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Ai giovani piace la responsabilità sociale d’impresa

Quattro persone su cinque ritengono che lo sviluppo della responsabilità sociale d’impresa, la cosiddetta Corporate Social Responsibility o CSR, possa avere un impatto significativo per la sostenibilità dell’economia europea. Dati che hanno un’immediata ricaduta sul mondo delle imprese: come, per esempio, l’inserimento in azienda del CSR manager, figura professionale presente nell’80% delle società quotate.
Inoltre un consumatore su due a livello mondiale è disposto a pagare un prezzo più alto per prodotti e servizi di aziende che si impegnano per il rispetto dell’ambiente e hanno un rapporto corretto e costruttivo verso la società.
Ma la vera novità è che i comportamenti etici e socialmente responsabili sono premiati soprattutto dai giovani: il 66% dei Millennials (i nati fra il 1980 e il 2000) è più propenso a investire in un’impresa nota per il suo programma di CSR, mentre solo il 48% degli over 35 è dello stesso avviso. E ben il 92% dei Millennials è più incline ad acquistare prodotti e servizi da una società etica. Per i giovani sostenibilità significa non solo salvaguardare le risorse del Pianeta ma creare prodotti e servizi innovativi che hanno ricadute positive sulla comunità.

Responsabilità sociale di impresa al Salone della CSR e dell’innovazione sociale

Archiviata l’edizione 2015 con un importante successo di pubblico, 4mila visitatori nella due giorni milanese, oltre 110 organizzazioni partecipanti, 100mila visite al sito della manifestazione e 2.266 tweet con hashtag #CSRIS15 in una settimana, il Salone tornerà all’Università Bocconi il 4 e 5 ottobre 2016.

“Il tema scelto per la quarta edizione” dichiara Rossella Sobrero, del Gruppo Promotore del Salone “poggia su tre parole chiave: Cambiamento Coesione Competitività. La capacità di innovarsi è il requisito fondamentale per rispondere alle richieste di una società in rapida trasformazione. Ma è necessaria anche un’attenzione nuova alle relazioni: non c’è sviluppo senza collaborazione, contaminazione, comportamenti inclusivi. La competitività diventa quindi il risultato di un nuovo modo di fare impresa. Al Salone metteremo in luce alcune delle iniziative che tante organizzazioni stanno realizzando per affrontare meglio le sfide di un mercato sempre più complesso”.

L’edizione di quest’anno si caratterizza, oltre per la qualità degli appuntamenti in calendario, anche per una sempre maggiore interattività del pubblico con organizzazioni ed esperti. Fra le novità dell’edizione 2016 anche il volume dedicato al Salone: realizzato con la casa editrice EGEA conterrà le riflessioni del Comitato Scientifico (27 docenti che insegnano nelle maggiori Università italiane), gli approfondimenti di esperti internazionali sul futuro della sostenibilità, dialoghi e interviste con alcune delle organizzazioni che partecipano all’edizione 2016.
Da marzo a maggio saranno cinque le tappe di avvicinamento all’evento nazionale di Milano: le prime due saranno Genova il 18 marzo a Palazzo della Meridiana e Portogruaro (Venezia) il 22 marzo al Campus Universitario di Ca’ Foscari. Seguiranno Bologna, Università degli Studi, il 12 e 13 aprile; Salerno, Università degli Studi, il 27 aprile; e Roma, Università LUISS Guido Carli, il 12 maggio.
Il Salone della Responsabilità Sociale di Impresa e dell’innovazione sociale è promosso da Università Bocconi, Unioncamere, CSR Manager Network, Alleanza delle Cooperative Italiane, Fondazione Sodalitas, Koinètica. Il Salone è un evento sostenibile certificato ISO 20121. Un risultato reso possibile anche grazie alle certificazioni ambientali 100% energia pulita e 100% CO2 free (Multiutility) e alla compensazione delle emissioni del sito (ReteClima).




Il vero significato della responsabilità sociale d’impresa

Oltre la semplice filantropia, imprenditori e manager devono impegnarsi a fare delle proprie aziende soggetti attivi nell’interazione con la società. 

Intervista del Prof. Luca Poma al Prof. Stefano Zamagni, per la Harvard Business Review


Iniziamo con il chiarire un aspetto fondamentale. Cosa non è responsabilità sociale d’impresa, secondo Te?
Non è né mera legalità né la filantropia come la si intende, che è sempre esistita dai primordi dell’economia di mercato. La Toscana e l’Umbria ne sono state la culla, dove già a partire dal 1200 nacquero le prime or­ganizzazioni di tipo filantropico. Quello che hanno fatto gli americani è stato di recuperare questa idea tutta italiana per trasformarla e renderla più efficiente: l’espressione vera e propria del concetto di responsabilità sociale d’impresa, in inglese la Corporate Social Responsibility o CSR, nasce negli Stati Uniti nel 1953, quando un economista americano all’e­poca non particolarmente noto, Howard Bowen, scrisse che era giunto il momento per le imprese di farsi carico della responsabilità per ciò che le circondava. L’impresa socialmente responsabile è quindi quella che non si limita a redistribuire parte dei propri profitti, ma che si adopera con i mezzi a sua disposizione per far sì che l’ordine sociale di cui è parte attiva evolva, migliorando tra l’altro l’efficienza dell’organizzazione poli­tica e amministrativa, generando benessere per i cittadini e permettendo così a tanti nuovi soggetti di immettersi nel circuito del mercato.

