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José Mujica: "Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una"

“Appartengo a una generazione che ha voluto cambiare il mondo, ma che ha commesso il terribile errore di non volere cambiare prima se stessa”.
José Mujica, l’80enne ex presidente dell’Uruguay che durante l’epoca della dittatura fu imprigionato per 15 anni in una cella di isolamento, ha una visione del mondo piuttosto chiara. Il lungo periodo in carcere gli ha permesso di pensare molto e, in occasione dell’inaugurazione del Congresso sulla Saggezza e sulla Conoscenza organizzato dalla stazione radio spagnola Cadena Ser a Cordova, ha illustrato alcuni cardini della propria concezione dell’esistenza.

In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ció che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere. Per questo, ciò che più mi offende oggi è la poca importanza che diamo al fatto di essere vivi.

Da quando, qualche mese fa, Mujica ha smesso di governare il proprio Paese, ha iniziato a viaggiare parecchio ed è diventato un punto di riferimento per diverse persone. Molti apprezzano le sue idee, il suo modo di essere semplice e il suo parlar chiaro.

Essere anziano è un vantaggio, perché da giovane uno può montarsi la testa con tutti questi elogi. Però non sono né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25 anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida telefonica a Seneca.

Il filosofo romano vissuto a Cordova è stato una costante nel discorso dell’80enne. “Seneca affermava che non è povero chi ha poco, ma chi desidera molto”. Mujica si è cosí concentrato sull’economia di mercato e su un sistema di crescita basato sul consumo.

Io lotto contro l’idea che la felicità stia nella capacità di comprare cose nuove. Non siamo venuti al mondo solo per lavorare e per comprare; siamo nati per vivere. La vita è un miracolo; la vita è un regalo. E ne abbiamo solo una.




Richard Dickson di Mattel: il potere di un giocattolo come Barbie

Il presidente di Mattel racconta al Wired Next Fest come Barbie sia riuscita a rimanere un’icona per 70 anni, ascoltando il suo pubblico


Come resti sulla cresta dell’onda con un giocattolo degli anni ’60? Ce lo ha spiegato al Wired Next Fest 2016 Richard Dickson, presidente e Coo di Mattel.
Certi oggetti raggiungono col tempo lo status di “icone senza tempo”, ma la verità è che il tempo è uno dei fattori più importanti non solo per l’uomo, ma anche per i marchi, soprattutto quando ti chiami Mattel, sei nel giro da 70 anni e devi affrontare un periodo molto particolare per il mondo dei giocattoli.
Il tempo passa, ma più o meno i bambini hanno la propria giornata scandita sempre dai soliti ritmi: dormono un certo numero di ore, devono andare a scuola, fare eventuali attività sociali e così via. Tuttavia quella piccola porzione di tempo che possono dedicare al gioco, quei momenti che valgono oro per qualunque azienda del settore, sono stati completamente stravolti. Senza contare i centinaia di migliaia di giocattoli disponibili abbiamo i videogiochi, i social, la televisione, YouTube, i tablet, stimoli su stimoli che si accumulano e si contendono l’attenzione dei bambini e che allo stesso tempo devono convincere i genitori, come si può spiccare in questa giungla selvaggia?
Per spiegare la ricetta del successo, Dickson ha utilizzato Barbie,forse il marchio più famoso e longevo di Mattel. Prima di diventare un’icona pop degna di finire in un museo, Barbie è stata un giocattolo innovativo, uno dei primi a venire pubblicizzato in quella strana bestia che era la televisione nel 1964. Da quell’anno “Barbie non è mai rimasta ferma, ha iniziato a far parte di molte vite, interpretando lo spirito del tempo attraverso lo stile e la cultura del momento”.
Anche se le più vendute rimangono quelle che indossavano abiti da fiabia, abbiamo avuto la Barbie vestita come Jackie Kennedynegli anni ’60, la Barbie Malibu negli anni ’70 e una Barbie molto più in carriera nei ’90. In ogni epoca la bambola ha rappresentato uno strumento per far vivere alle bambine il ruolo e il mondo che volevano.
Ma col tempo questo potere è andato impoverendosi, pensiamoci bene, quante volte abbiamo visto la Barbie associata al concetto diragazza stupida, vuota, una bambola appunto, se non addirittura un’idea femminile assurdo e irraggiungibile che forzava le nuove generazioni a standard esagerati.
A questo punto Mattel è dovuta correre ai ripari, cercando di mantenere il senso di aspettativa e meraviglia. Per farlo ha dovuto capire ancora meglio che se vuoi vendere un giocattolo devi parlare a due tipi di pubblico: i bambini, che lo desiderano, e igenitori, che lo approvano.
Un lavoro di raffinamento del messaggio nato da ricerche di mercato e dall’intuizione di capire che un brand non deve solo riflettere la cultura del suo tempo, ma ispirarla, andando, se necessario, contro i propri valori tradizionali.
Una Barbie che vuole essere al passo coi tempi dev’essere diversa,inclusiva, ma anche individuale. Deve saper riflettere l’esigenza dei bambini di sentirsi rappresentati, deve aiutarli a scoprire la propria identità, sviluppando un’immagine di se stessi sana, apprezzando le mille diversità del mondo.
Per questo Barbie ora è disponibile molte più forme del viso, colori dei capelli, corporature, tratti facciali e tonalità della pelle. Per questo i suoi piedi non sono più modellati in modo che possa indossare solo scarpe col tacco. Il giocattolo ha vissuto un profondo ripensamento che ha cambiato il suo ruolo, da modello da imitare a sostegno alla propria personalità.

