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Minecraft è l’ultima vera avanguardia?

Trovate un bambino tra i nove e i dodici anni e chiedetegli se conosce Minecraft; poi preparatevi a passare l’ora successiva a farvi raccontare per filo e per segno la sua esperienza di architetto, i suoi ambiziosi progetti urbanistici, i suoi problemi con le pecore e i creeper. A questo punto potrete considerare il vostro interlocutore con sufficienza, oppure prenderlo sul serio e cercare di capire che cosa vi state perdendo.
Minecraft è un mondo fatto di cubi, tantissimi cubi, un universo virtuale nel quale è possibile costruire praticamente qualsiasi cosa. Minecraft è il videogioco per pc più venduto della storia. Ha superato i cento milioni di giocatori registrati su tutte le piattaforme. Gli studios Mojang l’hanno venduto a Microsoft per 2,5 miliardi di dollari. Si trova anche in libreria, con guide e manuali che hanno venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo. Contrariamente a molti altri fenomeni che la stampa si era affrettata a sovraesporre — pensiamo a Second life nel periodo 2006-2008 – Minecraft è restato per qualche anno “fuori dai radar”, malgrado il suo successo crescente tra preadolescenti e adolescenti.

Ancora oggi, se dobbiamo credere al relativo silenzio dei mezzi d’informazione e all’assenza di precisi dati demografici, sembrerebbe trattarsi solo di un passatempo di nicchia. Eppure basta esaminare le tendenze di ricerca su Google per misurare l’entità del fenomeno: lanciato nel 2009, Minecraft supera oggi di varie lunghezze videogiochi apparentemente più noti come Angry birds o Grand theft auto, ma anche star del pop come Lady Gaga, Rihanna o (per restare in ambito prepuberale) la Violetta della Disney. Solo il porno e Facebook ottengono risultati migliori. Forse anche perché, come ha affermato lo scrittore Robin Sloan, si tratta di un gioco che richiede un lavoro di studio, di ricerca, di scambio d’informazioni che si svolgefuori del gioco.
I casi di “notorietà percepita” sono sicuramente indizi del fatto che viviamo tutti dentro la nostra bolla informazionale. In questa materia specifica, a tenerci dentro una bolla è – ahinoi – l’età. Minecraft è un gioco che richiede molta pazienza e un rapporto con il tempo spesso incompatibile con la vita di un adulto socialmente integrato: blocco dopo blocco si costruiscono case, palazzi e città; e poi in questo mondo s’inventano delle avventure.
Ma soprattutto non c’è crafting senza mining, e per ottenere la materia prima – granito, legno, sabbia, lana, eccetera – si scava, si scava, si scava. Esistono sicuramente giocatori adulti di Minecraft (J. K. Rowling di recente ha fatto coming out) ma il loro numero incide in minima parte sulla dimensione del successo. Di regola i nostri coetanei, quando giocano, preferiscono il tennis sulla Wii, Candy crush sullo smartphone o, per i più raffinati, qualche ipernarrazione realistica tipoCall of duty.
Insomma se la stampa tace su Minecraft ovviamente non si tratta di censura. Tace per ignoranza; e ignora perché di norma chi scrive sui giornali non ha undici anni. Gli adulti impongono, per ragioni comprensibili, la loro egemonia sui bambini. Ma a furia di considerare con sufficienza gli usi e costumi di questo piccolo popolo, non staremo perdendo di vista qualcosa d’importante?
Non si tratta solo di una questione di numeri, sicuramente impressionanti; quello che sta accadendo dentro Minecraft è singolare soprattutto sul piano culturale. O perlomeno questa è l’idea che ce ne possiamo fare osservando dall’esterno una realtà che, bisogna ammetterlo, per gran parte ci sfugge. Eppure nella logica delprosuming videoludico descritta dal critico Giuseppe Frazzetto, Minecraft ci appare come un universo di creazione particolarmente ricco e vivace. Forse proprio perché noi, classe d’età egemone, custode dei valori dominanti, ne siamo esclusi.
Discutendone con il gif artist Gualtiero Bertoldi, che nelle sue animazioni riutilizza immagini di videogiochi d’epoca, possiamo capire meglio questa dimensione generazionale:

Essendo sempre stato appassionato di computer e pixel art, ho acquistato quasi subito Minecraft nel 2010, dopo averne visto parlare sul sito 4chan. Si trattava di una versione beta molto primitiva ad appena due dollari, che mi avrebbe garantito l’aggiornamento imperituro a tutte le successive versioni senza ulteriori esborsi. Dopo un paio d’ore a scavare, sminare e tirar frecce contro gli scheletri, chiusi tutto senza troppi patemi, e me lo dimenticai. Poi circa sei mesi fa due miei nipoti, due fratelli uno di 13 anni e l’altro di 10, hanno passato un intero pranzo domenicale a parlare di Minecraft, così gli ho offerto quel mio vecchio account diventando di fatto il miglior zio del mondo. In sei mesi hanno costruito una serie di fattorie, minicomplessi edilizi e industrie che mi hanno lasciato basito. Tutto grazie non solo grazie all’esplorazione personale, ma pure per mezzo d’uno studio attento e preciso di centinaia di video su YouTube, oltre che al download di moduli particolari messi a disposizione da altri utenti.

