Simposio Medicine Non Convenzionali

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Appellarsi ai consumatori, non alla politica: questa la scelta dei lavoratori sottopagati del colosso tedesco per la consegna di cibo online. Una scelta che dimostra come ormai si voti anche con la carta di credito. E che il potere del consumatore è enorme, se impara a usarlo
In quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Il caso Foodora ne è l’esempio
Gli esseri umani hanno alle spalle un’esperienza di 200.000 anni nel rapportarsi con la morte, eppure mai come ora sembriamo incapaci di farlo. La tecnologia del 2016 ha trasformato l’idea di “passare all’altro mondo” quasi una violazione—qualcosa di non naturale. Non è che la morte sia mai stata una cosa bella, ma ad un certo punto della storia della specie, forse, era una faccenda più normale di quanto non sia ora.
Grossa parte della sua anormalità è data dall’esistenza delle identità digitali. Come persone, siamo in grado di diffondere il nostro io ovunque: abbiamo l’illusione dell’immaterialità; e ciò che resta è l’ansia di un aldilà digitale. Dove una volta l’esistenza materiale del defunto poteva essere racchiusa in un triste pomeriggio di ricordi e pulizie, ora persiste e indugia.
Non è un bene? Forse no, stando a quanto scritto in una ricerca pubblicata questo mese su ACM Transactions on Computer-Human Interaction da un trio di ricercatori che lavorano rispettivamente alla University of Lancaster, alla University of California, e alla Carnegie Mellon University. Per quanto possiamo voler tenere i morti vicino a noi, e per quanto possa essere semplice, forse non è ciò che ci serve per superare un lutto.
Cancellare qualcosa non ha assolutamente lo stesso potere catartico che ha, per esempio, il fatto di bruciare o dare via degli oggetti materiali
“Le persone vivono sempre di più la propria vita online, accumulando grandi quantità di averi digitali,” scrivono gli autori. “Molti di questi averi digitali rappresentano simbolicamente le relazioni, gli eventi e le attività importanti. Il campo di studi [che si occupa di relazioni tra esseri umani e computer] ha iniziato a esaminare questi averi digitali nel contesto della perdita e della separazione. Ad ogni modo, gran parte del lavoro esplora la conservazione e la celebrazione, nello specifico come gli averi possono avere una funzione positiva nel ricordare una relazione e nell’onorare una persona scomparsa.”
Una parte più contenuta del lavoro riguarda invece come liberarsi di questi oggetti, e il fatto che sia spesso un problema. Gli autori hanno cercato di capire meglio il fenomeno intervistando 10 psicoterapeuti—tutti specializzati nel facilitare i pazienti in lutto nella disposizione delle proprietà fisiche—da cui hanno poi sviluppato un quadro di lavoro teorico per distaccarsi dagli averi digitali dei morti.
“Durante i momenti di transizione della vita, le persone vogliono spesso allontanarsi dai ricordi più dolorosi, ma la natura disorganizzata delle collezioni digitali delle persone rende più difficile identificare quegli oggetti simbolici che è funzionale conservare o abbandonare,” prosegue il paper. “Questa mancanza di organizzazione significa anche che le persone possono imbattersi per caso in promemoria dolorosi senza preavviso alcuno. Le persone che cercano attivamente di disfarsi del materiale digitale relativo alla loro ultima rottura sentimentale, si trovano a fare i conti con l’inflessibilità della cancellazione.”
Cancellare qualcosa è un atto freddo, brutale. Le informazioni binarie organizzate che si traducono in un’immagine o in una email o in un video vengono improvvisamente scombinate, e la rappresentazione digitale è perduta come se fosse stata incastrata in una bomba nucleare e scaraventata nel vuoto dal portellone di un aereo. I terapisti intervistati hanno insistito nel dire che cancellare qualcosa non ha assolutamente lo stesso potere catartico che ha, per esempio, il fatto di bruciare o dare via degli oggetti materiali. È un attimo e poi è tutto finito (e così è la vita, per carità, ma avete capito il punto).
“Potremmo immaginare tecnologie future che fanno uso di componenti elettroniche transitorie auto-dissolventi o biodegradabili per contenere gli oggetti digitali di valore simbolico.”
