Fake news e "post verità": la mia intervista su SBS radio

Ascolta l’audio dell’intervista:
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Siamo dentro una bolla. Noi italiani più di altri. A leggere con attenzione i dati del rapporto “Internet in Italia – I Trend del 2017” pubblicato da comScore ci scopriamo provinciali ed egotici. Anche o forse soprattutto nell’uso dei cellulari.
Ma andiamo con ordine. Lo studio ci dice cose che in parte sappiamo bene. Cresce la popolazione online in Italia, ma soprattutto aumentano gli italiani che possono definirsi “mobile only”, ovvero che si connettono in rete solo da dispositivi mobili come smartphone e tablet. Ci dice che due minuti su tre online li passiamo su device mobili.
Quello che non sapevamo è che il traffico via smartphone e tablet è concentrato su determinate tipologie di contenuti, messaggi e social network in testa, e su poche applicazioni: 6 minuti ogni 10 vengono trascorsi su Facebook o WhatsApp. A differenza di quanto accade negli Usa o nel Regno Unito dove da smartphone si accede principalmente a contenuti di intrattenimento, per noi lo smartphone è il punto d’accesso per le piattaforme social. Il livello di concentrazione sia del traffico che delle Audience in ambiente app è ancora più forte: circa il 60% del tempo totale viene infatti trascorso sulle due app più utilizzate (WhatsApp e Facebook) mentre in termini di penetrazione sugli utilizzatori di smartphone tutte le prime 10 App appartengono a Google o Facebook.
Non parliamo di strumenti di intrattenimento neutri. Facebook, Whatsapp, Youtube sono anche piattaforme editoriali. Come suggerisce il clamore legato alla caccia alle bufale sul web, all’interno di questi “mondi” tanto cari agli italiani vengono offerti contenuti con una gerarchia in parte determinata da algoritmi proprietari. Come dire, i contenuti sono presi dalla rete ma l’ordine con cui ci vengono proposti non è interamente deciso da noi. Il rischio è quello dei rimanere intrappolati in una bolla. Parliamo sempre con i nostri amici, prevalentemente di alcuni argomenti e con una certa sensibilità. L’effetto echo chamber è legato alle nostre scelte e all’algoritmo che ci “aiuta” a selezionare e mettere in primo piano solo le informazioni giudicate più interessanti per noi. Il tutto accompagnato da offerte pubblicitarie in linea con le nostre abitudini digitali. Nulla di malvagio, in teoria. Si perde però quella funzione di scoperta che in una fase iniziale è stata attribuita al web. Non scopriamo nulla di nuovo perché restiamo nel nostro. Almeno in Italia. Anzi, soprattutto in Italia. A dicembre nella top 15 troviamo al primo posto Whatsapp con una penetrazione del 93%, segue Google Play al 90 (l’indagine è limitata agli smartphone con Android) poi segue Google search, Youtube, Facebook ecc. Per uscire dai mondi di Google Facebook e Amazon occorre attendere la quattordicesima posizione dove troviamo My Vodafone Italia. Come dire, almeno in Italia siamo sempre là dentro, da quelle parti.
E poi c’è il trend del video. A dicembre 2016 sono stati 28 milioni gli Italiani che hanno visto un video online attraverso il desktop e 18 quelli che hanno dichiarato di farlo con uno smartphone. La crescita delle visualizzazioni da smartphone in Italia (+15% nel 2016) è seconda solo a quella registrata in Germania (+19%). Oggi oltre la metà (55,5%) dei possessori di smartphone italiani dichiara di aver visto un video utilizzando il proprio device, e lo fa con sempre maggiore frequenza: crescono del 34% (da 3,3 a 4,4 milioni) gli utenti che guardano video quasi ogni giorno. Si guarda tanto Youtube sui “piccoli” schermi degli smartphone. E non solo. I più giovani passano metà del loro tempo su desktop a vedere video.

Il progetto di presenza del Comune di Milano sui Social Media è nato nel 2012: per conto dell’agenzia di comunicazione digitale Hagakure (oggi Doing), ne sono stata la responsabile fino al dicembre del 2016.
