Le imprese investono in Csr, ma i bilanci sono troppo autoreferenziali

Moltiplicano le iniziative a favore dei dipendenti, rendicontano attraverso il bilancio sociale, si impegnano per il territorio, l’ambiente, l’arte e la cultura. Sono le imprese socialmente responsabili che in Italia nel 2011 hanno investito in media 210mila euro (nel 2009 la cifra media investita era di 161mila euro). Insomma, oggi le aziende non si preoccupano più solo di comunicare informazioni finanziarie ma anche di raccontare cosa fanno per l’ambiente e la società ma i bilanci di sostenibilità sono ancora troppo autoreferenziali.
I dati parlano chiaro: secondo il rapporto biennale Swg per Osservatorio Socialis condotto su 823 aziende con più di 100 dipendenti, nonostante la crisi, nel 2011 il 64% delle aziende in Italia ha investito in Csr e per il 67% è uno strumento che serve a rafforzare il rapporto con i dipendenti. Sorprendente quindi il fatto che c’è un 27% di imprese che fa Csr ma non lo comunica ai propri dipendenti.
Eppure la legittimazione della dimensione sociale dell’impresa passa proprio attraverso la comunicazione e lo strumento per eccellenza è il bilancio di sostenibilità che serve per valutare le performance sociali, ambientali ed economiche dell’impresa e apportare i miglioramenti. Dall’inizio degli anni 2000 ad oggi spiega all’Adnkronos, Andrea Casadei, direttore della ricerca di Bilanciarsi, network che opera in merito alle tematiche inerenti la Csr, ”il fenomeno della rendicontazione non finanziaria è andato aumentando in maniera incrementale”.
Il 37% delle aziende dichiara di redigere il bilancio sociale che si focalizza solo sui risultati dell’attività aziendale nella loro dimensione sociale, ambientale ed etica. Il 28%, invece, redige il bilancio di sostenibilità che è più completo in quanto comprende non solo la dimensione ambientale e sociale ma anche quella economica. Il 23% li redige entrambi. Nonostante l’impegno, non mancano le critiche relative all’effettiva utilità delle informazioni presentate. I bilanci di sostenibilità, infatti, vengono giudicati ancora troppo autoreferenziali.
Ognuno fa per sè e questo non permette una comparabilità dei contenuti. Nella rendicontazione di sostenibilità, infatti, non c’è una uniformità degli indicatori presi in considerazione e questo, spiega Casadei, ”determina una compresenza di livelli di approfondimento molto diversi a seconda dell’ambito trattato e dell’impresa in oggetto”. Per questo un progetto dell’Istat e del Csr manager network ha individuato 10 indicatori di sostenibilità da riportare nei bilanci volontari delle imprese che, se adottati potrebbe consentire per la prima volta di misurare e comparare le performance ambientali, sociali e di governance delle aziende italiane.
Questi indicatori vanno dal valore economico diretto complessivamente generato al consumo diretto di energia, agli investimenti per la tutela dell’ambiente, fino alle iniziative a favore dei dipendenti. Per soddisfare la richiesta di informazioni da parte dei mercati, dei regolatori e della società civile, secondo Casadei, “c’è, infatti, bisogno di un framework che supporti il futuro sviluppo della rendicontazione, riflettendo questa complessità crescente”.
Sul futuro dei bilanci di sostenibilità, Casadei non ha dubbi: “reporting integrato e il webreporting. Mezzi che permettano l’interconnessione e la comparabilità di tutte le informazioni economiche, ambientali, sociali e di governo”. La rendicontazione integrata, spiega il direttore della ricerca di Bilanciarsi, “porta ad una spiegazione più completa delle performance rispetto alla rendicontazione tradizionale. Rende visibile l’uso che un’organizzazione fa delle risorse, e la sua dipendenza da queste, che sono i ‘capitali’ (finanziario, umano, intellettuale, naturale e sociale) e l’accesso dell’organizzazione a queste risorse e l’impatto che ha su di loro”.