Su Minecraft nascono e prosperano grandi città immaginarie (Imperial City, Greenfield…), leggendarie (Atlantide, Xanadu…), letterarie (Harry Potter, Il signore degli anelli…), storiche (New York negli anni trenta, Babilonia…). Su Minecraft esiste un’economia, con beni preziosi che possono essere scambiati e perfino prestati a interesse. Su Minecraft è stata ricostruita la Danimarca in scala 1:1, anche se sfortunatamente è stata subito attaccata e molti edifici dinamitati. Su Minecraft, mattoncino per mattoncino con l’aiuto di una spolverata della cosiddetta Redstone, è stato fabbricato un minicalcolatore munito di ram capace di fare calcoli matematici (è grande come un palazzo) e, più recentemente, un rudimentale word processor. E una stampante 3D. Su Minecraft puoi visitare Auschwitz e presto ilBritish museum. Su Minecraft c’è una porta che si aprirà solo dopo la morte termica dell’universo. Su Minecraft vige di norma una sorta di elementare fisica newtoniana, ma è anche possibile installare una modalità conforme alla meccanica quantistica. Su Minecraft, come raccontato dal New Yorker, il trentenne Kurt J. Mac sta camminando dal 2011 per raggiungere i limiti del mondo, documentando su YouTube l’intero suo viaggio e gli strani fenomeni di sfaldamento della realtà determinati dalla mole crescente di dati da calcolare per generare il territorio. Gli esempi potrebbero continuare a lungo.
Come chiarisce Giuseppe Frazzetto, bisogna suddividere i giocatori in diverse categorie che coincidono in parte con una segmentazione per età. Oltre ai giocatori occasionali, le categorie sono tre:

1) la ‘base’, ovvero i milioni di preadolescenti conquistati dal fascino diMinecraft, che ne rendono materialmente possibile l’esistenza e quindi che ne orientano l’evoluzione; 2) i ‘quadri’, ovvero quelli che fanno i tutorial, le guide, animano i forum o gestiscono i server, e che tendenzialmente sono un po’ meno giovani; 3) gli ‘avanguardisti’, che fanno cose eclatanti, tra i quali troviamo sicuramente degli adulti geniali come l’esploratore sopracitato. Alcuni di loro con Minecraft si guadagnano pure da vivere grazie alle centinaia di migliaia di visualizzazioni su YouTube, in maniera simile agli artisti contemporanei che monetizzano le loro performance (Minecraft è il videogioco di cui esiste il maggior numero di video-tutorial). Un’altra fonte di guadagno è la gestione dei server di gioco, un gigantesco giro d’affari paragonabile a un franchising.

Secondo Gualtiero Bertoldi, il successo di Minecraft è legato alla sua originalità e alle sue caratteristiche peculiari:

All’inizio pensavo che l’attrattiva consistesse nel suo essere una sorta di Lego virtuale, e che quindi facesse leva sul sempiterno fattore nostalgia. Ma dopo essermene stufato quasi subito e aver visto come piaccia a chi, invece, dei Lego non ha (ancora) nostalgia, mi sono dovuto ricredere. In parte è una sorta di prefigurazione della cosiddetta internet of things, in parte lavora su un aspetto per così dire fisico-ingegneristico: penso non solo alle Redstone, ma a tutti i meccanismi interconnessi che si potevano creare anche nelle primissime versioni.

