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La Rai vara la sua Unità di Crisi. Gestirà i rapporti con i media in casi di emergenza

Il gruppo speciale verrà collocato dentro una mega Direzione che ora unirà comunicazione, relazioni esterne, istituzionali e internazionali. Giovanni Parapini a capo della struttura. Tra i dossier più sensibili, il rinnovo della Concessione, il tetto degli stipendi a 240 mila euro e l’inclusione di Viale Mazzini nel perimetro della Pubblica Amministrazione

Azienda molto amata ma anche assai contestata, la Rai si dota di una task force per gestire la comunicazione in caso di attacchi, critiche violente, difficoltà inattese. Questa speciale unità gestirà, dunque, la “comunicazione di crisi” cercando di spiegare le ragioni di Viale Mazzini ai siti Internet, alle televisioni, ai giornali e alle radio che stanno sparando a zero. Tra i suoi compiti anche frenare l’onda d’urto – a volte impressionante – che monta sui social network. Bruno Vespa sotto botta perché ha ospitato il figlio di Totò Riina; una bestemmia che passa sullo schermo durante il Capodanno; una trasmissione molto attesa, che fallisce negli ascolti. Casi come questi hanno impegnato la Rai in una strategia difensiva sul fronte caldo dei media. Da domani, questa strategia sarà – si immagina – più ragionata.
L’idea di mettere in piedi questa Unità di Crisi è di Giovanni Parapini, dirigente Rai tra i più vicini all’amministratore delegato Campo Dall’Orto. Parapini sistemerà il gruppo di lavoro per le emergenze dentro la sua Direzione, che cresce molto come perimetro d’azione. Il dirigente avrà sotto di sé la Comunicazione, ma anche le Relazioni esterne, ma anche le Relazioni istituzionali, ma anche le Relazioni internazionali. La concentrazione di competenze è del tutto inedita per Viale Mazzini e inaugura un modello coordinato che poche aziende hanno, almeno in Italia.
Questa Direzione, dunque, parlerà anche con la politica. Dovrà decifrare gli umori di Palazzo Chigi (e del premier Renzi). Ragionare con le correnti del Pd che non amano l’amministratore delegato Campo Dall’Orto. Tendere l’orecchio alle ragioni delle opposizioni. Rapportarsi con i due ministeri che hanno competenza sui fatti della Rai: l’Economia – che detiene il controllo azionario della televisione di Stato – e lo Sviluppo Economico, dove siede tra gli altri l’influente sottosegretario alle Comunicazioni, Antonello Giacomelli.
Sul tavolo dei politici, ci sono già dossier delicatissimi. Serve ad esempio, e con urgenza, una norma salva-Rai. L’Istat ha appena incluso la tv di Stato dentro il perimetro della Pubblica Amministrazione su richiesta dell’istituto statistico europeo Eurostat. Viale Mazzini teme adesso di restare imbrigliata nella rete di vincoli che investono un ministero, una scuola, una Asl al momento di fare una gara d’appalto o di comprare un qualsiasi bene. Per scrollarsi di dosso la nuova etichetta di “ente statale”, la Rai ha bisogno di una legge ad hoc oppure di un decreto del Presidente del Consiglio. Cha va convinto a scriverlo.
Il ministero per lo Sviluppo Economico – altro dossier caldo – sta preparando la Concessione che assegnerà alla televisione pubblica il servizio radio tv per i prossimi dieci anni. Si tratta di un atto chiave per regolare i rapporti tra Viale Mazzini e lo Stato. Ma le grane sono anche altre: l’applicazione puntuale della par condicio in vista del referendum istituzionale; ad esempio; e così l’attuazione del nuovo tetto agli stipendi che il Parlamento fissa a 240 mila euro per dipendenti, collaboratori, consulenti della Rai.
Parapini ha reclutato molti uomini e donne con cui gestire la sua mega Direzione. Fabrizio Ferragni arriva dal Tg1, dove era vice direttore vicario, per tenere i rapporti (istituzionali) con i palazzi del potere. Simona Martorelli, già a Bruxelles, sarà l’ambasciatrice del servizio pubblico in campo internazionale. Il capo ufficio stampa Luigi Coldagelli guiderà ora il Media Office che, almeno in prima battuta, ospiterà l’Unità di Crisi per le emergenze (dove Celestina Pistillo sarà sentinella dell’area social network). Fabiana Cutrano, già capo staff a Rai Cinema, avrà le chiavi del patrimonio di marchi e brand della televisione pubblica.




