Csr: perche' investire nella sostenibilita' conviene

Le imprese devono investire in CSR? La risposta a tale domanda divide manager e imprenditori: chi ritiene possa essere un’importante leva di vantaggio competitivo per l’azienda e chi, in periodo di crisi, la considera un costo superfluo.
I dati riportati nel V Rapporto Nazionale SWG per l’Osservatorio Socialis su “L’ impegno sociale delle Aziende in Italia” parlano chiaro: in Italia dal 2009 al 2011, e con tendenza confermata per il 2012, èdiminuito dal 69% al 64% il numero aziende che hanno investito in CSR. E’ aumentata però l’entità degli investimenti: si è passati, infatti, da 165.000 euro mediamente investiti nel 2009, a 210.000 euro nel 2011.

Per il 2012 è stato avvalorato il trend in aumento: si sono previsti investimenti pari a 224.000 euro, anche se a oggi i dati sono ancora da confermare. In Italia ad interessarsi di CSR sono soprattutto aziende con un fatturato maggiore di 100 mln euro, promuovendo iniziative di sostegno alla comunità locale ed azioni legate al wellbeing dei dipendenti.
Che dire delle PMI? Secondo quanto riportato nello studio effettuato dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e da Unioncamere Veneto nel 2012 su “Prassi imprenditoriali e responsabilità sociale d’impresa nei Distretti del Veneto”, anche queste si interessano di CSR, soprattutto per cultura imprenditoriale, implementando azioni rivolte alla sostenibilità ambientale, alla salute e sicurezza dei lavoratori e alla solidarietà sociale.
A livello internazionale, il report “The sustainable future – Promoting growth through sustainability” redatto dall’Economist Intelligence Unit del 2011, rivela come nel medio termine i principali investimenti in CSR delle grandi multinazionali saranno mirati prevalentemente ad interventi di ottimizzazione dell’efficienza energetica, ad azioni di miglioramento della salute e della sicurezza dei lavoratori e allo sviluppo di prodotti ecocompatibili.
Che si tratti di un’azienda piccola o grande, è chiaro come il focus sia sulla sostenibilità ambientale, probabilmente perché le normative in materia sono sempre più stringenti, e sul benessere dei dipendenti, per il suo legame ormai conclamato con la produttività aziendale. CSR non è più solo filantropia, quindi.
C’è pieno accordo, inoltre, nel ritenere che ciò che spinge le imprese a investire in CSR sia principalmente il ritorno d’immagine, anche se molto sentita è l’esigenza di ridurre i rischi operativi e di assicurare dei risultati economici nel lungo termine. Tuttavia, è proprio la prospettiva di lungo periodo a preoccupare di più gli imprenditori: per il 37% delle aziende intervistate dall’Osservatorio Socialis, ciò che rappresenta il principale ostacolo all’implementazione di pratiche di CSR è la mancanza di ritorni economici immediati degli investimenti. L’assenza di incentivi premianti, come sgravi fiscali o bonus nella partecipazione a bandi di concorso, così come la poco diffusa cultura manageriale in merito, rappresentano un ostacolo per il 25% dell’aziende.
Se da un lato lo scetticismo, la scarsa cultura manageriale, l’assenza di ritorni economici immediati, frenano la grande diffusione di pratiche CSR, dall’altro è l’Harvard Business School a lanciare l’allarme: le imprese che investono in CSR sono caratterizzate da migliori performance economiche, finanziare e non finanziare nel lungo periodo. L’indagine “The Impact of a Corporate Culture of Sustainability on Corporate Behaviour and Performance” del 2012, nella quale vengono analizzati i risultati di 180 aziende in 18 anni di osservazione, evidenzia infatti che:
• La redditività delle aziende “sostenibili” supera del 4,8% quello delle concorrenti “non sostenibili”
• Ogni dollaro investito in azioni “sostenibili” nel 1993, alla fine del 2010 vale 22,6 $
• Ogni dollaro investito in azioni “non sostenibili” nel 1993, alla fine del 2010 vale 14,3 $
• Le azioni delle compagnie responsabili hanno avuto una minore volatilità nel tempo.
Non solo: le imprese che investono in CSR hanno dimostrato di avere consumatori più fedeli, relazioni migliori con gli investitori e dipendenti più qualificati. Ancora qualche dubbio sulla necessità o meno di investire in CSR?


