mulino Bianco” o “McDonald’s”) che la società Kamut International Ltd ha posto su una varietà di frumento registrata negli Stati Uniti con la sigla QK-77, coltivata e venduta in regime di monopolio. Il frumento prodotto e venduto con il marchio Kamut è coltivato sotto lo stretto controllo della famiglia Quinn, proprietaria della società K.Int. In Italia è importato solo da aziende autorizzate e può essere macinato solo da mulini autorizzati. Tutti i prodotti che portano il marchio sono preparati e venduti sotto licenza della Kamut International e sotto il controllo della Kamut Enterprises of Europe.
Il marketing decisamente efficace che è alla base del successo del Kamut ha fatto leva su tre aspetti: la suggestiva leggenda del suo ritrovamento, l’attribuzione di eccezionali qualità nutrizionali ed una presunta compatibilità per gli intolleranti al glutine. Restano, di contro, tre aspetti che gettano un’ombra sul prodotto a marchio Kamut (non sul Khorasan): il monopolio commerciale imposto dalla K.Int. su un frumento tradizionale che, come tale, dovrebbe invece essere patrimonio di tutti, e più di chiunque altro delle comunità che nel tempo lo hanno conservato e tramandato; il costo eccessivo del prodotto finito (dall’80 al 200% in più di una pasta di comune grano duro biologico), poco giustificabile a sostanziale parità di valori qualitativi e nutrizionali; la pesante impronta ecologica legata allo spostamento di un prodotto perlopiù coltivato dall’altra parte del Mondo che arriva sulle nostre tavole attraverso una filiera molto lunga (migliaia di chilometri), e che non è compatibile con l’attenzione al consumo locale, fatto se possibile a “chilometro zero”.
La presenza della “novità” rappresentata dai prodotti a base di Kamut® sugli scaffali del supermercato potrebbe aver indotto i consumatori a credere di trovarsi in presenza di un cereale antico,oltre che più salutare rispetto ad altri, e a ricercare prodotti di Kamut® piuttosto che prodotti di grano Khorasan o grano orientale. In pratica, oggi in Italia qualsiasi agricoltore può coltivare grano orientale, ma non può chiamarlo Kamut®, accade così che il consumatore accorto acquisti al supermercato confezioni di farina di grano orientale prodotta a due passi da casa, mentre chi è ignaro di questi argomenti compri la stessa farina, ma “firmata” Kamut®, a un prezzo decisamente più alto.
Sarebbe opportuno, come alcuni Gruppi d’Acquisto hanno già cominciato a fare, cercare di valorizzare la produzione di cereali antichi sul territorio italiano, dove vengono coltivate tipologie di grano piuttosto rare. Alcune varietà di cui disponiamo ma che restano ancora poco conosciute sono: la Saragolla, un tipo di grano Khorasan Triticum Polonicum coltivato tra Lucania, Sannio e Abruzzo, il grano duro Senatore Cappelli, ritenuto simile al Khorasan e coltivato nell’entroterra di Puglia e Basilicata, il grano Verna, una varietà di grano adatta ad essere coltivata ad altitudini superiori alla norma, tipica del casentino. Ne esistono poi molti altri a seconda della regione di produzione, ad esempio la Tumminia, il Grano Monococco, il Gentil Rosso, il Rieti, ecc.
I grani antichi altro non sono che varietà del passato rimaste autentiche e originali, ovvero che non hanno subìto alcuna modificazione da parte dell’uomo per aumentarne la resa. Tanti i motivi per cui bisognerebbe consumarli più spesso: non hanno subito alterazioni, ovvero non sono stati rimaneggiati geneticamente dall’uomo; sono meno raffinati, vengono generalmente lavorati con la macinazione a pietra, quindi mantengono molto di più le proprietà nutrizionali presenti nel chicco; hanno meno glutine, mentre la modificazione del grano moderno ha fatto sì che esso diventasse molto più ricco di glutine, con tutti gli svantaggi che ciò comporta per il nostro organismo; sono più leggeri e digeribili, proprio per la minore presenza di glutine che rende la farina da loro prodotta e di conseguenza tutti i prodotti che vi si possono ricavare, molto più leggeri, digeribili e assimilabili di quelli realizzati con il grano moderno; sono adatti a tutti i tipi di preparazione e sono ottimi anche da integrare nell’alimentazione dei bambini.
I dati epidemiologici hanno dimostrato che le qualità protettive e antiossidanti valgono per tutti i cereali integrali, più economici e diffusi del Kamut, come grano duro, grano tenero, farro, farricello, spelta, avena, orzo, segale, riso, ecc. di cui disponiamo sul nostro ricco territorio. Antichi o moderni che siano, è bene ribadire che l’attività biologica, protettiva, farmacologica, dei cereali non dipende dalla loro antichità o purezza genetica, ma dal fatto che sono integrali, cioè dotati di tutte le loro parti e di tutti i loro composti, nutrienti e non nutrienti, come germe, vitamine, sali minerali, fibre, polifenoli ecc.
La biodiversità e la libertà di scelta sono sempre vantaggi, mai svantaggi: grazie a una corretta informazione e un rapporto diretto tra consumatore e produttore, diventa possibile orientare gli acquisti e non lasciare che sia il mercato (del profitto) a decidere quale grano portare in tavola.