Luca Poma sui "corpi digitali"

Corpi digitali Fanco Angeli editore

Corpi reali e corpi digitali: ogni giorno diventiamo a nostra insaputa merce sfruttabile senza limiti di forma e di tempo, rivendibili, capaci di sopravvivere alla nostra stessa morte. È la rivoluzione epocale del web che Luca Poma ci ha raccontato a partire dal suo nuovo libro “Il sex appeal dei corpi digitali”, edito da FrancoAngeli per la collana Neo
Cosa sono i corpi digitali e dove finisce la capacità di controllo che abbiamo del nostro corpo digitale?
Come scrive la giornalista RAI Silvia Rosa-Brusin nell’introduzione al libro, l’età digitale sta diffondendo una “malattia” di proporzioni bibliche, alla quale nessuno sembra poter sfuggire. Basta accendere un computer e intraprendere la più banale e innocente delle navigazioni: da quell’istante hai potenzialmente consegnato una parte di te stesso a un potere oscuro e a tratti smisurato che incomincia a impossessarsi di te, “tracciando” la tua personalità e incominciando a creare un simulacro che altri governeranno. E’ il “Corpo digitale”, un tuo doppione, attraverso il quale un potere che non conosci tenterà di usarti in ogni  modo. Ogni corpo reale che si avvale di mezzi di comunicazione digitale è già in fase di trasformazione in “Corpo digitale”: un nostro “io” in proprietà altrui, un’entità che non corrisponde semplicemente a noi stessi mentre navighiamo sul web, né alla sola traccia della nostra presenza sui Social Network e Digital Media. Quando parliamo di “Corpo Digitale” intendiamo la rappresentazione più estesa possibile e la ricostruzione digitalizzata di tutte informazioni che produciamo nelle nostre interazioni digitali, di qualsiasi tipo, costantemente aggiornate e archiviate in una miriade di piattaforme e database diversi, che fanno “golosamente” e bulimicamente propri i dati che ci appartengono, ma soprattutto “disegnano” i confini di chi noi siamo”. Spiati dunque da occhi misteriosi ad ogni passo online, dall’acquisto di un DVD ad un’eventuale sbirciatina a un sito “hard”, dalla comunicazione d’affari alla prenotazione turistica, dalla notizia sanitaria alla confidenza professionale: tutto serve, anche l’inezia, al Demiurgo fabbricatore del nostro “io digitale”, per catalogarci in archivi di dimensioni inimmaginabili, capaci di stipare un doppione d’umanità. Nell’immane magazzino, il Corpo digitale diventa a nostra insaputa merce sfruttabile senza limiti di forma e di tempo, rivendibile, capace di sopravvivere alla nostra stessa morte, a meno che un limite non venga fissato da regole, peraltro di là da venire.
Internet ha appena compiuto 25 anni e rappresenta una delle più grandi opportunità della nostra epoca. In che modo la Rete è diventata anche una “trappola”?
E’ nel contempo un’enorme opportunità, ma – è vero – anche una trappola, per gli effetti nefasti che può avere anche sulla nostra salute. Nel libro si affronta per la prima volta anche questo tema: l’influsso negativo che l’abuso del web – e segnatamente dei Social Network – può avere sull’equilibrio ormonale dell’individuo e financo sul suo patrimonio genetico, dal momento che l’eccesso di stress ambientale – e perché no, da Social – può danneggiare i filamenti di micro-RNA umano. Occorre quindi ritrovare equilibrio e consapevolezza nell’uso di questi potenti strumenti.
Lo scenario che descrivi ricorda il Grande Fratello di Orwell… è possibile sottrarsi a questa realtà?
Non è uno scenario irrimediabilmente nefasto. E’ come di fronte ad ogni rivoluzione epocale: nel corso della storia, e cito di nuovo la Rosa-Brusin – la moltiplicazione del potere di uno strumento ha creato bene e male in misura che nessuna bilancia potrà mai “pesare”, perché né il Bene né il Male hanno mai saputo o potuto amministrare per intero quello strumento. Al punto in cui siamo, scrivo nel libro, “con un piede nel mare digitale e l’altro ancora a riva, in preda alla vertigine, anche il più volenteroso ottimismo non ci concede che una risposta: non sappiamo. Siamo immigrati digitali, in parte diffidenti verso un mondo così nuovo, e comunque in preda alla corrente, che trasporta il barcone della nostra vita – reale e virtuale – verso continenti davvero sconosciuti, dei quali a malapena riusciamo a intravedere gli esatti confini.” Pagine come quelle di questo libro servono a farci aprire gli occhi, e a renderci collaboratori consapevoli di una salvezza. O di un’apocalisse.
(leggi l’intervista con la scheda del libro su: http://www.ferpi.it/quale-futuro-per-i-corpi-digitali/)
 
