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Matcha Pink Drink di Starbucks: quasi #Epicfail Instagram

Mentre in Italia si sta spegnendo (forse) la polemica circa l’arrivo di Starbucks a Milano con relativa discussione aggiuntiva sulle palme in Piazza Duomo, il colosso statunitense delle caffetterie è stato protagonista – suo malgrado – di una débâcle su Instagram che nelle ultime settimane ha tenuto impegnato mezzo web.

Sappiamo che, dopo i gattini, uno dei soggetti di maggior successo sui social network fotografici è proprio il cibo, specialmente se colorato, accattivante e dall’aspetto esotico. Sappiamo anche che a Starbucks sono particolarmente bravi a confezionare immagini di bevande e dolcetti che riscuotono regolarmente centinaia di migliaia di like da utenti di tutto il mondo. E, quando ti chiami Starbucks e ti sei costruito una certa reputazione sul web, non di rado sono gli altri a parlare per te, innescando conversazioni globali in grado di creare veri e propri trend.

Qualsiasi brand piangerebbe di gioia al pensiero di essere protagonisti di un processo tanto virtuoso, se non fosse che i risultati possono essere decisamente altalenanti e addirittura trasformarsi in pubblicità negativa.

Ed è quello che è successo a Starbucks da quando DailyFoodFeed, popolare account Instagram specializzato in immagini di cibi particolarmente colorati e appetitosi – insomma, il famoso food porn -, ha pubblicato la foto di una curiosa bevanda colorata, in un bicchiere Starbucks.

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La bevanda in questione è stata ribattezzata Matcha Pink Drink e non fa parte del menù ufficiale di Starbucks: chi frequenta abitualmente le caffetterie della catena sa però che è possibile farsi preparare delle bevande personalizzate, realizzate al momento dagli addetti di Starbucks su precise indicazioni del cliente. Insomma, il Matcha Pink Drink è la nuova moda delle bevande Starbucks dell’estate 2017 e con il suo colore sfumato e gli ingredienti dal nome esotico si appresta a diventare un tormentone un po’ in tutto il mondo. Non è la prima volta che questo accade: la scorsa estate era stata la volta del Pink Drink, un beverone alle fragole di un delicato color rosa che era diventato virale perfino laddove Starbucks non è presente. A guidare, anche in questo caso, sono i famosi “influencer” che dettano i trend andando oltre le proposte ufficiali del brand creando un cosiddetto “Menù Segreto” che nasce e si sviluppa sul web.

Insomma: il Matcha Pink Drink diventa virale e in molti cominciano a recarsi da Starbucks chiedendo al “barista” di prepararlo con gli ingredienti riportati da DailyFoodFeed per poi fotografare il proprio bicchierone e pubblicare orgogliosi la foto su Instagram. Solo che i risultati sono lontani anni luce dalla foto originale di DailyFoodFeed…

È evidente che per preparare una bevanda come quella della foto di DailyFoodFeed occorrono non solo i giusti ingredienti nelle giuste dosi e alla giusta temperatura ma anche una certa dimestichezza da parte di chi la prepara. Non basta entrare da Starbucks e dire a chi sta dietro il bancone di mixare latte di cocco e fragole con il latte aromatizzato al tè matcha per ottenere quel risultato. Sopratutto se si ha idea dell’affollamento medio di una caffetteria Starbucks in qualsiasi angolo del pianeta (e non si ha Photoshop a disposizione, nonostante DailyFoodFeed sostenga che si tratti di una preparazione reale al 100%).

Però le foto pubblicate dagli utenti non sono particolarmente invitanti: e nonostante questo fantomatico Matcha Pink Drink non faccia parte del menù ufficiale di Starbucks è evidente che il brand non ne esce particolarmente bene. Anche perché tra i commenti cominciano ad emergere le voci dei dipendenti di Starbucks che raccontano esasperati di clienti che chiedono una bevanda di cui non solo non esiste una ricetta precisa, ma per la quale non hanno nemmeno ricevuto alcun tipo di formazione su come prepararla.

Da un lato, quindi, ci sono i dipendenti Starbucks che devono vedersela con orde di clienti vogliosi di bevande arcobaleno, e che se ne lamentano sul web. Dall’altro c’è un brand che, pur godendo di un’improvvisa ondata di viralità, non può sapere con quale stranezza si sveglieranno i propriaficionados domattina. Nel mentre ci sono foto di bevande decisamente poco invitanti che circolano in ogni dove con il logo di Starbucks in bella vista, accompagnate da commenti sarcastici di utenti delusi.

