1

Cristina Gabetti: “la migliore forma di educazione ambientale è l’esempio”

Cristina Gabetti fino a 40 anni è stata inviata alla redazione spettacolo delle news a Mediaset. Poi qualcosa è cambiato e ha scelto di concentrarsi sull’impatto ambientale dei nostri stili di vita. Sono nati così Tentativi di Eco Condotta (Rizzoli, 2008), che ha dato il via alla rubrica Occhio allo Spreco su Striscia la Notizia, poi il libro di approfondimenti Occhio allo Spreco: consumare meno e vivere meglio (Rizzoli, 2009, edizione economica BUR 2010) e, per bambini, Tondo Come il Mondo, edito nel 2010 da Giunti Progetti Educativi con Fondazione Ambienta.
Il suo ultimo lavoro è A Passo Leggero – piccoli esercizi di introspezione e circospezione, edito due mesi fa da Bompiani e nato sulla scia della rubrica omonima che Cristina ha tenuto sulle pagine estive del Corriere della Sera. Una collezione di esperienze intime che hanno un risvolto universale, arricchita dai disegni dell’artista Ramuntcho Matta, che invitano a guardare con curiosità al mondo che ci circonda.

D) Cristina, nel suo ultimo libro affronta il tema dell’empatia come punto di partenza per costruire una nuova società. Può spiegarci meglio il concetto?