…e per i “palati più fini”,  la trascrizione del mio discorso dal titolo “LUHMANN E CORPI DIGITALI” pronunciato alla cerimonia di nomination dei premi “GrandesignEtico 2016”, a Milano, il 04 novembre 2016
 
 
Buongiorno a tutti. Denoto – a proposito del “vuoto quantistico” citato dal relatore che mi ha preceduto – come la sala si sia svuotata del 50% non appena abbiamo iniziato a parlare di cose più serie…
Come tutti sappiamo, il filosofo Niklas Luhmann è stato uno dei maggiori esponenti della sociologia tedesca del XX secolo. Luhmann applicò alla nostra società la teoria generale dei sistemi, che ebbe appunto un forte riscontro anche nel campo della filosofia, e “radicalizzò” il concetto di comunicazione, definendolo come unità o sintesi di tre parti: emissione, informazione e comprensione, quest’ultima intesa come osservazione della differenza generata dal confronto diretto delle due precedenti.
Interessante notare come secondo Luhmann, ogni sistema sociale si definisce sulla base esclusivamente della quantità e qualità dei flussi di comunicazione che costantemente lo attraversano, ma ci torneremo sopra tra poco.
Tra l’altro, il sistema sociale così inteso è anche autopoietico: il sistema “produce” e definisce continuamente se stesso, soggiacendo a una “chiusura operativa” che può rendere superflui input e output dall’esterno; si tratta quindi, ci ricorda l’enciclopedia online Wikipedia, di un sistema omeostatico in equilibrio, identificato dall’autonomia dell’ambiente esterno, al quale pure è correlato tramite i propri confini.
Il funzionamento dell’organismo umano ad esempio è basato su paradigmi autopoietici: in astratto, può definirsi a prescindere dall’ambiente che lo circonda in quanto gli elementi di base che lo compongono – le cellule, ad esempio – riproducono ricorsivamente gli elementi che producono essi stessi.
Un sistema autopoietico è in grado di discriminare tra cause interne e cause esterne, e di condizionare queste ultime, che lascia filtrare in modo che queste possano proseguire secondo le esigenze della propria autopoiesi; il sistema può dunque aprirsi selettivamente all’ambiente e può sviluppare una complessità propria, facendola evolvere in relazione alla complessità esterna, e mantenendo tale dislivello di complessità, se e finché ne è capace.
Infine, e anche questo è interessante, l’atto dell’osservazione da parte dell’Uomo modifica il sistema sociale stesso, in ragione del fatto che l’Uomo ne è parte integrante e non è un elemento esterno all’osservazione; non può quindi esistere un’osservazione “neutrale”, perché ogni atto osservativo modifica il sistema, e rende quindi necessario un nuovo atto osservativo per ridefinirne le variazioni, e via discorrendo potenzialmente all’infinito.
Potremmo quindi aggiungere che ogni atto comunicativo teso a definire il sistema di relazioni del quale facciamo parte modifichi il sistema stesso, rendendo necessaria una nuova comunicazione che lo ridefinisca, in un circolo senza fine…? Certo che si; ma qui volevo in realtà solo rappresentare la forza delle innovazioni di Luhmann, che era di fatto un “radicale”, non solo in ragione delle sue teorie, ma anche nel merito delle sue riflessioni di carattere più “politico”.