Un ruolo anche “politico”, quindi?
Diciamo che parlare oggi di responsabilità sociale vuol dire porsi il problema del mutamento delle regole del gioco: l’impresa socialmente responsabile è quella che contribuisce a ciò operando, ad esempio, a stretto contatto con i soggetti politici, con altri colleghi imprenditori e così via. Perché se non cambiamo le regole del gioco, è chiaro che la mia azione filantropica sarà costantemente insufficiente rispetto all’obiettivo finale.

Prendiamo come paradigma una grande azienda multinazionale auto­mobilistica, la quale – best in class nella CSR – a un certo punto dice bugie sulle emissioni nocive, e succede un disastro anche in Borsa. Cosa si è inceppato? Non era “CSR oriented”? Faceva finta? Cosa non ha funzionato?
La risposta è nella matrice etica che sostiene la respon­sabilità sociale dell’impresa, e tre sono le matrici domi­nanti. La prima è l’etica utilitaristica, sulla base della quale l’imprenditore ragiona così: ho scoperto che oggi essere socialmente responsabili conviene perché aumenta il capitale reputazionale della mia impresa e, in ogni caso, è il trend dominante; allora lo faccio anch’io, però sono pronto a modificare la strategia in qualunque momento se scoprissi che questo non è più conveniente. Il secondo approccio è invece quello dell’etica deontologica, ovvero l’etica del dovere. La re­sponsabilità sociale va fatta perché è un dovere civile, cioè fa parte della cosiddetta costituzione morale dei soggetti. Da notare che l’etica deontologica ha avuto nel filosofo tedesco Kant la sua massima espressione. Infine, c’è il terzo modello, l’etica delle virtù, nata in Grecia all’epoca di Aristotele e poi perfezionata nel corso dei secoli, la quale sostiene che bisogna agire sulla base del convincimento che il mio benessere deve andare di pari passo con il tuo. Allora capiamo subito che – per stare all’esempio Volkswagen – siamo dinnanzi a ciò che succede quando una impresa basa la CSR sul codice deontologista o peggio su quello utilitaristico. L’errore da parte della governance VW è stato quello di non capire che ciò è rischioso, perché nel momento in cui l’etica dimostra di non essere più conveniente sotto il profilo delle performance, la si ab­bandona, ed è esattamente ciò che è avvenuto nel loro caso. Quando hanno capito che si potevano fare extra profitti violando quello che loro stessi avevano dichia­rato nei loro documenti di rendicontazione sociale e nei codici deontologici, l’hanno fatto. Ora questo errore teorico sta facendo pagare loro un danno enorme nel concreto sia per gli andamenti del titolo in Borsa sia in termini di pregiudizio reputazionale.

Possiamo quindi arrivare a dire che se adesso VW pro­muovesse un’operazione di recovery reputazionale, pur efficientissima, ma senza modificare il proprio paradigma etico, tra 5 anni saremo punto a capo?
Certamente, e non solo, rimarrà sempre un margine di dubbio e di diffidenza sulle loro azioni. Tutti ab­biamo letto le dichiarazioni del CEO di Volkswagen, ma non convincono più, si tratta solo di dichiarazioni strumentali. Devo dire che – rispetto alle tre matrici che ho richiamato – gli italiani hanno mille difetti ma sono però molto più vicini a essa di tutti gli altri popoli. Il nostro imprenditore magari fa meno, dà un po’ meno, però quando dà, è perché è davvero convinto del fatto che deve stare bene lui assieme agli altri. Quando una persona di buon senso dice: “Io devo guardare all’in­tenzione e non solo il gesto, non solo al fatto che mi dai cento euro, ma voglio anche capire perché me li hai dati”, ebbene, viene sostanzialmente a dirmi: “Se io so che tu sei davvero un virtuoso, semplicemente di te mi posso fidare”. E la fiducia – come sappiamo – è un asset intangibile preziosissimo.

Facciamo del fanta-management. Domani squilla il telefono del tuo studio in Università e il nuovo CEO di Volkswagen la chiama come general advisor su questi temi, per dare un contributo a risolvere il problema. Tu cosa gli consiglieresti, ora, a problema già deflagrato?
Di fare il primo gesto importante, ovvero non tanto di ammettere l’errore – questo è evidente a tutti – bensì di spiegare esattamente qual è la ragione profonda che li ha indotti in errore. Questa sarebbe la prima “prova della verità”, che fino ad oggi non hanno fatto. Perché sono tedeschi, e questa è la matrice culturale tedesca: dovrebbero ammettere che il deontologismo – a cui loro si sono legati mani e piedi sin dall’inizio, e che ha come conseguenza il doverismo – è clamorosamente fallito.