Digital Health. Engagement, linea comune per pazienti e medici

Digital Health. Engagement, linea comune per pazienti e medici

Il web come fonte per rispondere ai bisogni di salute? Sì, ma con moderazione. Secondo gli ultimi dati GfK discussi nei giorni scorsi  a Milano –  in occasione della seconda edizione del convegno Digital Health organizzato da GfK e intitolato L’efficacia delle strategie Multichannel e la Patient Centricity –  sono 15 milioni gli italiani che cercano informazioni sulla salute sul web. Di questi, poi, due su tre si rivolgono poi al proprio medico per approfondire o confermare le informazioni raccolte e uno su tre si è reca dal proprio farmacista, a riprova dell’importanza che ancora riveste un interlocutore esperto, al di là della Rete.

Contenuti di qualità e contatto professionale. Le esigenze di pazienti e medici

Durante il meeting milanese si è discusso anche di come produrre contenuti di qualità, affinché il paziente che cerca informazioni online trovi notizie che lo aiutino a gestire al meglio la propria patologia, favorendo l’aderenza alle terapie e  che gli consentano di assumere un ruolo più attivo durante tutto il percorso di cura. Cresce, nel settore salute, la centralità dell’individuo, l’engagement e l’empowerment, ovvero la consapevolezza e il bisogno. I pazienti, però, non sono gli unici a frequentare Internet alla ricerca di informazioni sulla salute. Secondo i dati Gfk, infatti, i medici dedicano in media l’equivalente di una giornata lavorativa ogni settimana per navigare in Rete a scopo professionale. Il 93% dei camici bianchi trascorre sul web una media di 8 ore la settimana, accedendo alla Rete tutti i giorni. Le principali informazioni cercate riguardano farmaci e studi clinici, oppure approfondimenti sulle patologie, linee guida per la diagnosi e i trattamenti. Il medico di famiglia è interessato ai Centri di riferimento o di eccellenza a cui inviare i propri pazienti per un consulto, lo specialista ai trial in corso sui farmaci più innovativi. A questo uso standard si affianca un altro più social: oltre il 50% dei medici di Medicina Generale (e il 61% degli specialisti) utilizza almeno un social network per ragioni legate all’attività professionale. Rimanere in contatto con colleghi ed esperti, con le associazioni o le società scientifiche, con la stampa di settore e con i pazienti , sono gli obiettivi fondamentali della presenza online del medico.