Dall’analisi preliminare alla stesura della strategia e delle policy, dal piano di formazioni all’interno dell’ente all’attività redazionale quotidiana, questa esperienza è stata in assoluto la più interessante e formativa della mia vita professionale: perché mai come prima ho dovuto lasciare da parte abitudini, convinzioni e (molti) pregiudizi per fare spazio in fretta a una mole spaventosa di informazioni, eventi, condotte e processi. Ho condiviso questi anni con alcuni compagni straordinari: Alessio Baù, innanzitutto, responsabile fin dal principio della creazione di contenuti; le altre persone che negli anni hanno fatto parte del team e i referenti d’agenzia, Chiara Bassani e Marco Massarotto; l’ufficio stampa del Comune; il Gabinetto del Sindaco, tutti gli Assessori e gli “articoli 90” che hanno lavorato insieme a loro, veri attori della creazione di un modello nuovo di amministrazione.
È stato un percorso complesso e felice, e in un ecosistema che molto spesso parla di trasformazione digitale senza provare a praticarla in un contesto reale, è stata una fortuna averlo vissuto: perché ho avuto lo spazio e il tempo per scoprire, da dentro, la città in cui sono nata e cresciuta, e il privilegio di aprire una strada per cambiarne un pezzettino.
Non tutto è riuscito, e di certo si poteva fare di più, o meglio: ma negli anni abbiamo capito alcune cose, e con Alessio, conclusa l’esperienza, abbiamo pensato che potesse essere utile iniziare a condividerle anche al di là degli appuntamenti accademici o di settore in cui ci chiedono di raccontarle. Qui trovate le sue riflessioni; di seguito, invece, alcune delle lezioni che ho imparato io. Il fatto che siano sette, lo giuro, è un puro caso
A informare i cittadini, naturalmente, illustrando servizi e azioni amministrative. Ma a farlo senza mediazioni: su presidi propri, all’interno delle piattaforme che il pubblico già popola, preferendole ormai da anni ad altri mezzi (per chiarezza: non alla televisione, che peraltro culturalmente condiziona le modalità di produzione e fruizione delle informazioni anche online; ma di certo ai giornali); con scelte editoriali, di formati e frequenza di pubblicazione indipendenti da terzi; con l’obiettivo non di “fare notizia”, ma di far sì che la notizia sia chiara e accessibile a tutti, e si possa ricondurre a una visione coerente della città; attraverso un piano editoriale quotidiano, e, alla stessa stregua, con ciascuna delle risposte fornite alle domande, ai dubbi e alle critiche degli interlocutori. A recepire queste ultime: replicando con altre spiegazioni e approfondimenti, quando possibile e necessario, e a beneficio non solo del cittadino che le esprime, ma di chiunque legga, perché i Social Media sono a tutti gli effetti un ufficio reclami, ma condiviso; e usarle come feedback da veicolare all’interno, come polso dell’impatto delle singole azioni come delle politiche di intervento nel loro complesso. A intercettare, in questa attività, i focolai di crisi. A risolvere problemi, infine, interpretando le esigenze, mediando con gli uffici, fornendo risposte e suggerimenti – negli ovvi limiti del diritto amministrativo.
(Nota per chi farà questo lavoro: è l’ultimo, probabilmente, l’aspetto migliore. Non lo vedranno in molti: i problemi più seri di solito si materializzano in forma di messaggio privato. Aiutare uno sconosciuto a risolverli, o a capire come farlo, è la cosa che darà maggiore senso alle tue giornate.)
Quando si dialoga per conto di una Pubblica Amministrazione, non sono consentiti errori. (Sì, si fanno lo stesso. Per colpa propria, o di qualcun altro, non ha importanza: l’Amministrazione viene percepita – giustamente – come una. Allora si chiede scusa. Si corregge. Si impara.) È necessario essere accurati, perfino ossessivi: capire la ratio e i dettagli di tutto quello che si comunica, approfondirli per prevenire le domande, approfondirli di nuovo per rispondere a posteriori a tutte quelle cui non si era pensato prima, conoscere origine e senso delle scelte (tradotto: elementi di storia e cronaca della città; principi di diritto, funzionamento e competenze all’interno dell’ordinamento giuridico; dinamiche della politica), e infine spiegarli, rendendoli chiari per tutti (è bandito il linguaggio burocratico; sono benvenuti i supporti multimediali, come infografiche, render, video), senza banalizzarli.
