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Csr: le aziende sostenibili vendono davvero cibo sano?

Alcune ricerche dimostrano che i consumatori spesso fanno deduzioni sbagliate a proposito dei prodotti alimentari, che li portano a scelte alimentari altrettanto sbagliate. In particolare, le informazioni sulle aziende tendono ad influenzare le considerazioni dei consumatori sulle caratteristiche dei prodotti. Cosa significa? Ad esempio significa che le aziende impegnate in attività di csr riescono a far percepire i propri prodotti come salutari e persino meno calorici, il che porta il cliente ad un consumo maggiore.
LO STUDIO – E’ comparso uno studio sul Journal of Public Policy & Marketing, che svela come si generi un “health halo”, una sorta di aura di salute attorno a certi prodotti che non sono affatto salutari. E tutto parte da performance delle aziende produttrici che non hanno nulla a che fare con filiera corta, scelta di materie prime di qualità o attività che si tradurrebbero in cibi più buoni per il nostro organismo. Tutto ruota attorno a pratiche di csr, che vengono comunicate all’esterno e generano nel consumatore l’idea che i cibi prodotti da quelle aziende siano salutari. Di conseguenza, le scelte di acquisto risultano errate, secondo John Peloza (University of Kentucky), Christine Ye (Westminster College) e William J. Montford (Florida State University), autori dello studio.
LE RISPOSTE DEI CONSUMATORI – A queste conclusioni si è arrivati dopo un’indagine precisa. Ai partecipanti è stato chiesto di avanzare commenti su un prodotto non ancora commercializzato, delle barrette di muesli. Le persone a cui è stato detto che le barrette erano state prodotte da un’azienda che aveva vinto vari premi per attività di servizio pubblico hanno giudicato il prodotto come estremamente salutare.

CONSEGUENZE – Questo, dicono gli autori, porta ad un consumo eccessivo e a sottostimare l’apporto calorico dei prodotti. In ultima istanza, occorrerebbe pensare anche a limiti per le aziende nell’includere informazioni sui programmi di csr nel packaging. Di fatto, senza ricorrere a rimedi drastici, gli autori sottolineano come siano le emozioni a giocare questo brutto scherzo al consumatore. Ma cos’è il marketing se non l’arte di dare appeal ad un prodotto che razionalmente forse non acquisteremmo affatto?