Comunicazione medico-paziente sempre più multichannel

Rispetto alla comunicazione medico-paziente, se il telefono rimane il primo strumento di comunicazione, quasi la metà dei medici di medicina generale dichiara di comunicare abitualmente con i pazienti via email (46%), via WhatsApp (44%) e via Sms (40%). In forte crescita anche il ruolo delle App, che vengono utilizzate oggi da circa il 73% dei medici di medicina generale e dell’81% degli specialisti.

“Il digital oggi è presente in maniera pervasiva nel mondo della salute – ha evidenziato Isabella Cecchini, direttrice del Dipartimento di Ricerche sulla Salute GfK e curatrice dello studio – Sia per quanto riguarda il rapporto medico-paziente sia per quanto riguarda il rapporto tra medici e aziende farmaceutiche. Di questo sono consapevoli le aziende, che hanno un ruolo fondamentale nella comunicazione scientifica e stanno sviluppando strategie sempre più multicanale, ove al tradizionale informatore scientifico si affiancano nuovi canali digitali: portali di informazione, newsletter, comunicazione via social media. In questa prospettiva è importante segnalare come i canali di comunicazione digitali stanno modificando l’approccio all’informazione sia da parte del medico, meno passivo e sempre più consapevole, proattivo ed engaged  nell’approccio all’aggiornamento”. Numerosi esperti del settore Health e responsabili dello sviluppo delle strategie di comunicazione Digital e Multichannel delle principali aziende farmaceutiche si sono poi confrontati in una tavola rotonda in cui hanno discusso delle principali sfide che il digital e la disintermediazione pone.

Ecco i video degli interventi

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A 16 anni fa il tweet più condiviso di sempre (e mangerà pollo gratis per un anno)

Il cinguettio di Carter Wilkerson ha raccolto oltre 3,5 milioni di rilanci sulla piattaforma. Era la risposta a una sfida ironica della catena di ristoranti Wendy’s. Ma ha superato perfino le superstar di Ellen DeGeneres

HA SUPERATO perfino il selfie da record degli Oscar 2014, quello scattato da Ellen DeGeneres con mezza Hollywood dentro, daBradley Cooper a Brad Pitt, che ha fatto parlare per mesi. E no, non è uno scatto altrettanto brillante ma un tweet banale, essenziale, perfino ridicolo e del tutto ironico con cui uno studente statunitense di 16 anni ha colto l’impossibile sfida propostagli dalla catena di pollo fritto Wendy’s su Twitter.
La vicenda è curiosa ma divertente. All’inizio di aprile Carter Wilkerson, questo il nome del protagonista che abita a Reno, in Nevada, ha inviato un cinguettio giocoso all’account Twitter dei ristoranti chiedendo quanti tweet fossero necessari per assicurarsi un anno di chicken nugget gratuite nei loro negozi. Una boutade che non credeva avrebbe mai ricevuto risposta.
Dal colosso hanno invece replicato ma con una cifra astronomica: 18 milioni di retweet. Il ragazzo non ha però perso le speranze e poco dopo ha lanciato una sarcastica richiesta d’aiuto che non lo ha portato alla soglia richiesta ma comunque a battere ogni record sulla piattaforma. E ad assicurarsi in ogni caso, visto il clamore suscitato dalla vicenda sui media, una gift card che gli dà diritto a un anno di bocconcini gratis.

Il suo post del 6 aprile (“Help me please, a man needs his nuggs“, tutto in maiuscolo) con allegata la foto dello scambio con Wendy’s in cui la singolar tenzone digitale veniva lanciata ha raccolto infatti ben 3,5 milioni di retweet. A quanto pare più dello scatto della DeGeneres, fermo a 3,4 milioni. E dando perfino vita a una campagna sulla piattaforma – sostenuta non senza interesse dal Ceo Jack Dorsey – sotto l’hashtag #nuggsforcarter.