Inoltre Mattel ha anche lanciato il programma Shero, ovvero omaggiando alcune donne particolarmente forti ed eroiche con una bambola a loro dedicata. Per questo l’azienda ha avviato un profondo dialogo con le mamme di tutto il mondo, ascoltandole e informandole su come la figura di Barbie stava cambiando. Il risultato di questo profondo ripensamento è uno spot che è stato uno dei più visti del 2015 e ha fatto incetta di premi in ogni festival dedicato all’advertising.
Dunque quale può essere la ricetta di lunga vita per un giocattolo? – ha concluso Dickson – Diventare strumento di miglioramento, trovare uno scopo, aspirare a cambiare il mondo e mettere tutto ciò anche di fronte alla tradizione, se necessario”.




Una nuova reputazione per banche e controllori bancari

Intervento di Luca Poma al seminario “Una nuova reputazione per banche e controllori bancari”. GRUPPO FEDERICO CAFFE’ & ASSOTAG – FONDAZIONE BASSO.

ROMA, 26/04/2016


Vorrei iniziare il mio intervento parlando di viaggi. Di mete turistiche. Siamo tutti un po’ stressati: a chi non piace evadere dalla routine? Se vi recaste subito dopo la fine di questo incontro in un agenzia viaggi, vi sentireste proporre destinazioni come Maldive, o Fiji, o capitali del nord Europa. Per i più “coraggiosi”, magari in Oman, che nonostante le tensioni con il mondo musulmano va molto di moda…
Sicuramente ci scommetto, nessuno vi proporrebbe Detroit, l’ex capitale USA dell’automotive, un po’ in disarmo. Una città in crisi. Eppure come suggerisce il filosofo svizzero Alain de Botton in un recente articolo sul Financial Times, una gita a Detroit farebbe bene a molti. Magari sul West Oakman Boulevard. De Botton fa questa osservazione provocatoria: “se vi dicessi che per qualche ragione tra 700 anni la Tate Gallery non esisterà più, interesserebbe a qualcuno?”.
Quando hanno costruito il Colosseo, non si sono posti il problema di quando sarebbe crollato: dopo millenni. Sono i normali tempi della storia. Ma sul West Oakman Boulevard di Detroit 8 anni fa c’era vita, nonostante i problemi che da decenni affliggevano la città: c’erano coppie che arredavano la cameretta dei bambini, ridipingevano casa e pensavano al futuro. Oggi, lì, si compra all’asta una villetta con poco più di mille dollari. Una gita a Detroit farebbe bene a tutti, per ricordarci “quanto le cose cambiano in fretta” nel mondo di oggi.
Le cose cambiano in fretta. Tra i pochi che paiono non averlo capito, ci sono i principali protagonisti delle istituzioni di controllo finanziario. Cito dichiarazioni, uscite in recenti articoli sulla dialettica Roma/Bruxelles: I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato, e ciò, in questa misura, è successo soltanto in Italia. La Banca d’Italia non ha presentato a Bruxelles alcuna stima del reale valore economico dei crediti in sofferenza e quindi i tecnici UE hanno applicato il loro metodo standard, che impone una svalutazione massiccia”. Non voglio entrare nel merito delle dinamiche Roma/Bruxelles e dei torti e delle ragioni, ma a leggere questo, pare che la reputazione sia l’ultimo dei problemi dei nostri organismi di controllo finanziario…
E richiamo nuovamente anche l’intervista del DG Bankitalia già citata da chi mi ha preceduto: “Si poteva fare meglio; il mondo è cambiato; la comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa; stiamo imparando”. Ricordiamo che le parole sono i vestiti dei nostri pensieri: cosa sta pensando quindi il Dott. Rossi?
“Stiamo imparando”: con calma, verrebbe da dire… Leggasi: c’è stato il terremoto, lo sapevamo, non ve l’abbiamo detto per “n” motivi, voi (voi!) avete perso tutto o parte del Vostro patrimonio. Ok, abbiate pazienza, la prossima volta forse – forse! – faremo meglio…
E per carità: che i mass-media non disturbino il manovratore…! Cito un altro vigolettato: “Uno degli indici più preoccupanti dell’accrescersi nel nostro Paese di una situazione di “regime” è costituito dall’aggravarsi del conformismo dell’informazione, con particolare riguardo all’informazione economica”. La frase è proprio del Prof. Federico Caffè, al cui nome è dedicato il gruppo di studio che ha contribuito a organizzare l’evento di oggi qui a Roma. Era la fine degli anni ’70.
Da allora non dev’essere cambiato poi molto, dal momento che ho incontrato serie difficoltà a rintracciare articoli recenti della stampa nazionale che ponessero nella giusta luce le vere carenze strutturali del sistema bancario italiano e degli organismi finanziari di controllo dal punto di vista della comunicazione, specie digitale, e del reputation management.