Ad esempio, Luhmann ce l’aveva con quelli che definiva i “preti laici”, ovvero coloro che all’interno del nostro sistema sociale predicano la necessità di “trovare la felicità”, “avvicinarsi al ciò che c’è di positivo”, “ricercare la sostenibilità”, eccetera. Luhmann non era infatti affatto certo che ciò fosse nella vera natura dell’Uomo, ma – al di là di ciò – sottolineava come questa attitudine generasse a volte “effetti indesiderati”: si pensi ad esempio alla virtuosissima casa farmaceutica che inventi una molecola in grado di aumentare significativamente l’aspettativa di vita dell’umanità, impattando però così – negativamente – sullo sfruttamento delle risorse naturali di ampie zone del pianeta, che sarà necessario depauperare per mantenere più persone più a lungo, generando quindi nuove tensioni, squilibri, guerre, etc.
Luhmann osservava poi come la democrazia fosse un’utopia, ovvero mera narrazione simbolica, narrazione che è tanto più efficace tanto più legittima il lavoro dell’oligarchia che è realmente al potere “sopra” di noi. Paradossalmente, se vi fosse quindi vera democrazia, essa “ucciderebbe” la reale governabilità del sistema, mettendo in crisi se stessa. Ecco quindi, aggiungo io, come i nuovi movimenti orizzontali di cittadini impegnati in politica per – a loro dire – risanare la cosa pubblica, potrebbero invece generare il collasso definitivo della cosa pubblica.
Ho citato questi due pensieri di Luhmann per evidenziare come noi si sia sempre alla perenne ricerca di “semplificazione”; la semplificazione è molto rassicurante. Ma le cose non sono mai come sembrano, e vengo al dunque del messaggio contenuto nel mio ultimo long-form dal titolo “Il sex-appeal dei Corpi Digitali”, nominato quest’oggi, che segue altri precedenti lavori sullo stesso filone. Sono due, le cose che volevo brevemente evidenziarvi.
Primo: basta con questa narrazione dei Social network come “arena di libertà”. E’ falso, sono raffinate operazioni di business che ben poco hanno degli spazi di libertà che ossessivamente evocano nella speranza di auto-definirsi agli occhi degli utenti, il che è dimostrato dalla continua e artificiosa manipolazione dell’algoritmo che ne regola il funzionamento, e del quale – come denuncia la straordinaria piattaforma collaborativa di dibattito e di proposta Digidig.it, lanciata recentemente online dall’inesauribile Toni Muzi Falconi – ignoriamo contorni, confini e meccanismi di implementazione e modifica.
Secondo: il tema della salute in relazione al digitale. Ci ostiniamo a ignorare dolosamente, o nella migliore delle ipotesi a sottostimare, gli effetti nefasti che la dipendenza da social e da digital genera nel nostro organismo vivente: proiettili di dopamina a ogni Like di altri su un nostro post di successo; produzione di ossitocina quando inseguiamo una nuova preda sentimentale online; eccessi di cortisolo a ogni insulto o litigio sul web; fino a vere e proprie – possibili – alterazioni del micro-RNA, in grado di traghettare le nostre ossessioni e le nostre reazioni negative all’ambiente virtuale fino alla terza generazione reale dopo di noi, attraverso il pregiudizio che la compulsiva e stressante fruizione dei social può arrecare al nostro patrimonio genetico.
Termino questo breve intervento assai inelegantemente, autocitandomi, dalle conclusioni del libro: “Come tutti sanno, il lusso più costoso nel mondo contemporaneo è avere tempo e conquistare spazio. L’artista Marcin Rusak per questo ha inventato un kit di sopravvivenza contenente: una bussola che indica direzioni a caso; un orologio che perde i minuti; una coperta per scaldarsi mentre cerchiamo di percorrere la strada verso l’illuminazione. Quindi, spegniamo i nostri device, ogni tanto, e ri-prendiamoci il tempo che ci appartiene”.