Visto il successo e le chiacchiere suscitate da questa inconsapevole e gigantesca operazione di marketing Wendy’s alla fine ha deciso di premiare l’intraprendente utente e anche di donare 100mila dollari a una fondazione benefica che si occupa di adozioni. Per la cronaca, il terzo tweet più rilanciato di sempre sul social netework è quello di Louis Tomlinson degli One Direction dedicato al suo compagno di band Harry Styles.

Oscar 2014, il selfie record delle star




Per una gestione costruttiva dei conflitti. Intervista a Marianella Sclavi

E’ stato da poco ristampato da IPOC il saggio Confronto creativo di Marianella Sclavi e Lawrence Susskind. Marianella Sclavi ha insegnato etnografia urbana al Politecnico di Milano ed è un’esperta di “ascolto attivo” e “gestione creativa dei conflitti”. Si è interessata sia di buona comunicazione interculturale che degli ingredienti delle ‘scuole felici’, mostrando come l’ascolto attivo sia un elemento virtuoso fondamentale in entrambi i campi.
L’abbiamo intervistata perché con “Confronto creativo” esplora le dinamiche della vita pubblica e riesce a descrivere in modo originale ed efficace non solo gli aspetti negativi, ma, cosa rara, anche e soprattutto quelli positivi del confronto. E, in un’epoca in cui sembra che la conflittualità sia il registro dominante di tanti rapporti, può esser una strategia a cui fare riferimento.
 