SOSTENIBILITÀ PEER TO PEER

Luca Poma è giornalista e consulente esperto in management della reputazione, che sostanzia attraverso progetti di Responsabilità Sociale d’Impresa, Comunicazione di Crisi e strategie di Comunicazione Digitale e non convenzionale. Docente in strategie di comunicazione al Master di 1° livello in Sistemi Sanitari dell’Università “Bicocca” di Milano, e al Master in Digital Media de “Il Sole 24 Ore” di Roma, ha partecipato a numerosi convegni e seminari in qualità di relatore. Autore di libri, articoli e saggi, il suo blog è “Creatori di Futuro”.  Nella XVI Legislatura ha ricoperto il ruolo di Consigliere del Ministro degli Affari Esteri e successivamente è stato membro del team per le policy di comunicazione strategica del Ministero della Difesa. Ha preso parte a progetti in 23 Paesi del mondo ed è attivo nel volontariato, dove si occupa principalmente della difesa dei diritti dell’infanzia. E’ consigliere per la comunicazione di diverse aziende, e tra queste spicca Guna, azienda farmaceutica leader in Italia nel comparto delle medicine di origine biologico-naturale.
IN RIFERIMENTO ALLA SUA ESPERIENZA PERSONALE, COME E’ NATA LA PASSIONE PER LA CSR E CHE PERCORSO HA SEGUITO PER RICOPRIRE TALE RUOLO? SECONDO LEI C’E’ UN PERCORSO PER DIVENTARE CSR MANAGER?
Non c’è in Italia – da quanto mi risulta – un intero percorso didattico standard predefinito, pur essendoci diversi Master e alcuni che affrontano l’argomento, come ad esempio in Bocconi il MaGER, Master in Green Management, Energy and Corporate Social Responsibility e il NP & COOP, Master in Management delle Imprese Sociali, Non Profit e Cooperative;
a Roma Tor Vergata il corso di laurea triennale in Rendicontazione sociale; a Roma Tre il MEA, Management dell’Energia e dell’Ambiente; alla LUMSA il Corso di laurea triennale in Management e responsabilità sociale d’impresa; a Pavia, il Corso di laurea su Bilancio di sostenibilità e sistemi di gestione integrata; a Bologna il MUEC, Master di I livello in Economia della Cooperazione; a Venezia il Master Management della Sostenibilità e del Carbon Footprint; ma anche 
- all’Università Cattolica –  il corso Professione CSR organizzato dal CSR Manager Network, destinato tendenzialmente ai professionisti già impegnati nella gestione nel settore della sostenibilità. Poi ci sono iniziative formative realizzate ad esempio dalle varie associazioni di categoria, come la FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche e Istituzionali. Molto spesso, tuttavia, i CSR Manager arrivano dal mondo della comunicazione o delle relazioni pubbliche, e non sono formati specificatamente su questo tema, con la conseguenza che l’expertise deriva più che altro dall’applicazione  e declinazione empirica, pratica, di una sensibilità professionale pre-esistente. Personalmente, provengo appunto dal mondo delle relazioni pubbliche, in particolare mi occupo di Reputation management, ho iniziato a lavorare nel settore a inizi anni ’90, ma sono molti anni che mi occupo anche di CSR: è inevitabile che – quando si lavora sulla gestione della reputazione di organizzazioni, siano esse pubbliche o private – si affronti anche il tema della CSR. Questa tematica ha anche incrociato una mia personale sensibilità sul tema della sostenibilità, e di conseguenza è stato anche un piacere e una passione che ho coltivato come frutto di uno stimolo personale, aggiornandomi poi costantemente, in un processo di formazione continua – specie on-line – che non deve venire mai meno.
ALL’INTERNO DI GUNA QUALI SONO LE MANSIONI PRINCIPALI CHE SVOLGE COME CSR MANAGER?
Guna è uno dei Clienti che seguo come libero professionista, e – ci tengo a precisarlo – uno di quelli ai quali tengo di più, in virtù della capacità di “osare” di quell’azienda e di intraprendere percorsi innovativi. Mi occupo di tutta la comunicazione, ad esclusione ovviamente di ciò che riguarda il marketing e il prodotto, che sono seguiti dall’Ufficio marketing, e mi occupo quindi anche del coordinamento di tutti i progetti di CSR.
LEI COLLABORA CON GUNA DA ANNI E L’AZIENDA E’ STATA UNA DELLE PRIME IMPRESE AD ADOTTARE UNA RENDICONTAZIONE CONDIVISA, IL PROGETTO “WEBCAM”. IN COSA CONSISTE, E A QUALI STAKEHOLDERS SI VUOLE RIFERIRE?
Nel 2008 siamo partiti con quello che si è rivelato essere un progetto in continua evoluzione. Ci siamo posti l’interrogativo su quali fossero gli stakeholders: applicando la logica aristotelica, o si è stakeholder o non lo si è. Si o no, non ci sono alternative. Invece, con l’applicazione della logica fuzzy a insiemi sfumati, questo non è vero: vengono introdotti confini più sfumati sulla definizione di stakeholders, che ora ammette delle “gradazioni”. Grazie a un modello matematico, dimostriamo che “sono tutti stakeholder”, in misura maggiore o minore: ciò che varia è solo il grado di “influenza” dall’azienda verso i suoi pubblici e viceversa. Se traduciamo questa visione teorica in prassi, vediamo come tutti gli impulsi che immaginiamo esistere in un’ipotetica rete neurale che collega i pubblici e