L’unica cosa da fare, per Starbucks, è cercare di sistemare la questione dando un colpo al cerchio e uno alla botte: se da una parte è impensabile far passare il messaggio che le “trovate” degli utenti non sono gradite, dall’altra è importante cercare di non mandare nel caos le caffetterie di mezzo mondo inseguendo il mito della bevanda arcobaleno. Così, interpellato da BuzzFeed, un portavoce di Starbucks dichiara:

Se un cliente vuole ordinare una bevanda che non è sul menù, ci raccomandiamo che sappiano la ricetta in modo che il loro barista possa prepararla. Per esempio, non offriamo un Matcha Pink Drink ufficiale – la bevanda a strati verde e rosa – ma se un cliente vuole ordinarla, la cosa più semplice è chiedere uno Strawberry Acai Refresher con latte di cocco al posto dell’acqua, e stratificarlo con latte di cocco e matcha.

Essere social, per un brand, non significa soltanto progettare e lanciare campagne sui social ma anche essere al centro di conversazioni nate dagli utenti che possono dare vita a nuove esperienze di fruizione e di consumo dei prodotti del brand. Situazioni che, tuttavia, il brand deve saper gestire: un po’ come ha fatto Starbucks che, seppure con un certo ritardo, ha saputo fornire una soluzione per non deludere i propri clienti né far impazzire i propri dipendenti. E chissà che il Matcha Pink Drink non finisca per entrare nel menù ufficiale…

Lesson Learned: Quando sei famoso e hai una buona reputazione, fai sempre molta attenzione alle discussioni che avvengono intorno al tuo brand. Anche se il sentiment è positivo, non è detto che non possa nascere una crisi d’immagine indipendentemente dal tuo operato, ma che sarai comunque tu a dover gestire. 