Come un esercito…
Esatto, non per nulla in passato abbiamo avuto certi tipi di esperienze con i tedeschi: gente che dice “io devo obbedire per dovere”. È chiaro che loro probabilmente non ce la faranno mai a cambiare, perché dovrebbero sconfessare una lunga tradizione di pensiero, mentre sono ancora troppo “prussiani”. Se però facessero questo gesto, creerebbero uno shock nel loro Paese e passerebbero alla storia, perché avrebbero il corag­gio di dire: “Noi abbiamo fatto ciò che abbiamo fatto perché aderendo a quella matrice filosofica o culturale siamo stati indotti a commettere un errore di questo tipo, che non è un errore modesto…”. Tenuto conto del fatto che la governance della Volkswagen com­prende non soltanto gli azionisti privati ma anche lo Stato, l’Assia, che ha ben il 20% del gruppo, oltre ai sindacati… Allora la domanda è: è mai possibile che in un consiglio di amministrazione, in un consiglio di sorveglianza dove siedono i rappresentanti dei tre ver­tici, nessuno – perché chi ha scoperto l’inganno è stata una organizzazione non governativa americana – si sia accorto di nulla…?

Secondo te sapevano e sono stati zitti, oppure non sapevano e sono stati inadeguati?
Sapevano benissimo, come peraltro è stato dimostrato da chi ha denunciato il problema. E’ ovvio che i casi sono due: o questi membri del consiglio di ammini­strazione si disinteressavano ed erano completamente assenti, e questa è un’aggravante, oppure sapevano bene. La verità è che queste decisioni sono filtrate sia dal consiglio di sorveglianza che dal consiglio di am­ministrazione.

Anche i soci pubblici?
Certo. Tutti pensavano che la presenza del soggetto pubblico – e il 20% è una quota non banale – fosse una garanzia sufficiente per garantire il bene comune, ma non è stato così. Come mai il sindacato è stato zitto? Per difendere certi interessi… Ma allora vuol dire che tu difendi i tuoi lavoratori e non i lavoratori in gene­rale. Ecco perché un gesto di questo tipo, quello che ho appena suggerito, sarebbe l’unico realmente adeguato.

La Harvard Business School ha pubblicato qualche tempo fa una ricerca durata 18 anni, paragonando 90 aziende che facevano CSR integrata realmente nei propri processi di governance e 90 aziende che non la facevano: il risultato è una differenza del 25% nel rendimento di Borsa. Quindi neanche gli imprenditori ormai hanno più la scusa di dire “non so”, “non ho ca­pito”. Perché allora tutti questi ritardi?
Tre i motivi. Il primo è che nel mondo delle imprese nell’ultimo quarto di secolo si è assistito a un processo di crescente managerializzazione, e il manager – an­che se dico una cosa che a qualcuno darà fastidio – è una specie molto raffinata di “mercenario”. Nel Me­dioevo i mercenari combattevano per chi pagava me­glio. Ebbene, se qualcuno fa a un manager un’offerta vantaggiosa, questi abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppi pochi manager, quindi negli ultimi decenni si sono fatti inve­stimenti nelle Business School. Perché a un manager la CSR interessa poco? Perché il vantaggio competitivo che la CSR conferisce è un vantaggio di medio-lungo termine. E’ chiaro che lo short-termism porta a una sottovalutazione: chi pratica la CSR guadagna in repu­tazione e ha quel 20% in più di utili, ma a me manager questo non interessa, io intanto ho il mio contratto, è già definito ex ante, ho già il golden parachute, e quindi vado avanti…

Questo è vero anche per Volkswagen.
Esatto. Invece l’Italia non è così; c’è una peculiarità italiana, perché gli imprenditori ci sono e governano le loro aziende. La seconda ragione è legata al fatto che per mettere in pratica la CSR ci vuole una competenza specifica, mentre per fare donazioni di tipo filantropico basta mettere mano al portafoglio e firmare un asse­gno. Inoltre la CSR ha degli effetti sull’organizzazione interna del lavoro, non soltanto sull’immagine esterna: quindi manca il coraggio – da parte degli imprenditori, in questo caso – di mettersi in gioco. La terza ragione, infine, ha a che vedere con la dominanza che ha an­cora il modello così detto ford-taylorista, un modello di tipo gerarchico con struttura di tipo piramidale. Da almeno 30 anni a questa parte è iniziato un distacco dal modello tayloristico verso quello post tayloristico, il “toyotismo” è un esempio di post taylorismo. Però di fatto oggi, per le ragioni di pigrizia e di lentezza del processo di transizione, la gran parte delle imprese ha ancora una struttura mentale di tipo tayloristico. Nella struttura tayloristica è ovvio che la CSR ha difficoltà enormi ad entrare, perché è chi sta al vertice della pi­ramide che pensa, decide e comanda, mentre la CSR presuppone una sorte di orizzontalità, di circolarità, devi avere l’umiltà di ascoltare e di dialogare con i tuoi pubblici, capire che tipo di azienda vogliono. Aggiungo un’appendice: c’è anche un ritardo culturale dovuto al fatto che si fa fatica a comprendere che rendere parteci­pativo il processo decisionale migliora le performance. Molti lo interpretano appunto in chiave “offensiva”. 