R) L’empatia è la nostra naturale predisposizione a essere connessi con gli altri. È ciò che ci consente di sentire ciò che sente l’altro e mi pare un veicolo strategico per diffondere il piacere di essere parte integrante della vita. Sono anni che ricerco, sperimento e diffondo soluzioni per evolvere verso un futuro di prosperità per tutti, ma la qualità del fare emerge prima di tutto da un modo di essere. Nel mio nuovo libro coniugo esperienze vissute a più prospettive con la voce scientifica di Giacomo Rizzolatti, scopritore del neurone specchio o neurone dell’empatia, e i disegni dell’artista Ramuntcho Matta, con l’intento di stimolare ogni piano dell’essere, affinché chi legge possa riconoscersi e possa sentirsi invitato a entrare in sintonia con l’onda di rinnovamento che scuote il nostro pianeta. È molto facile perdere la bussola, sentirsi scoraggiati, disorientati, ma credo che con piccoli esercizi di introspezione e circospezione sia possibile scorgere spiragli di luce e illuminare nuovi percorsi possibili.
D) Come si è avvicinata all’ambiente?
R) Mi sono sentita chiamata, in quanto madre, ad alleggerire la mia impronta ecologica in modo da contribuire a colmare la voragine tra ciò che sappiamo e come ci comportiamo. Strada facendo, ho avuto prova del potere cumulativo dei nostri gesti e il potere che abbiamo, attraverso scelte che nascono dal cuore e dal desiderio di conoscere la lunga filiera di effetti che queste hanno sugli altri, di fare la differenza. La matrice del mio impegno è nel fare, cosciente del lusso che abbiamo di poter ancora scegliere e con il senso d’urgenza di fare il più possibile per scongiurare il peggio.
D) Quali sono i piccoli gesti quotidiani che compie per tenere una condotta ecosostenibile?
R) Ogni mia scelta è mediata dalla coscienza e dalla conoscenza. Faccio del mio meglio per sostenere filiere che rispettano la salute di chi lavora e dell’ambiente e, laddove sono costretta a compromessi, punto sulla qualità sacrificando la quantità. I miei libri, e la rubrica Occhio allo spreco, che ho scritto e condotto per 5 anni a Striscia la notizia, sono zeppi di azioni pratiche. Quando il desiderio di vivere a passo leggero si manifesta, le soluzioni si trovano. Bisogna essere aperti, curiosi e creativi. E quando le risorse singole non consentono di arrivare alle scelte desiderate, entra in gioco il sostegno della comunità.
D) Come trasmette ai suoi figli il valore del rispetto per l’ambiente? e loro come lo recepiscono?
R) Vivendo. La migliore forma di educazione è l’esempio…
D) Nel corso della sua vita ha avuto modo di vedere realtà diverse: New York, Connecticut, Torino, Milano, recentemente la California. Che tipo di sensibilità ha riscontrato e riscontra nei confronti dell’ambiente in tutte queste realtà?
R) La società americana è più veloce e di conseguenza le buone pratiche si diffondono rapidamente. Noi italiani viviamo in un paese naturalmente predisposto alla sostenibilità che non mettiamo a sistema. Anche se i comportamenti eco sensibili dovrebbero essere un punto di partenza e non una meta, le mode aiutano a promuovere il cambiamento e, in un mondo che sembra aver perso il giusto ordine di priorità, è utile usarle per velocizzare una transizione necessaria. Dunque, abbracciamo le soluzioni a noi più consone, valorizzando le opportunità che abbiamo a portata di mano.
D) Che tipo di cultura ambientale pensa ci sia al momento in Italia? quanto c’è ancora da fare?
R) La cultura ambientale deve uscire dalla nicchia, ma le rendite di posizione rallentano il processo. Guardo ai piccoli progressi con la speranza che si sommino fino a raggiungere un punto di svolta su larga scala. Più che mai la perseveranza di chi applica soluzioni a prova di futuro è necessaria per aprire gli occhi a chi non sa vedere i benefici a lungo termine.
D) Lei ha anche curato delle pubblicazioni per bambini: quanto le famiglie di oggi educano i loro figli al valore della sostenibilità?
R) Sono felice perché il mio libro Tondo come il Mondo viaggia da 4 anni nelle scuole italiane. Proprio ieri, insieme all’assessore all’educazione del comune di Milano Francesco Cappelli e Nino Tronchetti Provera di Ambienta, che ha dato vita al progetto e che lo sta facendo crescere, abbiamo consegnato il primo di 1500 kit destinati a tutte le classi di 3,4,5 elementare a Milano. Il libro, distribuito gratuitamente, sta raccogliendo una comunità sempre più grande  di giovani amici della Terra, bimbi che si appassionano e che sono fieri di diffondere le loro buone pratiche. Una grande soddisfazione  A volte, per i grandi, cambiare significa prima disfarsi di abitudini sbagliate, mentre per i bambini il percorso è più breve.
D) Cosa significa per lei decrescita felice?
R) Significa consumare meno e vivere meglio, come recita il sottotitolo del mio secondo libro Occhio allo Spreco. Indica un fenomeno che preme dal basso, un antidoto alla cultura dell’eccesso ma anche una naturale conseguenza della crisi economica. Credo però che per evolvere collettivamente dovremo cambiare il significato della parola crescita, passando da un indice quantitativo a uno qualitativo. Cioè, crescita evolutiva…e ovviamente sostenibile.
D) Qual è il sogno ambientale che vorrebbe realizzare?
R) Sogno una società rigenerante, rispettosa, prospera, capace di onorare i diritti fondamentali dell’uomo e della Terra, e accolgo ogni opportunità possibile per contribuire a renderla concreta. Vorrei aprire un dialogo per facilitare i percorsi ai cittadini motivati a diventare più responsabili. Ci sono troppi intoppi lungo il percorso e penso sia necessario unire le proposte ad analisi chiare sulle criticità.  Nella conversazione va inserito anche l’impatto che le tecnologie stanno avendo sulla qualità della nostra vita e delle relazioni, perché il cambiamento dirompente che è in atto va condiviso al fine di cogliere le opportunità per accelerare una svolta verso modelli di vita sostenibili. Se questa conversazione potrà trovare spazio in TV sarò felice, ma sto pensando anche alla radio, perché è uno strumento adatto per condividere esperienze e per elaborarle.