Trump Hotels e il social media fail che scoppia con 5 anni di ritardo

Quand’è che un team di social media marketing può festeggiare una campagna ben riuscita?
Forse quando a pochi minuti dalla messa online un contenuto riceve già un buon numero di condivisioni e di commenti, lasciando intuire che quello è un contenuto destinato a diventare virale? Oppure quando la campagna diventa fondamentale nel raggiungimento di un obiettivo (maggiori vendite, incremento nel traffico di un sito web o nella visibilità di un brand)? E, dall’altra parte, quand’è che un team social di un qualsiasi brand può considerare conclusa una campagna basata su una call to action rivolta agli utenti di una specifica piattaforma?
Molto probabilmente su quest’ultima domanda avranno riflettuto molto a lungo i social media strategist di Tr Hotels, la catena di hotel di lusso di proprietà di Donald Trump, che negli ultimi giorni hanno visto tornare alla ribalta – con un sentiment decisamente poco positivo – una campagna lanciata su Twitter oltre cinque anni prima.
Le cose sono andate così: nei giorni scorsi Trump ha emanato il cosiddetto “muslim ban”, l’ormai famoso provvedimento sull’immigrazione che, tra le altre cose, ha bloccato i visti di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana, con il risultato che moltissime persone che vivevano da anni o che viaggiavano regolarmente negli Stati Uniti si sono letteralmente trovate bloccate in aeroporto da un minuto all’altro, senza sapere cosa sarebbe successo. Un provvedimento quanto mai contestato, che ha fatto parlare tutto il mondo.
Ebbene, all’indomani dell’emanazione del muslim ban, su Twitter è tornato improvvisamente in auge un vecchio tweet di Trump Hotels, pubblicato nell’ottobre del 2011 in cui si invitava agli utenti a raccontare il proprio “miglior ricordo” legato a un viaggio.
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Un copione, quello di Trump Hotels, che somiglia pericolosamente a quello che soltanto qualche mese più tardi avrebbe seguito McDonald’s per il lancio dell’hashtag #McDstories e che, come sappiamo, non finì nel migliore dei modi. Eppure quando Trumps Hotels lanciò quel tweet, nel lontano ottobre 2011, le cose non andarono troppo male e probabilmente il team social avrà tratto le proprie conclusioni sulla strategia da seguire in materia di engagement degli utenti.
Insomma, tutto dimenticato fino a alla scorsa settimana e al famoso muslim ban, quando qualcuno ricapita su quel tweet e decide di rispondere con una risposta sagace. Tra i primi a “riesumare” la richiesta di raccontare il proprio miglior ricordo legato a un viaggio c’è Nell Scovell, sceneggiatrice americana famosa per aver scritto la popolare sitcom per adolescenti Sabrina – Vita da strega. La Scovell twitta:
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E il tweet, visto dai 17 mila follower della Scovell, diventa virale dando il là a una pioggia di nuovi messaggi diretti a Trump Hotels ma ovviamente indirizzati al suo magnate, il presidente Donald Trump.
Negli oltre 8000 tweet generati tra il 28 e il 31 gennaio c’è veramente di tutto: storie personali e ricordi di famiglia, storie che raccontano di persone arrivate negli Stati Uniti in cerca di fortuna, fuggendo dalla guerra e dalla povertà, certi di trovare un paese accogliente e una terra di nuove opportunità per chiunque avesse voglia di darsi da fare. Insomma, l’American dream nella sua migliore espressione, ma comunque lontana anni luce dalla politica sull’immigrazione dichiarata da Trump nei suoi primissimi giorni da presidente.
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… E, sì, c’è anche la deriva à la #McDstories sulle “storie trucide”:
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Ora, a parte qualche sporadico caso, la maggior parte della nuova ondata di messaggi al vecchio tweet di TrumpHotels non ha realmente a che vedere con il brand in sé, ma più che altro con il nuovo ruolo del suo patron. È anche vero che i personaggi pubblici come Donald Trump tendono ad estendere la propria immagine anche ai brand di cui sono fautori, diventando a loro volta un il brand di se stessi e finendo per legare a filo doppio la propria reputazione con quella dei propri brand. E, in ogni caso, nessun social media manager vorrebbe vedere sulle pagine che amministra una tale mole di commenti che, anche se non direttamente correlati con il brand, sono comunque connotati da un sentiment decisamente negativo.
Cosa c’era di sbagliato nel tweet di TrumpHotels? Nulla, anche se il tempo avrebbe poi dimostrato quanto possa essere rischioso stimolare l’engagement degli utenti dando loro carta bianca su un argomento vago e poco definito. I social media manager di TrumpHotels avrebbero potuto in qualche modo prevedere la piega che avrebbe preso, cinque anni più tardi, un tweet pensato in tutt’altro contesto per ravvivare la conversazione attorno a un profilo? Ovviamente no, ed è probabile che chi oggi gestisce l’account Twitter di TrumpHotels nemmeno sapesse dell’esistenza di quel tweet.
Il caso è comunque interessante per fare una riflessione: spesso abbiamo considerato gli “epicfail” sui social media come il frutto di una call to actionmal strutturata (come nel già citato caso di #McDstories) o perché non si è studiato abbastanza bene il contesto in cui agire o senza considerare lareputazione del brand agli occhi del pubblico che si va a interpellare, come è successo a Volkswagen o alla nostra Trenitalia con #MeetFS. Ma la faccenda è ancora più complessa: in un luogo come i social media, dove tutti gli archivi sono pubblici, nessuna conversazione si più dire mai “conclusa”, così nessuna call to action può essere mai realmente fermata una volta che viene lanciata con un tweet o con una campagna con tanto di hashtag dedicato. In sostanza non si può revocare l’invito a dire la propria e gli utenti possono potenzialmente tornare a cogliere quell’invito in qualsiasi tempo e in qualsiasi circostanza, senza che nessuno possa arrestare questo processo, ma soltanto osservarlo e cercare di gestirlo. Specialmente quando, come in questo caso, la discussione non riguarda il brand in se stesso ma la reputazione del suo leader che opera in un contesto completamente diverso da quello di allora.
Lesson Learned: Nessuna conversazione che avviene in Rete si esaurisce mai completamente, ma può tornare alla ribalta in qualsiasi momento, con risultati sorprendenti. Sul web è impossibile dimenticare – o far dimenticare – qualcosa.