Recentemente i ministeri del Lavoro e delle politiche sociali e dello Sviluppo economico hanno attuato il piano d’azione nazionale sulla Responsabilità sociale d’impresa (Rsi) 2012-2014 che mira a fornire orientamenti condivisi per le azioni future. Il piano, oltre a porsi l’obiettivo di aumentare la cultura della responsabilità, vuole contribuire al rafforzamento degli ‘incentivi di mercato’ che vanno dalla defiscalizzazione di alcune spese ad albi che premiano le aziende responsabili, fino ad attribuire punteggi aggiuntivi nelle gare di appalti pubblici alle imprese che si sono distinte in questo campo.


Green Globe Banking: come le banche potrebbero spingere l’economia verde

In tempo di crisi, tra criticità nell’accesso al credito e sviluppo dei mercati della green economy, quali sono le soluzioni per “fare banca” correttamente?
Banche e imprese hanno compreso che la green economy rappresenta una concreta opportunità di business e viaggiano alla stessa velocità o restano sfasate? Le imprese hanno a disposizione gli strumenti finanziari per trasformare queste opportunità in risultati concreti? Le banche si sono interrogate sul vantaggio di aggiornare il loro modello di valutazione del merito creditizio al mondo “green”? Quali aspetti, in definitiva, limitano un dialogo efficiente tra mondo bancario e aziende della green economy? Sono alcune delle domande emerse nella conferenza di Green Globe Banking della giornata di giovedì 13 giugno all’hotel NH President di Milano.
Valore ambientale e valore economico si presentano, del resto, come due facce della stessa medaglia. E la banca, volendo, è in grado di orientare i comportamenti, ad esempio attraverso lo sviluppo di prodotti e servizi bancari che possano favorire consumi intelligenti ed ecocompatibili. Oggi la banca ha l’opportunità di sviluppare un percorso strategico in cui al profit della stessa si sovrappone il profit per il consumatore, le comunità e i territori in termini di una maggior qualità del contesto ambientale di cui fanno parte. È una logica di scambio in cui all’utilizzo dei servizi della banca, coinvolta nella tutela dell’ambiente, corrisponde la prospettiva per il consumatore di un vantaggio non solo finanziario e non solo nel breve periodo. “Per questo nella nostra idea il Green Banking non è un mero progetto di responsabilità sociale d’impresa“, precisano gli organizzatori dell’incontro milanese.
“Il green banking diventa dunque un frame concettuale, il fondamento teorico, il punto d’aggancio di una cultura d’impresa entro cui si formano le strategie e le attività di business d’impresa”, racconta Marco Fedeli il fondatore dell’iniziativa. “Siamo alla settima edizione della Conference – spiega – eppure nessuno ci avrebbe scommesso qualche anno fa. Il nostro target sono le famiglie. L’80% degli italiani pensano che la problematica ambientale sia una priorità, quindi sbaglia chi pensa che ci rivolgiamo a una élite”. Tanto più che il giro d’affari della green economy è 8 miliardi, non briciole, uno spazio enorme per il business. “Dobbiamo poi tenere sempre presente che la green economy non è solo energia, ma smart city, agroalimentare, turismo sostenibile ed edilizia ecoefficiente“, ricorda Fedeli. “Pensiamo che il mondo della green economy e delle banche debba trovare il modo di dialogare e rispetto agli inizi qualcosa è cambiato”. L’apertura arriva da Giuseppe Bonini, della Direzione Marketing Imprese, Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, che accetta la sfida: ”cosa può dunque fare una banca?”. E’infatti evidente che al di là del dialogo e del confronto serve definire azioni e strumenti precisi, per essere incisivi. “Un nuovo approccio di marketing in cui la logica economica si coniughi con l’attenzione e il rispetto dell’ambiente è il nostro obiettivo”, interviene Bonini. “Il sistema bancario può e deve assumere oggi un ruolo fondamentale nell’incentivare l’adozione di pratiche virtuose in campo ambientale, promuovendo temi della “finanza ecocompatibile”. Ormai siamo consapevoli che un’impresa orientata allo sviluppo sostenibile, sulla base di una visione di lungo termine, acquisisce una maggiore potenzialità di innovazione e di gestione del cambiamento. Anche la Commissione Europea gioca un ruolo importante, finanziando progetti di sensibilizzazione a queste tematiche. Infine, l’Unione Europea ha anche la possibilità di sviluppare azioni rivolte specificamente al settore bancario. Il progetto Green Banking For Life, per esempio”.