Qualcuno sostiene che l’estetica di Minecraft sia poco gradevole, con i suoi cubettoni pixelati; eppure è del tutto coerente con le recenti tendenze artistiche che proprio nel recupero ironico della forma-pixel hanno trovato un efficace modulo espressivo. Come dice ancora Bertoldi:
Minecraft permette quell’interattività aperta e totale che in tutti gli altri videogiochi è limitata, per questioni narrative o di design. Ecco, anche la bassa definizione ricopre un ruolo fondamentale, sia per la gestione tecnica del tutto, sia perché è un tipo di grafica che appartiene oramai all’inconscio videoludico collettivo, e ha una particolare matrice visiva di calore e giocosità che tutte le altre megaproduzioni contemporanee non hanno. Penso alla noia e alla totale mancanza d’invenzione visiva di certi videogiochi iperealistici, e alla ribalta nuovamente conquistata da giochi low budget che sfruttano sempre la pixel art.
In Minecraft tutte le forme sono composte da iper-pixel cubici a loro volta ricoperti da texture di grossi pixel bidimensionali. Si tratta di un aspetto riconoscibilissimo e a suo modo seducente, ma questa cifra stilistica ha soprattutto delle ricadute importanti sull’economia dello sviluppo del software, del suo consumo di risorse hardware e della sua giocabilità. Minecraft partecipa a una specie di “rivoluzione impressionista” della computer-generated imagery, che aggiusta il piano ideologicodel gusto al piano materiale delle risorse disponibili.
Non è un caso, quindi, che questa rivoluzione estetica sia stata portata avanti da sviluppatori indipendenti come Mojang in Svezia o da strutture ancora più piccole e fragili come la Polytron di Phil Fish raccontata nel documentario Indie game; proprio come alla fine dell’ottocento a proporre il nuovo linguaggio pittorico erano artisti estranei alle accademie. L’artista Nicholas Ladd ha esibito in maniera efficace l’analogia tra Minecraft e impressionismo trasponendo nell’universo cubico del videogioco il celebre quadro puntinista di Seurat, Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte.
Il successo di Minecraft, proprio come quello degli impressionisti oltre un secolo fa, tiene nella congiuntura perfetta tra cultura ed economia. Restituire in maniera esaustiva la realtà, nei videogiochi proprio come nella pittura accademica ottocentesca, è innanzitutto costoso e talvolta superfluo. La “molteplicità” della quale parlava Calvino nelle Lezioni americane bisogna potersela permettere. La realizzazione di un dipinto di Bouguereau costava di più di quella di un Manet, perché la tecnica “alla prima” e le pennellate “più veloci della luce” (cioè delcambio di luce) permettevano all’impressionista un notevole risparmio di tempo.
Nello stesso modo oggi per renderizzare un mammut ricoperto di centinaia di migliaia di peli, come nei film della serie L’era glaciale, ci vogliono macchine molto più potenti del pc di casa. Anche in questo caso si tratta di una questione di tempo (di calcolo) e quindi un arbitraggio di tipo economico: quanti peli possiamo permetterci? E di quanti peli abbiamo bisogno? Dipende.
L’illustrazione scientifica ottocentesca, come ricorda Riccardo Falcinelli nella suaCritica portatile al visual design, si concentrava “sulla raffigurazione accurata degli animali in ogni singolo pelucco” (o quasi). Invece nel mondo di Minecraft non si trova un pelo nemmeno a pagarlo oro, e anche la lana è fatta a cubi. I mammut sono, come dire, piuttosto rudimentali. In compenso possiamo farli girare su qualsiasi piattaforma.
Gli economisti sostengono che l’incontro tra domanda e offerta definisce un equilibrio di mercato e con ciò il prezzo di un bene in funzione della quantità prodotta. Ma forse possiamo aggiungere che sul piano economico, alla convergenza tra le due curve, si determina anche un equilibrio formale: ovvero uno specifico registro linguistico compatibile con i costi e con i bisogni di un insieme di consumatori; un certo grado di precisione nel rappresentare la complessità del mondo; una certa “esattezza” per citare ancora Falcinelli.
Con i suoi cubetti glabri, sgraziati oppure terribilmente alla moda, Minecraft oggi incarna questo equilibrio nel campo della modellizzazione videoludica dello spazio. E se questo gioco a cui si dedicano milioni di bambini in tutto il mondo fosse effettivamente l’ultima vera avanguardia artistica? Qualcuno dirà che si tratta di un altro modo per sfuggire alla realtà rifugiandosi in un mondo virtuale. Ma vediamola altrimenti: abbiamo finalmente trovato un modo per mandare questi benedetti ragazzi a lavorare in miniera.



Congressi medici: da giacca e cravatta a pantofole e vestaglia

Il congresso tradizionale passa da giacca e cravatta a pantofole e vestaglia.

Tra gli speech che ho ascoltato a Eyeforpharma Barcellona 2015, quello di Len Sternes mi è sembrato uno dei più interessanti e colti, in quanto mi è apparso molto centrato sull’attualità della relazione con il medico.
Secondo i dati citati da Len, la vendita di stand all’European Society of Cardiology (ESC) – uno dei congressi medici più importanti e seguiti in Europa – è calata del 30% rispetto al 2009.