Si fa allarmismo, si “strilla”, ma sempre genericamente: la tal banca è in crisi, quell’altra è sottocapitalizzata, l’altro ha ‘annegato’ la crisi in una fusione. Ma mai che si facciano nomi e cognomi precisi e si individuino responsabilità circostanziate. E qui tante volte il peccato più che di commissione è di omissione, ma non è meno grave, perché come ci ricorda il Vangelo secondo Matteo “il giudizio finale avverrà tutto su peccati di omissione”.
E dire che già nella preistoria del web, nel 1997, il Comitato di Basilea sottolineava che “Il Rischio di reputazione deriva da disfunzioni operative, dal mancato rispetto delle leggi e dei regolamenti, come anche da altre fonti: il rischio reputazionale è particolarmente dannoso per le banche, poiché la natura della loro attività richiede il mantenimento della fiducia dei depositanti, creditori e del mercato generale”. Lo scrivevano 20 anni fa.
A tutti interessa la propria reputazione, cosa dicono gli altri di noi. Saltiamo subito sulla sedia se ci Googliamo e intravediamo qualche criticità, qualche recensione negativa. Il che – esaminando lo scenario delle banche italiane – equivale a dire che nostra moglie entra in casa, trovando la porta aperta, tutta la casa svuotata e sottosopra, e noi sereni sereni seduti sul divano a berci un bicchiere di vino leggendo il giornale… “Caro, ma cosa è successo!”. “Niente amore, sono passati i ladri”. Questo è l’atteggiamento sul tema della reputazione, largo circa. Ci si pone eventualmente il problema sempre “fuori tempo massimo”.
Ci infastidiamo, se parlano male di noi, quindi, ma dio ci scampi dal fare le poche essenziali cose che farebbero in modo che nessuno avesse motivi per parlar male di noi! Qual è il problema? Stimolare troppo la plasticità della nostra rete neurale ci affaticherebbe?
A proposito di reti neurali, nel 2008 pubblicai un breve saggio che incrociava temi come la logica aristotelica e la logica fuzzy. Oggi, a distanza di anni, vi dico che quell’analisi si può tranquillamente applicare anche al management della reputazione. Esistono un valore 0 e un valore 1, e non è che la reputazione di un Istituto bancario “esiste o non esiste”, o è buona o cattiva… questa sarebbe la logica Aristotelica. Invece tra zero e uno vi sono infiniti valori di verità. Infiniti-valori-di verità. Uno non è che o è vivo o è morto: dagli 0 ai 90 anni succedono delle cose…
Ebbene, sono proprio queste le cose delle quali nell’establishment finanziario nessuno si occupa: e dire che c’è una sensibilità, ci sono delle tecniche, il reputation management ormai è codificato, non dico che è una scienza, perché di assoluto della gestione delle imprese non c’è nulla, ma poco ci manca. Allora perché anche se tutti sanno cosa bisognerebbe fare oggi per non avere problemi di reputazione, e quindi di valore di borsa, nessuno lo fa, o pochi lo fanno…?
Proviamo a dare una risposta a questa importante domanda. In una mia recente intervista sull’Harvard Business Review – peraltro pubblicata grazie a una segnalazione di Toni Muzi Falconi, colgo l’occasione per ringraziarlo nuovamente – l’economista Stefano Zamagni ha dichiarato: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Beh, potrà dar fastidio a qualche manager, ma anche se non esistono gli assoluti io condivido la visione di Zamagni. “Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero – anche se qui, come Consigliere del Presidente di Ferrero, sono di parte – ha fondato la sua impresa, dice Zamagni, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppo pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”. Ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha ricordato Toni Muzi Falconi per certi analisti le banche hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS.
Cosa fare? Ma lo devo dire a voi, che rappresentate quasi tutti realtà strutturate e organizzazioni complesse? Eppure le cose da fare in prima battuta sarebbero davvero poche, essenziali, per certi versi non difficili da realizzare… qualunque buon reputation manager – e ce ne sono anche di ben più bravi di me – saprà indicarvi la strada. Forse facendovi pagare parcelle a 6 zeri, lo auguro a lui, chiunque sarà, perché è chiaro che più perdete tempo adesso, più si compromette lo scenario, e più dovrete pagare dopo per recuperare il vantaggio competitivo perduto.
Quindi lasciamo perdere cosa si potrebbe fare dal punto di vista tecnico, spendiamo invece due parole sul perché bisognerebbe smetterla di perdere tempo.