La giornata si è chiusa infatti con la cerimonia di premiazione del 6° Green Globe Banking Award. Il premio per le best practices del sistema bancario e finanziario in tema di impatti ambientali, si è svolto alla presenza di Marco Flavio Cirillo, Sottosegretario del Ministero dell’Ambiente. Lo scettro va ogni anno alla banca in grado di presentare la miglior iniziativa attraverso esperienze concrete, prodotti, progetti, servizi finanziari e politiche aziendali dedicate al “green”. Per l’edizione 2013 sul podio Banca Intesa Sanpaolo con il progetto “Filiale ad energia quasi 0″.
Quest’anno, invece, il Premio Speciale per gli Impatti Diretti, riservato alla Banca che meglio di tutte ottimizza i propri consumi interni, è stato vinto dalla Banca di Credito Cooperativo di Castagneto Carducci con il progetto “Tu, la tua Banca e il Territorio – Green Deposit”.
Il Premio Ad Honorem dell’organizzazione è assegnato, in questa edizione, alla Global Alliance for Banking on Values, un network indipendente di banche “innovative” con sede in Olanda che raggruppa 25 istituti bancari in Asia, Africa, Australia, America Latina,Nord America e Europa leader in fatto di sostenibilità ed etica. Tra gli associati a più spiccata vocazione ambientale, l’inglese Ecology Building Society, la statunitense First GreenBank, la Clean Energy Development Bank in Nepal, la californiana New Resource Bank e l’italiana Banca Popolare Etica, rappresentata dal direttore generale Mario Crosta, che ritira il premio per il network.


Capitalismo da reinventare?

IL CAPITALISMO È SOTTO ASSEDIO E OCCORRE REINVENTARLO.
Lo sostiene, nell’ampio saggio che caratterizza il numero di gennaio 2011 di Harvard Business Review, quello che oggi può essere a buona ragione considerato il maggiore pensatore contemporaneo di business e management: Michael Porter (con Mark Kramer). Ma è vero che il capitalismo è sotto assedio? E, se lo è, cosa significa “reinventare il capitalismo”?
Non c’è dubbio che la crisi finanziaria del 2008-9 abbia scatenato un’ondata di critiche su un certo modo di gestire le imprese, le istituzioni economico-finanziarie e i mercati, ma è forse più appropriato dire che la grande maggioranza delle critiche si sono appuntate più su un capitalismo selvaggio e senza scrupoli che sul capitalismo in quanto tale. Se non altro perché, almeno in questo frangente storico, alternative al modo di produzione capitalistico non ne esistono, dato che la vera opzione alternativa dell’economia centralizzata e pianificata è tramontata vent’anni fa e che gli indirizzi intra-capitalistici di stampo dirigista vengono perseguiti in modo essenzialmente strumentale al contenimento delle emergenze.
È più vero, come infatti sostiene Porter, che il mondo delle imprese sia stato investito da una valanga di critiche e che di questo abbiano sofferto, e stiano tuttora soffrendo, sia le imprese colpevoli di comportamenti deviati, sia quelle incolpevoli. Nei fatti, l’opinione pubblica opera poche distinzioni e mette nello stesso barile banche e società finanziarie, imprese di produzione e di servizi, aziende di grande e di piccola dimensione. La critica è principalmente una ed è quella di realizzare spesso, anche se non sempre, profitti a spese della collettività. Questo sentimento è molto diffuso e accoglie sia spinte razionali sia impulsi irrazionali, ma il risultato è comunqueche il mondo del business ha perso legittimità e la conseguenza è spesso che i politici cavalcano l’onda emotiva e tendono a stringere i freni della libertà economica e di iniziativa. Il che è bene quando si concentra sulle pratiche illecite, ma è molto male quando impastoia quelle legittime e lecite. Così le imprese, sottolinea Porter, si trovano ingabbiate in un circolo vizioso.