Congressi virtuali

Il caso ESC, però – come brillantemente sottolinea Len – è ancora più interessante se si considera il numero e la tipologia di visitatori: 25.000 visitatori fisici e25.000 visitatori virtuali, questi ultimi aumentati del 30% rispetto all’anno precedente. L’aumento dei visitatori virtuali è un elemento che accomuna i più acclarati congressi internazionali.
La trasformazione dei congressi tradizionali in congressi virtuali, per essere completa, richiederà tempo e risorse che già oggi sono a disposizione delle principali organizzazioni.
Questa sfida, da una parte consente una maggiore sostenibilità finanziaria e più visibilità ed impatto a parità di costo; ma dall’altra consente anche a molti medici di partecipare ai congressi, attivamente, mentre sono a casa, comodi, in vestaglia.
E mentre le aziende sono ancora nella fase di comprensione del modello multichannel e provano a rendere più efficace il proprio ISF investendo – al massimo – il 20% del loro budget nel digitale; i medici si informano informarsi sempre di più su internet, fino al 90% secondo le ultime ricerche internazionali di Manhattan Research.

Medici, Congressi e Pharma

Mentre il medico vuole ricevere informazioni 365 giorni l’anno, l’informazione che sinora ha subito è stata push, ha interrotto il proprio lavoro. Mentre il medico vuole poter decidere cosa leggere e cosa approfondire, le aziende hanno sempre voluto promuovere comunicazioni monodirezionali. E così mentre i medici hanno iniziato ad assistere ai congressi in modo virtuale, le aziende farmaceutiche si sono ritratte dalle sponsorizzazioni, in quanto i congressi risultano troppo costosi, inefficaci, poco misurabili e soprattutto non più adeguati alle normative interne.
Oggi la possibilità di comunicazione con il medico durante i congressi è cresciuta, ma le industrie non se ne sono ancora accorte. Ora è possibile invitare un medico ad assistere ad un congresso, senza costi di trasferimento e con tutta comodità.
Len Sternes, ancora una volta, ci offre una conferma che, solo interpretando il presente, è possibile accordare le proprie spese ed il proprio budget ai veri bisogni dei medici. Oggi, anche promuovendo i congressi e la partecipazione virtuale a questi, si può andare incontro alla necessità della rete di tenere le relazioni e a quella del medico di avere un trasferimento culturale.
Se non volete guardare il futuro, almeno cavalcate il presente, chiosa Len, i medici nativi digitali si aspettano nuovi modelli comunicativi. E questi – come ha notato anche Pharmaguy – già esistono, basta coglierli.
 

I medici italiani e DottNet

Di questo già parlavamo, spiace citarmi, un po’ di tempo fa, nell’articolo Zero congressi o non-promotional marketing? ed è una certezza che viene dalla pratica. Oggi su DottNet abbiamo tempi di permanenza superiori ai 7 minuti, escluso la formazione, e praticamente sempre una visita di un medico su DottNet dura più di una visita frontale. Se fosse necessario l’ultima conferma fortissima viene proprio da DottNet: un terzo delle visite al sito avviene tra le ore 20 e le 8 della mattina seguente.
Proverò a dirlo a Len. Il medico in Italia, già oggi su DottNet, si aggiorna in vestaglia.




GALAXY NOTE 7: LA CRISI COME OPPORTUNITÀ, MA FAVORIRÀ IPHONE 7?

L’affaire Galaxy Note 7 ha assunto ormai dimensioni planetarie. Dopo le prime segnalazioni degli utenti, che non hanno mancato di mostrare online le immagini e i video dei loro nuovi dispositivi esplosi, Samsung ha preso la decisione più dura: il ritiro del prodotto dal mercato.
In realtà, più che di ritiro bisognerebbe parlare di richiamo, visto che il Note 7 a breve dovrebbe ritornare in commercio, senza ovviamente i problemi alla batteria che lo hanno visto protagonista. La scelta è tuttavia stata obbligata, visto che la sicurezza degli acquirenti non era più garantita. Uno dei primi casi, riportati sul forum cinese Baidu, ha visto protagonista un utente che ha assistito all’autocombustione del suo Note 7 durante la ricarica. Lo sfortunato acquirente ha descritto una scena piuttosto preoccupante: non si è trattato di un po’ di fumo e di qualche scintilla insomma. Il telefono ha dapprima emesso uno scoppiettio, poi ha preso letteralmente fuoco, come testimoniato anche dalle numerose immagini.
A seguito di altri incidenti, Samsung ha deciso di interrompere le spedizioni per investigare sull’accaduto, scoprendo che la batteria del Note 7, in rare occasioni, può incendiarsi. All’azienda coreana sono stati segnalati 35 casi di esplosione confermati, anche se il numero potrebbe essere più alto. Questo è bastato a far ritirare dal mercato circa un milione di unità, sul totale di circa 2.5 milioni di pezzi prodotti fino a questo momento, almeno secondo le informazioni disponibili. In totale quindi Samsung si ritrova con 2.5 milioni di Note 7 che non può vendere, un danno enorme, che potrebbe rovinare l’ottimo lavoro svolto con il terminale, molto apprezzato dalla critica nelle prime recensioni. Il ritiro di un milione di unità inoltre pone dei seri problemi di carattere logistico e comunicativo: come avvisare tutti gli utenti che hanno già un Note 7 in tasca? Cosa succederebbe se accadesse un incidente più serio a un utente non ancora informato del richiamo? Insomma, i rischi non sono pochi, soprattutto per un’azienda che punta forte sull’immagine per incentivare le vendite.
Anche per questo Samsung, nel bel mezzo della crisi, ha dimostrato un sangue freddo davvero impeccabile. Non vogliamo dilungarci sugli aspetti che contraddistinguono la comunicazione di crisi, ma la preparazione e la tempestività mostrata da Samsung è stata evidente, a dimostrazione che il management era pronto ad affrontare situazioni di questo tipo. Ecco perché la vicenda, se ben gestita, potrebbe portare qualche beneficio sul lungo periodo, dimostrando al mondo che in Samsung i problemi si affrontano di petto, mettendo anche da parte il profitto se necessario.
Da tutto questo però chi trarrà maggior profitto? Probabilmente Apple, che il 7 settembre presenterà i suoi nuoviiPhone. A questo punto, molto interessante sarà nei prossimi mesi tenere sottocchio i dati di vendita dal Note 7, per capire se Samsung è riuscita a contenere gli effetti collaterali della crisi. Solo allora sapremo se il problema sarà velocemente dimenticato dagli utenti; in caso contrario sarebbe un bel guaio per Samsung, che si troverebbe a corto di nuovi prodotti di fascia alta proprio nel periodo natalizio, e con Apple alle calcagna.