Come non era, per citare un esempio noto ai più, per Olivetti…
Si, è un esempio molto citato, ma è bene ricordarlo. Quando nel ’55 Olivetti creò la sua squadra, vi mise a capo un ingegnere che un giorno andò da Adriano e gli disse: “Devi licenziare Natale Capellaro”, che era un operaio, aveva fatto la quinta elementare o giù di lì, ed era del leccese, del Sud. Olivetti gli chiese: “Ma perché?”. E quell’ingegnere rispose: “Perché ho visto che ruba, porta via dei pezzi, la sera”. Olivetti, se fosse stato un taylorista, avrebbe detto: il mio ingegnere capo mi dà l’evidenza, quindi licenzio in tronco il di­pendente. Invece no, chiamò Capellaro e gli chiese: “Perché si dice questo di te?” E lui rispose che era vero, e che lo faceva perché l’ingegnere capo era un imbecille che stava sbagliando i piani di produzione. “Io gliel’ho detto e lui mi ha risposto: taci tu che sei un terrone semi analfabeta, vuoi insegnare a me che sono ingegnere?” Quindi Capellaro si portava i pezzi a casa perché aveva trasformato la sua cantina in un piccolo laboratorio dove stava costruendo delle cose per dimostrare all’azienda che aveva ragione, e per fare meglio…mi spiego? Olivetti allora chiamò l’ingegnere capo e lo licenziò in tronco, dicendogli: “Io ti licenzio non perché hai sbagliato il piano di lavoro, tutti pos­sono sbagliare, ma in primo luogo perché hai offeso la dignità di una persona, e in secondo luogo perché non sei stato capace di raccogliere l’intuizione e l’idea creatrice di Capellaro, solo perché lo consideravi infe­riore a te”. Cacciò via l’ingegnere tra lo sgomento di alcuni e – qui si vide l’imprenditore illuminato – mise a capo della squadra proprio Capellaro. Dopo due anni viene fuori che quel prodotto ha reso una montagna di profitti alla Olivetti. Poi Olivetti fece conferire dal Poli­tecnico di Bari la laurea honoris causa in ingegneria a Capellaro. Questo è l’esempio che ci fa capire meglio ciò che intendevo dire… 

L’assenza di doverismo?
Si. Perché Capellaro faceva ciò che faceva, faticando e rischiando? Non perché era obbligato da qualcuno, o perché si sentiva obbligato lui stesso, bensì perché lì dentro si percepiva l’etica delle virtù, perché Olivetti era una persona che testimoniava con la propria vita l’ade­sione all’etica delle virtù, e lo dimostrava nel concreto. E Capellaro pensava: “Voglio cooperare con la mia azienda perché la mia azienda produce bene, fa le cose per bene”. La sua motivazione interiore era in linea con quella dell’azienda. Ma se avesse saputo che l’azienda faceva certe cose solo per interessi di parte, o per pura speculazione, non avrebbe mai fatto ciò che fece. 

Ti chiedo un parere su un caso di studio, quello di Guna, una PMI italiana che ha introdotto un bilancio integrato che invece di essere fatto dal management a fine anno, come rendicontazione ex post, è costruito da tutti gli stakeholder settimana dopo settimana: le ONG scrivono la propria, i dipendenti la propria e via discorrendo. Il bilancio integrato è online 365 giorni all’anno, costantemente aggiornato, senza “lifting” di fine anno. Cosa ne pensi?
E’ semplicemente geniale, ed è esattamente ciò verso cui dovremmo andare. Aggiungo che molte imprese purtroppo non sanno ancora cos’è il bilancio integrato, e quindi si limitano a interpretare il bilancio sociale come una mera descrizione narrativa ex post di quello che hanno fatto, redigendo quello che al massimo è una “relazione”. Un bilancio non deve solo raccontare quello che è stato fatto, ma deve misurare l’impatto di quello che è stato fatto, e questo è il punto. Spesso non si è in grado di distinguere la valutazione in base all’outcome, e si guarda solo l’output: io organizzo un corso di formazione e impiego certi input che hanno determinati costi; l’output è di 100 giovani in cerca di lavoro che hanno seguito il corso di formazione, e nel rendiconto io dico che 100 hanno partecipato, ma qual è l’outcome? Quanti hanno poi trovato lavoro? Il vero bilancio integrato è quello che riesce ad arrivare a valu­tare l’impatto sociale dei progetti dell’azienda. 

Ti chiedo di essere politicamente scorretto e di dirmi: cosa non ti piace, ti dà più fastidio, condividi di meno nel mondo della CSR, lato imprese.
La letteratura sulla CSR fino ad oggi è in grado di ri­empire intere biblioteche ed è valsa a far penetrare nella testa di tutti – non solo delle imprese, ma anche dei cit­tadini – l’idea dell’utilità della responsabilità sociale per l’intera società. Ormai è difficile trovare un’azienda che parlando di responsabilità sociale d’impresa sorrida, com’era fino agli anni ’70 in America, quando Milton Friedman spiegava che l’unica cosa da fare era massi­mizzare i profitti ad ogni costo. Ma dopo aver perfezio­nato le tecniche, ci si è un po’ fermati: abbiamo interi volumi che ti dicono che il bilancio sociale va fatto in un certo modo, altri che la mettono in modo del tutto diverso. Si parla molto delle tecniche, ma se noi pren­diamo questi bilanci in carta patinata e con bellissime fotografie ci rendiamo conto che ormai è diventata una sorta di moda. È questo è pericoloso, perché noi sappiamo che le mode hanno vita breve. Io allora sarei per rilanciare il dibattito pubblico su questo tema, par­tendo soprattutto dalla considerazione che oggi le im­prese, perlomeno quelle medie e medio-grandi, stanno sempre più diventando “attori politici”, in senso alto. Cioè l’impresa non è solo un attore economico, bensì ha a che fare con la polis, la città-stato greca dove vi­veva la comunità. Quando – agli imprenditori, più che ai manager – si spiega tutto ciò, loro capiscono e rimangono abbacinati, perché quando si dice a un impren­ditore “guarda che tu sei un soggetto, un attore anche politico, e devi e puoi farti carico secondo le tue possi­bilità del bene comune della comunità”, lui va al set­timo cielo, perché questo gli fa recuperare il suo sogno iniziale. Spesso si dice che gli imprenditori sono tirchi, ma non è vero; quando sono abbottonati o bloccati è solo perché non viene loro offerta una vera prospettiva. Certo che se l’imprenditore viene svillaneggiato dal sin­daco di turno e viene deriso dal sindacato, alla fine si richiude come un riccio, come nella tana di Kafka; ma se invece lo si rende davvero partecipe del bene comune della sua comunità, reagisce, e il bello è che torna a di­vertirsi davvero. 