“Behind the Label”: il documentario che racconta i retroscena del cotone indiano

Un mondo sommerso. Behind the Label è il documentario realizzato da Cecilia Mastrantonio e Sebastiano Tecchio che racconta un lato sconosciuto dell’India, quello legato alla sua produzione di cotone. L’India è un paese in forte crescita economica, dove l’agricoltura resta la principale attività per il 70% della popolazione. Il secondo settore rilevante per l’occupazione nazionale è l’industria tessile.
Dal 2002 l’India ha sostituito il suo cotone nativo con piante geneticamente modificate e oggi cresce il 90% della sua produzione con semi nati in laboratorio. Produttore dei semi è la Monsanto, multinazionale nota per la sua politica commerciale aggressiva. Mastrantonio e Tecchio hanno dunque scelto di dare voce alle persone direttamente coinvolte per raccontare le conseguenze di un uso non etico del cotone OGM sull’ambiente, ma sopratutto sulla società indiana.
Nel giro di nove anni l’India ha visto affermare il monopolio dei semi Monsanto. L’ ex-direttore commerciale di Monsanto India – Tiruvadi Jagadisan – racconta come l’azienda, per entrare in questo mercato, abbia negli anni Novanta introdotto illegalmente semi con un gene in grado di rendere sterili le varietà locali e poi, dal 2002, ha acquistato passo dopo passo un monopolio di fatto quasi totale del mercato. Oggi i semi di cotone sono distribuiti a carissimo prezzo da aziende indiane, che versano le royalties alla Monsanto: ciò che all’inizio costava 9 rupie al chilo, oggi viene comprato a 4.000 rupie.
Le conseguenze documentate da Behind the Label non interessano solo l’ambiente. Se da un lato i territori risultano impoveriti, la coltivazione del cotone biologico si dimostra ancora più difficile, la presenza di nuovi parassiti si moltiplica, dall’altro gli agricoltori che hanno scelto di affidarsi ai semi Monsanto fanno sempre più fatica a mantenere i propri raccolti, entrando in un circolo vizioso di spese che li ha portati al collasso economico e, in molti casi, al suicidio. Sono 216.000 i contadini che in meno di un decennio si sono tolti la vita per la disperazione generata dai debiti contratti per mantenere le coltivazioni. Parallelamente, il documentario racconta la storia di coloro che hanno scommesso sull’alternativa della coltivazione biologica del cotone. Una strada che parte con il recupero dei semi tradizionali per conservare la biodiversità e assicurare un futuro diverso per i piccoli produttori di cotone nel rispetto dell’equilibrio sociale e ambientale.
Sebbene manchi un contraddittorio, Behind the Label ha il merito di portare l’attenzione sulla situazione indiana, ignorata e sconosciuta a molti, e sull’uso degli OGM, tema controverso su cui l’informazione è spesso confusa e imprecisa. Obiettivo del documentario è, in ultima analisi, quello di aiutare la coltivazione biologica del cotone indiano sensibilizzando anche noi occidentali a un acquisto più consapevole. Perché in un sistema basato sulle leggi di mercato sono le decisioni del consumatore a fare la differenza.




Cittadini pronti a boicottare le aziende che non investono in responsabilità sociale

E’ QUANTO EMERSO DURANTE IL CONVEGNO “CSR: DA IMPEGNO SOCIALE A VANTAGGIO COMPETITIVO”. L’80% DELLE SOCIETÀ QUOTATE HA UN CSR MANAGER. DIMEZZATO IL DATO SULLA TOTALITÀ DEGLI OPERATORI

S ull’importanza delle iniziative di corporate social responsability nei confronti dei soggetti e dei territori coinvolti non possono esservi dubbi. Ma le ricadute non sono scontate quando si passa a considerare il ritorno degli investimenti in csr. Una questione non di scarso rilievo se si considera la prudenza con la quale si muovono le imprese in questo periodo quando si tratta di allocare quote importanti di budget, soprattutto in relazione a segmenti che non riguardano direttamente il core business aziendale. Alcune ricerche pubblicate di recente fanno chiarezza in merito, offrendo risultati sostanzialmente positivi, che promettono di spingere altri operatori ad adottare il tema della responsabilità sociale non come semplice strumento di comunicazione, ma come strategia focale nel modo di fare impresa. Secondo quanto emerso nel corso del convegno “Csr: da impegno sociale a vantaggio competitivo”, organizzato da Manageritalia, Fondazione e Università Alma Mater, Università di Cadice, Osservatorio andaluso della Csr e Dirse, il dibattito sui temi della csr ha portato a una diffusa consapevolezza tra i cittadini in merito a questo tema, che solo qualche anno fa non interessava che piccole fette di popolazione. Ormai si è arrivati al punto che il focus non è tanto sulle aziende che adottano questo approccio, ma su quelle che non lo fanno, e per questo motivo vengono boicottate. L’appuntamento è servito anche per fare chiarezza sul concetto di csr, che funziona davvero solo se non si limita a un’azione di vertice, ma coinvolge tutti i collaboratori dell’impresa con azioni concrete anche nel contesto aziendale. Come a dire che l’esempio all’interno conta più dei principi propagandati. L’importanza della responsabilità sociale d’impresa è evidente anche nel ruolo, sempre più di primo piano, di una figura dedicata: oggi ormai l’80% delle società quotate ha un Csr manager, anche se il dato si dimezza considerando la totalità degli operatori economici. Un’altra ricerca, questa volta condotta da Csr Manager Network, Assonime, Nedcommunity e Altis (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), rivela il crescente coinvolgimento dei consigli d’amministrazione nelle politiche di sostenibilità. Un atto di indirizzo fondamentale per poi diffondere le azioni dentro il tessuto aziendale e nei rapporti con il mondo esterno. La csr risulta molto presente nella visione valoriale e strategica delle grandi aziende quotate a Piazza Affari. Il 90% delle realtà presenti nell’indice Ftse Mib ha integrato i temi socio-ambientali nel codice etico e il 51% dei cda esamina e approva politiche aziendali in materia. La nota stonata è costituita dallo scarso allineamento tra impegni assunti formalmente e reale inclusione di tematiche socio-ambientali nel piano industriale (42% delle aziende). Un settore sul quale occorre ancora intervenire.