l’azienda, possono generare un “cambiamento”, pur con gradazioni d’impatto differenti: scopriamo come gli effetti delle azioni promosse dall’azienda, laddove sono tese a modificare il sistema che la circonda, vanno molto più in la di ciò che noi immaginiamo, ed esiste in un effetto che coinvolge anche “gli stakeholder dei nostri stakeholder”. Ad esempio nel caso dei nostri fornitori quando gli chiediamo di adottare comportamenti più sostenibili verso di noi, generiamo molte volte un cambiamento che coinvolge tutti gli stakeholders del fornitore stesso. Partendo da questo, siamo andati ad elaborare una mappa, attraverso appunto un modello matematico, con una serie di checklist somministrate a focus-group presso ogni stakeholder, che ci permette di misurare la “gradazione” delle interazioni tra l’azienda e tutti i propri pubblici, e che si sviluppa su un asse cartesiano che si divide in quattro quadranti dove l’azienda non si colloca più “al centro”, ma è una “texture” di fondo: questo ha un significato pratico, oltre che filosofico, perché evidenzia la assoluta “coincidenza di interessi” tra l’azienda e i suoi stakeholders, che non è una cosa separata dai suoi pubblici, ma i pubblici “coincidono” con l’azienda, si appoggiano sullo stesso spazio dell’azienda, per il semplice fatto che dove i pubblici vincono, vince anche l’azienda, e dove l’azienda vince, vincono anche gli stakeholder. C’è una totale coincidenza di obiettivi. La mappa ci permette anche di evidenziare immediatamente, graficamente, le aree di crisi potenziale per l’azienda: molte volte, esse sono costituite da quegli stakeholder che hanno un’influenza sull’azienda e che l’azienda invece ignora.
COME E’ PROSEGUITO IL PROGETTO NEGLI ANNI SUCCESSIVI?
Con la creazione e la messa a regime di questa mappa, il problema è divenuto un altro. Come avremmo rendicontato questo rapporto così costante ed intenso? Un report di rendicontazione di fine anno, come quello adottato da molte aziende in tutto il mondo, ci pareva assai limitativo… Avevamo bisogno di andare oltre e di convolgere maggiormente i nostri pubblici anche nella creazione stessa del Report. E qui entra in gioco una parola che è alla base di chi fa CSR: autenticità. Il report doveva crescere non più unilateralmente, come un “prodotto” dell’azienda, ma come frutto di un lavoro collettivo e collaborativo tra l’azienda e suoi pubblici. Questo offriva un elemento di controllo, evidentemente, sempre in termini di autenticità, perché l’azienda non poteva più “raccontare quello che voleva” perchè il lavoro era a 4, 8, 16, 24 mani. Le tipologie di stakeholders a cui facciamo riferimento per questo lavoro collaborativo stanno aumentando. Ad esempio, in Guna, le Onlus compilano on-line la parte di bilancio integrato che riguarda il loro specifico progetto, e non solo, dall’anno scorso l’erogazione dei contributi alle Onlus è appunto vincolata – dal punto di vista amministrativo – al fatto che la Onlus abbia aggiornato la sua parte di bilancio integrato. Questo modello ci permette di avere una fotografia realistica dell’azienda, dove i dati sono la risultanza della visione dell’azienda che hanno gli stakeholders. Questo lavoro è stato messo online e viene aggiornato settimanalmente, in alcune parti, e mensilmente, in altre. Il Social Hub di Guna è un bilancio in divenire, un focale punto di incontro, di raccolta informazioni per l’utente che ha a disposizione tutti i dati numerici di interesse: impatto ambientale, quantità di personale assunto, licenziato, portatori di handicap al lavoro in azienda, progetti risolti positivamente, quelli che si sono incagliati, eccetera. Il Social Hub – online all’indirizzo www.socialhub.guna.it – è anche uno strumento di controllo e serve anche per rilevare le criticità che Guna incontra sulla sua strada. Ci si mette di più a nudo, ma in un’ottica di responsabilizzazione dei dipendenti, del team di progetto, di tutta l’azienda. Chi ne beneficia non è solo l’utente ma anche la reputazione aziendale. L’azienda diventa una casa di vetro, e soprattutto – che è la cosa tecnicamente più importante – la rendicontazione sociale non è più un “prodotto”, ma un “processo”. Tutte le aziende conoscono bene il valore della trasparenza per la reputazione, ma essere trasparenti non può essere un’affermazione autoreferenziale dell’azienda: “buongiorno, siamo trasparenti perché lo diciamo noi”. Può essere solo un risultato, e sono gli utenti e i Clienti che devono affermarlo
QUINDI GUNA NON HA MAI VISTO LA CSR, LA RENDICONTAZIONE SOCIALE, COME UNO STRUMENTO DI MARKETING MA COME UN PROGETTO NEL DNA DELL’AZIENDA?
