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Fracking, il Brasile fa marcia indietro e protegge le terre indigene della Vale do Juruá

Le terre indigene della Vale do Juruá, nell’Amazzonia brasiliana, sono state vendute per estrarre gas e petrolio. Ma un tribunale ha detto che bisogna proteggere gli abitanti dal fracking.

Il diritto alla terra dei popoli indigeni incontattati della Vale do Juruá, in Amazzonia, è stato riconosciuto. Il governo brasiliano aveva venduto all’asta alcune aree protette in prossimità di territori ancestrali per darle in mano a aziende di gas e petrolio per condurre attività come il fracking, o fratturazione idraulica. Ma a dicembre un tribunale ha deciso di revocare le licenze e ha ordinato la sospensione e la cancellazione delle attività di esplorazione e di estrazione. Il giudice ha sottolineato in particolare i rischi sociali e ambientali connessi a queste attività, quali i danni agli ecosistemi locali e alla vita quotidiana delle comunità.

 La svendita della Vale do Juruá

Senza avere consultato preventivamente le comunità indigene, il governo ha venduto all’asta un’area di più di 122mila chilometri quadrati che si estende in dodici stati brasiliani, tra cui le terre dello stato di Acre che ospitano tribù che vivono intenzionalmente isolate. La condanna del tribunale è arrivata dopo mesi di proteste da parte della Coalizão não fracking Brasil (Coesus), la coalizione brasiliana contro il fracking, movimento della società civile di migliaia di persone che si batte contro la fratturazione idraulica con l’obiettivo di sensibilizzare le persone sul suo impatto sugli ecosistemi, sulle comunità e sui diritti dei popoli indigeni. Durante l’asta dei terreni delle aree indigene negli stati di Acre e Paraná, organizzata  dalla National petroleum agency (Anp), l’organizzazione ha effettuato un’incursione in cui nove leader indigeni hanno condiviso le proprie esperienze davanti ai rappresentanti delle compagnie di petrolio e gas e alla stampa internazionale.

 Cos’è il fracking

Il fracking consiste nel perforare il terreno fino a raggiungere le rocce che contengono i giacimenti di gas naturale e successivamente iniettare un getto ad alta pressione di acqua mista a sabbia e altri prodotti chimici per provocare l’emersione in superficie del gas. Questa pratica ha un impatto enorme sull’ambiente, richiede un consumo consistente di acqua e rischia di contaminare il suolo e le falde acquifere circostanti. Difatti, l’80 per cento del liquido iniettato ritorna in superficie come acqua di riflusso. Inoltre, diversi scienziati teorizzano una correlazione tra il fracking e terremoti di bassa magnitudo.




Quando i virus infettano la comunicazione

Vaccini, Ebola e prima ancora le pandemie influenzali. Le istituzioni continuano a fare fatica a comunicare l’incertezza e di fronte a un’emergenza oscillano tra le rassicurazioni a oltranza e l’allarme. Ma si sta cominciando a costruire una terza via, condivisa su scala europea