(Nota per chi farà questo lavoro: non farti guidare dal feticcio del real time, anche in una logica di Social Media. La certezza delle informazioni e la qualità dell’esposizione vengono prima della velocità. Se inverti i fattori, ne farai le spese.)
Definire ancora nuovi i Social Media, quando si parla di comunicazione, è ridicolo. Ma 4 anni fa lo erano, e continuano ad esserlo oggi, per organizzazioni complesse che di rado li hanno usati – come le PA. La macchina amministrativa, sollecitata da richieste provenienti dall’ennesimo punto di contatto con i cittadini – un punto di contatto che esige reazioni rapide, e che ancora viene percepito come luogo (se va bene) di svago -, nella nostra esperienza al principio è stata refrattaria. La prima fase dell’apertura di nuovi canali di comunicazione bidirezionale deve quindi contemplare della formazione interna, che spieghi, prima di poterla dimostrare nei fatti, la loro utilità; deve prevedere inoltre un lavoro a stretto contatto con chi produce le notizie. È un processo lento, inizialmente, e bisogna dimostrare una professionalità che in altri ambienti è data per scontata; quando accelera, però, lascia la gradevole impressione di aver contribuito a creare una piattaforma di comunicazione più variegata, efficace e capillare. E di avere, allo stesso tempo, seminato un po’ di cultura digitale.
(Nota per chi farà questo lavoro: non dire che anche tu, una volta nella vita, non hai pensato male dei dipendenti pubblici. Abituati a ricrederti: la PA è piena di persone che svolgono il proprio lavoro come una vocazione, malgrado le etichette. E sì, è sicuramente piena anche di persone che fanno l’esatto contrario. Come qualunque altro posto in cui tu abbia lavorato in vita tua.)
Siamo un paese di una sessantina scarsa di milioni di commissari tecnici della Nazionale di calcio. Ma anche di esperti di viabilità, di ingegneri costruttori di metropolitane, di ideatori di piste ciclabili, di economisti e giuristi. Qualunque cosa si comunichi per conto di una PA – che si tratti di qualcosa di irrilevante, sacrosanto, rivoluzionario – non piacerà a qualcuno, e quel qualcuno, per quanto a digiuno di qualunque preparazione sul tema, terrà una conferenza – in pubblico – sui motivi per cui è sbagliata, pensata da soggetti incompetenti o lontani dai problemi che sono immancabilmente ben altri, realizzata in malafede o per interessi variamente distanziati dal concetto di bene comune. Un provvedimento concepito per i giovani susciterà gli sfoghi degli anziani; un provvedimento concepito per gli anziani susciterà gli sfoghi dei giovani. Ogni intervento per l’accoglienza o l’integrazione di profughi e stranieri sarà salutato dal canonico “prima gli italiani”; ogni intervento mirato ai soli residenti, da cori contro l’evidente egoismo delle intenzioni. La colpa di chi parcheggia in doppia fila, non paga le tasse, non differenzia la spazzatura o lascia il cane libero di esprimere ovunque le sue esigenze corporali non sarà mai di chi parcheggia in doppia fila, non paga le tasse, non differenzia la spazzatura o lascia il cane libero di esprimere ovunque le sue esigenze corporali: sarà dell’insufficienza dei controlli e delle sanzioni. Fino a che il più accanito sostenitore dei controlli e delle sanzioni rivolte agli altri – ognuno di noi, in effetti – non sarà destinatario di un controllo o di una sanzione: allora il termine colpa assumerà per magia i contorni dell’eccesso di zelo, della scarsa comprensione delle esigenze, dell’arroganza del potere. “Ci voleva un genio per capire che?” “Esigo di sapere chi è il fenomeno che.” “A Tokyo l’avrebbero fatto in un quarto del tempo per un decimo dei soldi.” “Tanto paghiamo noi.” (Ad libitum, sfumando.) È