Lei ha viaggiato molto, e ha esplorato diverse aree culturali in America, Europa, ecc. Ha appreso molto ed è diventata maieuta di molte esperte ed esperti di processi partecipativi. Chi è dunque Marianella Sclavi? Quali sono stati i suoi “incontri” decisivi per mettere a punto e offrire all’attenzione del pubblico il metodo del “confronto creativo”?
Incomincio dalla parte finale della domanda. Un incontro decisivo, anche se preceduto da parecchi altri, è stato quello con Lawrence Susskind del MIT. Susskind è stato fra i fondatori nella prima metà degli anni ’80 delProgram on Negotiation (Pon) della Harvard Law School, che è un prestigioso e attivissimo laboratorio internazionale di Alternative Dispute Resolution (ADR). La mia impressione, frequentandolo, è che tutti gli attivisti e innovatori più interessanti del mondo, prima o poi passano di lì. Nel 1987 Susskind ha pubblicato un libro intitolato Breaking the Impasse. Consensual approaches to resolving Public Disputes (scritto con Jeffrey Cruikshank) che sostanzialmente applica la ADR alle Dispute Pubbliche e sostiene che la crisi delle decisioni pubbliche e della governance dopo gli anni ‘70 è legata, da un lato, alla necessità di ampliare l’arco dei soggetti che vi partecipano e, dall’altro, al non saper valorizzare i conflitti di cui i diversi soggetti sono portatori, al fine di praticare  progettualità creative, trasparenti, e muovere verso soluzioni di mutuo gradimento. In altre parole: non è sufficiente ampliare gli attori coinvolti nelle decisioni e le informazioni di cui ognuno dispone in partenza; sono assolutamente necessarie le dinamiche inter-individuali e di gruppo dell’ADR. E’ una tesi molto radicale che io condivido ed è quella che ci ha fatto incontrare e collaborare.
Come ha scoperto la ADR e in che cosa consiste?
Ho scoperto l’esistenza dell’ADR grazie ai pionieri urbani che avevano risanato un quartiere del Sud Bronx. All’inizio degli anni ’90 stavo svolgendo una ricerca sul campo per carpire i segreti di questo successo quasi incredibile. Uno dei segreti riguardava il trattare le situazioni di conflitto con metodi innovativi, come l’ADR. L’ADR nasce da una serie di studi sulle differenze fra le dinamiche messe in atto nei conflitti che hanno avuto un esito positivo, di mutuo gradimento, e gli altri dove il conflitto si perpetua o va in escalation. Nei casi positivi, le parti in gioco adottano reciprocamente un atteggiamento esplorativo senza fretta di giudicare e di arrivare a delle conclusioni. E’ un percorso con passaggi precisi: prima si cerca di capire quali sono gli interessi e le preoccupazioni al di là delle posizioni e rivendicazioni reciproche, poi ci si dedica assieme alla moltiplicazione delle opzioni (buone pratiche, combinazioni precedentemente escluse, ecc) e solo alla fine ci si impegna a inventare soluzioni di mutuo gradimento. Si tratta di uscire dalla logica “io vinco tu perdi” e viceversa e da un atteggiamento giudicante, di urgenza classificatoria. Si tratta di diventare “esploratori di mondi possibili”. Poi questa ricerca è stata pubblicata col titolo “La Signora va nel Bronx”.
Il contatto con Susskind, concretamente, da cosa nasce?
Nel 2005 Susskind, che insegna al MIT, ha organizzato un convegno di tre giorni per far incontrare due circuiti che operavano (e ancor oggi non di rado operano) per compartimenti stagni: i principali teorici della Democrazia Deliberativa (DD) e i “practitioners” della Alternative Dispute Resolution (ADR), la trasformazione creativa dei conflitti. Erano presenti fra gli altri Jane Mansbridge, James Fishkin, Susan Potziba, Carolyn Lukensmeyer e molti altri, e solo due europei, un giovane olandese e io. Io c’ero arrivata con la presentazione di John Forester della Cornell University che conosceva i lavori che avevo fatto a Torino con Avventura Urbana negli anni ’90, in cui avevo operato come esperta di arte di ascoltare e di gestione creativa dei conflitti nei processi partecipativi. Da lì ho ottenuto un invito come visiting scholar al MIT e al Program on Negotiation della Harvard Law School,  nel 2006. Poi con Susskind abbiamo scritto il libro “Confronto Creativo “ che presenta quest’approccio e queste problematiche in Italia.
In Confronto creativo, parla di una cittadina fittizia ma in cui tutti noi vorremmo vivere: Dolceriviera. Lei parla di come in questo paese alcuni cittadini abbiamo realizzato il metodo del confronto creativo per raggiungere lobiettivo di presentare il 150° dellUnità dItalia ai più giovani. Quali sono le Dolceriviera reali che ha trovato nel suo cammino, magari anche solo parzialemente?