RESILIENZA, CAPITALE SOCIALE E ISSUE MANAGEMENT PER UNA COMUNICAZIONE RESPONSABILE

Una riflessione sulla comunicazione di crisi nata dai due terremoti che hanno colpito L’Aquila e l’Emilia, con il contributo di numerosi soci Ferpi. La lettura di Toni Muzi Falconi alla luce dei temi di resilienza, capitale sociale e issue management.

Quale descrizione più convincente del diffuso paradigma per cui la comunicazione-con è (quasi) sempre più efficace dellacomunicazione-a… di leggibile nell’appena uscito “Disastri Naturali: una comunicazione responsabile?” (Bologna University Press, 2016), quando Massimo Alesii si sofferma sulla diversità dei modelli che hanno caratterizzato il governo della comunicazione nei due terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia?
Diffusa “resilienza comunitaria” in quest’ultimo e “centralismo comunicativo” nel primo.
Nonostante il recente deperimento degli indicatori relativi al capitale sociale del territorio emiliano, emerge ben chiaro dal racconto di Alesii il diverso spessore di resilienza (“legameria sociale”, la chiama argutamente nel libro un partecipante a un focus dell’Università di Modena e Reggio Emilia). Una resilienza alimentata da reti sociali orizzontali, peer-to-peer, ove è la comunicazione a orientare la qualità delle relazioni e non il contrario, come nel caso dell’Abruzzo dove la comunicazione fu esercizio di potere (politico) e di persuasione (mediatica).
Né conosco rendicontazione più aggiornata e vivace sulla utilità della “prevenzione di crisi” e poi -quando la crisi scoppia- sulle modalità della sua comunicazione, argomentata in questo lavoro da Luca Poma, con la insolita e benvenuta aggiunta di una intrigante suggestione del piano di crisi come “antifurto”, a tutela delle relazioni con gli stakeholder, quasi “copertina’ di Linus”.
In più, dando per scontato che mai una crisi si presenta proprio come era stata prevista, Poma aggiunge anche che l’esercitazione costante è sempre e comunque essenziale perché arricchisce il valore della prevenzione, focalizzando l’attenzione più sul “quando” e sul “come”, che non sul “se” operare.
Considero poi di inusitato livello la essenziale e asciutta lucidità del testo di Sergio Vazzoler quando descrive valori, dinamiche e importanza della comunicazione ambientale per il rafforzamento della partecipazione sociale ai processi decisionali pubblici (è di questi giorni finalmente il primo ingresso ufficiale della Commissione Europea nella elaborazione di una politica di “debat public”).
Basterebbero questi elementi a consigliare la lettura di questa opera – in larga parte dovuta alla passione e la competenza diBiagio Oppi e Stefano Martello – non solo agli studenti universitari, ma a tutti i professionisti, consulenti e dipendenti; giovani, maturi, nuovi vecchi e anziani (come è l’autore di questa nota) che per vivere si occupano di relazioni tramite strumenti e canali di comunicazione. E sono ormai quasi 150 mila nel nostro Paese.
Ma questa opera non finisce qui: le ricche, curiose e stimolanti testimonianze di Fabio Montella e Monica Argilli; insieme all’inedita metodologia di analisi e riflessione prodotta dagli studiosi dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ne fanno una lettura davvero originale nel panorama piuttosto banale e ripetitivo della nostra pubblicistica.
Per parte mia, provo ad aggiungere, se possibile, qualche ulteriore valore al lavoro dei miei colleghi, ripercorrendo quel particolare filone delle relazioni pubbliche noto come “issue management”.
Un filone che, soprattutto nella sua accezione “organizzativa”, appare particolarmente adatta a consolidare e rafforzare l’impianto narrativo di questo bel lavoro, nel tentativo di offrire spunti e indicazioni operative a chi dovrà occuparsi delle inevitabili crisi prossime venture.