normale: siamo fatti così. Per moderare l’account di una PA ci vuole pazienza. Molta. Ci si dota di regole – una Policy – di moderazione: è cruciale, ma non basta. Nella Policy ci saranno scritte cose abbastanza ovvie: non dire le parolacce, per favore, non insultare gli altri (e, se ci riesci, nemmeno quelli che ti devono rispondere), non scrivere cose razziste e sessiste, non offendere le religioni altrui, e via snocciolando principi di buon senso e buona educazione. Applicarla, però, sarà facile solo di rado: la responsabilità di togliere la parola a qualcuno, se si lavora per un ente pubblico, è pesante, e al netto di chi si esprime con affermazioni facili da inquadrare, come (cito, purtroppo) “Patrocinio al Gay Pride? ci vorrebbe un’altra Orlando” o “Gli zingari come gli ebrei, tutti ai forni”, spesso è difficile tracciare un confine fra una legittima e magari feroce contestazione e un insulto che deve essere rimosso – anche considerando che un insulto si può costruire in molti modi, e che scrivere (pardon) “l’Assessore XY ha rotto i coglioni” non sarà mai grave quanto insinuare, anche nella più forbito dei linguaggi, che l’Assessore ha preso una tangente.Moderare una conversazione implica l’esercizio di una sensibilità specifica, insomma; e la certezza che a qualunque intervento in questo senso (anche quando effettuato espressamente a tutela di chi, senza forse nemmeno rendersene conto, si mette nella posizione di essere querelato) corrisponderà un’accusa di censura.
(Nota per chi farà questo lavoro: non hai idea di quanto non la vorrai, questa responsabilità. Ma stai comunicando per una PA, e te la devi prendere. Insieme a tutti gli insulti.)
La sensibilità richiesta al moderatore va oltre la scelta di cosa resta o non resta in un thread. I troll sono tanti, ma non sono tutti. Chi fa questo lavoro deve capirel’interlocutore: l’entità del suo problema, la legittimità della sua rabbia, della sua frustrazione, del suo semplice disaccordo. Il modo più facile per farlo è mettersi nei suoi panni – cioè una delle cose più difficili da praticare nella vita. “Se fossi un disabile e vivessi in una casa popolare con l’ascensore rotto”, “se avessi un genitore anziano non autosufficiente”, “se non riuscissi a provare che il vigile aveva torto e io ragione”, “se per motivi di lavoro non potessi farla, quella fila in Anagrafe”, “se mi mandassero da uno sportello all’altro”, non mi arrabbierei anch’io? Usare la propria esperienza di vita, e completarla con l’umiltà di comprendere senza giudicare, è cruciale (va sottolineato, che la chiave sta nel senza giudicare? Forse sì, se si parla di esperienza di vita: perché qualunque paragone potrebbe essere fuorviante. Un esempio personale: sono nata in un quartiere periferico di Milano, quattro mesi prima della bomba nera di piazza Fontana; ho trascorso l’infanzia e la prima adolescenza in un’epoca in cui a Milano si sparava per strada. Quando qualcuno, oggi, si lamenta della poca sicurezza, qualcosa dentro di me grida. Non ci posso fare niente, ma è sbagliato, e lo so. “Mettersi nei panni” è un esercizio di empatia, non una razionalizzazione: se qualcuno oggi subisce un’aggressione, degli anni Settanta e della diminuzione dei reati certificata dalla Questura non gliene può – a ragione – importare di meno. E anche quando questo non avviene nei fatti, la paura è paura. E va rispettata, o non si spegnerà mai). Disinnescare l’emotività, inoltre, è utile (a volte basta pronunciare le parole che vorremmo sentirci dire noi: “hai ragione.” “Ci dispiace.” “Come possiamo aiutarti.”); contribuire a risolvere il problema, infine, appagante.
(Nota per chi farà questo lavoro: nessuno ti ha mai detto che sarebbe stato semplice. Ma poi, in fondo, sì.)