In realtà, intrensicamente è anche un progetto di marketing. Mi spiego meglio: non dobbiamo essere ipocriti, le aziende sono società per azioni che hanno nel proprio statuto la finalità di fare utili. Quindi vorrei bilanciare quanto detto prima analizzando un altro aspetto della CSR. Lo dico provocatoriamente: la CSR esiste anche per fare soldi. Sicuramente l’aspetto di carattere etico ha un carattere preponderante nei progetti di CSR, perchè ricerchiamo un impatto positivo sull’ambiente che ci circonda, ma la finalità ultima di una azienda resta comunque quella di fare utili. Non è una “fondazione sociale” che deve fare del bene, l’azienda deve fare utili anche perché con una corretta ridistribuzione degli utili, che includa anche preoccupazioni di carattere sociale, l’azienda può migliorare concretamente se stessa e ciò che la circonda, penso ad esempio, banalmente, all’impatto positivo di un aumento salariale sulle famiglie dei dipendenti, o all’effetto di maggior investimenti dell’azienda sulla catena dei fornitori, o sulla ricerca, e quindi – a cascata – dell’effetto positivo sugli azionisti e sui dipendenti dei fornitori e sulla società in generale. La cosa interessante, dimostrata anche da studi scientifici che hanno avuto risultati concreti, è proprio questa: la CSR aiuta a fare utili. Quando la responsabilità sociale d’impresa è inserita tra le preoccupazioni strategiche dell’azienda e non è più solo ed esclusivamente uno strumento per farsi buona pubblicità, si scopre incidentalmente che gli utili aumentano, e l’azienda ad esempio diventa più performante anche in Borsa, come dimostra uno studio autorevole della Harward Business School, che documenta su un lungo periodo di analisi, durato ben 18 anni, un 25% di over-performance per le aziende che fanno CSR. E’ necessario gestire il proprio ruolo, perché le interazioni con l’ambiente esistono che all’azienda o all’imprenditore piaccia o no: per fare una metafora, non è che se mi tappo il naso gli odori intorno a me non esistono più… Di conseguenza si tratta solo di decidere se queste interazioni le vogliamo lasciare a se stesse, o le vogliamo governare. Se le vogliamo governare, le possiamo governare in maniera efficace facendo in modo che questo disegno complessivo generale di gestione delle interazioni tra l’azienda e il suo ambiente diventi anche profittevole dal punto di vista economico, orientando i comportamenti di acquisto e permettendoci di fare più utili, e quindi – in un circolo virtuoso – di affermare la leadership dell’azienda sul mercato.
GUNA E’ STATA UNA DELLE PRIME IMPRESE ITALIANE AD INSERIRE L’AREA “COSA NON SIAMO RIUSCITI A FARE E PERCHE’” NEL PROPRIO BILANCIO. QUEST’AREA INCIDE ANCHE SUL PROFITTO DI GUNA?
Ho sempre trovato e continuo a trovare assolutamente ipocrita l’atteggiamento delle aziende che non includono nelle proprie rendicontazioni gli obiettivi falliti e ciò che non sono riuscite a fare. Come cittadino lo trovo vergognoso, offensivo: mi racconti tutto ciò che fai di bene e non mi racconti quello che non fai di male o quello che non stai riuscendo a fare, o gli errori che commetti? Se non impariamo e non metabolizziamo il fatto che un rapporto di fiducia è la cosa più importante per orientare i comportamenti di acquisto, non abbiamo capito nulla del management della reputazione. È assolutamente provato scientificamente che oggi la reputazione è l’asset intangibile più importante in assoluto dell’azienda, il Reputation Institute parla addirittura – per la reputazione – di percentuali a due cifre rispetto al valore di borsa dell’azienda stessa. A questo punto, posto che la reputazione è importante, la reputazione su cosa si basa se non su un rapporto di fiducia? Come posso costruire un rapporto di fiducia se continuo ad alterare i fatti raccontandoli solo in parte, o a nascondere la verità? Noi dobbiamo partire dall’analisi delle relazioni umane. Non posso chiudere mio figlio in una campana di vetro e nascondergli il fatto che al mondo esiste anche la povertà, esiste anche il terrorismo, esiste la pedofilia, esistono dei rischi: non gli starei dando degli strumenti per crescere. La stessa cosa vale per l’azienda. Che tipo di rapporto di fiducia posso avere con un utente finale se lo “anestetizzo” raccontandogli solamente una faccia della verità? Un rapporto di fiducia orienta i comportamenti di acquisto e quindi fa crescere il valore per gli azionisti. Quindi arrivo a dire che tutti i CSRmanager che non inseriscono all’interno del propri strumenti di rendicontazione – quali che siano – gli obiettivi mancati, le cose che non funzionano, le sacche di inefficienza e le aree di criticità, sono dei manager che non stanno facendo l’interesse dei propri azionisti, e i loro azionisti dovrebbero riflettere su questo.
GUNA STA SEGUENDO TANTISSIMI PROGETTI E ASSOCIAZIONI, CI PUO’ FARE QUALCHE ESEMPIO?