Agras Pet Foods pubblica il suo primo bilancio di sostenibilità

Un passo importante verso la trasparenza e la responsabilità sociale e ambientale per Agras Pet Foods.

Agras Pet Foods, azienda leader nel mercato del cibo per animali da compagnia con il brand Schesir, si analizza e si racconta. Lo fa con un bilancio di sostenibilità che mostra agli stakeholder i valori che guidano le proprie scelte.
La decisione di pubblicare questo documento, nel trentesimo anno di vita dell’azienda, nasce da una crescente attenzione verso la sostenibilità in tutte le sue accezioni e in particolare verso la conservazione delle risorse naturali. Infatti, spiega l’AD Pietro Molteni, occorre proteggere l’atmosfera, monitorando le emissioni di CO2, e il mare, puntando ad un approvvigionamento sostenibile.
“Crediamo che l’uso sostenibile delle risorse consumate dall’azienda nei propri processi sia un obiettivo non solo etico ma anche economico”, afferma Molteni, “perché se sfruttiamo le risorse naturali senza pensare al futuro mettiamo a rischio la produzione stessa dei nostri prodotti e dunque il futuro della nostra azienda”.
Diventa così parte integrante dell’approccio aziendale il concetto di governo della sostenibilità, inteso come l’integrazione della sostenibilità negli aspetti della gestione dell’azienda, con il controllo e lo sviluppo sostenibile delle proprie opportunità, che siano economiche, sociali o ambientali, sia a livello locale sia globale.
La carta dei valori di Agras Pet Foods accoglie concetti come qualità, responsabilità verso la società e l’ambiente, legalità, ma anche trasparenza, sicurezza, fiducia, innovazione, integrazione e diversità.
L’azienda ricorre a certificazioni esterne che garantiscono il suo impegno in diversi ambiti, ad esempio ha ottenuto la certificazione del Marine Stewardship Council (MSC) e alcuni suoi prodotti sono marchiati MSC. 
Al fine di proteggere la biodiversità, tutto il pesce utilizzato nella preparazione dei prodotti a marchio Schesir, ADoC e Dreesy proviene da pesca sostenibile, e i tonni in particolare appartenengono a due sole specie, che non sono a rischio di sovrasfruttamento: lo skipjack e il bonito.
Nel 2014 Agras Pet Foods ha iniziato a calcolare la propria carbon footprint, quantificando le emissioni di gas serra generate nello svolgimento delle proprie attività, in modo da migliorare al tempo stesso consapevolezza e performance: il valore per l’anno 2014, che sarà ricalcolato e tenuto sotto controllo annualmente, è stato di 3050,5 tonnellate di CO2.
Agras Pet Foods si impegna anche a realizzare un packaging a zero emissioni: a tal fine compensa l’anidride carbonica generata dalla produzione dei cartoncini che rivestono le lattine di cibo per cani e gatti a marchio Schesir con investimenti a sostegno della rigenerazione di foreste in Italia, in particolare nel Gargano, o della produzione di carbonella riciclata in Cambogia, un progetto innovativo realizzato da Sustainable Green Fuel Enterprise.
L’azienda, inoltre, compensa le emissioni prodotte dal sito webwww.schesir.com attraverso il progetto Zero Impact® Web con altre iniziative di riforestazione, questa volta in Costa Rica.
Le sfide per il futuro di Agras Pet Foods riguardano tre ambiti principali: ridurre ilpackaging dei prodotti, spostare ulteriormente il traffico della logistica dalla ruota alla rotaia (attività già partita nel 2015)  e utilizzare più materiale riciclato ericiclabile per gli stampati di comunicazione.
Per ridurre l’impatto ambientale dei prodotti commercializzati e in particolare delle proprie operazioni logistiche, quest’anno Agras Pet Foods ha ridotto l’approvvigionamento da Paesi lontani come Australia o Canada, così da ridurre le distanze. In ogni caso, da sempre l’azienda privilegia i fornitori che possono garantire l’adesione a determinati valori ad esempio il rispetto dell’ambiente o delle condizioni di lavoro del personale impiegato.