Facciamo finta che qui ci sia un elenco dell’infinita teoria di siti spazzatura che su internet spacciano notizie false per attirare clic. Facciamo finta che qui ci sia anche un elenco di testate che convinte che i titoli a sensazione rallentino la caduta libera di tirature e venduto. Facciamo infine finta che qui ci sia un elenco di politici sempre pronti a citare o nutrire una delle due categorie precedenti. (Facciamo finta perché sto scrivendo cosa ho imparato, mica sono in cerca di querele.) L’attività quotidiana di chi gestisce la comunicazione di una PA comprende un continuo fact-checking delle affermazioni altrui. “Non è vero” non è mai una risposta sufficiente: bisogna spiegare i motivi per cui non lo è, e dare dei riferimenti per provarlo: altrimenti si finisce dalle parti della propaganda. È utile costruirsi una mappa delle fonti affidabili: gli enti di riferimento, le leggi, la giurisprudenza. Ed è importante informarsi a propria volta il più possibile; essere veloci e puntuali nelle ricerche; saperle sintetizzare; capire quando un articolo o un post possono scatenare una crisi, e prevenirla.
(Nota per chi farà questo lavoro: sai quando sopra ho scritto “assimilare in fretta una gran quantità di informazioni”? Non era un modo di dire.)
Le crisi si risolvono quando si risolvono le crisi. È un principio di base del crisis management: una comunicazione corretta aiuta a governarle, a volte anche ad anticiparle, ma sono i fatti (gli interventi, i provvedimenti) a farle superare. Chi lavora per una PA vive in una sorta di allarme costante, perché tutto quello che succede – che si tratti di eventi programmati, come i disagi da grandi opere o eventi, o meno prevedibili, come le calamità naturali, gli episodi di cronaca nera, perfino le bufale – può scatenare una crisi, più o meno profonda, più o meno critica. L’onda della crisi – l’allerta, l’esplosione, la gestione, la chiusura – si affronta in due modi. Il primo è stabilire dei processi: definire, in altre parole, a quali eventi devono corrispondere dei messaggi al pubblico, e quali, in un equilibrio delicato fra trasparenza e rassicurazione. La velocità e la correttezza della reazione comunicativa, soprattutto in caso di fatti gravi, sono indispensabili per sostenere l’azione di chi deve agire su cause e soluzioni; le regole aiutano a spiegare con tempismo quel che accade e ad assistere in maniera corretta chi è coinvolto – mantenendo il sangue freddo. Il secondo è una consapevolezza: tutto passa. Passano i troll, quando la crisi è un’operazione politica, un falso ricordo, una bufala: pazienza, rispetto e puntualità di risposta, col tempo, li scoraggiano. E passano – lasciando più cicatrici – anche le vicende più serie, inglobate dal tessuto della città, o del paese, che non può che rialzarsi e andare avanti. La responsabilità di chi comunica – e prima ancora di chi detta le regole per la comunicazione – in questo caso è duplice: perché la crisi si affronti, e passi; e perché, quando è passata, non si dimentichi.
(Nota per chi farà questo lavoro: affrontare qualunque crisi è possibile, se si ha fiducia nelle persone per cui si lavora, quelle che prendono le decisioni, che fanno la PA. È il punto, forse, che separa i consigli dagli auspici: in questo senso, noi siamo stati molto fortunati. Ti auguriamo altrettanto.)

La Captologia studia come i dispositivi interattivi influenzano le nostre scelte di ogni giorno
I computer possono agire come persuasori occulti. Ci avete mai pensato? Forse sì. In realtà la riflessione è abbastanza banale: siccome i computer ci assistono nel fare le cose che abbiamo sempre fatto, piano piano si stanno sostituendo a chi ce le faceva fare: il maestro, il prete, il poliziotto, la mamma, il commesso, eccetera. I computer ci influenzano quanto loro: ci consigliano, ci indicano quali regole rispettare, ci suggeriscono le modalità per essere efficaci, svolgere un compito, ottenere uno scopo.
Questo è il senso ultimo della comunicazione, cambiare lo stato mentale del ricevente e predisporlo all’azione per ottenere dei risultati individualmente utili e socialmente accettabili. Semplice no? In questo senso la comunicazione e la persuasione non sono così diverse. Anzi.