Il caso ha voluto che il giorno in cui la paura vaccini in Italia è rientrata si sia tenuta a Venezia la conferenza finale di un progetto europeo dedicato appunto a vaccini, epidemie e problemi di comunicazione. Già, perché alla fine tutto il caso FLUAD altro non è stato che un gigantesco errore di comunicazione, in cui sparute segnalazioni di finti effetti avversi del vaccino (in realtà semplici coincidenze in persone anziane e malate morte non per il vaccino ma dopo aver preso il vaccino) hanno scatenato la solita epidemia di titoloni tipo “iniezione letale” (“Il Tempo” di Roma). Le autorità, come spesso accade, nel tentativo di rassicurare hanno talvolta peggiorato la situazione, come quando il ministero della Salute ha dedicato il numero verde 1550 per Ebola ai vaccini creando involontariamente un bel cortocircuito.
Nella due giorni di conferenza del progetto TellMe (www.tellmeproject.eu), un progetto co-finanziato dall’Unione Europea per sviluppare nuovi protocolli comunicativi e comportamentali, basati su evidenze scientifiche, da applicare quando si verificano focolai di malattie infettive, rappresentanti delle massime organizzazioni sanitarie del mondo hanno dibattuto proprio di questi argomenti, rivelando prima di tutto che in fatto di cattiva (o strumentale) comunicazione tutto il mondo è paese.
Toby Merlin, dei CDC di Atlanta, per esempio, ha mostrato come i media americani si siano avventati sui malati di Ebola tornati negli States cercando in tutti i modi di mettere in difficoltà l’amministrazione Obama, usando per questo l’artiglieria pesante delle immagini. Come giustamente ha detto Merlin, «buona parte dell’informazione connotata emotivamente passa dalle immagini, e noi non ci possiamo più permettere di ignorare questo aspetto». Guardando le immagini e i filmati ala tv gli americani hanno pensato che Ebola si trasmettesse per via aerea (visto che gli operatori hanno i respiratori). Interessante anche come hanno fotografato il paziente nero affetto da Ebola: sempre in pose particolari (per esempio mentre si fa un selfie), non certo pensate per trasmettere un senso di compassione ed empatia. Bene ha fatto il presidente Obama a farsi ritrarre (un po’ rigido per la verità) mentre abbraccia l’infermiera malata. Ma è stata solo una goccia in un mare tempestoso di immagini truculente e maliziose, tese a dare un quadro iper drammatico di una malattia che – per quanto altamente letale – tanto in America quanto in Europa e in Africa – non rappresenta certo il grosso del carico di malattie di questi continenti. E bene ha fatto la regina Elisabetta a ricordare la malaria e altre piaghe oscurate da queste emergenze.
Problema principale della comunicazione del rischio è di «allineare la percezione di un certo rischio con la realtà di quel rischio» ha spiegato nella relazione introduttiva Karl Ekdhal, dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) di Stoccolma. Talvolta, infatti un’erronea percezione di un “pericolo”, alimentata da pregiudizi o cattiva comunicazione, può fare più danni del pericolo stesso (i campi elettromagnetici). Altre volte, invece, si affrontano rischi ben reali senza la minima idea del danno che possono infliggere (il fumo).
Ebola non poteva ovviamente mancare nella discussione. Usi e costumi radicati, come i riti della sepoltura in Africa che prevedono di toccare i morti perché subito dopo il trapasso l’anima uscendo dal corpo infonde nuova vita a chi le sta vicino, diffondono l’epidemia. Ma certo la soluzione non è che medici occidentali vestiti da astronauti cerchino di convincere con argomentazioni razionali che è meglio evitare il contatto.
Ecco allora che alcuni relatori si sono soffermati sugli aspetti più emozionali e antropologici della comunicazione nelle epidemie (come lo storico della medicina Bernardino Fantini dell’Università di Ginevra), mentre Manfred Green dell’Università di Haifa, coordinatore del Progetto TellMe, ha presentato nuove linee guida su come comunicare alla popolazione soprattutto attraverso i social media, e agli operatori sanitari (medici e infermieri) che rimangono i principali alleati per una buona gestione in caso di epidemie. «Il problema principale della comunicazione quando un epidemia o addirittura una pandemia inizia, è che all’inizio sappiamo ben poco di essa e di come e quanto si diffonderà, mentre la popolazione vorrebbe sapere tutto e subito, senza incertezze», ha spiegato Simon Langdon, esperto inglese di comunicazione di Cedar Three. «Riempire quello spazio iniziale di grande incertezza è appunto il compito della “comunicazione di crisi”, e che ha regole ben definite, ma che in fondo possono essere riportate a una sola: saper ascoltare le paure delle persone, non rassicurarle ad oltranza ma riuscire a farle partecipare alla gestione dei rischi. Solo così si può costruire un clima di fiducia e di dialogo, una “comunicazione a due vie” con la popolazione, utile a non aggiunger agli inevitabili danni sanitari delle epidemie, ulteriori problemi conseguenti al prevalere di comportamenti irrazionali. In questo quadro, come ha ricordato verso la fine della conferenza Pier Luigi Lo Palco in forza all’ECDC di Stoccolma per la parte vaccini, «l’alleanza con i media sarebbe veramente strategica, visto il potere che hanno di condizionare i comportamenti delle persone e l’agenda stessa delle discussioni politiche». Ma serve che la comunicazione sanitaria sia fondata su evidenze scientifiche, una minima comprensione della statistica, non su fantasie, o ancora peggio volute strumentalizzazioni.