Nel 1976 lo statunitense Howard Chase – professionista assai vicino al Presidente Eisenhower, e uno dei sei fondatori della Public Relations Society of America – pubblicò un lavoro indicando con il nome di “issue management” una interpretazione della comunicazione d’impresa come ‘colla’ che tiene insieme l’organizzazione composta da network di relazioni.
Si tratta, ancora oggi, del livello più avanzato e maturo di integrazione delle relazioni pubbliche come costitutive della funzione di direzione.
In breve: qualsiasi organizzazione identifica, monitora e orienta – in funzione dei propri obiettivi, caratteristici e unici – le diverse dinamiche delle ‘variabili’ sociali e culturali e dei ‘fattori’ economici e tecnologici che ne influenzano il raggiungimento.
Gli “early adopters”, anche a causa della crescente regolazione pubblica cui venivano sottoposte nella seconda metà degli anni settanta, furono le grandi imprese del tabacco e dell’alcool, delle armi e della tecnologia.
In assoluto all’avanguardia fin dal 1976, la IBM, specialmente in Europa dove le regolazioni dei singoli mercati erano le più diversificate.
Fu allora, nel 1980, che un gruppo di brillanti giovani ex IBMers britannici (Ian Dauman, John Stopford, Geoffrey Morris e Dick Van Den Bergh) fondarono una società di consulenza strategica (Matrix limited) i cui primi clienti furono la Philip Morris e la Shell (!!).
Lo schema organizzativo, parallelo e contemporaneo a quello tradizionalmente gerarchico e verticale, è a matrice: massimo dieci ‘issue’ selezionate incrociando la loro importanza e urgenza. Per ciascuna issue una squadra coordinata da un issue manager e composta da un analyst, un advocate e un account, con ruoli intercambiabili in funzione delle singole competenze e abilità.
L’account segue con attenzione le dinamiche interne dell’organizzazione e come queste impattano sulla specifica issue; l’advocate è l’esperto della rappresentazione presso i regolatori e gli influenti; l’analyst è invece l’esperto della materia specifica; mentre l’issue manager formula la definizione e l’aggiornamento continuo di una policy per ciascuna tematica, assicurando la funzionalità del lavoro collettivo.
La squadra “scorrazza” su e giù e attraverso l’organizzazione formale, con tutte gli immaginabili conflitti ma anche arricchimenti culturali interni stimolatori di straordinari risultati sul campo.
In Italia, nel 1981, nacque la Intermatrix Italia, un srl con azionisti, insieme alla Casa Madre inglese: la Scr Associati (leader nelle relazioni pubbliche); Methodos (leader nella formazione manageriale); il consulente di direzione Mario Unnia; l’economista Antonio Martelli; i sociologi Enrico Finzi e Renato Mannheimer; e il ricercatore Gadi Schonheit. Insomma una gran bella squadra.
Fra i primissimi clienti, la Xerox Italia che, complice il capo della comunicazione Paolo Pasini, commissionò alla neonata società la stesura di un “manuale di issue management” che negli anni successivi ebbe ampia distribuzione soprattutto in ambienti confindustriali andando ad arricchire soprattutto la cultura manageriale del movimento dei giovani imprenditori.
Rimango convinto che l’issue management, nella sua formulazione culturale e organizzativa, rappresenti oggi la metodologia di direzione che meglio integra le logiche fuzzy e relazionali indotte dalle tecnologie prodotte dalla globalizzazione, la società a rete e le rivoluzioni del sistema dei media e del discorso pubblico.
Concludendo, ogni riflessione operativa intorno alla resilienza di un territorio in preparazione (o in presenza) di turbamenti materiali, economici, sociali e culturali costituisce grazie all’esperienza dell’issue management un forte valore aggiunto al capitale sociale di un territorio.




ALGORITMI

Una traccia redatta a quattro mani da Michele Mezza e Toni Muzi Falconi per l’avvio di una possibile riflessione sul tema degli “algoritmi” in Italia e nel mondo. In vista di due incontri sul tema a Roma e Milano.