Una parte “sostanziale” della responsabilità della situazione pesa, secondo l’autore, proprio sulle imprese, «intrappolate in un approccio superato alla creazione del valore» che si è imposto negli ultimi trent’anni. Un approccio miope, focalizzato sul breve termine, incurante dei veri bisogni dei clienti e dei fattori di più ampia portata che possono garantire un successo di lungo termine. Quali fattori? L’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, la trascuratezza rispetto all’ambiente fisico, l’indifferenza per la salute finanziaria dei fornitori-chiave e per il disagio delle comunità ospitanti, e altro ancora. Ma non è solo responsabilità delle imprese: amministrazioni pubbliche e società civile hanno esacerbato il problema, chiedendo spesso al mondo del business di risolvere le questioni sociali a proprie spese. In questo senso il capitalismo è sotto assedio; in questo senso le imprese vengono messe in mora e, almeno in parte, delegittimate. Ed è per questo che, sostiene Porter, occorre“reinventare il capitalismo”. Qual è dunque la possibile via d’uscita?
Le aziende, afferma Porter, devono attivarsi per riconciliare business e società e la strada da percorrere è quella di “creare valore condiviso”. L’espressione non è immediatamente chiara e va certamente spiegata per evitare che venga bollata come puramente utopistica. Di illusorio, nella visione porteriana, non c’è infatti nulla, anzi, è la concretezza che domina la scena. La soluzione del valore condiviso comporta che la creazione di valore economico avvenga in modalità tali da creare valore per l’azienda ma anche per la società, rispondendo a un tempo alle necessità dell’azienda e alle esigenze di tipo sociale.
La creazione di valore condiviso riconosce che non sono i bisogni economici convenzionali a definire i mercati, bensì i bisogni della società. Riconosce che i danni o i problemi sociali che un’azienda crea all’esterno si ribaltano inesorabilmente all’interno: il deterioramento dell’ambiente fisico o sociale fuori dall’azienda la rendono meno capace di creare valore e competere; al contrario, realizzare i fini dell’impresa in coerenza con l’esterno garantisce risultati migliori e più sostenibili all’interno.
E non è una questione di tipo redistributivo. L’impresa non deve proporsi di distribuire più valore all’esterno, ad esempio intaccando i profitti o compromettendo gli investimenti, poiché questa è una strada che porta diritti al suicidio. Al contrario, creare valore condiviso significa, per esempio, non rendersi disponibili ad accettare prezzi più alti da fornitori deboli e inefficienti, ma aiutarli a investire e a diventare più competitivi e profittevoli, creando assieme maggiore valore per tutti.
In buona sostanza, è la tesi coraggiosa di Porter, la competitività di un’impresa e il benessere della comunità circostante sono strettamente interconnessi. Così come l’azienda necessita di una comunità in buona salute per poter usufruire di un personale competente, di un ambiente in grado di investire e innovare e di una domanda effettiva per i suoi prodotti, allo stesso modo la comunità ha bisogno di imprese di successo per mettere a disposizione dei suoi componenti posti di lavoro e opportunità per creare ricchezza e benessere. E ambedue necessitano di politiche pubbliche che regolino in modo adeguato, incentivando e non frenando le interconnessioni globali nel mercato.