Ad esempio perché il Reputation Institute, che sicuramente tutti conoscete, ci dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da assets intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. Alla faccia del valore intangibile, della reputazione come asset “intangibile”… Permettemi la provocazione, a me pare assai tangibile: andatelo a dire a chi ci ha rimesso il proprio patrimonio personale in Volkswagen che la reputazione è un valore “intangibile”. Cosa c’è di più “tangibile” oggi come oggi della reputazione? La reputazione orienta tutti i comportamenti di acquisto, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity…
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora “con la diligenza del buon padre di famiglia”, per citare il codice Grandi del 1942; il manager che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finchè gli fa comodo, e incassa – è un manager traditore.
Ai traditori durante la guerra si sparava, pure girati di spalle, e se c’è qualcuno che pensa che l’importante sia solo fare profitto oggi, e la reputazione la vedremo un’altra volta, forse quella è la fine che merita, perché così facendo genera direttamente o indirettamente macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
Basta con la “deresponsabilizzazione” nel mondo del management e della finanza: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti… ebbene io non ci credo: ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, delle persone che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni, che non agiscono (anche) per il bene generale pur trovando una giusta contemperazione con i loro interessi particolari, ma che – non sapendo e non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone credetemi qualcuno prima o poi chiederà conto.
Bene. Niente punizioni corporali per questi comportamenti, c’è stata nel frattempo la Universal Declaration of Human Right, però a quel tipo di manager – permettete – perlomeno venga portato via tutto ciò che possiede. Tutto. Neanche la casetta al mare deve restargli: punirne uno per educarne cento. Idem quei signori degli organismi finanziari di vigilanza che non vigilano sulla reputazione delle banche – ovvero sull’etica dell’amministrazione, le due cose casomai fosse sfuggito sono direttamente correlate, non è che la reputazione si ottiene con campagne di marketing e pubbliche relazioni e basta! – e che quindi pregiudicano irrimediabilmente anche la reputazione dell’organismo di vigilanza che rappresentano, per ricollegarmi a quell’assurda e surreale dichiarazione del DG della Banca d’Italia.
Concludo con una riflessione nata da una frase che mi ha colpito, di un grande attore italiano, Toni Servillo, che la maggior parte delle persone hanno conosciuto per “La grande bellezza” o per altri titoli di cinema, ma che innanzitutto è – da sempre – un valente attore di teatro.
In una recente intervista Servillo dichiara: “Faccio fondamentalmente teatro perché il palcoscenico è il luogo dove verifico la tenuta della relazione con il mio mestiere, cercando di far coincidere me stesso con quello che faccio”. Curioso, direi: lui ha la passione per il suo lavoro, quindi esso coincide con quello che lui è nel profondo…
Ci si aspetterebbe da un attore un discorso sul Doppelganger, sul calarsi nella parte, in poche parole sull’artificiosità dell’essere attore. Invece Servillo riporta la nostra attenzione su ciò che c’è di più centrale nel discorso sulla reputazione: l’autenticità.
C’è un certo conformismo, mi pare, sul tema della reputazione: guardiamo guardinghi cosa fanno gli altri, e li imitiamo. Se lo fa quella banca che è una best-in-class (ma dove poi? Spesse volte solo sulla carta… quante organizzazioni pluripremiate per la CSR poi erano “due aziende in una”, una dedita a mietere premi, l’altra a truffare sulla rendicontazione…), ebbene, guardo cosa fanno gli altri e lo faccio anch’io.
In buona sostanza quello che si fa è di “guardare fuori”, invece di “guardarci dentro”, e finiamo – per citare Arthur Schopenhauer, per “Perdere tre quarti di noi stessi nello sforzo di essere come gli altri”.
Invece proprio dal guardarsi dentro dovrebbe ripartire un discorso sulla reputazione. Riscopriamo chi siamo; qual’era il sogno che ha animato l’imprenditore quando creò l’azienda per la quale lavoriamo; quale contributo concreto possiamo dare noi oggi per raggiungere quel sogno. Facciamo ciò che è meglio per la reputazione della nostra azienda, e così facendo valorizzeremo anche la nostra buona reputazione di manager.
Non è più complicato di così. Grazie.