Ci sono all’attivo una trentina di progetti sociali, i più diversi, anche sulla base della sensibilità del Board che decide dove destinare i fondi e sulla base soprattutto di un bando trasparente, e in questo caso posso usare questa parola con criterio, perché è pubblicato sul web! Le Onlus devono adeguarsi per poter presentare un progetto in maniere che sia inequivoco perchè certe cose vengono finanziate ed altre no. Adesso stiamo, anno dopo anno, restringendo le parole chiave alle quali i progetti devono adeguarsi riorientando la CSR, nel suo senso filantropico del termine, verso la parola chiave fondamentale in Guna, che è “Benessere”. Guna nasce 33 anni fa con l’ambizione di creare benessere, perché è una azienda farmaceutica un po’ particolare: la maggior parte dei farmaci che vende servono per la “prevenzione” delle malattie, quindi Guna vince quando la gente non si ammala, e questo è esattamente l’opposto di una normale casa farmaceutica che vende prodotti sintomatici che agiscono sui sintomi di una malattia solo quando essa è conclamata, e quindi “vincono” quando ci sono tanti malati. Guna invece vince quando ci sono pochi malati. Allora, partendo da questo “motore” che genera benessere, in questi mesi stiamo lavorando per riorientare tutto l’aspetto designato alla comunicazione della nostra rendicontazione, e poi anche dal punto di vista del sostegno dei progetti, alla parola Benessere. E quindi capire quanto benessere si genera, in quali aree Guna genera più benessere. Quello del Social Hub è un progetto sempre in divenire, e un suo nuovo aggiornamento prevederà una home page che indica “percorsi di benessere” generati dall’azienda: quanto benessere creiamo per i nostri dipendenti, con i nostri fornitori, in alleanza con loro, quanto benessere viene creato sui pazienti finali, l’importanza del medico e del farmacista, che sono i due riferimenti più importanti per Guna nel creare benessere sui pazienti, e via discorrendo, questo sarà un po’ il percorso. Già adesso il Social Hub permette di “personalizzarsi” nei percorsi di lettura: il lettore può scegliere dei percorsi tematici sulla base dei propri interessi, oppure decidere quanto tempo ha a disposizione per conoscere Guna – un’ora, ma anche solo 5 minuti… – e il Report si riorganizza automaticamente per soddisfare le esigenze del lettore. Sovraordinato a tutto ciò, ci deve essere un percorso di conoscienza dell’azienda fondato appunto sul benessere, che è il core-business dell’azienda stessa.
CHE COSA NE PENSA DELLA SUA PROFESSIONE VISTA DA QUI A 3, 5, 10 ANNI. È UN RUOLO CHE E’ DESTINATO A CRESCERE?
Assolutamente si, ce lo confermano anche gli sviluppi dal punto di vista legislativo. Sta entrando in vigore obbligatoriamente anche in Italia la nuova Direttiva Europea che prevede che tutte le aziende al di sopra dei 500 dipendenti abbiamo l’obbligo di una rendicontazione ai propri stakeholders, ed è stata una forzatura – positiva, intendiamoci – che nessuno di noi del settore riteneva possibile. Si pensava che la Commissione europea si orientasse verso una direttiva che rendesse facoltativa, con degli incentivi magari fiscali o di altro genere, la rendicontazione delle aziende, mentre invece l’ha resa addirittura obbligatoria, al di la di ogni aspettativa, e non è escluso che questa soglia dei 500 dipendenti venga in futuro abbassata. Quindi è un settore che offre finalmente un riconoscimento per un percorso di chi come me e altri colleghi ha creduto in tempi non sospetti, anni ed anni fa, al significato vero della parola CSR.
QUALCHE CONSIGLIO AI GIOVANI?
Sicuramente l’ambiente della CSR, che incrocia molti aspetti della reputazione e della comunicazione, è estremamente stimolante. Abbiamo detto che è un settore che crescerà ancora, e dà una particolare soddisfazione la possibilità di far entrare questi concetti nel DNA delle aziende e nelle teste – a volte un po’ solide! – di certi imprenditori e di certi manager che, presi anche dall’affanno delle performance quotidiane, trascurano questi aspetti più di medio periodo, ma non per questo meno importanti. Questo secondo me per un ragazzo, una ragazza, un membro delle nuove generazioni, è un elemento di forte motivazione, di polarizzazione dell’interesse, perché dà soddisfazione obiettivamente scoprire che fare le cose bene, come vanno fatte, nel rispetto dell’ambiente che ci circonda e di tutti i nostri pubblici, in maniera virtuosa, incidentalmente fa guadagnare anche più soldi e fa più contento l’imprenditore. È un gioco in cui fondamentalmente vincono tutti, e, obiettivamente, è un gioco straordinario.
COME RIASSUNTO DI QUANTO DETTO, CI DICE IN DUE PAROLE COSA E’ PER LEI LA CSR?
Gli imprenditori sono sognatori. Sognano un obiettivo a lungo termine, quando creano un’azienda. Poi le difficoltà del quotidiano a volte purtroppo li allontanano da quel sogno iniziale, ma permane la voglia di “lasciare una traccia”. Questa cosa va recuperata. Fare CSR, per me, significa conoscere il progetto di un imprenditore, verificarne le assonanze con la propria personale sensibilità, entrarci dentro quasi fino a farlo proprio, e aiutare l’imprenditore, seduti affianco a lui, giusto un passo indietro a lui, per vincere nel suo progetto. Significa “accarezzare” il DNA stesso dell’azienda facendolo esprimere al massimo attraverso i mezzi di comunicazione più all’avanguardia – e il digitale in questo ha un ruolo fondamentale! – per far arrivare il messaggio dell’azienda a tutti i suoi pubblici, creando così maggior valore per gli azionisti. Fare CSR significa anche e soprattutto comprendere che si può e di deve fare business, ma che quello veramente vincente è un business dal volto umano.