La conclusione del paper, insomma, è che cancellare brutalmente un oggetto digitale non favorisce un superamento sano del lutto. Lasciar andare qualcuno o qualcosa è più facile se comprende un processo fisico che si sviluppa nel tempo. Non è un atto, ma un’esperienza. La domanda a questo punto è, come facciamo a rendere esperienziale la cancellazione digitale? Sarà mai possibile?
Gli autori sono fiduciosi. Anzi, la cosa si sposa bene con l’interazione tra esseri umani e computer di terza generazione, in cui le interazioni corporee e le esperienze sensoriali sono enfatizzate—l’interazione digitale oltre schermi, tastiere e mouse. Una delle implicazioni verte sull’idea che i contenitori digitali non siano progettati per conservare contenuti, ma per liberarli.
“Quando aperti, i contenitori potrebbero materializzare/mostrare il patrimonio digitale come testo, immagini, o suoni un pezzo alla volta per l’ultima volta, prima che scompaiano dalla percezione (rappresentando, in modo simbolico, la messa in atto della cancellazione) per non essere mai più ritrovati,” spiega il paper. “La disposizione degli effetti personali digitali, in questo caso, è sia visibile che rapida nel suo svolgersi davanti ai nostri occhi.”
“Potremmo progettare magazzini fragili ed effimeri anziché renderli permanenti e robusti, come sono ora,” prosegue il paper. “Il nostro studio sottolinea il valore degli elementi naturali come la terra e l’acqua e il loro intrinseco aspetto di deperibilità, dissoluzione e rinnovamento. Per esempio, potremmo immaginare tecnologie future che fanno uso di componenti elettroniche transitorie auto-dissolventi o biodegradabili per contenere gli oggetti digitali di valore simbolico. Tecnologie come queste potrebbero essere smaltite fisicamente o attraverso la dissoluzione o la decomposizione.”
C’è tanto altro da dire, ovviamente, ma l’idea è chiara. Quando moriamo, non scompariamo come fanno i dati. Come facciamo, dunque, a far sì che la morte dei dati sia come la nostra?
Se non avete seguito l’affaire-Parah non vi siete persi nulla, ma dalle parti della blogosfera ci piace perdere tempo su questioni torbide, tipo appunto la scelta di questo brand di costumi e mutande (credo che loro lo dicano meglio, usando l’inglese) di utilizzare Nicole Minetti per una sua sfilata.
Molti si sono risentiti (ché la Minetti non è esattamente un esempio di donna che fa carriera in modo dignitoso), molti altri hanno riso, altri ancora hanno intravisto il segno inconfondibile del “responsabile comunicazione mannaro”, una pericolosissima specie che talvolta infesta le aziende nostrane e fa strage di buonsenso alla ricerca di soluzioni facili.
E’ sicuramente opera sua il comunicato emesso da Parah per giustificare a posteriori la scelta di una delle donne più (giustamente, direi) vituperate del paese come testimonial: un esempio di alta scuola, forse addirittura la radice di un canone, di come non si comunica.
Come tutte le opere d’arte letteraria, merita una chiosa paragrafo dopo paragrafo. Buona lettura.
Si, volevamo la vostra attenzione.
L’avete avuta. Anche uno a cui cascano i pantaloni su un tram affollato la ottiene. Capisco che vendendo mutande e affini l’eventualità non possa sembrarvi necessariamente un male.
A quanto pare la notizia che Nicole Minetti sarà modella durante una sfilata Parah è riuscita ad ottenere la Vostra attenzione. L’attenzione di chi utilizza e ama i nostri prodotti, di chi conosce il nostro marchio e la sua storia, di chi probabilmente non ci conosceva neppure, ma ora sa chi siamo.
Ecco, anni e anni di cultura televisiva berlusconiana vi hanno portato a prediligere l’audience (cioè il numero di persone che sa della vostra esistenza) rispetto al buon vecchio indice di gradimento, che misurava quanto piacevate al vostro pubblico (strumento sicuramente incompleto, ma che teneva nell’equazione delle scelte la variabile della qualità).