Nel libro sono raccontate una serie di esperienze fondative, negli Usa, in Sud Africa e anche in Italia nelle quali questo approccio ha preso corpo. Aver conosciuto personalmente alcune persone, come Carolyn Lukensmeyer e Susan Potziba che hanno diretto e gestito processi partecipativi estremamente complessi con esiti molto positivi, per me è stato fondamentale perché mi ha dato il coraggio di provarci anche io. Fra le esperienze italiane che ho diretto e facilitato quella più affine a Dolceriviera è il processo partecipativo del 2007 a Livorno, dove su incarico del sindaco sono state coinvolte parecchie decine di giovani nella stesura delle linee guida per il riuso di un edificio di 750mq nel cuore della città, il “Cisternino”, ex Casa della Cultura, da destinare a spazio ideativo e culturale per i giovani. Però la simulazione di Dolceriviera, alla quale è dedicata tutta la parte centrale del libro, serve fondamentalmente a mostrare i vari trucchi, ingredienti, passaggi di un processo deliberativo che poggia sull’ascolto attivo e la gestione creativa dei conflitti (che sono le mie declinazioni della ADR). In particolare questo è un caso che parte dal coinvolgimento di varie categorie di giovani per progettare le iniziative dei 150 anni di Unità d’Italia, e diventa un programma di risanamento economico/culturale della intera città. Ascoltando i singoli partecipanti e aiutandoli ad ascoltarsi fra loro, viene fuori, infatti, che “qui c’è poco da festeggiare”, non solo i giovani non trovano lavoro, ma gli albergatori e i commercianti sono preoccupati, le scuole fanno fatica a mettersi in sintonia con le nuove generazioni, e così via. E quindi man mano che la “cabina di regia” allarga i contatti, le idee che nascono non riguardano solo i festeggiamenti, ma iniziative che potrebbero creare posti di lavoro in un ripensamento generale del modo con il quale la città si vede e si presenta. Questo non è ottenibile con un approccio “alla Habermas” o di semplice “dibattito allargato” come è – per esempio – il Dibattito Pubblico francese, che stiamo importando in Italia. Confronto Creativo implica il passaggio del contesto di incontro dal “dibattito e argomentazione” al “dialogo e ADR”.
Quindi lei ritiene che il Dibattito Pubblico e comunque l’ampliamento di spazi di confronto che nel libro lei e Susskind chiamate “parlamentari”, basati sulla argomentazione aperta e trasparente, siano manipolatori o comunque insufficienti?
Non necessariamente manipolatori (anche se i politici di solito li vedono come funzionali al consenso e non alla elaborazione di diagnosi diverse dalle loro), ma quasi sempre insufficienti. Il Debat Public come procedura obbligatoria di coinvolgimento dei territori interessati alle decisioni è un aggiustamento, un voler supportare la democrazia rappresentativa con un supplemento di informazioni, di punti di vista. Richiede che vengano sviluppati scenari alternativi, e questo è positivo, e anche che il progetto iniziale possa essere cassato del tutto, come in effetti è successo in Francia più di una volta, e anche questo è positivo. Ma tutto ciò non tiene conto che la crisi della comunicazione ormai è tale da richiedere, anche solo per ottenere per davvero questi esiti, una rottura epistemologica molto più chiara e radicale. Non credo si possano fare dei veri passi in avanti rimanendo nella ambiguità. Un dialogo non è un dibattito cortese in cui gli interlocutori si fanno a vicenda presenti i pro e contro delle rispettive posizioni, come in un balletto. Degli spazi dialogici, come quelli richiesti da processi di democrazia, che funzionano per davvero sono rigorosamente basati su altre regole.
Il suo libro più famoso è Arte di ascoltare e mondi possibili. Da cosa nasce e come si collega a questo suo impegno nel campo della progettazione partecipata?
E’ un libro originariamente rivolto agli studenti di architettura e urbanistica del Politecnico di Milano dove insegnavo, ed è tutto incentrato sul concetto di “cornici”, di assunti impliciti che dobbiamo mettere in discussione per ampliare le opzioni al di là degli archi di possibilità dati per scontati nel mondo sociale di cui siamo parte. Sono lezioni che procedono a colpi di esercizi di fenomenologia sperimentale e di etnometodologia (i “patafisici delle scienze sociali”) per provocare esperienze di auto-riflessività. Quali sono le emozioni che accompagnano un’uscita dalle cornici date per scontate? Come possiamo interpretarle per favorire l’innovazione? Che rapporto c’è fra le dinamiche dell’umorismo, quelle della buona comunicazione interculturale e la progettazione creativa? E così via. Gli studenti di solito venivano a dirmi: “E’ stato molto utile con la mia ragazza”. Ed è un buon inizio. L’incontro fondamentale che sta alla base di tutto questo è con Gregory Bateson e la sua “Ecologia della mente”. Poi si sono aggiunti Michail Bachtin, Arthur Koestler, Wittgenstein e molti altri.