Corporate Social Responsability, il futuro dei brand è nella sostenibilità

Come fidelizzare i Millenials al proprio marchio? Investendo nel sociale e nell’economia sostenibile

Responsabilità sociale per il brand awareness: investirvi può significare attirare l’attenzione sul proprio brand dei cosiddetti Millenials, quella fascia di individui nati dagli anni Ottanta in poi che, in rapida crescita per la loro rpesenza sul mercato, hanno dimostrato di avere un’alta propensione alla spesa, ma scarsa fedeltà al marchio.
PROBLEMA FIDELIZZAZIONE. La maggiore attenzione alla Corporate Social Responsability potrebbe essere una via per generare una maggiore brand awareness, che vada a tradursi, di fatto, in una fidelizzazione del cliente e in un maggiore orientamento delle decisioni di aquisto del pubblico, in particolare quello di “nuova generazione”, che oramai è investito da una quantità sovrabbondante di messaggi, che non facilitano i tentativi delle aziende di spiccare tra la folla. Come emergere dunque nella quantità di brand in competizione? Investendo nella buona reputazione della propria azienda.
MILLENIALS? I PIÙ CONSAPEVOLI. Secondo il Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsibility and Sustainability 2015, I client sono particolarmente sensibili all’attenzione delle imprese per il sociale e la sostenibilità: in Italia, il 52% dei consumatori si dichiara disposto a spendere di più in prodotti di brand sostenibili. Il dato è in crescita rispetto al 2014, quando la percentuale si fermava al 45%; la media europea è del 51%. I più attenti sono, come detto, i Millenials: sono loro i soggetti più attenti alla sostenibilità dei brand (73% nbel 2015, +50% rispetto al 2014). Ancora di piàù sono coloro disposti ad abbandonare un marchio in favore di un altro più attento a questioni sociali (95%), magari informandosi in proposito sui social networks, le vie di informazione preferite dai 2/3 dei rappresentanti della nuova generazione.
INVESTIRE SULLA CSR. Le imprese non stanno certo a guardare: nel 2015, infatti, quelle attente alla sostenibilità hanno visto lievitare il proprio fatturato del 4% rispetto a quelle meno attive, che crescono mediamente di percentuali inferiori all’1%; il 65% delle vendite del largo consumo è coperto da azziende impegnate in cause ambientali e sociali. La Corporate Social Responsability , sdoganata dai grandi retailer, che per primi si sono occupati del benessere delle comunità nelle quali operavano, avrà ruolo centrale nelle scelte delle aziende nei prossimi anni. Oltre a diventare via di fidelizzazione per i clienti, infatti, godere della reputazione di datori di lavoro etici avrà ottime ripercussioni anche sulla capacità di attirare e trattenere i migliori talenti e di garantire così la rpopria compettitività sul mercato: l’82% dei Mllenials, infatti, considera l’impegno sociale di un’azienda uno tra i buoni motivi per accettare di lavorarvi.