Un messaggio finale sulla CSR indirizzato ai giovani?
Di non pensare che quanto hanno ricevuto o letto, con riferimento al passato, possa essere replicato conti­nuando sempre allo stesso modo in futuro. Un giovane deve convincersi che il progresso è contraddistinto da “salti”, quelli che nel gergo dell’economia industriale si chiamano le “disruptive innovations”, perché quando un giovane è cosciente di questo, si mette in moto, si attiva, vede la possibilità di cambiare le cose. Se invece a un giovane diamo l’idea che più o meno tutto andrà sempre come nel passato, che non cambierà nulla e che l’unica cosa che può accadere è una mera “ripulitura” o un miglioramento marginale, il giovane si affloscia e perde in potenza. A un giovane bisogna dare un motivo di speranza. Per questo vorrei concludere con le parole di un poeta inglese, John Dryden, quando diceva: “Chi cerca perle, deve tuffarsi in profondità”. 

Stefano Zamagni è un economista e un teorico della CSR, Professore ordinario di Economia all’U­niversità di Bologna e di International Political Economy alla Johns Hopkins University. 

Luca Poma è scrittore, e Professore di reputation management all’Università LUMSA di Roma e specialista in Crisis communication. “Pu­blic Affairs Awards” per l’eccellenza nella comunicazione, è stato Consigliere per le strategie digitali del Ministro degli Esteri e membro del team per le policy di comuni­cazione strategica del Ministero della Difesa. Il suo blog è Creatoridifuturo.it. Ha lavorato a progetti di comuni­cazione in 23 Paesi, e a gennaio 2016 è uscito il suo de­cimo libro, per Franco Angeli, dal titolo “Il sex-appeal dei corpi digitali”  www.corpidigitali.it . Si ringrazia Daniele Tigli per la collaborazione alla realiz­zazione dell’intervista.




Intervista a Stefania Depeppe, creatrice di Ethical Code

Cosa è “Ethical code”?