WakaWaka: quando la luce solare può cambiare la vita

Nel campo per rifugiati somali vicino a Dadaab (Kenya), così come a Fond-Verrettes, cittadina haitiana di 45.000 abitanti dove nessuno ha ancora dimenticato il terremoto del 2010, anche una lampada LED o un caricabatterie alimentati a energia solare possono cambiare la vita. In queste aree la rete elettrica non arriva, e una torcia solare può rischiarare la strada per andare a prendere l’acqua, illuminare la tavola durante la cena e sostituire le lampade a cherosene fai da te: costose, inquinanti e pericolose.
Il progetto WakaWaka (“luce brillante” in lingua Swahili), nato in Olanda nel 2012 e approdato nel nostro Paese l’anno scorso – un “Campione in Italia“, più che d’Italia, in questo caso – si rivolge prima di tutto a quel miliardo e mezzo di persone che ancora oggi vivono off-grid, ma anche a cittadini e aziende del mondo sviluppato, sia come utenti (i dispositivi WakaWaka possono essere utili nelle attività all’aperto, in viaggio, oppure in caso di momentanea assenza di elettricità), sia come sostenitori della causa.
Il percorso che porta all’invenzione dei due prodotti inizia nel 2010, quando i futuri fondatori Maurits Groen e Camille van Gestel, consulenti e imprenditori, lavorano a un progetto per rendere sostenibile la Coppa del Mondo FIFA in Sud Africa. Visitando il Paese, i due professionisti olandesi si rendono conto di quanti cittadini disconnessi dalla rete elettrica avrebbero potuto beneficiare di una lampada solare. Nasce così la collaborazione con Intivation, azienda leader nella gestione dell’energia solare, per creare una lampada LED a energia fotovoltaica, “robusta, altamente efficiente, sostenibile e a basso costo, acquistabile anche dalle famiglie che vivono con solo 2 dollari al giorno”, si legge sul sito di WakaWaka. “Nel gennaio del 2012, grazie al crowdfunding è stata finanziata la prima produzione della lampada LED a energia solare più efficiente del mondo. Sei mesi dopo WakaWaka Light ha fatto il suo debutto sul mercato”, spiega Carlo Borgarelli, che insieme a Gian Piero Pepino, principale donor della campagna su Kickstarter, ha fondato la Keenergy srl, la società di distribuzione in Italia. Dopo è arrivata anche WakaWaka Power, che è insieme lampada e caricabatterie per piccoli apparecchi elettronici, a partire dai telefoni cellulari, sempre più diffusi in Africa. Bastano 8 ore di esposizione al sole per ricaricare le batterie di WakaWaka Power e garantire 40 ore di luce con WakaWaka Light.
Oltre alla tecnologia innovativa e sostenibile, però, a contraddistinguere il progetto è la mission sociale, sulla cui base è costruito il particolare modello di business. L’impresa Off-Grid Solutions – proprietaria del marchio WakaWaka – opera infatti in parallelo con la fondazione benefica WakaWaka: “Per ogni prodotto acquistato, l’azienda – continua Borgarelli – destina una quota significativa dei proventi alla fondazione, che si occupa di commercializzare le lampade e i caricatori a prezzi accessibili nei Paesi in via di sviluppo e, in certi casi, di donarli, in collaborazione con ong. Lampade e caricatori sono così arrivati gratuitamente ai profughi siriani e alla popolazione delle Filippine dopo il tifone Haiyan”. Oggi mezzo milione di persone è già stato raggiunto dalla tecnologia.
Oltre ai benefici pratici, ci sono quelli economici e ambientali: l’utilizzo delle torce a LED WakaWaka permette infatti di mettere al bando la lampade a cherosene fai da te, molto diffuse nei Paesi del Sud del mondo. “Grazie a questi dispositivi, è stata evitata l’emissione di 88.470 tonnellate di CO2. Inoltre, l’uso del cherosene è costoso, perché può pesare fino al 25% sul bilancio familiare, e pericoloso: si calcola che ogni giorno 16.000 persone siano coinvolte in incidenti di diversa gravità causati da queste lampade. Si stima che grazie a WakaWaka siano stati evitati quasi mille decessi per ustioni e incendi”.
L’assemblaggio di WakaWaka avviene in Cina: “E’ stato scelto – assicura Borgarelli – uno stabilimento che rispetta i diritti dei lavoratori e gli standard di sostenibilità ambientale. Tutti gli imballaggi, inoltre, sono in carta certificata FSC”. Il prodotto è arrivato in Italia alla fine dell’anno scorso e le vendite stanno andando bene: “Oltre al mercato dei privati e delle aziende, che comprano i dispositivi anche come gadget da regalare, si sta aprendo quello delle ong che operano nei Paesi in via di sviluppo e alle quali offriamo WakaWaka a un prezzo speciale. Inoltre, anche noi di Keenergy devolviamo alla fondazione un’ulteriore quota sulle vendite. E abbiamo da poco lanciato l’offerta 4×2: acquistando almeno due WakaWaka Power, chi compra avrà una Waka Waka Light in omaggio, mentre il corrispettivo del valore di un’altra Light sarà devoluto alla WakaWaka Foundation per sostenere i programmi di aiuto alle popolazioni che vivono off-grid”.