Zara e “love your curves”: quando il vero #EpicFail è il “no comment” del brand

Negli ultimi giorni Zara – il colosso spagnolo dell’abbigliamento low cost – ha fatto parlare di sé un po’ in tutto il mondo per via di una campagna comparsa in alcuni store europei. Come si può certamente immaginare non si tratta di una discussione in termini positivi e, cosa che lascia ancora più perplessi, lo stesso brand non sembra intenzionato a prendere parola in una conversazione che pure lo riguarda molto da vicino.
Tutto comincia qualche giorno fa, quando la conduttrice radiofonica irlandese Muireann O’Connell, twitta una foto da lei scattata in un negozio Zara di Dublino: la foto immortala un cartello esposto nello store che ritrae due giovanissime ragazze in maglietta e blue jeans accanto al claim “Love your curves”Ama le tue curve. Un claim programmatico che la dice lunga sul tipo di messaggio che Zara vuole comunicare, diretto a tutte le donne, e volto all’accettazione del proprio aspetto fisico indipendentemente dall’ideale di “bellezza femminile” veicolato dall’industria della moda e dello spettacolo.
Ciò che però salta all’occhio della O’Connell – e di chiunque altro guardi l’immagine – è che le due ragazze sono indiscutibilmente magre, e che il loro aspetto è decisamente più simile a quello di due modelle da passerella che non all’idea che vorrebbe trasmettere il claim stampato al loro fianco. Insomma, nella foto non ci sono quelle “curve” che ogni donna è invitata ad amare e accettare sul proprio corpo.
Ed è proprio il commento stizzito di Muireann O’Connell…
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… a dare il la a una serie di commenti indignati all’indirizzo di Zara:
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E anche a qualche provocazione:
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Ora. Sappiamo da tempo che quello delle “curve” è un tema estremamente delicato, contro il quale hanno si sono già scontrati molti brand prima di Zara: in ballo non c’è soltanto la promozione di un’ideale di “bellezza autentica” (per usare un claim già utilizzato da un noto brand di prodotti per l’igiene personale) che mira a rovesciare il tradizionale concetto per cui la bellezza apparterrebbe solo alle star taglia 38, ma anche la difesa, da parte dei brand della moda, dalle accuse di continuare implicitamente a sostenere un solo canone di bellezza e per di più lontanissimo dalle donne reali.
Sostenere una campagna a favore delle “curve” – quasi intese come “imperfezioni da valorizzare e amare” – per poi scegliere come testimonial due modelle dal fisico da passerella suona tanto come un autogol da parte di un brand come Zara che si rivolge a un pubblico molto ampio dal punto di vista geografico, anagrafico e socio-economico. Ed è anche un brand che, a dirla tutta, ha già anche qualche problemino di reputazione legato alle accuse di sfruttamento della manodopera nei paesi dove confeziona i suoi capi d’abbigliamento: l’opinone che gli utenti hanno del brand, quindi, è già fortemente strutturata e a poco servono i tentativi di qualcuno che prova ad obiettare che, magari, quella campagna era rivolta alle giovani donne naturalmente magre che si sentono apostrofare come “stecchini”.
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A peggiorare le cose, tuttavia, è anche la linea tenuta da Zara che, semplicemente, opta per il silenzio: dopo che il tweet della O’Connell e la successiva polemica sono diventati virali, moltissime testate da tutto il mondo hanno contattato il quartier generale dell’azienda spagnola chiedendo chiarimenti, per ricevere soltanto un netto silenzio come risposta.
Un silenzio che non può che confermare, pericolosamente, l’idea che ciascuno si è fatto sulla vicenda: Zara predica bene ma razzola male sotto gli occhi di tutti? Zara prende in giro le donne? Zara dice di voler vestire tutte le donne ma poi non fa abiti in taglie superiori alla 44? Tutto può essere, specialmente se da Zara nessuno si fa vivo per dare una spiegazione di qualsiasi genere o, almeno, per fornire le solite scuse di rito che quasi sempre arrivano dopo scivoloni simili.
Nel frattempo, però, ognuno rimane fermo sulla propria idea, qualunque essa sia: farà bene alla reputazione di Zara e, all’immagine che il pubblico si è fatto di questo brand?
Lesson Learned: È sempre una buona idea trincerarsi dietro il “no comment” anche quando non hai nulla da dire?




Per 7 imprenditori italiani su 10 questo è l'anno della svolta green

Non solo vantaggi economici, così si crea un ambiente di lavoro più sano e sereno

Il 2017 è l’anno della “svolta green” per oltre 7 imprenditori su 10 (72%) che hanno infatti affermato di avere già messo in atto, o di avere intenzione di farlo, politiche e azioni concretamente ecosostenibili in azienda per contenere le emissioni inquinanti o hanno adottato comportamenti più sostenibili, dai vertici fino ai dipendenti.
Dalle scelte più complesse, come gli investimenti nell’innovazione dei macchinari (44%) e l’installazione di pannelli solari per generare energia pulita (37%), alle più semplici, come la raccolta differenziata in ufficio (51%) e l’abbassamento dei termosifoni (45%), sempre più imprese si sono messe all’opera per dare una mano al Pianeta.