Un progetto innovativo che si pone come obiettivo la fusione tra etica ed estetica. Intorno al progetto si è creato un Team di professioniste e collaboratrici volontarie che ne condividono gli ideali etici e si impegnano quotidianamente a farlo crescere. Ethical Code è anche un’ambiziosa scommessa per suggerire da un insolito punto di vista, quello del rispetto per la vita e il pianeta, nuovi spunti di riflessione sulle tendenze di moda del momento: il pret-a-porter si può e si dovrebbe coniugare alla filosofia della non-violenza, per vestire la donna contemporanea permettendole di rispettare appieno l’ambiente nel quale vive.
Avete appena presentato una sfilata a Milano. Raccontaci…
E’ L’Ethical Fashion Show, giunto alla seconda edizione, che si è svolto pochi giorni fa appunto a Milano, all’interno di una location metropolitana volutamente in contrapposizione con lo stile sofisticato delle
collezioni della settimana delle moda milanese. Tre stilisti etici emergenti hanno presentato tre diversi stili della donna contemporanea consapevole ed empatica: grintosa per Ugo Masini; romantica e sensibile per Tiziano Guardini; molto femminile e fiabesca per Francesco Romualdo. Tra una sfilata e l’altra, tre ballerini professionisti hanno interpretato il mood delle collezioni in sintonia con i diversi stili dei designer: Xu Ruichi, per l’hip–‐hop, Simone Cavagnis per la classica, e Lorenzo Mazzola per la danza mista acrobatica. Finger food vegano preparati dalla chef Lisa Bozzato, diplomata all’accademia di Pietro Leeman, in collaborazione con Nutracentis, azienda specializzata in alimenti biologici, accompagnato da bollicine dell’Azienda Agricola Monzio Compagnoni. Noi crediamo in un modello di moda differente ed ecosostenibile, e siamo convinte che esista anche un concreto mercato per queste proposte.
Qualcosa si più sulle tre collezioni?
Ugo Masini, due volte vincitore del MarteLive, ha proposto “Le Goût Intèrieur ” una collezione di abiti basati sul riutilizzo e sulla rivisitazione di capi usati: stili mescolati, come i tagli e le stampe, spaziando dal vintage fino agli anni ’80. “Three days to butterfly”, invece, come tutti i lavori dell’eco designer Tiziano Guardi, ha la volontà di rispondere concretamente alla necessità di coloro che vogliono vivere in armonia con la natura: il materiale base, scelto per questa collezione è la “seta non violenta”, chiamata anche seta di Gandhi: la differenza è che una volta formato il bozzolo, non viene interrotto il passaggio allo stadio successivo, come invece avviene nella seta tradizionale per impedire che la crisalide uscendo dal bozzolo rompa la continuità del filo. Infine, Francesco Romualdo ha proposto “The Splendid Clothes of Mr.Ciaccia: HersElf Wanderlust The First Chapter”, un progetto “no logo” ispirato alla sua formazione di attore. Urla di richiamo dei capo-compagnia dei teatrini di strada, dei vaudeville, dei circhi delle pulci, dove il concetto gioca con le parole, perchè “clothes” sta per pezze e stracci, non solo per abiti. I suoi “splendidi stracci” sono in realtà gentili corazze, maschere teatrali, attitudini in stoffa che ogni donna sceglie di indossare non solo per distinguersi e apparire elegantemente bella, ma perché il suo corpo, i suoi movimenti, diventino un tutt’uno con l’ambiente che la circonda.
Si dice che l’eleganza è dettata dagli accessori: cosa ha da raccontare al riguardo il vostro progetto…?
E’ vero, e anche qui abbiamo moda di forma e di bellezza ma anche di contenuti: “Origine”, da originemadeinitaly.it: borse artigianali totalmente cruelty free, curate tanto nell’estetica quanto nella funzionalità e ricercate nella qualità dei materiali e delle lavorazioni. Il brand, creato da Giulia Marotta, fashion designer vercellese particolarmente attenta allo sviluppo di prodotti etici che non vedono alcun impiego di materiali di origine animale, e che propone borse realizzate in laboratori fiorentini dalla lunga e consolidata tradizione manifatturiera. Le scarpe invece sono di Vegan Style, un fashion store australiano luxury cruelty free, che ha recentemente lanciato la nuova gamma di calzature Zette, 100% Made in Italy, e di Opificio V Milano, certificate dalla Vegan Society UK, dalla LAV e dalla PETA come prodotti cruelty Free.
Una serata interamente realizzata nel totale rispetto di ogni forma di vita?
Questo è un po’ il nostro “pallino”: la cura dei dettagli e il rispetto dell’ambiente, al punto che anche il make-up delle modelle sarà a impatto zero, curato da Liquidflora, biologico e non testato su animali. Siamo convinte che si possa essere belle, anzi, bellissime, rispettando l’equilibrio del pianeta.
Un desiderio, a conclusione di questo imponente impegno organizzativo?
Che finalmente lo capiscano anche i grandi marchi della moda, quelli che per mole di fatturato e numero di clienti possono davvero fare la differenza tra ciò che abbiamo intorno oggi, ed un mondo migliore




Intervista a Alessandro IELO, Managing partner di VERTUS

D: Vertus: ci parli della missione, degli obiettivi di questa “insolita” società di consulenza