800 mln all'anno alla Csr: il valore della responsabilita'

Le 93 imprese che aderiscono a Fondazione Sodalitas sono realtà che danno lavoro a più di 800.000 persone, creano valore economico per oltre 500 miliardi di euro (pari al 30% del PIL), dedicano ogni anno 800 milioni di euro ad iniziative a favore dell’Ambiente, della Comunità, del Lavoro, del Mercato.
È questo uno dei dati che emerge dal Rapporto Sociale 2012 dal titolo “Il valore della responsabilità”. Il numero di imprese aderenti è cresciuto in modo particolarmente significativo nel quinquennio 2008-2012, passando da 56 a 93, a conferma del ruolo che la Fondazione ha saputo consolidare agli occhi delle aziende più orientate verso la CSR. Il 2012, in particolare, ha registrato 14 nuove adesioni e 2 recessi.

“Anche nel 2012 Fondazione Sodalitas ha cercato di essere un punto di riferimento per le imprese che avvertono una responsabilità verso la comunità, il territorio e i bisogni delle persone – commenta Diana Bracco, Presidente di Fondazione Sodalitas, nel messaggio di apertura del bilancio – Ben 14 nuove imprese si sono unite alla nostra Fondazione nel 2012, a conferma che, pur in un momento difficile per il Paese, le aziende più lungimiranti confermano l’impegno di lungo periodo orientato alla Sostenibilità e alla Responsabilità sociale”.
Nell’anno appena trascorso la Fondazione ha sviluppato la relazione con le proprie imprese aderenti in particolare attraverso: il coinvolgimento nei Laboratori per la Sostenibilità, la partecipazione a programmi multistakeholder che portano la Sostenibilità nel territorio, lo sviluppo di partnership efficaci con la comunità, la partecipazione a Giovani&Impresa, il programma di Fondazione Sodalitas che accompagna i giovani nel delicato passaggio dalla scuola al mondo del lavoro, l’attuazione in Italia dei programmi internazionali, il coinvolgimento diretto dei top manager, l’informazione costante sulle novità dall’Europa, sulle ricerche, best practice e trend internazionali in materia di CSR.
Grazie alle imprese oggi aderenti e ai manager volontari che vi operano, è stato possibile sviluppare una molteplicità di iniziative legate dall’obiettivo comune di rendere la comunità più coesa e costruire un futuro più sostenibile: la Fondazione ha accompagnato 5.200 studenti verso l’ingresso nel mondo del lavoro, ha promosso lo sviluppo organizzativo 358 organizzazioni Nonprofit, ha curato la realizzazione di iniziative di volontariato d’impresa e partnership tra Impresa e Nonprofit, ha seguito percorsi di confronto e sperimentazione multistakeholder su temi di frontiera (Age Management, Work Health Promotion) e ha favorito – attraverso il Career Forum Diversitalavoro – l’inserimento lavorativo di 31 persone con disabilità e di origine straniera.
L’impegno di Sodalitas è stato riconosciuto autorevolmente anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che il 15 maggio 2012 ha ricevuto in udienza privata al Palazzo del Quirinale la Presidente della Fondazione Diana Bracco e 30 top manager in rappresentanza delle imprese che aderiscono a Fondazione Sodalitas. La Commissione Europea, con cui Fondazione Sodalitas collabora per attuare in Italia l’Agenda Europea sulla CSR, l’ha scelto, infine, come partner italiano dello European CSR Award, promosso in 30 Paesi con la partecipazione di 750 aziende.
Il documento è consultabile e scaricabile all’indirizzo www.sodalitasreport.it


“Made in Italy: eccellenze in digitale”. Google valorizza le produzioni DOP e IGP