Deepwater Horizon. Non fidatevi più di BP e delle altre aziende colpevoli


Dopo l’invito pubblicato sulla pagina Facebook di LifeGate, molti tra i cittadini più sensibili alle questioni ambientali saranno andati a vedere il Deepwater – Inferno sull’oceano, con Mark Wahlberg, Kurt Russel e John Malkovich. La trasposizione cinematografica – romanzata in alcuni dettagli dagli sceneggiatori di Hollywood, ma, nel suo impianto generale, aderente a quanto realmente accaduto ormai 6 anni fa – riporta con forza all’attenzione di tutti noi la tragedia della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, inabissatasi – anche a causa di evidenti negligenze da parte del personale incaricato della sorveglianza dell’impianto – il 22 aprile 2010 al largo della costa del Golfo del Messico: fu il più grande disastro marittimo della storia del pianeta Terra, con danni ambientali semplicemente incalcolabili, a causa dello sversamento nelle acque dell’oceano di oltre 700mila tonnellate di petrolio greggio.

I fatti del disastro della Deepwater Horizon

La piattaforma di perforazione era di proprietà della società Transocean, un’azienda di servizi petroliferi sotto contratto con l’inglese BP, British Petroleum, uno dei colossi mondiali dell’estrazione di petrolio e di commercializzazione di benzina per autotrazione. Come spiega bene il film, il 20 aprile 2010, mentre la Deepwater Horizon stava completando la perforazione del pozzo Macondo al largo della Louisiana, un’esplosione sulla piattaforma ha innescato un violentissimo incendio, che ha ucciso all’istante 11 operai, causando diverse decine di feriti. In seguito all’incendio, la flotta della BP ha tentato invano di spegnere le fiamme e di recuperare i superstiti. Nella pellicola – per esigenze cinematografiche – tutto avviene in una notte, ma ci vollero invece due giorni per vedere la piattaforma rovesciata, affondata e depositata sul fondale, profondo circa 400 metri: le valvole di sicurezza presenti all’imboccatura del pozzo sul fondale marino non funzionarono infatti correttamente, e il petrolio – spinto dalla pressione del giacimento petrolifero – iniziò a fuoriuscire senza controllo. Tutti i tentativi di bloccare la “marea nera” fallirono: BP riuscì ad arginare il problema solo dopo 3 lunghi mesi. Co-responsabile del disastro, la multinazionale americana Halliburton, gruppo statunitense che opera in 120 paesi, specializzato nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi, strettamente legato all’ex vicepresidente degli Stati Uniti mr. Dick Cheney, più volte accusato nel corso del suo mandato di aver “favorito l’azienda della quale è stato presidente e amministratore delegato”. Il pozzo era stato infatti costruito con la collaborazione appunto della Halliburton, che aveva curato la predisposizione della struttura di cemento che rivestiva il pozzo, il cui “collasso” – secondo quanto emerso dalle ricostruzioni giudiziarie – è stato uno dei motivi principali che hanno causato il disastro.

I danni

Gli effetti negativi sull’ambiente, sulla fauna e la flora marina, sono stati dichiarati “incalcolabili”. Ma anche per l’uomo vi sono – e vi saranno – conseguenze: intensificazione delle malattie respiratorie e delle patologie della pelle, e soprattutto aumento dell’incidenza di tumori e aumenti statistici degli aborti spontanei, a causa del petrolio e delle sostanze chimiche rilasciate sul luogo del disastro per disperdere il greggio, che contamineranno la popolazione locale nel breve e medio termine per via inalatoria e orale, soprattutto come conseguenza dell’accumulo degli idrocarburi nella catena alimentare.

La vicenda giudiziaria

Nel 2012 la BP ha raggiunto un accordo con il dipartimento di Giustizia statunitense per il pagamento di una penale di 4,5 miliardi di dollari, dichiarandosi colpevole di undici capi d’accusa per negligenza o colpa grave. Il 2 luglio 2015, inoltre, gli stati americani colpiti dal disastro hanno raggiunto un accordo con la BP sui danni ambientali provocati dall’incidente, a seguito del quale la multinazionale dovrà risarcire circa 18,7 miliardi di dollari nell’arco di 18 anni.