Ecco le skyfarm, fattorie del futuro

Edifici nelle grandi città con allevamenti di bestiame e coltivazioni biologiche. La nuova frontiera dell’allevamento. Un’idea innovativa, in linea con i principi dello “zero waste” (rifiuti zero), che permetterebbe di utilizzare al massimo le risorse, riutilizzando anche gli scarti.

Si tratta degli skyfarming, ovvero torri agricole con piccolo impatto ambientale per la produzione di cibo a basso costo. Nati da una provocatoria proposta di Dickson Despommier, docente di Salute pubblica e microbiologia alla Columbia University, i vertical farming prevedono allevamenti di bestiame in palazzi di trenta piani. Per esempio suini al settimo, polli all’ottavo, ovini al nono, mentre i piani alti dedicati alle coltivazioni di legumi, vigne, ortaggi e una vasta varietà di ortaggi che ha bisogno di tanta acqua per attecchire. L’acqua usata per irrigare i raccolti ai piani superiori scenderebbe lentamente verso il basso per irrigare anche grano, frutta e verdura. Una parte dei rifiuti, poi, potrebbe essere utilizzata come mangime per gli animali dei piani più bassi. Le rimanenze, invece, finirebbero nei sotterranei come scarti organici, dove verranno trasformati, tramite fornaci fotovoltaiche, in “bio palline” di combustibile biocompresso che, producendo energia, finirebbe per generare l’elettricità utilizzata per alimentare l’edificio. In questo modo, attraverso un efficiente processo di riciclaggio, i rifiuti verrebbero ridotti al minimo, col recupero del vapore acqueo emesso da piante ed animali. Tale vapore potrebbe essere trasformato in acqua pura da imbottigliare e rivendere al dettaglio nei ristoranti e nei supermercati situati al piano terra o nel seminterrato dell’edificio. Un metodo rivoluzionario per fornire alle varie città un mezzo che garantisca l’approvvigionamento di cibi coltivati con metodi organici. Una risposta ai problemi ambientali sempre più sentiti ai giorni nostri. Per il momento questi edifici sono stati realizzati solo in piccole comunità in Arizona e in California, ma in molti ritengono che questa nuova proposta possa svilupparsi a macchia d’olio in tutti gli Stati Uniti, trascinata dalla crisi dei mutui. In America infatti l’instabile situazione immobiliare ha portato al proliferarsi di una serie di edifici vuoti. Oggi, un pò come negli anni ottanta, interi isolati sono disabitati ed abbondano di palazzi che potrebbero essere riconvertiti in aziende agricole a carattere urbano. Gli esperti sostengono che nella sola città di New York ne potrebbero sorgere in poco tempo più di quindici, ognuno in grado di produrre cibo a sufficienza per soddisfare oltre settantacinquemila persone. Con centosessanta skyfarm si potrebbe addirittura sfamare l’intera popolazione della “Grande Mela”. L’idea di un palazzo simile nella metropoli a stelle e strisce non è peregrina: Scott Stringer, presidente del consiglio di quartiere di Manhattan, ha ordinato uno studio di fattibilità da presentare al sindaco Michael Bloomberg già entro febbraio. “Non disponiamo di molta terra coltivabile – ha commentato Stringer – ma a Manhattan il cielo non ha limiti”. Non solo New York, molte altre città come Toronto, Seattle e San Francisco, hanno già strizzato l’occhio alla costruzione di questi edifici. Las Vegas, il luogo per eccellenza in cui la creazione di simboli architettonici è arte, sta pianificando una skyfarm di trenta piani. In altre nazioni come Cina, Corea del Sud, Emirati Arabi, invece, dove la disponibilità di suolo coltivabile scarseggia per ovvie situazioni ambientali, molte città si sono affrettate a chiedere progetti di fattibilità. Molti sindaci sono disposti a sposare quest’opera di riconversione eco-sostenibile delle grandi metropoli e molti architetti famosi hanno già dato la propria disponibilità. Tra questi il francese Pierre Satroux, l’americano Chris Jacobs, l’australiano Oliver Foster, il canadese Gordon Graff ed il polacco Daniel Libeskind. I progetti presentati sono una sorta di ibridi architettonici che si ispirano ai giardini pendenti di Babilonia, alla Biosfera del deserto dell’Arizona con un tocco futuristico verso i videogiochi SimCity e Second Life.
Alcuni però si oppongono agli skyfarm. Secondo Jeffrey Kaufman, professore di Pianificazione urbana all’Università del Wisconsin a Madison, l’idea di Despommier è eccessiva. “Perché trenta piani? – si è domandato in una recente intervista – Sei basterebbero. Il concetto è interessante ma è estremizzato”. Armand Carbonell, direttore del Dipartimento di pianificazione urbana del Lincoln Institute of Land Policy, affronta invece il problema economico, bocciando il progetto. “Siamo sicuri – ha ironizzato Carbonell – che un pomodoro riuscirebbe a battere un banchiere per l’affitto di un grattacielo nella parte sud di Mahattan? Scommetto che il banchiere pagherebbe di più”. Senza contare che ad un costo nominale di duecento milioni di dollari l’impresa rischierebbe di essere terribilmente antieconomica.