Anche Google investe sui prodotti italiani Dop e Igp, che rappresentano l’eccellenza della tradizione agroalimentare italiana ed esprimono un legame del tutto particolare con i territori d’origine.
Un caso in cui il concetto di tradizione non è necessariamente posto in antitesi con quello di innovazione. Anzi, il progetto realizzato da Google dimostra come sia possibile far sposare tradizione e contemporaneità, con l’obiettivo di valorizzare le produzioni agroalimentari di qualità certificata.
“La scommessa per il futuro del Made in Italy – affermaCarlo D’Asaro Biondo, Presidente Sud e Est Europa, Medio Oriente e Africa di Google – è quella di aprirsi ulteriormente ai mercati internazionali per diventare così un volano di crescita economica ancora più rilevante per il Paese. Google crede che il digitale possa giocare un ruolo importante  in questo processo e ha deciso di fornire un contributo concreto per diffondere l’eccellenza italiana nel mondo, a partire dall’artigianato e dall’agroalimentare. “Made in Italy: eccellenze in digitale” è un’iniziativa pensata e realizzata appositamente per l’Italia, che ci auguriamo possa contribuire ad aumentare la capacità delle imprese italiane di fare export e promuovere ulteriormente la cultura del Made in Italy nel mondo”
La galleria digitale-virtuale accuratamente creata consente un’ampia ed efficace diffusione dell’immagine complessiva delle Dop e Igp italiane, e conferma quanto il concetto di globalizzazione possa assumere un’accezione del tutto positiva, se inteso in modo corretto e se legato alla possibilità di divulgazione del valore profondo espresso dai prodotti agroalimentari legati ai territori. Anche in questo caso, dunque, “globalizzazione” e “localizzazione” assumono significati del tutto conciliabili, seppur apparentemente distanti.
Non dobbiamo confondere – dichiara Giuseppe Liberatore, Presidente di Aicig – tradizione con prodotto di nicchia. Le produzioni Dop e Igp costituiscono realtà di assoluta rilevanza socio-economica e trainano l’intero settore agroalimentare nazionale, soprattutto all’estero. L’investimento compiuto da Google dimostra il ruolo svolto dalle produzioni e dai Consorzi di tutela che le rappresentano. Spetta poi ai Consorzi e a tutte le Istituzioni porre in essere le corrette azioni per proteggere le nostre denominazioni dagli atti di concorrenza sleale e dalle contraffazioni in giro per il mondo”. “E proprio al Mipaaf ed al Governo ci rivolgiamo – conclude Liberatore – per sensibilizzarli in merito ai problemi legati alla tutela. Sono necessari investimenti perché prima di promuovere i prodotti Dop e Igp sui mercati esteri è indispensabile contrastare gli atti di concorrenza sleale e le contraffazioni.


Csr: 7 motivi per cui avere piu' donne nei Cda fa bene alla sostenibilita'

La sostenibilità è donna. La conferma arriva da una ricerca condotta da una giovane studentessa, Kellie McElhaney, della facoltà di Corporate Sustainability presso l’University of California, Berkeley, che, insieme alla collega Sanaz Mobasserir, ha indagato sui vantaggi di una maggiore presenza del gentil sesso tra i vertici aziendali.
Purtroppo le donne sono ancora in netta minoranza nei consigli aziendali. Mentre rappresentano oltre il 50 per cento dei laureati e dominano l’economia degli Usa con 8.000 miliardi dollari di potere d’acquisto annuale, rappresentano meno del 15 per cento dei vertici aziendali delle 500 aziende dello S&P. E il 3% delle 500 aziende Fortune non ha nemmeno una donna nel loro consiglio di amministrazione.

Eppure, come spiega il lavoro delle ricercatrici, si guadagnerebbe molto se i CdA fossero più rosa. Per arrivare a questa conclusione hanno studiato la performance aziendale di oltre 1.500 aziende in tre categorie principali: ambiente, sociale e governance.
I loro risultati hanno rivelato che avere le donne nei board di amministrazione di una società aiuta le aziende a servire gli interessi dei loro azionisti anche attraverso una maggiore sostenbilità ambientale, sociale e di governance. Le aziende con più donne nei loro consiglio di amministrazione, infatti, hanno 7 buoni vantaggi:
1) Investire nella produzione di energia rinnovabile e prendere attivamente misure per migliorare l’efficienza energetica operativa
2) Avere il cambiamento climatico integrato nei loro modelli attuariali e nei prodotti che aiutano i clienti a gestire i rischi del cambiamento climatico
3) Misurare e ridurre le emissioni di carbonio dei loro prodotti
4) Avere programmi che consentono ai fornitori di ridurre la loro impronta di carbonio della catena di approvvigionamento
5) Ridurre l’impatto ambientale del loro confezionamento
6) Affrontare i rischi ambientali nelle loro decisioni finanziarie
7) Non impattare sulla biodiversità
http://www.youtube.com/watch?v=W-sCezu9OkE


CSR: Nestle' Waters sta davvero creando valore condiviso?