Mezzo secolo di sociologia dei consumi ci ha insegnato (almeno questo!) che il solo insorgere dei desideri e delle necessità segnala qualche subalternità verso chi li soddisfa.
Ecco allora alcune domande chiave le cui risposte consentono di acquisire un minimo di consapevolezza intorno alla dialettica sociale indotta dal digitale: possiamo ritenere ‘oggettiva’ la struttura semantica dei colossi digitali sapendo che linguaggi, modalità di accesso, selezioni dei contenuti, sistemi di catalogazione sono tutti  elementi ignoti e  privi di opzioni alternative?  Chi “negozia” l’algoritmo? Con chi? Con quali valori e interessi ?
E poi, quella delega generale affidata alla potenza computazione che standardizza i problemi e indicizza le soluzioni, non conduce ad una omologazione della conoscenza?
Qualche giorno fa il rappresentante legale di Facebook ha inviato una lettera al presidente della commissione commercio del senato degli USA John Trune spiegando che le accuse di manipolazione semantica e cognitiva ai sistemi automatici che smistano sul suo social le informazioni si devono solo a “possibili ma isolate azioni di qualche singolo tecnico  che collabora ai progetti di ricerca di Facebook per colmare il gap fra quello che un algoritmo può fare oggi e quello che ci auguriamo potrà fare in futuro”.
Questo gap è oggi forse al centro di una competizione globale di più vasta portata che ci coinvolge tutti. L’anedottica è pressante. L’automatizzazione delle attività discrezionali, quando si intreccia alla potenza di profilazione e personalizzazione delle offerte, altera le relazioni sociali e le forme linguistiche di intere comunità, come spiegava recentemente un approfondimento della Harvard Business Review.

La posta in gioco

Si gioca una partita che forse sovverte la gerarchia uscita dalla rivoluzione industriale.
La smaterializzazione dei valori e del consumo, insieme alla materializzazione  della conoscenza grazie alla comunicazione, trasforma il semplice utente in una figura potenzialmente forte, proprio per la sua inedita capacità di attribuire senso comune e credito sociale al senso del racconto, al servizio o al prodotto. Sicuramente affida ad una nuova funzione, quella del service provider, il ruolo di predisporre e incanalare le nostre richieste più personali.
Del resto, se da un lato l’utente chiede sempre maggiore personalizzazione, dall’altro il distributore di servizi e contenuti si sostituisce ai mediatori tradizionali con una offerta in larga parte gratuita, in cambio di una passiva omologazione a quei sistemi intelligenti  per cui, a fronte di una velocizzazione del servizio,  ogni sistema editoriale, ogni data base, ogni  dizionario impone un allineamento a logiche, linguaggi e discipline indotte da procedure algoritmiche ignote all’utente.

I nostri tesoretti

In una economia sempre più intrecciata alla rete sembrerebbe prodursi un riequilibrio nel rapporto fra produttore e consumatore a favore di quest’ultimo.
Per esempio: la web reputation – per cui il giudizio e le esperienze di persone che conosciamo diventano trasmissibili e consultabili riducendo così l’imprevisto di una nostra scelta grazie ai giudizi di chi quella scelta l’ha già fatta.
Per esempio: il data mining – quel processo che mediante software sofisticati ma facilmente accessibili, ci permette di raccogliere grandi quantità di dati inerenti le nostre scelte  di consumo e quindi di ricostruire profili altamente aderenti alla nostra persona, arrivando così a decifrare anche le condizioni e le premesse per decisioni future.

Eppure

Nella tradizionale relazione produzione/consumo si sono introdotti nuovi soggetti e le nostre attività quotidiane sono sempre più scandite e mediate da entità quali il software e il server. E questo rende asimmetriche le relazioni e i legami sociali.

E noi?

Queste dinamiche ci vedono socialmente esposti su vari fronti.
Uno è il settore Pubblico. Man mano che le Amministrazioni Pubbliche procedono nella digitalizzazione dei  servizi e delle identità di cittadinanza, cresce troppo lentamente una diversa cultura del controllo e del confronto sulle soluzioni adottate. Quali sono le piattaforme scelte? In base a quali modelli comportamentali funzionano? Che garanzie di autonomia e di sovranità assicurano alla comunità? Insomma, usando i nuovi dispositivi chi acquista poteri? Lo stato, Il cittadino o il gestore del sistema tecnologico?
Un altro è il settore Privato. Come si configurano le transazioni digitali? Chi controlla i dati che rilasciamo? Chi misura il modo in cui questi dati producono ricchezza ulteriore?
Pare maturo negoziare forme di discussione con i network  per arrivare ad una esplicitazione concordata dei diritti, dei doveri e dei poteri del cittadino/utente consumatore capace di ‘pungolare’ (nudge) gli imperi tecnologici verso rapporti trasparenti di reciprocità: per esempio, tu usi gratuitamente i miei dati se però io posso usare gratuitamente la tua potenza di calcolo.