COMUNICAZIONE DI CRISI E CRISIS MANAGEMENT, STRUMENTI STRATEGICI DELLE RP

Siamo in crisi? Sì, grazie! Imparare a comunicare e gestire le crisi. Strategie e case history emblematiche per salvaguardare la business continuity e la reputazione. Sono questi i temi al centro del corso organizzato da Ferpi, in programma venerdì 26 febbraio a Milano, a cura di Luca Poma e Chiara Galgani, con la partecipazione di Fabio Caporizzi.

“Ci vogliono vent’anni per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla” affermava l’imprenditore ed economista statunitense Warren Buffett.
Il legame di fiducia reciproca tra i diversi soggetti economici è diventato oggi un requisito indispensabile per l’economia e per la sopravvivenza delle imprese: per operare nella società moderna un’azienda deve godere di un indiscusso consenso da parte di tutta la comunità. Fiducia che è possibile costruire nel tempo solo attraverso comportamenti e comunicazioni coerenti e senza macchie, e che viene seriamente minacciata quando un’azienda si trova coinvolta in una crisi reputazionale. La risposta che ciascuna organizzazione sarà in grado di dare e comunicare all’interno e all’esterno risulterà fondamentale per preservare il legame di fiducia con i suoi interlocutori chiave e stakeholders.
Nell’ultimo decennio grandi aziende, multinazionali, banche d’affari e altre organizzazioni sono cadute vittime della loro intrinseca arroganza, incapaci di strutturare anticorpi efficaci per far fronte a situazioni di crisi, “i responsabili delle imprese faticano ancora a comprendere come tutte le aziende corrano stabilmente il rischio di essere colpite da un boomerang, specie a causa delle rapidissime dinamiche del mondo digitale”.
Il crisis management è tuttavia un processo di medio-lungo periodo che comprende tutte le attività da porre in atto prima, durante e dopo un evento critico, per proteggere l’organizzazione dalle minacce o per ridurne l’impatto negativo. La comunicazione di crisi assume un significato fondamentale, ma – per semplificare le cose – non dovrebbe essere altro che l’estensione naturale della comunicazione di ogni giorno. “Come ci ricordava già molto tempo fa il Cluetrain Manifesto – afferma Poma -,‘i mercati sono diventati conversazioni e le aziende devono capire che i tempi dei monologhi sono finiti’. Le parole chiave del XXI secolo utili per creare valore per gli azionisti sono ‘autenticità’, ‘condivisione con gli stakeholder’ e ‘costruzione di reputazione’: questo include simulare scenari critici, con tranquillità, in tempo di pace, e simulare, e simulare ancora… finché l’organizzazione non è perfettamente pronta ad affrontare qualunque tipo di potenziale problema reputazionale”.
Poma spiega come “Non esista un vero e proprio ‘ABC’ di comportamento”, perché “La gestione di una crisi è ‘fluida’ per definizione, quindi non imbrigliabile in schemi completamente rigidi. Essa richiede una conoscenza dettagliata dei meccanismi tecnici di gestione, una profonda consapevolezza delle variabili in campo, sia ambientali sia umane, ma anche una buona dose di creatività e capacità d’improvvisazione. Come per la strategia militare, è una tecnica, non una scienza”. Se è consentito il paragone, si può immaginare un atleta che si allena seguendo un planning standard, ma a ogni competizione deve misurarsi con forze e variabili ambientali differenti.
Ci sono delle regole base, non si deve mai “Cadere nella pratica abituale della sottostima della crisi: 9 volte su 10 gli imprenditori la negano, perché non hanno saputo cogliere i segnali di allarme precedenti, anche se deboli; scaricare la responsabilità; aggredire il proprio interlocutore, mostrando i muscoli, o affidandosi solo agli avvocati, che hanno strumenti obsoleti e spesso una scarsa formazione specifica”.
Di contro, un’impresa ha almeno tre cose da fare assolutamente. “Assumersi le proprie responsabilità: è confermato che le aziende che sanno chiedere scusa sono quelle che più rapidamente recuperano reputazione presso gli utenti-consumatori; a ciò va ovviamente aggiunta la capacità di applicare meccanismi correttivi e far comprendere agli stakeholder per quale motivo quel dato problema non si ripeterà mai più; soprattutto, ben prima che una crisi scoppi, fare una continua previsione di possibili scenari critici, con vere e proprie simulazioni per identificare eventuali aree vulnerabili, perchè la capacità di superare una crisi è direttamente proporzionale alla quantità e qualità di scenari elaborati preventivamente. Va creata un’attitudine che permette ai manager di avere più tonicità, per affrontare situazioni difficili. Ci vuole formazione per gestire una crisi ed è necessario stanziare un budget adeguato nei costi di impresa; infine, gestire il post crisi, perché questa non è mai finita quando sembra, rimane sempre una coda strisciante.
“In Italia sono ancora molte le aziende poco strutturate su questi aspetti, il nostro è un paese ‘a bassa sensibilità’ sul tema del crisi management, e si tende sempre – spesso goffamente – a cercare di rimediare al danno quando esso è già commesso, e questo comporta dei costi molto alti per l’impresa, oltre a pregiudicare l’indice reputazionale delle aziende, che – come sappiamo – è l’asset intangibile oggi come oggi più prezioso”
Secondo Chiara Galgani “È senz’altro vero che non esiste un ‘abc’ precostituito per la gestione delle crisi, ma una regola che vale sempre la pena tenere presente è quella di evitare di non comunicare, chiudendosi a riccio e sfuggendo al confronto diretto con i pubblici di riferimento, perchè i media si interesseranno comunque della crisi, e l’assenza di comunicazione si tradurrà semplicemente nel mancato governo dell’evento con amplificazione degli effetti negativi sulla reputazione aziendale.
Le case history che discuteremo con i partecipanti al corso Siamo in crisi? Sì, grazie! Come comunicare le crisi: strategie e case history per salvaguardare la business continuity e la reputazione, in programma venerdì 26 febbraio a Milano presso la sede della Federazione (via Lentasio, 7 – dalle 09.30 alle 17.30), dimostrano come la risposta attiva alla crisi, con creazione e gestione di un flusso continuo di informazioni, trasmissione di messaggi declinati e adattati per i diversi pubblici insieme a informazioni chiare e trasparenti sono uno sforzo necessario per trasformare la gestione della crisi in un’opportunità.
Se nel momento della crisi l’organizzazione si dimostra attendibile e oggettiva nei sui flussi di comunicazione, il processo di ‘gestione e degenza’ potrebbe notevolmente accorciarsi, lasciando più tempo e opportunità di costruire valore nella fase di riconsolidamento della propria immagine.
La comunicazione in caso di crisi deve essere proiettata sempre al futuro: le misure di change management e il ripensamento dei processi organizzativi aziendali vengono di conseguenza recepiti come sostanziali, e non solo come palliativi, offrendo così all’organizzazione l’opportunità di creare una nuova storia da comunicare”.
Data e sede:
Venerdì 26 febbraio 2016
ore 09.30/17.30
c/o FERPI
via Lentasio, 7
Milano
A cura di:

  • Chiara Galgani, Media Relation Manager di Banca Mps e Socia Ferpi
  • Luca Poma, Giornalista, Docente, Consulente in Reputation management e Socio Ferpi

Guest Speaker: 

  • Fabio Caporizzi, Amministratore Delegato di Burson-Marsteller e Presidente di Y&R Group

 
Obiettivi e Contenuti:
Analizzare la comunicazione in caso di crisi: gli elementi scatenanti e le relative modalità di azione, punti di forza e di debolezza su cui lavorare, strutturare una strategia efficace per salvaguardare la business-continuity e la reputazione.
Destinatari:
Consulenti professionisti di Crisis Management e comunicazione di crisi, uffici stampa, accademici, amministratori pubblici, istituzioni pubbliche, manager di grandi, piccole e medie aziende e tutti coloro che volessero scoprire e approfondire le tematiche legate a questa disciplina.
Iscrizioni/costi:

  • Per i Soci Ferpi in corso di qualificazione e nuovi iscritti: gratuito
  • Per i Soci Professionisti Ferpi già qualificati: 200 euro
  • Per i Frequentanti esterni non soci: 450 euro

Crediti per Soci Ferpi: 100
Per informazioni ed iscrizioni: casp@ferpi.it