È possibile prevedere dove colpirà l’Isis guardando la rete?

Guardando la mappa del consenso online verso l’Isis, i paesi cui prestare maggiore attenzione sono Gran Bretagna, Spagna e penisola balcanica. È lì, secondo Voices from the Blogs, che dovrebbero concentrasi gli sforzi di intelligence e le battaglie culturali

Alla luce dei recenti episodi di violenza legati al terrorismo jihadista, in Belgio come in Pakistan, la prima tentazione è quella di chiedersi se ci sia modo di sapere quale paese sarà (o non sarà) il prossimo. Fare previsioni non è mai semplice e quando si tratta di terrorismo tutto diventa ancor piùdelicato. Anche e soprattutto perché, in fatto di attentati, spesso si finisce per non formulare giudizi esatti nemmeno ex-post. Nel corso della storia non mancano infatti gli esempi di episodi frettolosamente etichettati come atti di terrorismo, né le vicende dai contorni troppo poco chiari, e ildirottamento di un aereo egiziano è solo l’ultimo di una lunga lista. Quello che i big data e la rete ci permettono di fare è di arricchire le informazioni che abbiamo a disposizione utilizzando nuove fonti di dati, sia per smontare alcune false credenze che troppo spesso circolano, sia per sviluppare unquadro sul futuro che forse ci aspetta.
Se avessimo dato ascolto alle discussioni in rete avremmo per esempio saputo, già in tempi non sospetti, che il Belgio era una zona calda per quanto riguarda il livello di sostegno all’Isis. Da una analisi relativa a oltre due milioni di post effettuata da Voices from the Blogs per il Guardian nella seconda metà del 2014, quando ancora c’erano solo contenuti segnali di aggressività dell’Isis nei confronti dell’Occidente (almeno sul territorio europeo), emergeva che la percentuale di commenti simpatetici nei confronti dello Stato islamico e delle sue attività scritti in arabo su Twitter e provenienti dal Belgio era decisamente superiore al resto dell’Europa. Con un sentiment positivo pari al 31%, la comunità araba online in Belgio appariva infatti al terzo posto a livello mondiale, subito dopo il Qatar e il Pakistan.