Gli aspetti etici

Gli “agenti disperdenti” – fra i quali il prodotto commercializzato come “Corexit”, una sostanza chimica utilizzata per disperdere gli idrocarburi in parti più piccole e farli precipitare sul fondale del mare – hanno consentito di“nascondere” la marea nera: queste sostanze tuttavia non hanno ridotto la quantità di greggio, ma l’hanno solo “nascosta alla vista”, a oltre 1.600 metri di profondità, dove continua a esercitare i suoi effetti nefasti sulla catena alimentare, a tutti i livelli, Uomo compreso. Ai primi di luglio 2010 venne denunciato mediante un video che alcune spiagge inquinate dal petrolio non erano state ripulite come promesso dalla BP, bensì solamente ricoperte con sabbia pulita al fine di nascondere l’inquinamento. Inoltre BP durante il procedimento giudiziario si è dichiarata colpevole del capo d’accusa di “ostruzione al Congresso”, a seguito delle evidenti reticenze di diversi suoi alti dirigenti nel collaborare con trasparenza alle indagini. La Halliburton, infine, co-imputata con la Bp, ha anche ammesso di aver intenzionalmente distrutto delle prove chiave dopo il disastro.

Il fattore “fiducia”

Qualche anno prima del disastro, la BP modificò il proprio slogan rinominandolo in “Beyond Petroleum”, ovvero “al di là del petrolio”, facendo anche un rebranding del suo famoso “scudo verde”, modificandolo nel simbolo dell’elio, una specie di margherita con dei raggi verdi e gialli, per enfatizzare il focus aziendale sull’ambiente e sulle fonti di energia rinnovabili. La società – nel decennio tra il 2000 e il 2010 – fu molto attiva sul fronte della responsabilità sociale, partecipando a diversi concorsi e venendo anche ben classificata in ranking internazionali importanti sul fronte ambientale. Per contro, il risultato delle varie commissioni d’inchiesta sul caso fu unanime: alla base del disastro, c’è stato il malfunzionamento di un sistema di sicurezza di un impianto del tutto inadeguato, malfunzionamento causato da una strategia di sistematica e miope riduzione dei costi. In base ad alcune inchieste giornalistiche pubblicate all’epoca dell’incidente, pare che l’importo della spesa per manutenzione non eseguita su alcuni componenti chiave della piattaforma fosse di poche centinaia di migliaia di dollari: è appena utile ricordare ad azionisti e manager che oggi BP capitalizza all’incirca la metà di quello che valeva in Borsa il giorno del disastro. È difficile farsi una ragione dell’arroganza e supponenza di un sistema industriale “a doppio binario”, che da un lato massimizza in modo sfacciato l’impatto pubblicitario delle proprie politiche “green” ed ecosostenibili, e dall’altro – contemporaneamente e schizofrenicamente – per risparmiare misere somme di denaro causa danni incalcolabili di lungo periodo all’ecosistema e all’Uomo. Sul sito della Bp dedicato alla responsabilità sociale si legge tuttora che l’azienda “lavora per evitare, mitigare e minimizzare gli impatti ambientali in tutti gli scenari in cui opera”: dovremmo crederci…? È la medesima cosa – identica – che sostenevano prima del disastro della Deepwater Horizon. Quante altre aziende tra queste stanno mentendo consapevolmente, in attesa del prossimo disastro?




Stili di vita attivi e ambiente: Persone e Pianeta al centro delle politiche Ferrero

Innovazione, cura delle persone, sostegno alle comunità locali, promozione di stili di vita attivi tra giovani e famiglie, pratiche agricole sostenibili e salvaguardia dell’ambiente: sono gli elementi chiave della responsabilità sociale d’impresa della Ferrero.

Un impegno riassunto in due parole ‘Persone e Pianeta’, i due pilastri della sostenibilità, e descritto nel dettaglio nel VII Rapporto di responsabilità sociale d’impresa (Csr) presentato nella Sala delle Statue di Palazzo Rospigliosi, a Roma. Un’occasione per festeggiare anche i 70 anni dell’azienda, nata ad Alba nel 1946.