E’ nata nel 2009 a Milano, con l’obiettivo di supportare i processi di reindustrializzazione e di rilancio industriale. Siamo un team di circa 10 unità, compresi i partner esterni e due collaboratrici che lavorano in remoto sulle attività di back office commerciale. Il sottoscritto proviene da esperienze industriali e manageriali anche in campo internazionale: sono convinto che il manifatturiero sia il grande cuore pulsante di questo paese e che non debba venire “disperso”. Abbiamo nel tempo consolidato partnership operative in Francia, Germania e Cina e VERTUS è oggi coinvolta su progetti in tutto il territorio nazionale. Fondamentalmente interveniamo quando un’azienda – o la sua filiale sul territorio nazionale – chiude i battenti.
D: Di preciso, quale è il vostro “core business”?
Ci occupiamo di “reindustrializzazione”. L’evoluzione dell’impresa passa attraverso processi di cambiamento che in questi ultimi anni sono divenuti sempre più rapidi e con i quali bisogna imparare a convivere, i nostri servizi mirano a trasformare in opportunità di sviluppo i processi di razionalizzazione o di crisi industriale. Gli investimenti, ma soprattutto i disinvestimenti, sono parte del cambiamento: il disinvestimento è divenuto sempre più frequente, ma non deve spaventare, deve esser visto come una parte normale della vita di un business, una delle risposte alla crescente dinamica del mondo degli affari. Non – solo – un incidente di percorso, ma una sempre più normale conseguenza del business. E’ da mettere in conto, insomma. Si tratta di come come gestire quella delicata e molto particolare fase della vita di un azienda, minimizzando le ricadute negative per gli azionisti, ma anche per i dipendenti e per il territorio.
D: Quindi seguite anche le fasi più “dolorose” nell’evoluzione del business dei vostri clienti…
Ci piace pensare di operare nell’ambito delle politiche di welfare attivo, e in tal senso proponiamo una soluzione alternativa ai normali processi di chiusura comunemente messi in atto: la reindustrializzazione. L’attività consiste nel trovare nuovi soggetti industriali che subentrano in un sito oggetto di un piano di ridimensionamento con un proprio piano industriale innovativo, rilevando lo stabilimento – in acquisto o in affitto – e riassumendo le maestranze, garantendo così la continuità del lavoro in settori d’attività che possono essere anche molto diversi rispetto ai pregressi. La reindustrializzazione non intralcia l’iter di chiusura, al contrario l’azienda può ottenere significativi risparmi sui costi di incentivazione all’esodo, meno conflittualità sociale ed un’immagine di azienda attenta alla sostenibilità d’impresa. Inoltre, collaboriamo come partner delle Istituzioni e delle Amministrazioni Pubbliche sul territorio per la riconversione e la riqualificazione di aree dismesse attraverso la creazione e gestione di incubatori d’impresa e di parchi industriali, logistici e tecnologici.
D: il vostro compito quindi è di rendere per certi versi “socialmente sostenibile” una fase di delocalizzaizone o deindustrializzazione aziendale?
Esatto. Di norma le dismissioni che vengono affrontate convenzionalmente prevedono un incarico ad un HR manager per la messa in mobilità del personale, con conseguenti possibili scioperi e relativi costi di e un incarico ad un’agenzia immobiliare per la vendita del fabbricato, con conseguenti lungaggini. Al contrario, l’alternativa della reindustrializzazione di uno stabilimento, con il salvataggio del posto di lavoro di molte famiglie, non può che essere accolto positivamente da Istituzioni e sindacati, e per quanto riguarda il Gruppo cedente, questo ne esce non solo con tutti gli “onori” del caso, per essersi fatto carico concretamente di un possibile problema, ma anche raggiungendo l’obiettivo di ridimensionare lo stabilimento col minimo dei costi.
D: Può farci qulalche numero, per rendere l’idea dei vantaggi di questo tipo di processo?
Per l’azienda cedente, c’è un ritorno di immagine positivo, e un risparmio sui costi complessivi di circa il 30%, oltre a tempi certi – e brevi – di conclusione dell’operazione. Per chi subentra, ci sono terreno e immobile già urbanizzati, impianti e attrezzature a condizioni molto vantaggiose, e tempi di avvio dell’operatività brevissimi. Per i dipendenti, mantenimento del posto di lavoro e formazione nella riqualificazione. Per i soggetti pubblici, mantenimento dell’occupazione sul territorio ed egualmente un ritorno di immagine positivo. Insomma, quando l’operazione riesce, tutti vincono.
D: Qualche dossier da voi gestito con successo?
Nel 2012 il Gruppo Kemet, seguendo un percorso di ristrutturazione su scala mondiale, ha accorpato tre stabilimenti italiani in un unico sito industriale. Tramite questo processo che prevedeva un esubero di oltre 100 lavoratori, Kemet ha optato per un percorso di reindustrializzazione, adottando il “modello Vertus” ed evitando così l’abituale iter di cassa integrazione e di mobilità, di trasferimento dei macchinari e di successiva vendita dello stabilimento. Vertus scegliendo l’azienda italiana Stampigroup che, grazie all’idea imprenditoriale del suo fondatore dr. Elvio Turchetto, ha prodotto opportunità di lavoro dove non c’erano e ha accorpato altre due aziende estere per formare un nuovo gruppo italiano di oltre 100 dipendenti, con base a Monghidoro. Nel 2013 il Gruppo Schneider Electric, sulla scorta di un processo di riorganizzazione su scala mondiale, ha avviato un oneroso piano di ridimensionamento delle proprie attività in Italia, in particolare ha deciso di cessare la produzione dello stabilimento di Rieti, da sempre fiore all’occhiello della produzione di interruttori di bassa tensione. Nello stabilimento lavoravano 180 unità. Oggi, dopo due anni di attività, quasi duemila aziende contattate, e molteplici progetti industriali visionati, una società italiana (Elexos), rileverà l’attività ed avvierà nuove produzioni salvaguardando una buona parte delle maestranze oggi rimaste in carico.
D: Operazioni in corso d’oggi, se può parlarne?
Oggi stiamo gestendo progetti con varie multinazionali e non – Merck, Carrier, Guala Closures, ILVA, Agrati etc – con oltre 700 dipendenti coinvolti e riteniamo di essere tra i maggiori esperti del settore.
D: Una professionalità assai specifica. Ma prevede sviluppi positivi anche “post-crisi”?
La nostra è un’attività che sicuramente ha avuto un buon sviluppo con i recenti anni di crisi, anche se, ritengo ci siano altri fattori da tenere in considerazione nel medio lungo periodo. Nonostante le nostre capacità nel manifatturiero, il sistema Italia si presenta ancora scarsamente attrattivo per gli investitori esteri. È di questi giorni un miglioramento nelle classifiche di “doing business” internazionali – in parte dovuto alle recenti introduzioni del Job Act – ma si tratta comunque di un posizionamento molto basso rispetto ai nostri vicini europei, e il gap da colmare è ancora ampio. I problemi sono i soliti di sempre: elevata tassazione, costo del lavoro elevato e poco flessibile (almeno per gli assunti pre-job act), sistema giudiziario inefficace, burocrazia, etc. Inoltre, c’è la necessità di razionalizzazione degli assetti produttivi – in particolare di consolidamento – che sono ancora largamente in atto: mi riferisco ai grandi gruppi internazionali, quindi mi aspetto nei prossimi anni ancora qualche tensione verso il ridimensionamento. Infine, le piccole e medie aziende italiane devono uscire da questa lunga crisi con assetti più forti, pertanto anche in questo caso immagino necessità crescenti di fusioni ed acquisizioni, con possibili ulteriori ricadute occupazionali. Concludo con un osservazione: il Job Act sposta inoltre il baricentro di spesa sulle politiche attive, in particolare sul ricollocamento, che ha molte affinità con l’attività di reindustrializzazione; oggi non ci sono leggi in tal senso in Italia, come invece in Francia, ma la direzione mi sembra quella giusta.