Per gli aspetti più strettamente legati al benessere degli animali, che sono anche i consumatori finali dei suoi prodotti, Agras Pet Foods si impegna a non svolgere test di prodotto cruenti, e tutte le confezioni espongono i simboli Cruelty Free eDolphin Safe.
Agras Pet Foods offre sostegno economico al FAI, Fondo Ambiente Italiano e ad organizzazioni a sfondo sociale come Terre des Hommes o la Fondazione Theodora Onlus, impegnate in iniziative per l’infanzia, ma svolge anche attività di solidarietà verso associazioni che si prendono cura di animali, donando loro i propri prodotti.

 




Da Giano bifronte a Pinocchio. Le multinazionali con disturbi di identità

“Solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”. A leggere cosa raccontano di sé, tutte le multinazionali sono “straordinarie”, con un clima interno di lavoro piacevole e orientate al bene della comunità. Ma quante di queste “parole chiave” hanno poi un concreto riscontro nelle loro attività quotidiane?


Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”. Pinocchio, come tutti sanno, è il personaggio di legno inventato da Collodi: sa essere buono, ma cade spesso nella tentazione di farsi trascinare da brutte compagnie, e nell’immaginario popolare è anche simbolo di bugia, con il suo naso che si allunga a dismisura quando mente, fino puntualmente a cacciarsi nei guai.

Aziende Pinocchio Bifronte: le multinazionali farmaceutiche

Ecco quattro brevi storie – ma se ne potrebbe citare molte, moltissime altre – di aziende con un atteggiamento che fonde bene le due figure simboliche sopra richiamate, al punto da generarne probabilmente una terza: il Pinocchio bifronte. A leggere cosa raccontano di sé, sono tutte multinazionali straordinarie, con clima interno di lavoro piacevole, e orientate al bene della comunità.
Partiamo da Big pharma facendo qualche nome: Novartis, Eli Llly, Glaxo, Shire, Gilead. Queste e altre aziende sembrano in varia misura coinvolte in qualcosa di simile ai “disturbi dissociativi d’identità”: sui loro bilanci sociali si fa un gran parlare di parole chiavi quali “solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”, ma quante di queste si traducono poi in comportamenti concreti?
Si dibatte spesso del redditizio business della produzione e vendita di psicofarmaci per bambini – circa 20 miliardi di dollari di incassi all’anno – ma soffermiamoci per un attimo sulla denuncia di Medici senza frontiere: in India le più grandi aziende del comparto farmaceutico e le associazioni di medici e pazienti sono schierati da anni su fronti contrapposti (benché le multinazionali del pharma dichiarino di essere “dalla parte di medici e pazienti”), in quanto la legge indiana permette di rifiutare alle grandi aziende le richieste di esclusive di brevetto per quei farmaci che non presentano “caratteristiche di forte innovazione e unicità”. Le Big pharma amano manipolare i brevetti cambiando appena due virgole per dare ulteriori 20 anni di vita a galline dalle uova d’oro che diversamente finirebbe sul mercato libere da brevetti e a disposizione di tutti. In India le piccole aziende locali fabbricanti di farmaci generici – medicinali i cui brevetti sono scaduti, e che quindi costa molto meno produrre, non dovendo pagare stratosferici diritti a nessuno – lavorano alacremente per mettere medicine a disposizione di pazienti di fasce poveredella società a prezzi 10, 20 a volte 50 volte inferiori a quelli delle grandi case produttrici.
Le pressioni sempre più sfacciate e insistenti di Big pharma potrebbero tuttavia modificare lo scenario in modo certamente non favorevole ai pazienti, come ha denunciato Silvia Mancini di Medici senza frontiere: “Le cose stanno cambiando, e presto probabilmente non potremo più disporre di medicine a basso costo da distribuire nelle zone più povere del mondo”, con buona pace di chi verrà semplicemente condannato a morte da questa scelta di business, e le cui storie probabilmente non troveranno spazio sui patinati bilanci sociali delle grandi multinazionali farmaceutiche.