Ecco i numeri delle attività di sostenibilità sociale e ambientale realizzate dal Gruppo nel mondo tra il 1° settembre 2014 e il 31 agosto 2015. Al centro, dunque, cura delle ‘Persone’ ovvero – si legge nel report – attenzione ai consumatori che si declina con la scelta delle migliori materie prime, continua innovazione, piccole porzioni (80% dei prodotti sotto 130 kcal; apporto calorico per porzione di 100 Kcal) e, nel complesso, un’alta qualità dei prodotti. Oltre alla promozione di stili di vita attivi con l’inizitiva ‘Kinder+Sport’: 4,1 milioni i bambini messi in ‘movimento’ in 25 Paesi con un investimento di 10,6 mln di euro e 3.105 eventi organizzati.
‘Persone’ come anche i dipendenti e gli ex dipendenti del Gruppo, le loro famiglie, oltre alle comunità in cui Ferrero è presente. A questo scopo, l’azienda promuove diverse iniziative attraverso la Fondazione Ferrero e il progetto imprenditoriale Michele Ferrero attivo in Africa ed Asia.

Qualche numero: 40.721 collaboratori (al 31 agosto 2015), +19% rispetto allo scorso anno di cui 42,4% donne, 71,8% dei dipendenti a tempo indeterminato; 394.957 ore di formazione nella Ferrero University; +3.500 ex collaboratori e coniugi serviti dalla Fondazione Ferrero con 40 gruppi di attività, 580 visite mediche svolte 2015; 4.330 collaboratori del progetto Imprenditoriale Michele Ferrero.
L’azienda è anche impegnata nello sviluppo di pratiche agricole sostenibili e nel minimizzare il proprio impatto ambientale attraverso i progetti F-Acts (Ferrero Agricultural Commitment to Sustainability) e Fer Way (Ferrero Environmental Responsibility Way). Oltre alla nuova partnership con Save the Children, volta a rendere ancora più concreto l’impegno del Gruppo per la tutela dei diritti dei bambini nella filiera del cacao in Costa d’Avorio.
Ecco i numeri della sostenibilità ambientale: 100% olio di palma sostenibile certificato; 44% cacao certificato sostenibile; +22% potenza installata proveniente da fonti rinnovabili; 36% materiale riciclato negli imballaggi; 91,6% rifiuti recuperati; 100% di uova da galline allevate a terra in Europa.
Nel testo di introduzione al rapporto, il ceo Giovanni Ferrero ha ricordato: “Essere un Gruppo globale non ci impedisce di agire localmente mantenendo così il forte legame con le Persone e il territorio in cui operiamo. Ciò è dimostrato anche da una particolare attenzione alla mitigazione del cambiamento climatico: a settembre 2014 il gruppo Ferrero ha sottoscritto un accordo che prevede come obiettivo di dimezzare la deforestazione entro il 2020 e di bloccarla definitivamente entro il 2030”.
Videopillole nell’articolo originale




Marino Golinelli: “La mia fede laica: restituire la fortuna che ho ricevuto”

Ha investito 80 milioni per spingere i ragazzi a trovare le proprie passioni e aiutarli a realizzarle