Heat map del sostegno all’Isis online in Europa
(Sentiment a fine 2014; dati
Le Monde a ottobre 2015)
In questo senso la Rete, mostrandoci quali comunità arabe (in Occidente) esprimono maggior sostegno ai terroristi, può anche aiutarci a capire dove la soglia di attenzione andrebbe tenuta più alta. Guardando per esempio la heat map del sostegno online verso l’Isis e correlando tale sentiment, nei paesi del mondo occidentale (Europa, Nordamerica, ma anche Oceania e Giappone), con il dato sulleviolenze terroristiche effettuate dall’Isis (che trovate più in basso), possiamo osservare che, tra i paesi principali, Gran Bretagna e Spagna sono gli unici in cui l’Isis non abbia finora effettuato attacchi, nonostante in quelle zone il sentiment positivo sia superiore alla soglia di guardia (20%) e nonostante il fatto che entrambi i paesi erano già stati in passato vittime del terrorismo jihadista, seppur di diversa matrice da quello dell’Isis. Ma anche nell’area dei Balcani, dove il sentiment pro-Isis raggiunge livelli ancora più elevati, la situazione andrebbe forse ulteriormente monitorata. Insomma, dall’analisi dei big data il messaggio è chiaro: più alto il sentiment positivo, maggiori dovrebbero probabilmente essere gli sforzi dell’intelligence e le battaglie culturali (online e offline) per soffocare le risorse e togliere argomentazioni ai fiancheggiatori dell’Isis.
D’altra parte, la Rete è ricca di informazioni che potrebbero aiutarci anche ad evitare di formularegiudizi troppo avventati. Nella stessa analisi discussa più sopra emergevano infatti altri spunti degni di nota. Prima di tutto, per quanto elevato il livello di consenso potesse essere (o sembrare), le comunità arabe online esprimevano, a netta maggioranza, opinioni nettamente contrarie all’Isis: i giudizi negativi in Rete sfioravano complessivamente l’80%. Il dato, che è in linea anche con alcunisondaggi effettuati nei mesi successivi, è netto e non lascia spazio a fraintendimenti. Chi accusa dunque il mondo arabo di aperto sostegno all’Isis, da questo punto di vista, commette un errore, perché la volontà di condannare il terrorismo è evidente. Rimane, è vero, una area grigia minoritaria di sostegno all’Isis che, aspetto interessante, rimane sostanzialmente stabile (pur con le ovvie oscillazioni del caso) a livello complessivo durante sia la prima che, parzialmente, anche la seconda parte del 2015, e questo nonostante la crescente attenzione rivolta da parte delle istituzioni (e non: si pensi all’attività del gruppo di Anonymous a riguardo) verso i commenti online a favore dell’Isis.

Heat map del sostegno all’Isis online nel mondo
(Sentiment a fine 2014; dati Le Monde a ottobre 2015)

Anche la relazione tra Islam e terrorismo è da considerare più complessa di quanto appaia a prima vista. Se è vero che chi esprime sentiment positivo in Rete cita la difesa dell’Islam come la principale ragione per sostenere l’Isis, è altrettanto vero che un terzo dei commenti negativi (la maggioranza relativa) accusa l’Isis di strumentalizzare la religione islamica per interessi di potere. E proprio il composito mondo islamico è, al momento, la prima vittima dell’Isis. Alcuni dati riportati da Le Mondesottolineano come la maggioranza delle vittime dell’Isis sia di fede islamica piuttosto che cristiana, e gli attentati compiuti dallo Stato Islamico abbiano colpito più le moschee, rispetto a chiese e sinagoghe. Islamici di fede sciita e Imam sunniti che si sono opposti ad al-Baghdadi figurano infatti tra i principali bersagli della violenza dell’Isis.
Il terzo mito da smontare (o, per lo meno, da ripensare), riguarda invece coloro che parlano di due pesi e due misure. Se analizziamo la serie temporale del sentiment pro-Isis notiamo infatti un netto aumento dei giudizi negativi ogni qualvolta vengano colpite moschee o vengano uccisi Imam dissidenti. Al contrario, le decapitazioni di giornalisti occidentali non hanno inciso in modo sistematico sul sentiment, e questo vale anche per gli attentati avvenuti in occidente. Dopo i tragici fatti di Charlie Hebdo a Parigi, per esempio, il sentiment negativo è cresciuto, ma si è trattato di una reazione tanto immediata quanto effimera, che è poi scemata col passare delle settimane quando il livello di sostegno all’Isis è tornato sui suoi valori medi. Chi, come l’Imam di Catania, accusa gli occidentali di non piangere per gli islamici vittime dei jihadisti dovrebbe forse interrogarsi su quanto generalizzata sia questa assenza di empatia.