Possiamo dire che ogni forma di comunicazione è sempre una forma di persuasione
Facciamo un passo indietro allora. Che cos’è la persuasione? È il tentativo di farci fare quello che non faremmo di nostra spontanea iniziativa.Più esattamente, qual è l’obiettivo della persuasione? Quello di farci avviare, smettere o modificare un comportamento.
La persuasione fa leva sia sul ragionamento che sugli appelli emotivi, ma si fonda largamente su risposte già pronte, che sono quelle a cui la cultura e l’istruzione ci hanno programmati per vivere in società ed essere bravi studenti, onesti lavoratori, buoni vicini di casa. In aggiunta, come esseri umani ci portiamo dietro una serie di risposte automatiche, sotto la soglia della coscienza, che sono radicate da secoli nella nostra psicologia di esseri sociali, e favoriscono la tendenza a fare gruppo, a proteggere i nostri simili, ad organizzare le attività quotidiane.
Sono molti quelli che hanno provato a definire i principi della persuasione sociale basandosi sull’osservazione dei comportamenti individuali e collettivi e hanno applicato questi principi al marketing, alla politica, allo sport e all’economia.
Secondo Robert Cialdini, uno psicologo sociale americano, le regole principali della persuasione sono almeno sei:
I filosofi greci erano maestri di retorica e usavano i suoi principi per convincere gli altri sulla migliore forma di governo possibile, oggi ci sono gli spin doctor che devono vendere un programma politico all’elettorato: in mezzo possiamo infilarci i venditori porta a porta, gli ambulanti del mercato e perfino i computer. Come, i computer?
Sì. I computer sono progettati per rendere più facile la nostra interazione col mondo, per migliorare la produttività individuale, faticare di meno. I computer sono delle protesi cognitive che ci permettono di fare di più e meglio. E sono progettati con questo fine anzitutto replicando il modo di funzionare del cervello umano che funziona secondo principi imitativi e di economia cognitiva. È così che i computer possono diventare dei persuasori occulti. La regola generale è che chi è in grado di persuaderci è chi ci conosce meglio.
Pensate allora cosa succede oggi con la profilazione attuata dai social network, l’elaborazione dei dati personali inviati via web e la scienza dei big data. Se conosci una persona puoi offrirgli di fare o di comprare qualcosa che non può rifiutare. Perché? Perché già pronto a farlo. Ma se azzecchi il momento giusto, oggi che con un click si fa quasi tutto, il gioco è fatto.
Se vi sembra strano sappiate che esiste un’intera branca dell’Interazione uomo-macchina, che se ne occupa da anni ed ha acquisito dignità scientifica con pubblicazioni, riviste, studi e siti web. Si chiama Captologia e deriva dall’acronimo scelto da uno dei suoi teorici, BJ Fogg, che ha elaborato il framework concettuale dei Computer As Persuasive Technologies(Computer come tecnologie persuasive).
Questa disciplina celebra ogni anno un proprio congresso di studi, l’ultimo si è tenuto in Austria, a Salisburgo, nello scorso aprile.
Ma se vi chiedere perché se ne parla così poco la risposta è facile: le tecnologie persuasive sono già incorporate nei nostri strumenti digitali: computer, tablet, smartphone e tv intelligenti.
Ma come fanno i computer modificare comportamenti ed attitudini per farci fare quello che non faremmo di nostra spontanea iniziativa? Rendendo più facile l’esecuzione di un compito, offrendo esperienze che ci modificano nel profondo, dandoci ricompense di carattere sociale.
Precisiamo che i computer che usiamo ogni giorno non hanno ancora un’intenzionalità, anche se le frontiere dell’intelligenza artificiale e del machine learning li avvicinano sempre di più agli esseri umani, perciò per ora parliamo delle “intenzioni” che in essi hanno incorporato i progettisti.