Tra i vantaggi maggiori, gli imprenditori rilevano un ambiente di lavoro più sano e sereno (87%), un risparmio economico sul medio e lungo termine (73%) e un incremento della reputazione dell’azienda in ottica Csr (62%). Una vera e propria tendenza che coinvolge principalmente le imprenditrici rispetto ai colleghi uomini: tra le donne infatti la percentuale sale all’80%, soprattutto nelle grandi aree industriali del Centro-Nord.

È quanto emerge da uno studio promosso da Conlegno in occasione dell’Earth Day che si celebra domani 22 aprile, dal 1970, in tutto il mondo per sensibilizzare l’umanità al rispetto dell’ecosistema in cui vive. L’indagine ha coinvolto 150 imprenditori selezionati a campione dalle principali città italiane, per comprendere come le aziende italiane si stiano muovendo in difesa dell’ambiente, e uno scouting di 70 testate internazionali che hanno analizzato il tema.
Ma quali sono questi comportamenti “green” che gli imprenditori italiani stanno per mettere in atto?Al primo posto, l’obbligo in azienda di fare la raccolta differenziata (51%); al secondo, tutti quegli accorgimenti che permettono di ridurre l’impiego d’energia, come abbassare i termosifoni o chiudere porte e finestre se è attivato il condizionamento dell’aria (45%). Medaglia di bronzo invece per gli investimenti in macchinari e strumentazioni con classe energetica A o a minor impatto inquinante (44%).
Chiudono la top 5 l’installazione di pannelli solari o altri dispositivi per generare energia pulita (37%) e l’acquisto da fornitori e produttori che dispongono di adeguate certificazioni che garantiscano la sostenibilità dei prodotti acquistati (34%).
Tra le motivazioni principali che spingono ad adottare politiche green nelle aziende: creare un ambiente di lavoro più sano e sereno (87%), ricavare un risparmio economico sul medio e lungo termine (73%), attenzione alla reputazione dell’azienda in ottica Corporate Social Responsibility (62%). Ma lungo la strada della sostenibilità si incontra anche qualche ostacolo.
Ad esempio, il 48% degli imprenditori ritiene che Governo e amministrazione locali dovrebbero favorire l’investimento in nuovi macchinari e strumenti ‘green’ con sgravi fiscali e sovvenzioni. Il 35% lamenta poca collaborazione di parte dei dipendenti a mettere in atto semplici accorgimenti (dalla raccolta differenziata allo spegnimento di luci e pc) o sottolinea l’elevato costo di alcuni prodotti certificati o realizzati con materiali di recupero (22%).
Infine, ecco l’identikit dell’imprenditore “green” italiano. L’80% delle donne e il 64% degli uomini ha dichiarato di aver già messo in pratica, o ha intenzione di farlo, atteggiamenti sostenibili per la propria azienda e per i dipendenti. Tra di loro la maggior parte è under 45 (85%), mentre la percentuale scende al 59% tra i 46 e i 70 anni. Il fenomeno, più marcato nelle grandi città del Centro-Nord, vede in testa gli imprenditori dell’area di Milano (77%), seguita nella top 5 da Roma (75%), Torino (74%), Bologna (72%) e Napoli (68%).




Le leggi della robotica di Asimov hanno 75 anni: è tempo di un aggiornamento

Le celebri leggi della robotica formulate da Isaac Asimov compiono 75 anni. E gli esperti ritengono sia giunto il momento di aggiornarle. Ecco come

Settantacinque anni di leggi della robotica e sentirli tutti: le celebri regole enunciate da Isaac Asimov, il più famoso scrittore di fantascienzadi tutti i tempi, cominciano ad avvertire i primi segni del tempo che passa. E rischiano di diventare obsolete rispetto agli avanzamenti della stessa robotica e dell’intelligenza artificiale: è per questo che RoboHub, la più grande comunità scientifica internazionale del settore, ha aperto un dibattito sulla possibilità di aggiornare le leggi alla luce dei cambiamenti che Asimov non avrebbe potuto prevedere.
Ma facciamo un passo indietro, precisamente al 1942. Quando Asimov pubblica il racconto Circolo vizioso, ambientato sul pianetaMercurio. I protagonisti della storia, Greg Powell e Mike Donovan, appena sbarcati sul pianeta, hanno a disposizione un robot sofisticatissimo per recuperare del selenio – elemento estremamente abbondante su Mercurio – da usare per la riparazione di un guasto ai pannelli fotovoltaici della miniera nella quale si trovano.
C’è però un imprevisto: Speedy, questo il nome del robot, sembra essereimpazzito. Anziché estrarre il selenio, vi gira intorno canticchiando canzoni senza senso. Il motivo dello stallo, scopriranno Powell e Donovan, sta nel fatto che dal pozzo di selenio esala monossido di carbonio, dannoso per il robot: questi, pur essendo programmato per obbedire agli esseri umani, tenta anche di salvaguardare la propria esistenza, rispettando le tre regole impresse nel suo cervello positronico, che passeranno alla storia come leggi della robotica.

1. Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva un danno.
2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché tale autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

Quello che succede, in sostanza, è che il robot, cui è stato impartito l’ordine di estrarre il selenio, si avvicina al pozzo in ottemperanza alla Seconda legge, ma poi vi si allontana in base alla Terza, girando all’infinito attorno alla pozza. Impasse di questo tipo, dovute a conflitti tra le leggi della robotica – o a problemi interpretativi delle stesse – sono estremamente comuni nei racconti di Asimov, e generalmente sono risolte grazie a intuizioni umane, che permettono di penetrare le maglie delle regole e uscire dal ginepraio.
Un metodo che oggi – e ancora di più domani – potrebbe però non essere più sufficiente a indirizzare i robot. “Il problema”, ci spiega Filippo Cavallo, esperto di robotica sociale alla Scuola superiore di studi universitari e perfezionamento Sant’Anna di Pisa, “è che negli ultimi 75 anni le tecnologie – soprattutto l’intelligenza artificiale e la potenza computazionale – erano completamente diverse rispetto a quelle di oggi. I robot, all’epoca, svolgevano soprattutto lavori meccanici e ripetitivi in ambienti estremamente controllati, come per esempio quelli industriali”. Sostanzialmente, al tempo della prima formulazione delle leggi della robotica, e negli anni successivi, i robot erano rigidamente programmati per operare in condizioni quasi deterministiche, in cui non c’era spazio per aleatorietà né improvvisazione.
“Oggi”, dice ancora Cavallo, “la situazione è completamente diversa. I robot lavorano in ambienti non strutturati e volatili e hanno a che fare con eventi casuali e non predicibili, il che può portare a situazioni inattese. Che sfuggono completamente al dominio delle Tre leggi di Asimov”. A complicare ulteriormente lo scenario, il fatto che i robot sono e saranno sempre più usati in scenari cooperativi, in cui dovranno lavorare fianco a fianco con altri robot, con la rete dell’internet delle cose e, naturalmente, con gli esseri umani. Facciamo un esempio concreto. “Supponiamo”, spiega Cavallo, “di avere un robot che assiste una persona anziana non autosufficiente. E supponiamo che questi si rifiuti, un giorno, di assumere le terapie. Cosa dovrebbe fare un robot? Secondo le Leggi di Asimov, non potrebbe non somministrare la terapia – altrimenti arrecherebbe danno a un essere umano – ma non potrebbe neanche disubbidire ai suoi ordini. E andrebbe dunque incontro a uno stallo ben più grave di quelli paventati da Asimov”.
Altri esempi riguardano tutte le situazioni in cui i processi decisionali sono significativamente influenzati dall’etica, come per esempio quelle delle automobili a guida autonoma – che possono essere considerati dei robot a tutti gli effetti – quando c’è da decidere tra preservare la sicurezza dei passeggeri o di eventuali passanti. Anche in questo caso, secondo gli esperti, un cervello programmato con le Tre Leggi non sarebbe in grado di prendere velocemente la decisione giusta (posto che ci sia una decisione giusta: ma qui sconfiniamo, per l’appunto, nel campo dell’etica). Cosa fare, dunque? Cavallo propone due approcci: “Anzitutto, è necessario formulare una sorta di leggi della robotica locali, che si adattino cioè al contesto in cui opera il robot e che siano rielaborate di conseguenza: in generale, tali leggi devono essere inserite in un nuovo framework etico-sociale-tecnologico-legale più ampio di quello in cui le aveva inglobate Asimov”. L’altro aspetto ha più a che fare con la tecnologia in senso stretto: “Auspicabilmente”, conclude Cavallo, “gran parte di queste contraddizioni potranno essere risolte dalla stessa tecnologia. Tornado all’esempio del robot che assiste un paziente anziano, potremmo immaginare che in futuro sarà così evoluto da avere capacità ‘sociali’, ossia da comportarsi come farebbe un essere umano, cercando di persuadere l’assistito seguendo regole sociali di base. È la cosiddetta persuasive technology. Chissà se avrebbe funzionato anche con Speedy.