Brasile, la guerra tra Narcos si è spostata sui social

Nel paese sudamericano incalza il dibattito tra sicurezza e privacy, mentre le gang di Rio de Janeiro usano sempre più spesso WhatsApp e Facebook per la gestione del territorio nel traffico di droga


In attesa di capire se il Parlamento procederà con la richiesta di impeachment, con l’economia in caduta libera e il virus Zika che imperversa, la Presidente del Brasile Dilma Rousseff ha deciso indirettamente di complicarsi ulteriormente la vita mettendosi contro anche Mark Zuckerberg, uno degli uomini più ricchi e influenti al mondo. Nel giro di 24 ore, la polizia brasiliana, su mandato della magistratura ha arrestato e scarcerato il vice-presidente di Facebook America Latina, l’argentino Diego Jorge Dzodan, accusato di non voler fornire agli investigatori gli archivi di una chat su WhatsApp di un gruppo di narcotrafficanti  coinvolto in un traffico di stupefacenti tra vari Stati del Paese.
(Foto: stadio24.com)
I precedenti
Non è la prima volta che Mr. Facebook incappa nella giustizia brasiliana. Lo scorso 16 dicembre WhatsApp era stata bloccata per 11 ore in tutto il Brasile dopo che Facebook si era rifiutata più volte di fornire alla magistratura i dati di alcuni individui considerati coinvolti in un cartello criminale.
E pensare che 11 mesi fa Zuckerberg e la Rousseff durante il settimo summit delle Americhe a Panama avevano raggiunto un accordo per portare il progetto Internet.org anche in Brasile, incominciando da Heliopolis, una favela di São Paulo. Una decisione che nel Paese sudamericano si sta rivelando un boomerang.
Narcotrafficanti social
Quella che negli ultimi mesi era stata considerata come una vittoria dell’integrazione digitale, permettendo a migliaia di persone disagiate che vivono nelle favelas di potersi connettere gratuitamente ad alcuni servizi in Rete, si è trasformata nell’ennesima guerra a è, questa volta per il controllo dell’informazione via WhatsApp. Uno strumento di comunicazione sempre più usato dalle fazioni opposte di narcotrafficanti che si contendono il territorio per il commercio della droga. Ne sono dimostrazione le recenti inchieste giudiziarie che hanno creato tensioni tra la magistratura brasiliana e l’azienda di Palo Alto.
Narcotrafficanti armati in una strada di una favelas di Rio de Janeiro (Foto: Eduardo Pininga)
Si minacciano a vicenda con messaggi audio, fanno trattative creando dei gruppi, si scambiano foto per ostentare il proprio potere. Fucili, pistole, collane d’oro, messaggi in codice. Negli ultimi mesi, per ridurre gli arresti tra le opposte fazioni, un gruppo della gang è incaricato di fermare la popolazione per strada e controllare le loro chat per verificare se si nasconde qualche “informatore”. Se beccato, viene torturato e ucciso.
Tuttavia l’eccessivo utilizzo dei social media da parte dei gruppi criminali ha aiutato le forze dell’ordine a localizzarli. Così è andata per Celso Pimenta, detto Playboy, leader degli Amigos dos Amigos, e uno dei più ricercati narcotrafficanti di Rio de Janeiro, ucciso durante uno scontro a fuoco con il Bope, dopo che i militari avevano intercettato una sua conversazione con una gang rivale in cui chiedeva una tregua armata.
Le forze speciali del Bope occupano la favela di Mare (Foto: BrasilPost.com.br)
Le sparatorie live sulle bacheche di Facebook
Se WhatsApp è diventata la nuova forma di comunicazione del narcotraffico a Rio, Facebook si è trasformato in un mezzo usato dalle inermi comunità locali che vivono all’interno delle favelas e vittime degli scontri a fuoco tra polizia e trafficanti. Negli ultimi mesi sono state create numerose pagine per comunicare in tempo reale le zone dove stanno avvenendo sparatorie. “Scontro a fuoco nella zona di Timbau, attenzione ad uscire di casa” recita un post sulla bacheca di Maré Vive, una pagina con 26mila Like creata da alcuni abitanti della favelas di Maré, una delle comunità con alta concentrazione di narcotrafficanti a Rio de Janeiro.
In attesa che il Brasile trovi “il giusto equilibrio tra sicurezza e privacy”, come ha commentato l’avvocato Ronaldo Lemos, direttore dell’Instituto de Tecnologia e Sociedade di Rio alla Bbc, nelle favelas della capitale fluminense, prossima ad ospitare le Olimpiadi si è aperto un altro fronte: il controllo dell’informazione via WhatsApp.