Le parole che ricorrono più spesso nelle frasi di Marino Golinelli sono domani e futuro. Insolito per una persona di 95 anni. Giacca alla coreana, fazzoletto rosa, quest’industriale farmaceutico, fondatore di un gruppo che fattura 900 milioni con quasi tremila dipendenti, è una sfida ai luoghi comuni. Pochi avrebbero potuto immaginare che il figlio di un contadino, uno che nel dopoguerra comprava lo zucchero al mercato nero per confezionare sciroppi e poi li portava alle farmacie in bici cercando di non far cadere la damigiana, quasi 70 anni dopo sarebbe stato qui.
Siamo in un ufficio vetrato nella zona industriale di Bologna, sospeso sopra l’opificio Golinelli, un laboratorio della conoscenza di novemila metri quadri, che da oggi sarà pieno di ragazzi. Il luogo scelto da questo imprenditore per restituire la fortuna ricevuta, con un investimento di oltre 80 milioni di euro.
Golinelli, perché tutto questo?  
«Per fornire ai giovani dai 18 mesi ai 35 anni strumenti per la conoscenza. Vogliamo prepararli alla società che noi non possiamo neppure immaginare».
Avete chiamato questa sede opificio, un nome che sa di passato, di manualità.  
«La dimensione del fare è fondamentale per capire. Partiamo dal passato per immaginare il futuro. Tutte le domande della cultura, in ogni tempo, alla fine si misurano con un perché. Perché facciamo, perché siamo a questo mondo?»
Già, perché?  
«Siamo qui per formare le persone che costruiranno il rinascimento del paese. Cosa posso fare per restituire alla società quel che ho avuto?»
Come mai questa domanda?  
«Ho avuto la fortuna di avvicinarmi al mondo della scienza. Ero un ragazzo amorfo, non di particolare intelligenza a livello scolastico. Per caso a 16 anni ho trovato un libro sulla teoria atomica di Niels Bohr. Da qui è nata la mia passione, l’impresa. Credo che queste potenzialità le abbiano tutti i ragazzi. Credo nell’uomo».
È religioso?  
«Sono un evoluzionista, penso finiremo per essere pietra. Ma questo aumenta la nostra responsabilità di lasciare come testamento qualcosa per gli altri. La creatività è in tutti, va liberata e fatta crescere attraverso la preparazione. Quel che noi lasciamo segnerà l’evoluzione culturale. Ripeto: ho fiducia nell’uomo».
Come ha trovato questa fede laica? 
«Oggi guardo la società che ho fondato, Alfa Wassermann, e vedo un’azienda internazionale. Ma molte volte ho rischiato di fallire. Se ho continuato è perché credo. Mi ripeto spesso una frase: opera come se Dio ci fosse».
Oltre che di scienza, lei è appassionato d’arte.  
«Molto. Vedo l’artista come un ricercatore della società, in questo non è diverso da uno scienziato. Anzi spesso l’estetica individua prima i bisogni del futuro. L’arte per me è un modo per capire il mondo. Ma non sono un collezionista, tantomeno un mecenate».
Non le piace la parola?  
«Il mecenate è una persona che ha mezzi e fa cose molto belle, ma sempre donando, con un’idea di sussidiarietà, si tratti di un restauro o di un macchinario per un ospedale. Mi sento un filantropo, uno che ama l’uomo, crea, ragiona su un piano operativo, costruendo cose che resistano nel tempo. È per questo che è nata la fondazione Golinelli. Sono danari miei, non dell’azienda. Per rendere quel che ho ricevuto».
Nel nostro paese non è comune.
«Infatti non vado d’accordo con i colleghi imprenditori».
Come mai?
«Pochi, forse il 10 o il 20 per cento, hanno il concetto della responsabilità sociale».
I nvece stare in mezzo ai ragazzi le piace.
«È una bella energia passeggiare con loro. A volte si perdono per responsabilità dei genitori, che non sono culturalmente preparati. Ma ce ne sono moltissimi in gamba. Purtroppo viviamo in un ambiente corrotto. Il nostro è un paese con poca cultura e molta corruzione».
Perché?  
«Si pecca. Poi una misericordia, un pater, un’ave e un gloria, ed è tutto perdonato».
Ci frega la confessione?
«In qualche modo. E il benessere non sempre aiuta. Chi nasce povero ha una marcia in più».
A proposito di frugalità: è vero che non ha la macchina?  
«Nemmeno la casa».
Cioè?  
«Vivo in affitto. Avere case comporta solo gran confusioni ereditarie».
Ma i suoi figli hanno capito? 
«Sì, e non è stato difficile spiegarglielo, conoscono bene le mie idee».
Cosa dice ai ragazzi che incontra per motivarli?  
«Spesso scambiamo gli agi per diritti, scordiamo le responsabilità verso gli altri. Il mio modo per spronarli è stato far nascere tutto questo. Bisogna insegnare loro la passione, si tratti di correre in bici o di fare impresa. Abituarli a cercare la propria luce».
Segue ancora l’azienda?  
«Certo (e mostra la trimestrale ndr)».
Che rapporto ha con la tecnologia? 
«C’è il timore che schiacci l’uomo, ma non sarà così. Dico spesso una frase di papa Francesco: “Non abbiate paura”».
Francesco, Dio: la religione è una presenza continua.  
«Non la religione, l’etica. Le religioni sono necessarie perché ancora la cultura non basta a far capire a un uomo di non aver paura della morte. Si parla così poco della morte, non la insegnano neppure agli studenti di medicina. E come possono curare bene i malati?»
Ha paura della morte?
«Un po’ sì, ma cerco di rimediare con un dovere: pensare a quel che lascio ai giovani. La formazione, la cultura.
Se ne avesse uno qui, ora, che precetto gli impartirebbe?  
«Credi. E fai, come ho fatto io».