Che rapporto c’è fra umorismo e progettazione creativa?
Per tutti i miei autori prediletti, Bateson, Wittgenstein, Bachtin, Koestler, Von Foerster, De Bono, e i maestri del pensiero Zen, le dinamiche dell’umorismo e quelle della buona conoscenza praticamente coincidono. Per loro l’umorismo è una palestra nella quale ci si può allenare in modo non traumatico a uscire dai luoghi comuni del linguaggio e del pensiero che altrimenti ci tengono prigionieri e ottundono la nostra intelligenza. L’umorismo è un campo del sapere specializzato nelle tecniche e nei trucchi per produrre momenti di spiazzamento, defamiliarizzazione, spaesamento: tutti stati d’animo fondamentali per perserguire l’auto-riflessività, il distacco e il coinvolgimento necessari alla buona conoscenza e a un’ecologia della mente. Perché nel lavoro di gruppo la smentita non ci induca a irritarci e offenderci, ma a ridere di noi stessi, e perchè l’assurdità e il non senso non siano stupidi ma illuminanti, sono necessarie alcune condizioni di contesto, alcune “premesse implicite” che sono fondamentalmente le stesse (con poche varianti) di quelle operanti in una buona storiella umoristica, in un motto di spirito ben riuscito. In effetti se dovessi dire di cosa mi occupo, la risposta in cui più mi riconosco sarebbe: di “salto al di là dell’ovvio”, come facilitarlo, con quali stratagemmi.
Nel Suo libro Larte di ascoltare, ripropone un decalogo scritto da Alexander Langer (ne Il viaggiatore leggero, Sellerio 1996). Può dirci cosa ha significato per lei Langer?
Vi è tutta una serie di persone sagge che applicano questi principi perché a loro appaiono ovvi, puro buon senso. E in effetti è “buon senso” che però si conquista mettendo in discussione molte abitudini di pensiero che diamo per scontate. Richiede che si capiscano i limiti del senso comune. Alex Langer era un “natural” della uscita dalle cornici soporifere che ci soffocano. Come del resto lo è Papa Francesco o lo era il Cardinal Martini; in particolare gli incontri organizzati da Martini e pubblicati col titolo La Cattedra dei non credenti spesso mi hanno fatto venire in mente il pensiero e specialmente il modo di vivere di Alex Langer. Invece, tanto per concludere drammaticamente, il pensiero e la pratica della “lotta armata” (Brigate rosse e altri) era tutta interna alle cornici date per scontate ed è molto interessante su questo Il libro dell’incontro (Il Saggiatore 2015), recentemente uscito, che narra i dialoghi segreti avvenuti dal 2007 in poi fra vittime o parenti delle vittime e responsabili della lotta armata. Non a caso la cornice che ha reso possibili questi incontri è garantita da esperti di “giustizia riparativa”, una modalità di giustizia basata sull’arte di ascoltare e la gestione creativa dei conflitti. Senza questa cornice, questo livello di parola e di ascolto non sarebbe stato possibile.
Lei si è occupata anche del conflitto nella ex Jugoslavia e in Israele-Palestina
Riporto una testimonianza dal libro che ho appena citato: “Noi pensavamo che la violenza dello Stato e la violenza della rivoluzione fossero distinte. In realtà, se scegli il terreno della violenza, diventi simmetrico a chi ha il monopolio della violenza, nel caso specifico lo Stato. Non fai altro che riprodurre ciò che tu vorresti combattere. E’ un discorso di simmetria: pensi di essere il nemico di quell’altro, in realtà ne stai diventando il figlio” (p. 83). Occupandomi di conflitti insanabili (e di umorismo) mi è parso chiaro che l’epistemologia dominante è priva di difese e di cure nei riguardi della violenza. La nostra cultura dominante è al fondo violenza edulcorata. E’ dimostrabile che la gestione creativa dei conflitti è assente dal nostro repertorio di possibilità. Possiamo provare a mettere un freno alla violenza, ad argomentare in modo educato invece che a suon di insulti, ma ormai questo non è più sufficiente. Basta guardarsi attorno. La cosa più sensata è cambiare radicalmente epistemologia.
 
PS: trovate qui il saggio introduttivo di Marianella Sclavi a Confronto creativo: “I tre know-how della gestione costruttiva dei conflitti”.