Questa la visione di Porter, che va forse considerata più una rivisitazione che una reinvenzione del capitalismo. Si pongono, a questo punto alcune domande ineludibili: il mondo è pronto per questa nuova visione dei ruoli rispettivi di imprese, pubbliche amministrazioni e società civile? Ciò che alcune imprese più consapevoli, alcune amministrazioni più illuminate e alcuni ambiti territoriali più avanzati stanno realizzando rientra in una prospettiva come quella tracciata? E nell’ambito del mondo delle imprese e del sistema politico italiano esistono le premesse per accogliere – o almeno iniziare a considerare – la proposta porteriana della creazione di valore condiviso?
L’articolo di Porter apre una discussione indispensabile nel mondo attuale che cerca di trovare, all’indomani della crisi più grave della storia economica, le forze e i motivi di una ripresa e Harvard Business Review si propone di stimolare su questi temi un dibattito allargato che possa contribuire a rendere attuale e concreta la visione di creazione di valore condiviso, nelle forme e nelle metodologie che appariranno più adatte allo scopo.
 


ELOGIO DELLA LUMACA

Come decrescere serenamente

Non più sviluppo, neanche “sostenibile”. E basta con l’idea di una “crescita virtuosa”. Siamo giunti all’epoca della decrescita radicale. Serge Latouche, 68enne antropologo, economista, filosofo francese, autore di diversi saggi, è convinto che occorre rivedere il mito del progresso, base di ogni idea della sinistra da almeno 160 anni, perchè l’interesse dell’umanità non è accumulare, ma “sconfiggere uno stile di vita che ci ha resi schiavi dei beni che continuiamo ad acquistare. Perchè assomigliamo a dei drogati che per un’illusione di felicità continuano a scommettere tutto sulla crescita, crescita del Pil (prodotto interno lordo) e crescita dei consumi. mentre il benessere significa semplicemente vivere bene, trovare il giusto equilibrio tra bisogni, consumo, tempo libero”. Per Latouche non occorre essere più poveri per essere più felici, basterebbe diminuire gli eccessi, fare a meno di cose inutili che accompagnano le merci, dalla pubblicità agli involucri costosi, ai trasporti da un capo del pianeta ad un’altro.
Latouche è un bel signore con una faccia da marinaio bretone e uno stile di altri tempi. Uno stile in piena coerenza con il suo programma delle “8R”: rivalutare, riconcettualizzare, ridistribuire, riciclare, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, ristrutturare, e che l’ha fatto bollare di volta in volta come “sognatore” e perfino come “reazionario”. Infatti il filosofo gode delle simpatie non solo dei no global, ma anche della nuova destra francese di Alan de Benoist e di settori della Lega nord. “Ammetto che il mio possa essere definito un progetto retrogrado”, concede Latouche, “nel senso che quando si è imboccata una via senza uscita, si deve per forza arretrare”.
Per questo una proposta come decrescita?
“La decrescita non è un concetto, ma uno slogan che vuole provocare. Sarebbe più corretto parlare di “acrescita” ricordiamo che la società occidentale ha come fine il “crescere per crescere”. Consumo, produzione, lavoro, profitto: abbiamo dimenticato la gioia di vivere, i nostri bisogni”.
Anche la sinistra oggi parla di crescita: responsabile, consapevole, ma pur sempre crescita.
“Marx sbagliava sostenendo che fosse possibile sostituire all’”accumulazione” cattiva del capitale – accumulazione è il nome marxista della crescita – quella buona di un’altro sistema. La scommessa della decrescita è che l’umanità possa fare una rivoluzione culturale, uscire dalla società di accumulazione illimitata. Invece di prendere come slogan, come fa il governo francese attuale, “lavorare di più per guadagnare di più”, lavorare di più per vivere meglio”.
Vuole fare qualche esempio?
“Il primo che mi viene in  mente. Dietro a ogni prodotto che consumiamo, mangiamo, usiamo ci sono milioni di chilometri, file di camion, consumi in pubblicità e packaging. In nome della razionalizzazione economica abbiamo distrutto la ragione”.
Non è un giudizio troppo pessimista?