india farmaci

Impiegati usa e getta

Spostiamoci dall’India agli Stati Uniti, con l’eclatante inchiesta del New York Times, Impiegati usa e getta, sul colosso delle vendite online, Amazon: ritmi di lavoro estenuanti, capi ufficio che penalizzano gli impiegati che non rispondono alle email di lavoro durante la notte o nei giorni di ferie, un sistema informatico che permette di fare delazioni anonime a danni dei colleghi, dipendenti malati di cancro a rischio licenziamento in quanto “le difficoltà della vita privata non devono interferire con le prestazioni lavorative”, o donne vittime di aborto spontaneo mandate in viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento con note del tipo “se hai tutta quest’intenzione di metter su famiglia, come sembra, sappi che questo non è il posto giusto per te”.
L’elenco delle vessazioni in Amazon è lungo pagine e pagine, e tutto ciò fa a pugni con le roboanti dichiarazioni di intenti pubblicate online dall’azienda sui documenti di rendicontazione sociale, tanto che l’amministratore delegato Jeff Bezos – che ogni anno secondo la Harvard Business Review si contende con il Ceodella Apple, Tim Cook, il primo posto come Ceo più performante nel mondo – ha dichiarato al New York Times, “Questa non è l’Amazon che conosco”. Eppure le due realtà paiono convivere in perfetto stile Giano bifronte: un’azienda apparentemente attenta al rispetto dei diritti dei dipendenti e al clima di lavoro interno, e nel contempo la stessa azienda bulimicamente proiettata verso un modello di business che prevede “guadagni, sempre più guadagni, a qualunque costo”.

magazzino amazon

Un magazzino Amazon in Inghilterra © Peter Macdiarmid/Getty Images

Creare obbedienza con la paura

Dagli Stati Uniti, diamo un’occhiata in casa nostra, con la storia di un’azienda apparentemente molto attenta, secondo le solite dichiarazioni sui bilanci sociali, buone per comunicati e conferenze stampa, ai risvolti etici e sociali della propria attività: Enel.
Francesco Starace, amministratore delegato della nostra azienda elettrica nazionale ha illustrato il suo pensiero durante un incontro tenuto a Roma con gli studenti dell’Università Luiss, dove ha spiegato come “generare cambiamento nelle aziende”. In riposta all’innocente domanda di uno studente, che chiedeva “quanto contano i propri collaboratori, e quali sono gli ingredienti di successo per un cambiamento”, Starace ha risposto: “È facile. Alla gente non piace soffrire”. Dimenticatevi ogni buon corso di leadership e di motivazione del personale, perché il principio cardine secondo Starace è il seguente: “Per spingere all’obbedienza e al cambiamento i sottoposti è necessario distruggere chi ha idee diverse da quelle del leader. Per farlo ci sono alcune cose abbastanza semplici da fare: innanzitutto ci vuole un gruppo di persone fedeli all’idea del capo; successivamente, si devono distruggere fisicamente i centri di potere che all’interno di un’azienda si oppongono al volere del leader, inserendo persone fedeli all’interno dei gangli dell’organizzazione dove lavorano coloro che hanno idee diverse (…), e creando malessere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento nel modo più plateale e manifesto possibile, in modo da ispirare paura agli altri”.
Come mai questi “illuminati” principi di leadership aziendale non sono declinati sui siti web aziendali e sul bilancio sociale Enel, firmato paradossalmente dallo stesso Starace, dove al contrario si fa un gran parlare di “coinvolgimento”, “creazione di valore”, “collaborazione”, “piani di sviluppo individuali delle persone” e addirittura di “wellness aziendale”.