Secondo B.J. Fogg, i dispositivi interattivi ci riescono secondo la dinamica della triade funzionale, agendo come tools, media, attori sociali. I tools persuasivi inducono o facilitano comportamenti d’acquisto, sono letecnologie tunnel che in un paio di click ci fanno comprare l’oggetto desiderato, strutturando la scelta come un percorso che ci illude di averne il controllo. Oppure possono essere strumenti che individuano il nesso di causa-effetto di un comportamento, come le tecnologie che ci insegnano a mangiare di meno se siamo obesi. Ancora, agiscono come media, mezzi di simulazione, per farci apprendere un comportamento o agiscono come attori sociali assumendo caratteristiche animate che danno premi e punizioni: come i pupazzi interattivi che insegnano ai bambini a mangiare la frutta.
Volete un esempio specifico? Pensate alla cyclette che in palestra mostra sul display digitale gli effetti dei vostri sforzi: avere di fronte il risultato del faticoso pedalare funziona da incentivo a non smettere, indirizza il ritmo della pedalata, soddisfa la vostra voglia di cambiamento (dimagrire, irrobustire i muscoli, tenere sotto controllo il battito cardiaco).
Ne volete un altro? Le email che cominciano con il vostro nome hanno il 50% di possibilità in più di essere aperte e lette. Oppure, pensate al sito chiamato dall’app con cui avete fotografato il piatto di pasta che avete davanti e che vi aiuta a stabilire quanta mangiarne per non sbagliare il giusto apporto calorico alla vostra dieta. C’è di più. Oggi con le tecnologie di geofencing, quando il nostro telefonino entra nel raggio di comunicazione previsto, la pubblicità di un certo negozio di scarpe ci appare sul display visualizzando costo e qualità del prodotto che cercavate, a due passi da voi. Ma in fondo se usate Google lo sapete già: altrimenti come è possibile che la pubblicità del motore di ricerca sia tarata esattamente su quel viaggio in Thailandia per cui avete cercato le offerte nei giorni scorsi? Fate una prova con Facebook: citate in un post il titolo di un libro che consigliereste agli amici, quasi subito in alto a destra vi comparirà copertina, prezzo e bottone per acquistarlo.
La persuasione funziona quando ci migliora la vita, rende più semplice prendere delle decisioni, rafforza delle scelte. Sopratutto se non la si riconosce come tale.
E tuttavia i computer persuasivi sono agenti di cambiamento positivo se riescono ad evitare comportamenti dannosi per la salute o per l’ambiente. Pensate ai cassonetti col display che ci ringraziano ogni volta che li richiudiamo dopo aver gettato la spazzatura. Oppure a tutte le tecnologie che ci permettono di agevolare rapporti di lavoro e di amicizia o il perseguimento di altri scopi sociali attraverso una petizione, l’organizzazione di gruppi di pressione, la difesa di beni comuni.
Paolo Iabichino, nel suo libro Invertising, parla della comunicazione pubblicitaria efficace e riporta le tesi di BJ Fogg che si chiede: “Esiste una tecnologia persuasiva più potente di Facebook che ogni giorno inventa nuove funzioni per invitarci a usare il social network?” Infatti. Pensate alla potenza persuasiva del tagging: chi è che non va a vedere dove e perché ci hanno taggato?
Ovviamente c’è un lato oscuro sia della persuasione tradizionale che di quella via computer. Però nei confronti di chi vende la religione porta a porta siamo vaccinati (forse), mentre non lo siamo rispetto ai computer. Perché? Il motivo è semplice: i computer sono presunti neutrali, crediamo di controllarli, non si presentano come persuasori e si trovano ovunque. Ma sopratutto tendiamo a rapportarci ad essi come alle persone in carne ed ossa (Reeves, Nass, 1996)
Imparare a riconoscere il carattere persuasivo di una comunicazione e dell’interazione con un computer significa incrementare la nostra autonomiaaumentando i gradi di libertà del nostro agire quotidiano.
E significa imparare a scegliere quando vogliamo essere persuasi a cambiare i nostri comportamenti, in meglio.
ARTURO DI CORINTO*
Roma, 3 Luglio 2016

La notizia non approfondita, le scarse competenze di certo giornalismo e il concetto di viralità usato senza conoscerne il significato. Alcune riflessioni sul video del giovane studente apparentemente rifiutato da Adidas