“il mio è un pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. Forse possiamo fermare la catastrofe. Ma gli scenari che si presentano sono terribili. Si parla spesso dei rapporti del Club di Roma. Ma di rado si fa riferimento all’ultimo della serie, del 2004: il più ottimistico degli otto scenari previsti, che pure richiederebbe misure drastiche, indica che il nostro sistema non arriverà a superare il 2060. Mentre il più cupo anticipa la catastrofe al 2030, anno in cui dovrebbero esaurirsi le risorse.
Stava parlando delle risorse che mancheranno. Lei dice spesso che non è la crescita demografica il vero problema.
“Il problema non è il numero di abitanti del pianeta. Il guaio è una società che ha come obiettivo produrre di più, consumare di più, generalmente rifiuti – 4 miliardi di tonnellate l’anno dai paesi ricchi – e danneggiare l’ambiente.  Se tutti consumassero come gli americani, per far fronte alle nostre esigenze servirebbero sei pianeti come il nostro. Se vivessimo come cittadini del Burkina Faso la Terra potrebbe accogliere agevolmente 23 miliardi di abitanti”.
Deve però ammettere che rispetto agli abitanti del Burkina Faso abbiamo qualche vantaggio: il progresso ci ha regalato cibo, acqua pulita, farmaci.
“Certo. Ma siamo troppo viziati, pensiamo solo alle malattie dovute a un’alimentazione  troppo ricca di grassi, zucchero, sale. Non auspico la rinuncia alle tecnologie. Dobbiamo imparare a conservare della modernità ciò che è utile. Ma senza esagerare. Per esempio: l’acqua potabile. Costruiamo piscine private dimenticando che fare il bagno è un piacere da condividere. In Sardegna ho visto alberghi con piscina a due passi dal mare. Io faccio volentieri una doccia quotidiana, ma quando ho attraversato le regioni dei Dogon nel Mali ho dovuto vivere per giorni senza lavarmi. Arrivato a Bamako sono stato contento di mettermi sotto l’acqua: ma le esperienze, gli incontri che ho fatto mi hanno ripagato ampiamente del loro sacrificio”.
Imparare ad essere felici con poco.
“C’è chi sostiene che si può essere felice guardando la pubblicità e andando al supermercato. Ma ci sono statistiche che mettono in dubbio queste convinzioni, come quella della diffusione dei suicidi o delle malattie mentali: la Francia, ad esempio, è in testa nel consumo degli antidepressivi. Il fatto è che siamo tutti stressati, viviamo nell’angoscia di non essere all’altezza dei compiti che ci sono proposti. Da un certo punto in poi, dagli anni ’70, la crescita economica non ha più generato effetti positivi sul benessere”.
Parliamo del cibo?
“Nel mangiare bene non c’è niente di sbagliato, anzi, a me piace il cibo buono. Ma abbiamo davvero bisogno di tanti tipi di biscotti, yogurt, pasta? Consumiamo gamberetti danesi che sono lavorati in Marocco, e tornano in Danimarca per ripartire verso i luoghi di distribuzione. Mi è capitato di vedermi servire yogurt sloveno in Sicilia, dove potevo vedere le mucche al pascolo nel prato vicino all’albergo. C’è chi ha ribattezzato la nostra società Absurdistan”.
In questo scenario l’alimentazione ha un ruolo importante.
“Apprezzo molto Carlin Petrini, e non solo perchè Slow Food ha scelto come emblema la lumaca: un esempio di moderazione – lo riconosceva già Ivan Illich – per come cresce il suo guscio in modo coerente con le sue necessità.
La passione per la lentezza non riguarda il cibo.
“In effetti, no. Dobbiamo imparare di nuovo a godere di quello che non si può comprare: una convinzione, un pranzo tra amici, un ambiente di lavoro dove ci di sente bene, la partecipazione a qualunque forma di attività culturale o sportiva. Riscoprendo il piacere di perdere tempo e riducendo il tempo di lavoro”.