lavoratori enel multinazionali

Lavoratori a una centrale Enel © Alessandra Benedetti/Corbis via Getty Images

Gay-friendly – a corrente alternata

Ultima storia, quella di Fiat, o meglio Fiat Chrysler automobiles (Fca), che ha segnalato con un comunicato stampa in olandese, poi tradotto in inglese per i mercati esteri, ma mai proattivamente diffuso in Italia, di aver sostenuto attivamente il Gay pride di Amsterdam, grazie anche alla lodevole sensibilità personale sui temi Lgbt di Cristiana Alicata, responsabile di Fca Olanda. In effetti, come certifica il portale Gay.it, l’auto che più di tutte “ci ha messo il muso” per la comunità Lgbt è la Fiat 500: è stata per ben due volte eletta Gay car of the year, e come le migliori drag queen la baby di casa Fiat “ha saputo travestirsi e trasformarsi come una vera regina del palcoscenico, assumendo colori ispirati a Barbie e Gucci”. In occasione appunto del Gay pride di Amsterdam è stata dipinta completamente di rosa, con l’hashtag #welovepink e ha sfrecciato orgogliosa sulle acque dei canali della capitale olandese. Già per altri Gay Pride, questa volta negli Stati Uniti, la 500 prese le tinte della bandiera arcobaleno, troneggiando tra carri e partecipanti alle parate che celebravano la legalizzazione del matrimonio egualitario in America, e, ancor prima, si distinse nell’Orgullo di Madrid del 2010 con 5 modelli speciali a rappresentanza di diverse “specie della fauna Lgbt”, quali Drag, Leather, Lesbo, Orso e Cool. Si era “travestita” con paillette, cuoio, pelliccia, rossetto e persino gli specchietti in palla da discoteca, che ne avevano decorato la carrozzeria, per richiamare in modo scherzoso alcuni stereotipi del mondo queer.
Ma tutto questo orgoglio gay sparisce purtroppo quando si varcano i confini del Bel Paese, che tra l’altro – troppo spesso qualcuno lo dimentica – alla Fiat ha dato i natali. Nel bilancio sociale della multinazionale dell’auto la parola “Lgbt” o simili non compare infatti neppure una volta, se non indirettamente e molto genericamente nella sezione in lingua inglese Culture of diversity and inclusion, quando si cita tra le molte associazioni alle quali la Fabbrica italiana automobili Torino aderisce anche la californiana Gay and lesbian alliance.
“Trovo sconcertante questo comportamento ambiguo. Evidentemente, per quanto un’azienda sia grande, in quanto con Dna italiano resta sempre e comunque un’azienda ‘provinciale’ ”, ha dichiarato Fabio Canino, presentatore Rai e noto attivista Lgbt, che della promozione della “pink economy” ne ha fatto una vera e propria battaglia, anche nel suo ultimo libro dal titolo Rainbow Republic, aggiungendo: “Posso solo augurarmi che prima o poi anche la Fca riesca a mettere la freccia e a sorpassare i pregiudizi che evidentemente dimostra ancora in Italia verso il mondo Lgbt”.
Nei prossimi anni scopriremo se questo è solo l’inizio di un percorso di maturazione culturale interno, iniziato in Olanda e negli Stati Uniti, e che si manifesterà poi anche nel nostro Paese.

Mettiamo le multinazionali sul lettino

Ebbene, che siano le aziende citate in quest’articolo, piuttosto che Shell, la società petrolifera “green” i cui impianti hanno causato danni ambientali per miliardi di dollari nel Golfo del Messico, o la banca “attenta alle persone”  che poi vende obbligazioni tossiche rovinando decine di migliaia di famiglie e facendo suicidare vari imprenditori, c’è da chiedersi quanto spazio separa la verità dalla finzione. Quanto è sottile la patina di smalto verde che le aziende si danno compulsivamente per apparire più eco e trendy agli occhi del mondo, al solo fine di orientare in modo più profittevole i comportamenti di acquisto dei cittadini. Quanto è fragile e traballante l’impalcatura di bugie della quale si circondano. Quanto è ampio il solco tra l’unità interna che si occupa di politiche sociali, di sostenibilità e di rendicontazione ambientale, e il top management che poi prende realmente le decisioni strategiche. Che ruolo hanno i “complici” di questi “delitti”, ovvero i consulenti, i comunicatori e i relatori pubblici, i Mandrake dei nostri giorni, che truccano le carte migliorando il percepito, e aiutando le grandi aziende nella loro opera di lifting”, chiudendo tutti gli occhi possibili in nome della pubblicità, del marketing e del business.
Abbiamo citato i Disturbi dissociativi dell’identità, o Disturbi da personalità multipla, fenomeni di forte disagio la cui caratteristica essenziale, seconda la psichiatria, è la presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento dell’individuo, con incapacità di ricordare notizie importanti troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza, e con pensieri ed emozioni della cosiddetta “personalità secondaria” che risultano assai differenti da quelli da quella principale. Le aziende sono gruppi umani organizzati per raggiungere uno scopo comune. Probabilmente ne riflettono in qualche modo le patologie, il che riporterebbe di stringente attualità le intuizioni di Adriano Olivetti, grande estimatore dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, al punto da creare con lo psicologo Cesare Musatti già negli anni Sessanta uno dei primi e più importanti gruppi di ricerca di psicologia del lavoro in Italia, che aveva come centro di sperimentazione proprio la grande fabbrica Olivetti di allora.
Il problema tuttavia è mettere le multinazionali sul lettino: c’è da chiedersi quante accetteranno di farlo spontaneamente, prima che si renda necessario un Trattamento sanitario obbligatorio con camicia di forza, come quello che ha costretto Volkswagen a rivedere bruscamente le sue policy di responsabilità sociale in occasione del recente Dieselgate, a seguito dei miliardi di euro persi in borsa proprio a causa delle menzogne raccontate al mercato.