I social media sono alleati della Sostenibilità

Un “like” può avere effetti davvero inaspettati”. E’ quello che afferma la nuovissima ricerca di Cone Communications dal titolo “Digital Activism Study.” Analizzando i suoi dati scopriremo come il supporto a temi o cause sociali ed ambientali, passa e passerà sempre più attraverso i social network.
Non è certamente una novità affermare che i social media stanno cambiando ogni giorno di più il nostro modo di comunicare, interagire, discutere, lavorare. La ricerca  Cone Communications ci presenta un interessante approfondimento di questo tema ed  indaga come i social network abbiano un ruolo chiave anche nel coinvolgimento degli individui in cause sociali ed ambientali.
Passando all’analisi dei dati, scopriamo che circa il 64% degli americani sostiene di essere più incline a supportare cause legate all’ambiente o a tematiche sociali dopo aver dato il suo “like” o essere diventato follower on line di un’organizzazione. Inoltre i consumatori americani ritengono che le loro attività on line siano un ottimo mezzo per sostenere progetti o temi a cui tengono in modo particolare. Postare un articolo o twettare informazioni su temi ambientali o sociali sono attività che costituiscono efficaci forme di supporto e sostegno.
Secondo la ricerca, inoltre, l’avvento del digitale non sta cambiando solo il modo in cui  cause e progetti vengono supportate, ma anche i tempi ed i modi in gli americani offrono il loro supporto: tra coloro che hanno fatto una donazione negli ultimi 12 mesi, circa quattro persone su dieci l’hanno effettuata tramite canali digitali, mentre solo il 23% degli intervistati ha usato i canali più tradizionali (posta, assegni etc).
Non può sorprendere a questo punto che i dati della ricerca dimostrino anche che  le piattaforme social  siano i canali chiave per coinvolgere le persone su temi legati alla sostenibilità sociale ed ambientale. Gli americani usano principalmente Facebook (67%) come mezzo per conoscere e partecipare  ad iniziative “green”, in seconda posizione Youtube (32%) e, a seguire, Twitter (25%), Pinterest (19%) ed Instagram (16%).
Aldilà di ogni dato, quello che questa ricerca ci fa capire è che i canali digitali e social sono un potente strumento per diffondere la conoscenza di importati temi sociali ed ambientali  e per spingere rapidamente il pubblico a prendere posizione e ad agire. Le organizzazione e le aziende devono impegnarsi per trovare le giuste leve che convertono un “like” in sostegno concreto.




La responsabilità sociale paga. E oggi l'80% delle società quotate ha un Csr manager

La responsabilità sociale paga. Se il 55% dei consumatori mondiali è disposto a pagare di più per prodotti e servizi di aziende che si impegnano ad avere un positivo impatto sociale e ambientale (Nielsen), per le aziende oggi essere socialmente responsabili non è più un vantaggio, ma è diventato uno svantaggio non esserlo.
Questo il messaggio emerso questa mattina dall’incontro ‘Csr: da impegno sociale a vantaggio competitivo’, organizzato a Bologna da Manageritalia, Fondazione e Università Alma Mater, Università di Cadice, Osservatorio andaluso della Csr e Dirse (Associazione dei direttori della Csr di 35 aziende spagnole quotate a Madrid), tappa di un progetto internazionale iniziato tre anni fa.
“Oggi la responsabilità sociale – dichiara Mario Mantovani, vicepresidente Manageritalia – non è più un lustrino aggiuntivo, ma è un valore effettivo e un vantaggio competitivo. Ormai non si premia tanto chi ce l’ha, ma si boicotta chi non ce l’ha. La sua applicazione deve però permeare tutta l’azienda, partendo dai vertici, ma prendendo forma e sostanza da tutti i suoi collaboratori. Quindi, proprio con loro bisogna prima metterla in pratica e poi portarla all’esterno”.
L’importanza della Csr è evidente anche nel ruolo, sempre più di primo piano, di una figura dedicata: oggi ormai l’80% delle società quotate ha un Csr manager. Interessante anche notare – rileva Manageritaila – come quest’attenzione da parte di consumatori e cittadini alla responsabilità sociale è oggi riferibile a più di mezzo mondo (55% a livello globale quelli che pagano di più per prodotti/servizi di società socialmente responsabili), ma tocca soprattutto paesi come l’Asia (64%), l’America Latina e Africa/Middle Est (63%), mentre è più bassa in America (America del Nord 42%) e nel Vecchio Continente (Europa 40%). Ma è in vertiginosa crescita in ogni dove (10% in media dal 2011 al 2014).
L’incontro di oggi è stato anche l’occasione per presentare alcuni casi reali di aziende nazionali e internazionali, da Pirelli a Unipol, da Leroy Merlin Spagna a Agua de Cadiz. “La Csr in Pirelli – spiega Eleonora Giada Pessina, Group Sustainability officier Pirelli & C – è da tempo un fattore strategico e parte determinante della nostra strategia. Di conseguenza è uno degli obiettivi principali dei manager e non è confinata solo nella sua specifica funzione, ma le permea tutte”.
Walter Dondi, responsabile etico e Csr Gruppo Unipol, ha sottolineato che la responsabilità sociale “è nel dna di un’azienda come Unipol, che nasce proprio su questi valori. Tant’è che da sempre lavoriamo per assicurare i rischi delle popolazioni parlandone con loro e coinvolgendoli nella costruzione dei nostri prodotti. Questo stiamo attualmente facendo per gestire i rischi connessi alle sempre più frequenti alluvioni”.
Molto interessanti anche le esperienze estere. “Da anni – racconta Ignazio Romano Cantera, presidente Agua de Cadiz S.A. – siamo attenti all’impatto ambientale e sociale delle nostre azioni e servizi. E proprio l’immagine positiva presso la cittadinanza di Cadiz ci ha permesso di gestire al meglio una recente emergenza che ci ha portato a bloccare l’erogazione dell’acqua per un allarme sanitario. E la nostra responsabilità sociale parte da quella agita nei confronti dei nostri collaboratori, che poi la devono agire all’esterno in nome e per conto nostro”.
Riccardo Tejero, direttore organizzazione e logistica Leroy Merlin Spagna, ha sottolineato che la responsabilità sociale “è parte integrante della vita di un’azienda. Per noi già da tempo non è neppure un dovere, ma piuttosto un valore. E sicuramente oggi la responsabilità sociale è uno svantaggio per chi non ce l’ha”.