Non più soltanto CSR, ma CSV. Le aziende danno lustro alla propria immagine non soltanto impegnandosi a fare del bene, ma cercando di promuovere uno sviluppo concreto sia dal punto di vista sociale che economico con particolare riferimento alle aree del mondo considerate in maggiore difficoltà, Si parla così della creazione di valore condiviso, o CSV (Creating Social Value).
Nestlé Waters ha realmente deciso di impegnarsi in tal senso? Se lo è domandato Aman Singh, esperta di CSR, che ha deciso di interrogare in proposito Heidi Paul, vicepresidente esecutivo di Nestlé Waters America Corporate Affairs. Nestlé Waters North America (NWNA) ha di recente annunciato i propri impegni relativi alla riduzione del proprio impatto ambientale.

In particolare, la multinazionale dell’acqua in bottiglia si è posta l’obiettivo di un futuro”Zero-Waste”, dunque di una riduzione totale degli sprechi e dei rifiuti, oltre che di proseguire nella massima efficienza per quanto riguarda l’impiego dell’acqua nel settore delle industrie delle bevande.
Heidi Paul ha definito la creazione di valore condiviso come una strategia aziendale che può sostituire la semplice CSR e che può permettere di raggiungere la sostenibilità su 3 fronti in contemporanea, cioè dal punto di vista ambientale, finanziario e economico. L’impegno è indirizzato alle aree in cui Nestlé può creare un impatto maggiore.
A parere di Heidi Paul, la strategia CSV ha garantito risultati positivi per l’azienda, a partire dal coinvolgimento e dal supporto di dipendenti, aziende partner e filiera produttiva. Il concetto di valore condiviso sembra però stridere con l’operato di Nestlé che, imbottigliando l’acqua potabile, un bene comune legato ad un diritto che dovrebbe essere inalienabile, produce un risultato altamente insostenibile: l’accumulo di bottiglie di plastica nelle discariche e la sottrazione di risorse idriche dai Paesi in via di sviluppo.
Heidi Paul sottolinea dunque che la risposta alla questione risiede nelle abitudini dei consumatori statunitensi. Gli americani bevono abitualmente bibite confezionate. Nel caso in cui non avessero accesso all’acqua in bottiglia, acquisterebbero comunque una bevanda confezionata alternativa, gassata e zuccherata, dall’impatto ambientale, a suo parere, ancora più elevato.
Ecco dunque il valore condiviso che Nestlé Waters attribuisce a se stessa per quanto riguarda gli Stati Uniti: promuovere il consumo di acqua in alternativa alle bibite gassate e zuccherate, inteso come un’abitudine più salutare. Non bisogna dimenticare però che la stessa Nestlé, (attraverso i marchi che fanno capo all’azienda, come San Pellegrino) oltre che della produzione di acqua in bottiglia, si occupa dell’immissione sul mercato proprio delle bibite gassate di cui al punto precedente.
E’ dunque impossibile non notare una contraddizione. Resta in discussione il fatto che Nestlé Waters North America possa essere considerata un modello di business sostenibile, nonostante l’impegno dichiarato per la creazione di valore condiviso. Affermare che, se non avessero a disposizione dell’acqua a marchio Nestlé, i consumatori sceglierebbero comunque acqua o bibite in bottiglia provenienti da altre aziende, non è sufficiente a giustificare il proprio operato. Promuovere il semplice consumo di acqua in sostituzione delle bibite gassate risulta, infine, una motivazione piuttosto debole rispetto alla creazione di un valore condiviso realmente efficace ed in grado di rendere l’azienda realmente sostenibile, soprattutto dal punto di vista sociale e ambientale.


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