Tutti parlano di voi, è vero. Anzi, probabilmente quel genio che ha deciso di far sfilare la Minetti sotto le vostre insegne attualmente è nell’ufficio dell’amministratore delegato a sventagliare numeri su numeri “uè, guarda lì, diecimila menzioni su Twitter in mezza giornata, troppo frizzante!” (scusate, per antichi pregiudizi da Italia nord-occidentale me lo immagino come uno di quelli che usa l’espressione “ci fasiamo”).
Parah negli anni ha sempre cercato di portare avanti l’immagine di un brand serio, ricercato, avvalendosi anche di testimonial famosi che hanno portato orgogliosamente i nostri capi e che noi con soddisfazione abbiamo visto far parte delle nostre campagne pubblicitarie.
Tralasciamo il disastro grammaticale per cui una frase inizia in terza persona singolare e prosegue con la prima plurale.
Siamo di fronte a una classica scusa non richiesta, che suona come un rimedio peggiore dei mali.
Dopo che scegli un testimonial impresentabile e associ i valori della tua marca ai valori che quel testimonial rappresenta (perché la questione è questa: il testimonial *è* la tua marca, dal momento che lo usi), l’ultima cosa che devi fare è dire “ehi, ma prima usavamo testimonial serissimi!”.
Perché se davvero la tua “è una provocazione” (l’espressione mi fa venire l’orticaria) e la tua marca ha le spalle così larghe da sostenerla, non devi certo metterti a specificare che sei la BBC delle mutande. La gente lo sa già, se lo sei.
Ma al giorno d’oggi l’unico modo per colpire l’attenzione sembra essere quello di stupire e creare scandalo, ecco perché spesso i nostri modelli non hanno ottenuto l’attenzione sperata, ancora meno se i testimonial sono ragazzi e ragazze scelti tra la gente comune.
Chi ha scritto (e approvato: non licenziate il povero copy che ha sfornato questo disastro, prendetevela con la filiera di manager che lo ha fatto uscire, ché colpire sempre l’ultimo della fila è facile, autoassolutorio e non risolutivo) questo paragrafo ha fatto l’equivalente comunicativo di 4 autogol di nuca.
Infatti il suddetto genio, spalleggiato dal management, riesce a scrivere nell’ordine che:
1- in questo paese l’unico modo per colpire la vostra attenzione, caro pubblico a cui cerchiamo di vendere le nostre mutande, è creare scandalo. E’ colpa vostra, perché non vi basta la gnocca, ma la volete famosa e – se possibile – con una pennellata di infamia e morbosità
2 – in passato i nostri modelli non hanno ottenuto l’attenzione sperata (errore gravissimo, ammettere una sequenza di insuccessi in comunicazione: su queste cose si sorvola), perché in fondo in fondo siete tutti dei minus habens e noi dobbiamo darvi quello che volete
3 – voi gente comune odiate la gente comune e non ci notate; la Minetti, insomma, l’avete messa voi sul nostro palco; fosse per noi avremmo fatto sfilare Rita Levi Montalcini
Ecco che questa volta abbiamo osato. Abbiamo sfruttato l’attenzione mediatica che circonda la figura di Nicole Minetti per rompere gli schemi e ottenere la Vostra attenzione.
Questa è avanguardia, pubblico di merda. L’ho già sentita, questa storia. E avevo sì e no 3 anni. Dietro ogni vaccata in comunicazione c’è un’arguta provocazione che rompe gli schemi, nella misura in cui dietro ogni musicista che stecca c’è un jazzista incompreso.
E’ stata una mossa coraggiosa.
Ci dispiace aver turbato e fatto arrabbiare qualcuno, soprattutto quando i nostri Clienti e Fan storici, che da sempre seguono Parah, dicono che vogliono abbandonarci.
Altro errore elementare: ammettere gli effetti nefasti della tua comunicazione sbagliata. Peraltro senza nemmeno addolcire il tutto con qualche eufemismo. Se proprio devi (e non devi, fidati) dire che i tuoi clienti e fans ti stanno abbandonando, scrivi che *alcuni* tra i tuoi clienti e fans ti hanno “simpaticamente tirato le orecchie” o giù di lì. Ma così certifichi e ufficializzi la valle di lacrime in cui tu, marca, ti sei cacciata.
Ma se l’abbiamo fatto, soprattutto ora con la settimana della moda alle porte, è stato per portare l’attenzione su quello che vuole comunicare Parah, a partire dal Parah Online Contest.