4 sorpendenti cose da sapere sul lavoro nella CSR

Lavorare nella Corporate Social Responsibility è il sogno di numerosissimi giovani. Molto spesso, però, anche i più motivati tra loro non conoscono il reale funzionamento del settore.
Per aiutarli ad avere le idee un po’ più chiare, il blog diDevex Impact – una community online che fa incontrare professionisti del business ed esperti del mondo del sociale – ha cercato di fissare alcuni punti riguardo al lavoro nella CSR.
Negli ultimi anni, sono moltissime le realtà imprenditoriali che hanno deciso di investire nella CSR: d’altra parte, la capacità di raccogliere e far fronte a sfide globali come i cambiamenti climatici, la sicurezza alimentare, la soluzione dei conflitti, la salute e l’istruzione ha un impatto enorme sia sulla reputazione delle aziende, sia sulla loro capacità di crescere e prosperare. Anche perché le società impegnate nel sociale e nella tutela dell’ambiente riescono molto spesso ad attrarre i talenti migliori.

Per tutti questi motivi, la CSR è diventata un ambito in cui è possibile trovare occupazione e fare carriera: ed è più facile intraprendere un lavoro nel settore se ne conoscono bene le caratteristiche. Ecco quindi le 4 verità riguardo al lavoro nella CSR elencate da Devex Impact:

1. Per lavorare nella CSR non è necessario lavorare in un’azienda

Gran parte del lavoro relativo alla CSR si svolge attraverso una strettacollaborazione tra la società civile, il pubblico e il privato: in genere, le agenzie governative, le ONG e le società di consulenza specializzate nel sociale hanno uffici preposti a creare e gestire tali partnership. Per questo, il contesto aziendale non è l’unico che permetta di lavorare nella CSR: quello che più conta è avere un’ottima conoscenza delle modalità attraverso cui i tre i settori (privato, pubblico e società civile) operano.

2. La maggior parte degli annunci di lavoro relativi alla CSR non contiene riferimenti espliciti ad essa

Imbattersi nella dicitura “CSR” tra gli annunci di lavoro è piuttosto difficile. Per le posizioni relative a questo ambito, infatti, non esistono (ancora) definizioni univoche e universalmente valide. A volte il lavoro dei sogni si nasconde dietro titoli vaghi come “project manager” o “analista”, in altri casi, invece, si possono trovare espressioni quali “affari pubblici”, “sostenibilità” o “pubbliche relazioni”.

3. Non c’è bisogno di un MBA per lavorare nella CSR

La CSR ha bisogno di diverse professionalità: non solo esperti di business, ma anche educatori, esperti di marketing e comunicazione, scienziati, operatori sanitari e così via. Dato che le aziende investono in campi molto diversi tra loro, hanno necessità di una vasta gamma di expertise per coprire le proprie esigenza. Tuttavia, al di là delle singole specializzazioni, tutti gli aspiranti professionisti della CSR dovrebbero essere buoni comunicatori ed essere in grado di collaborare e fare lavoro di squadra.

4. La carriere nell’ambito della CSR hanno un andamento non lineare

Alcune aziende hanno creato delle fondazioni che gestiscono tutta la loro CSR e nelle quali è più semplice sia trovare una posizione lavorativa provenendo dall’esterno, sia fare carriera in modo lineare. Altre aziende, invece, gestiscono la CSR al proprio interno: ciò significa che, in linea di massima, non reclutano personale dall’esterno, ma utilizzano le proprie risorse, spostandole magari da una divisione all’altra.
In questo secondo caso, nessun professionista della CSR ha iniziato la propria carriera come tale: magari si occupava di finanza, di statistica, di pubbliche relazioni o lavorava come ingegnere… Per questo, un buon consiglio per chi vuole lavorare nella CSR è di non limitarsi a cercare un lavoro “puro” nel settore e di essere pronto a spaziare in altri campi per poter progredire nella propria carriera.