ARTE PER PENSARE

CSR di carta, appesa ai muri
Difficile immaginare Friedhelm Hutte – con quell’aspetto da persona pronta a lasciarsi sorprendere a ogni istante, la figura sempre imponente sempre all’erta, che pare registrare anche il più lieve spostamento d’aria – impegnato, e con entusiasmo, in una banca. E’ uno storico dell’arte, ha compiuto studi in comunicazione e letteratura, fatto esperienza nel mondo del giornalismo e della pubblicità. Ma non è qui per caso: dirige infatti la collezione d’arte della Deutsche Bank, a livello mondiale la più grande mai realizzata da una realtà imprenditoriale.”Sono stato chiamato a Francoforte nel 1986 perchè il consiglio di amministrazione della banca si era reso conto della necessità, per la collezione che allora incominciava a prendere forma, di una curatella professionale”.Pochi anni prima, tra il ’70 e l’80, con il consiglio dei direttori della Staatsgalerie di Stoccarda e dello Staedelmuseum di Francoforte, era stata definita una strategia precisa: “Kunst Arbeitsplatz” arte contemporanea nell’arte del lavoro, perchè venisse fruita dai dipendenti.  Un concetto che avrebbe da li in poi indirizzato la politica culturale della banca e sulla cui tenuta Hutte non da dubbi: “Con il tempo, semmai, si rafforza. Anche perchè in azienda l’età media è oggi più bassa e l’interesse per l’arte contemporanea in aumento; si è concentrata più sui talenti  emergenti, invece che sui grandi nomi, e sui lavori su carta, come acquarelli, disegni, collage, fotografie e così via. “Una scelta lungimirante. Tra l’altro perchè compatibile con l’architettura della banca, rispettosa della volontà di non fare concorrenza ai musei e funzionale all’attenzione per il processo creativo. E’ sulla carta, infatti, che si ferma per la prima volta un’idea, dove si può seguire l’origine di molte opere d’arte. Tutti, anche gli scultori o i land artisti, fanno disegni”. Gli unici veri vincoli della raccolta riguardano i soggetti erotici e le opere troppo delicate, per ovvie ragioni.Questi principi hanno permesso alla banca di costruire una collezione imponente, passata grazie a Hutte da tremila a 53mila opere, di altissimo livello.Dopo in bilancio sull’impatto di tanta profusione d’arte nell’ambiente di lavoro si può tentare. “Sarebbe ingenuo pensare che un bel disegno randa creativi – scherza Hutte -. I collaboratori della banca ne apprezzano il valore quando l’opera sparisce, magari in occasione di una mostra. L’arte genera innanzitutto identità. Più in generale, il senso della collezione risiede nella sua qualità e nel significato specifico dell’arte: che permette alle persone di partecipare ai processi sociali e creativi. In una banca che si occupa di numeri e strategie ma anche di persone, di sviluppo sociale, l’arte contemporanea consente di rafforzare questo legame. E’ un sismografo, è più avanti, sa cogliere i cambiamenti in atto ma non ancora presenti nel mainstream: di che cosa hanno bisogno le persone? Che cosa interessa loro? Dove sono i problemi? Di tutto questo ha bisogno in’impresa che non produca macchine o detersivi, ma che viva di idee.” C’è naturalmente anche un apporto estetico e un contributo in termini di collaborazione: delle opere si discute. Così le si impiega sui biglietti di auguri, sui calendari, sulle carte di credito. “Cerchiamo di sfruttare il valore estetico senza trascurare i contenuti. Ad esempio nel prossimo calendario tutte le opere riprodotte (tratte dalla collezione) hanno a che fare con il problema del cambiamento climatico”.Siamo una riserva straordinaria per i musei, e ambasciatori del valore dell’arte in Paesi che non sostengono la produzione contemporanea, come un tempo il Giappone e oggi l’Indonesia. Diamo il buon esempio: chiunque, anche una piccola impresa può dare il suo contributo. 


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