Il Parah Online Contest è il concorso che ha visto quasi 300 ragazze provenienti da tutte le parti d’Italia e dall’estero, inviare le proprie fotografie o farsi fotografare sulla spiaggia per provare a diventare la nuova testimonial Parah online.
Potevamo prendere un testimonial famoso, ma abbiamo deciso di rimetterci in gioco e di dare una possibilità alle ragazze e siamo stati colpiti dal loro entusiasmo e dalla loro voglia di provare.
Ora siamo alle fasi finali. Le trenta ragazze finaliste faranno uno shooting a Milano il 4 ottobre e tra queste verranno scelte le tre finaliste che verranno votate da Voi.Una scelta pubblicitaria che non convincerà tutti i nostri fan. In questo modo però abbiamo ottenuto un risultato positivo: l’attenzione che le ragazze del Parah Online Contest ed il loro impegno meritano.
Tirata lunghissima contenente una evitabilissima auto-marchetta, con in più una scusa last-minute che non sta logicamente in piedi.
I geni del marketing di questo sventurato brand dicono, in sostanza:
1 – alla gente non piacciono le modelle comuni, perché la gente è morbosa
2 – ed è per questo che abbiamo chiamato come modella un personaggio controverso e schifato da tutti, così attiriamo l’attenzione nei confronti di un nostro contest in cui premieremo modelle non famose
3 – anche perché, se avessimo voluto, avremmo potuto scegliere una testimonial famoso (e non discusso) e avremmo fatto bingo.
Quindi lo fanno per noi, per educarci. Perché abbandonati a noi stessi faremmo sfilare solo gente come la Minetti e affini. Il loro è un trattamento omeopatico: ci danno una dose di morbosità gossippara per portarci sulla retta via dell’apprezzamento delle modelle anonime.
Son pure filantropi.
Vorrei evitare la notarella moraleggiante alla fine. Però, disgraziato di un responsabile comunicazione mannaro, ora il danno è fatto. E scoprirai sulla tua pelle, se tu e i tuoi superiori che ti hanno dato corda siete ancora in possesso di un lavoro lì dentro, che la credibilità nel 2012 conta più della pura notorietà.
Probabilmente il tuo reparto marketing ti lancerà una ciambella di salvataggio sotto forma di test di mercato che rileveranno che la tua marca avrà guadagnato un bel po’ di punti di awareness. Non ne andrei così fiero.
Capiscimi, se ci riesci: c’è una bella differenza tra essere famoso perché sei credibile ed essere sulla bocca di tutti perché ne sei lo zimbello.
E ora per il tuo successore sarà veramente dura cancellare l’associazione mentale Parah –> costumi e mutande da mignottone.
C’è anche la chance che tu sia uno di quei pochi (sempre meno, ma comunque sempre troppi) che pensano che quel bel mondo lì di sgallettate e unti dal signore della Milano degli onnipotenti catodici sia quello giusto. Cioè, magari sei intimamente convinto che Nicole Minetti sia un modello di vita, perché bisogna reagire alla povertà in tutti i modi, anche dandola via facile al primo potente che passa.
In quel caso la colpa non è tua, ma di chi ti ha assunto e ti ha messo in un ruolo di responsabilità. E’ giusto che paghi le conseguenze del tuo modo di essere e pensare.
E forse non è nemmeno un male se qualche sano e auspicato fallimento contribuirà a far calare un po’ quell’arroganza fascistella che da sempre serpeggia nel mondo della moda.
Ci fasiamo al collocamento.
* disgraziatamente il nome Parah si presta a migliaia di calembour tra l’innocente e il pecoreccio grave e tutti – sottolineo tutti – sono stati utilizzati per twit, articoli, post e aggiornamenti di status su Facebook.
Restavano inutilizzati un mio parto, cioè “Parahparah parahparah parahparappapah! (figura di…)” e, appunto, “Para(h)frasi”: frutto della mente geniale di Michele Boroni.
A conferma che qui non si è provocatori, si è scelta l’opzione più bella.
73esima Mostra del Cinema di Venezia: tracciamo un breve bilancio e una panoramica sull’edizione appena conclusa.
Ascolta l’audio: