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COSA AVREI FATTO SE FOSSI STATO MR. VOLKSWAGEN

Un decalogo di possibili scelte per evitare, ridimensionare o tentare di risolvere lo scandalo che ha investito il colosso automobilistico di Wolfsburg
  1. LA REAZIONE A CALDO. Ceo, Direttore CSR, o azienda in generale, il punto di vista non cambia: sarei stato reattivo, diretto, immediato, autentico e inclusivo verso le esigenze di trasparenza del mercato e dei Clienti, ben consapevole che il valore economico più importante al giorno d’oggi – anche in borsa – è quella della Reputazione.
  2. MALATTIE CONTAGIOSE. Sarei stato consapevole che la “divaricazione identitaria” è una malattia peggiore dell’influenza spagnola. Essere in cima alle classifiche della CSR e vantare la costante introduzione di preoccupazioni di carattere etico nel business, e nel contempo truffare i Clienti o comunque deluderne le aspettative, è innanzitutto pericoloso per l’azienda stessa e per il brand, e rischia di pregiudicare le vendite e quindi gli interessi degli azionisti. Anche la “schizofrenia” è una brutta malattia: non avrei mai permesso l’esistenza di “due Volkswagen”, un team impegnato in progetti “green” e uno impegnato a fare l’esatto opposto, ovvero alterare i dati delle emissioni e permettere un inquinamento maggiore, toccando da vicino una tematica giustamente così “sensibile” qual’è il futuro del Pianeta
  3. LA POLITICA DELLO STRUZZO, O DELL’ECCESSO DI “TIMIDEZZA”. Quando nel 2014 l’UE lanciò i primi allarmi, pubblicando un report che metteva in discussione le policy di VW sull’inquinamento e, sollevava questioni delicate e potenzialmente dirompenti, e poneva ombre sull’operato dell’azienda, avrei – già all’epoca – organizzato risposte pubbliche, creando un vero e proprio team di lavoro per gestire la crisi, e preparandosi in quello che era ancora “un tempo di pace” a governarla al meglio, in modo proattivo, senza attendere affatto che scoppiasse lo scandalo. Avrei inoltre collaborato attivamente, fin da allora, con le Istituzioni di controllo, documentando tutto in modo molto rigido e trasparente, sulla base di una road-map condivisa con le autorità, e rendicontando gli stakeholder di ogni progresso
  4. E’ COLPA DI TUTTI/NON E’ COLPA DI NESSUNO. Già all’epoca, avrei mosso contestazioni scritte ai dirigenti implicati in questa vicenda, eventualmente prendendo provvedimenti disciplinari fino al licenziamento, perché farlo ora, fuori tempo massimo, e solo sotto pressione dell’opinione pubblica, ha molto poco valore
  5. I BASIC DELLA COMUNICAZIONE DI CRISI. A scandalo deflagrato, avrei aperto al massimo i megafoni della comunicazione, dialogando in modo multicanale e multistakeholder, piuttosto che costringere i mass-media e i cittadini interessati a “rincorrere le notizie”, invece che ascoltare la voce dell’azienda, che è rimasta confinata in pochissimi comunicati “tradizionali” in lingua inglese o peggio ancora in tedesco, e quasi totalmente assente sui Social media VW
  6. CAPITANO AL COMANDO/EFFETTO SCHETTINO. Fin dal momento della mia assunzione come CEO, avrei fatto in modo che la mia buonuscita fosse contrattualmente articolata in due pilastri ben separati, uno agganciato all’incremento delle vendite durante il mio periodo di governo strategico dell’azienda, comunque dovuto, e l’altro di “liquidazione” in senso stretto, agganciato al buon fine del rapporto. In caso di mancato buon fine del rapporto – come in questo caso, dal momento che la remissione della delega è stata causata da uno scandalo di inaudite dimensioni – avrei di mia iniziativa, d’intesa con VW, rinunciato alla seconda voce di incasso, sia per permettere all’azienda che mi ha dato da mangiare per anni di spendersi positivamente la cosa sui mass-media, sia perché anche la mia di reputazione ha un valore. E in ogni caso, se avessi fatto tutto quanto è elencato dal punto (1) al punto (8), avrei comunque chiesto pubblicamente agli azionisti e al mercato una licenza temporanea di operare per tutto il periodo di gestione dello scandalo, perché un Comandante onesto non abbandona la barca al proprio destino nel pieno della tempesta, tanto meno dopo essersi incassato una valanga di soldi
  7. DA DOMANI (ANZI, DA OGGI). Il modello per VW dovrebbe essere Barilla (*): come trasformare una crisi in un opportunità, soprattutto di crescita interna. La CSR o è pervasiva in tutti i processi aziendali, o è solo marketing e non è CSR. VW dovrebbe quindi “ascoltarsi”: mapparsi culturalmente, identificare le criticità interne – soprattutto di processo – e avviare un percorso di change management serio, condividendo ogni passaggio con i suoi stakeholder tramite una dashboard, un cruscotto di indicatori costruito appositamente per quest’occasione, aggiornato frequentemente e accessibile da chiunque, Clienti del marchio ma anche semplici cittadini, che sono tutti clienti potenziali.
  8. RITROVARE L’ORGOGLIO. VW – oltre al capitale di innovazione – ha “bruciato” capitale umano come mai prima nella propria storia: oggi probabilmente non è molto bello lavorare in Volkswagen. Scherno, attacchi, derisioni, facile ironia, insulti, critiche. Se l’uomo è veramente “al centro”, come recitano tutti i buoni manuali di CSR, quest’aspetto non può essere ignorato, e un piano specifico su queste tematiche andrebbe immaginato e immediatamente avviato, senza alcun ritardo
  9. IMPOSSIBILE IL PERDONO… SENZA “AMMENDA”. Il gruppo di Wolfsburg dovrebbe a propria cura e sotto il controllo di una commissione indipendente “quantificare” il danno che ha creato, con più precisione possibile. VW non ha danneggiato solo i propri azionisti, ha danneggiato il pianeta – con le sue maggiori e incontrollate emissioni – quindi tutti noi, e noi vogliamo essere “risarciti”. L’azienda deve “rimborsare” al pianeta il proprio debito verde: dovrebbe istituire un apposito fondo, con adeguate dotazioni finanziare, e sostenere ad esempio la start-up universitaria “Spin8” (**) o altri progetti simili in UE e USA.
  10. REPETITA IUVANT. Forse non sono stato abbastanza chiaro, è opportuno ripeterlo: sarei stato reattivo, diretto, immediato, autentico e inclusivo verso le esigenze di trasparenza del mercato e dei Clienti.
(*) il riferimento è alla nota crisi reputazionale che ha investo la multinazionale italiana dell’alimentare a seguito delle dichiarazioni del Presidente Guido Barilla sulle coppie di fatto e sulle famiglie gay, e al rapido ed efficace progetto di “recovery” che ha portato Barilla ad essere una best-in-class nella valorizzazione delle diversità all’interno dell’azienda
 
(**) http://www.motori24.ilsole24ore.com/Tecnologia/2015/09/ricaricare-auto-elettrica.php 



TUTTI IN VACANZA NEL GRAUBUNDEN

Un eccezionale caso di comunicazione non convenzionale: un agricoltore di una sperduta località nele alpi svizzere, invita tutti noi a raggiungerlo di persona… con risultati straordinari!




Ségolène Royal: "Mille scuse alla Nutella". Il ministro francese aveva chiesto di non mangiarla più. Scatenando le polemiche.

Alla fine le scuse di Ségolène Royal sono arrivate. Un breve tweet, pubblicato nel pomeriggio, con cui il ministro dell’Ecologia francese ha fatto dietrofront rispetto al suo atto d’accusa alla Nutella: “Mille scuse per la polemica sulla Nutella”.

 Una mossa arrivata a seguito di enormi polemiche. Sì, perché quella frase, pronunciata nel corso della trasmissione Le Petit Journal di Canal+, agli italiani proprio non è andata giù. “Bisogna smettere di mangiare Nutella perché contiene olio di palma”, aveva detto il ministro Royal.

Immediati i commenti di tanti amanti della crema di nocciole che avevano puntualizzato come non solo Ferrero, produttore di Nutella, ma anche tante altre realtà industriali si servano dell’olio di palma. Non erano mancate, poi, le critiche delle istituzioni e della politica. Il ministro dell’Ambiente italiano, Gian Luca Galletti, aveva criticato apertamente l’omologa francese. “Segolene Royal sconcertante: lasci stare i prodotti italiani. Stasera per cena… pane e #Nutella”, aveva scritto su Twitter Galletti.

 Linea scelta anche da Agnese Renzi che, in visita a Expo insieme alla figlia, ha colto l’occasione per tornare indirettamente sul tema. Come? Ordinando e mangiando una crêpe alla Nutella. E di “grave e brutto scivolone della Francia sull’eccellenza italiana” aveva parlato per primo il deputato democratico Michele Anzaldi, membro della commissione Agricoltura della Camera.
 Ora, niente più stop all’acquisto: Royal, che aveva chiesto di rinunciare all’amatissima crema spalmabile per difendere le foreste e, quindi, l’ambiente, torna sui propri passi. E, del resto, ha dovuto vedersela anche con la replica di Ferrero. L’azienda italiana, pur non intervenendo direttamente sulle frasi del ministro francese, aveva difeso con fermezza il proprio operato. Dalla ricerca delle materie prime in Malaysia, Papua Nuova Guinea e Brasile fino alla vendita, aveva affermato il gruppo di Alba, ogni scelta viene fatta all’insegna della sostenibilità e della sicurezza. Come garanzie, l’affiliazione al Roundtable on sustainable palm oil (Rspo) e i “numerosi impegni in relazione alle forniture di olio di palma”. Ferrero si sarebbe, in particolare, impegnata a servirsi esclusivamente di olio di palma “certificato sostenibile al 100%”.

Accanto alle precisazioni aziendali e alle polemiche politiche, poi, la rivolta del web. E rilevante è anche il commento apparso oggi su Il Sole 24 Ore. “L’impatto ambientale dell’olio di palma ovviamente c’è, perché ogni atto umano ha un impatto sull’ambiente. Ed è vero che ci fu un impoverimento del mondo quando si abbatterono migliaia di ettari di foresta pluviale in Malesia o in Indonesia per piantare palme da olio. Ma boicottando la Nutella non si rallentano i consumi di olio di palma né si restituisce foresta pluviale. Se non esistesse la crema al gianduia, la coltura di palme non perderebbe un ettaro e le navi cisterna cariche di olio viaggerebbero sulle stesse identiche rotte. Rinunciare all’olio di palma significa favorire altri grassi e altre colture di pari impatto”. Quello di Royal, conclude Il Sole 24 Ore, è un brutto scivolone.




CSR, LE INDUSTRIE PHARMA PREFERISCONO I DIPENDENTI

Dal “Rapporto sull’impegno sociale delle aziende italiane” curato dall’Osservatorio Socialis risulta che i produttori di medicinali sono più attenti al miglioramento del clima interno ma anche dell’ambiente, rispetto che a iniziative umanitarie o filantropiche. Tra le motivazioni all’investimento spicca sopratutto la propria reputazione. In generale aumenta chi destina parte del proprio bilancio a scopi benefici (lo fa il 73%) e ne primi mesi del 2014 il budget medio impiegato dai singoli è passato dai 158 mila euro del 2013 agli attuali 169 mila con un incremento del 7%. le risorse sono utilizzate in maniera più oculata, puntando su pochi obbiettivi strategici.
Le aziende che investono in responsabilit・sociale sono sempre di pi・ E se la crisi riduce i budget (che appaiono comunque in ripresa) le imprese sanno spendere meglio. Non solo, in prima fila, in questa classifica virtuosa, troviamo il settore farmaceutico, soprattutto per quanto riguarda le misure a favore dei dipendenti. Lo dice il sesto “Rapporto sull’impegno sociale delle aziende italiane” realizzato dall’osservatorio Socialis, un cantiere di promozione culturale della http://www.osservatoriosocialis.it/2014/07/01/litalia-volta-pagina-con-la-csr-aziende-e-dipendenti-insieme-per-lambiente/ che ha come obiettivo l’analisi e la promozione dell’mpegno sociale delle aziende, delle associazioni, delle istituzioni e delle università. La CSR non è altro che la Corporate Social Responsibility (RSI, ovvero Responsabilità Sociale d’Impresa in italiano) ed è entrata formalmente nell’agenda dell’Unione Europea a partire dal Consiglio Europeo di Lisbona del 2000, proprio perchè è stata considerata uno degli strumenti strategici per realizzare una società più competitiva e socialmente coesa. La sua definizione (“L’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate”) è contenuta nel Libro Verde della Commissione Europea del 2001. Si tratta quindi di pratiche e comportamenti che un’impresa adotta su base volontaria, nella convinzione di ottenere dei risultati che possano arrecare benefici e vantaggi a se stessa e al contesto, al di là delle leggi vigenti.
I numeri
Se la fotografia scattata dal precedente Rapporto (2011) mostrava che la percentuale delle imprese italiane dotate di una strategia CSR era pari al 64%, a distanza di due anni il numero delle aziende è salito fino al 73%. Tra i settori più attivi, come anticipato, troviamo il farmaceutico insieme a finance, commercio e manifatturiero. Nel 2013 la contrazione delle risorse a disposizione, a causa della crisi economica, non è stata di poco conto (-25% rispetto al 2011) ma la flessione è stata compensata, anche se in parte, dall’aumento del numero degli investitori. Non solo, i primi mesi del 2014 dicono che la ripresa in questo senso è già in atto (+7% rispetto all’anno scorso, se si guarda al budget medio investito dalla singola azienda: 169 mila euro nel 2014, contro i 158 mila euro del 2013) e che le risorse sono state utilizzate in maniera più oculata, puntando su pochi obiettivi strategici. La tendenza rilevata è il passaggio da una dimensione esterna e di ordine umanitario a una maggiore attenzione al miglioramento del clima interno e al campo d’azione locale. Parallelamente è in crescita l’interesse per l’ambiente circostante e non solo, con un impegno maggiore nella lotta agli sprechi, nell’ottimizzazione dei consumi energetici e nella sostenibilità.
Gli effetti
Ma cosa genera questo impegno? Secondo i risultati della ricerca il ruolo di sprone è tutto del cittadino consumatore. Quasi ininfluenti risultano invece le istituzioni e la pubblica amministrazione. Un dato ancora più chiaro se si guarda alle motivazioni che spingono le aziende a operare nel campo della responsibilità sociale: la prima di queste è di carattere “reputazionale”, il vero obiettivo è quindi il miglioramento dell’immagine aziendale. La CSR viene perciò considerata fondamentale nella costruzione del proprio posizionamento, mentre sono molto più staccate le motivazioni “morali”. E se la visibilità e il miglioramento del rapporto con il proprio territorio sono gli obiettivi delle aziende, gli effetti più positivi che queste registrano riguardano soprattutto i propri dipendenti e il miglioramento del clima interno. Infine si stanno facendo largo, anche se in misura diversa, due consuetudini: il bilancio sociale e il bilancio ambientale. Se il primo è adottato ormai dal 50% degli intervistati, il secondo è ancora fermo al 30%. Non solo, tre quarti delle imprese intervistate dichiara di aver organizzato un sistema di informazione interna. Anche in questo caso le aziende farmaceutiche fanno registrare un ottimo risultato, insieme al settore tecnologico/informatico e al metallurgico.
Il settore farmaceutico
“Circa il 10% delle aziende intervistate appartiene al settore farmaceutico” spiega Roberto Orsi, direttore dell’Osservatorio Socialis e docente di Governance territoriale e responsibilità sociale. “Stiamo parlando di aziende con più di 80 dipendenti, dislocate al Nord al Centro e al Sud. L’universo del campione è composto da 400 imprese e l’indagine è stata realizzata dall’Istituto Demoscopico IXE con indagine quantitativa campionaria con metodo telefonico CATI”. Quali sono le tendenze più evidenti che hanno fatto registrare nello specifico le aziende farmaceutiche? “Possiamo dire – prosegue Orsi – che la nuova rilevazione statistica ci restituisce l’immagine di un tessuto imprenditoriale che dalla crisi ha assimilato molto. Potremmo sintetizzare in questo modo: le risorse sono preziose, i processi determinanti e l’impatto sociale di impresa richiede una strategia precisa”. Orsi prova a dettagliare maggiormente il concetto: “Al di là dei numeri, la prima parola evidenziata dai dati di questo rapporto è ‘attenzione’: attenzione agli sprechi, ai dipendenti, all’ambiente in cui viviamo e che lasciamo ai figli e ai nipoti, al territorio nel quale operiamo. Per questo possiamo dire che sta emergendo, con chiarezza, un nuovo modo di fare ed essere impresa”. Quali sono le altre parole chiave? “Ad esempio ‘risparmio’, che in questi anni è diventato obbligatorio, ma che è anche uno dei principali vantaggi dell’agire responsabile, un volano per
lo sviluppo della CSR e dell’impresa stessa. Ci riferiamo alla riduzione dei consumi di materie prime e risorse, al maggiore controllo della filiera, a una maggiore attenzione complessiva ai costi”. E che tipo di strategie CSR stanno mettendo in atto le aziende farmaceutiche? “A mio avviso il cambiamento più rilevante rispetto all’ultimo rapporto è proprio la scelta delle strategie di CSR: se infatti prima era più diffusa la dimensione esterna della responsabilità sociale, quella collegata ad esempio a donazioni umanitarie, ora e per il futuro le imprese puntano sull’ambiente: il 54% del campione dichiara di aver attivato misure cogenti di contenimento degli sprechi di carta, acqua, illuminazione e avanzi nelle mense; seguono investimenti per migliorare il risparmio energetico (36%), l’introduzione o il potenziamento della raccolta differenziata (33%), nuove tecnologie per limitare l’inquinamento e migliorare lo smaltimento dei rifiuti (33%). In netto calo le donazioni in denaro (solo il 26% dichiara di organizzarle all’interno della propria impresa) e attività filantropiche (24%)”. Possiamo dire che le farmaceutiche investono più di altri settori in misure a favore dei dipendenti e contro l’inquinamento? “I nuovi dati parlano chiaro: il settore farmaceutico si è confermato tra i settori più attivi insieme al finance, al commercio e al manifatturiero”. Se la ragione è principalmente motivazionale, si può dedurre che il farmaceutico è in prima linea nella CSR perché sente di dover recuperare terreno? “Devo attenermi ai numeri. E di sicuro la prima motivazione a fare responsabilità sociale è reputazionale (47%). In seconda battuta viene segnalato l’effetto sul business (27%) e sul clima interno (27%). A un terzo livello si trovano poi le motivazioni di ordine morale (la CSR come contributo d’impresa allo sviluppo sostenibile) e il rapporto con amministrazioni e stakeholders. Coerentemente, il principale criterio di scelta delle iniziative da sostenere o attuare è la loro visibilità (40%); poi l’area geografica (31%), ovvero il legame con il territorio, a sottolineare l’obiettivo di influire nei rapporti con i soggetti sociali locali; seguono la possibilità di coinvolgere il personale (28%) e quella di misurare i risultati dell’iniziativa (23%). Nonostante la spiccata motivazione verso il rafforzamento della corporate reputation, il primo vantaggio realmente riconosciuto dalle imprese che hanno fatto CSR è nel miglioramento del clima interno e nel coinvolgimento dei dipendenti: a pensarla così il 46% delle aziende; solo il 36% registra invece il verificarsi dell’effettivo ritorno reputazionale prospettato all’inizio”. Nella panoramica iniziale abbiamo toccato il tema del codice etico nelle aziende. Quanto è diffuso nelle aziende farmaceutiche? Orsi prosegue: “Il 53% ne ha adottato uno. Rispetto al 2011 la quota è cresciuta circa del 10%, mentre si è ridotta la percentuale delle imprese che non sono propense ad adottarne uno. Molto interessante anche il fatto che il 46% delle imprese scelga e valuti i propri fornitori anche in considerazione del loro impegno in attività di CSR”. Riguardo al tema del bilancio sociale e del bilancio ambientale il settore si distingue in qualche modo? Conclude Roberto Orsi: “Possiamo dire che il bilancio ambientale ha ancora molta strada da fare e appare maggiormente diffuso nell’industria metallurgica, in quella tecnologico/informatica e, a livello geografico, nel Nord-ovest e Centro. Per quanto riguarda il bilancio sociale, è referenziato in misura superiore alla media dal settore del
commercio, dei trasporti, dell’informatica, della tecnologia, delle telecomunicazioni, delle imprese con più di 1000 dipendenti del Centro, del Sud e delle Isole. In generale possiamo dire che i bilanci sociali e di sostenibilità ambientale sono apprezzati all’interno dell’impresa: pochi ne riportano criticità, come i costi eccessivi, i più li considerano strumenti chiari, comparabili a quelli dei competitors”.




Chi ha portato a Cesena i FooFighters ha tanto da insegnare alle aziende

I 1000 rockers che hanno suonato “learn to Fly” al fine di convincere Dave Grohl e soci FooFighters a suonare a Cesena, non è solo un video fantastico da postare sulle bacheche di Facebook e condividere all’infinito, è una vera e propria case history da insegnare nelle aziende tradizionali e (anche) alle startup.
Mi spiego meglio. In questo progetto c’è tutto: leadership, scelta della squadra, convincimento e coinvolgimento in un progetto comune (i soci scelti all’inizio lo coglioneranno, poi capiscono che “si può fare” e “ci stanno”), passione per un obbiettivo (tutti amano i FooFighters), comunicazione, contatto con i fornitori, business plan ben definito (crowdfunding), energia, fallimento, reforecast (vuol dire che ti eri prefissato un obbiettivo e lo devi riparametrare) risalita, obbiettivo raggiunto, e di nuovo comunicazione.
Non manca nulla perché il progetto Rockin1000 possa essere considerato una “buona pratica aziendale”: per quelle organizzazioni che latitano di un Capo coinvolgente e che sappia esprimere energia e passione per un nuovo progetto; per quelle aziende che non sanno comunicare e che pensano che l’Intranet Aziendale sia ancora lo strumento più efficace per comunicare o peggio, che i Comunicati Stampa degli Amministratori Delegati siano la migliore pubblicità verso i consumatori (ma chi ci crede più?); per quelle aziende che ritengono i partner e i fornitori delle entità “esterne” anziché dei veri e propri ambasciatori del proprio brand.
Non ultimo “orchestrare” tutti i propri dipendenti in maniera armonica.
Senza dilungarmi troppo, penso che il  progetto rappresenti quattro pilastri di successo aziendale davvero importanti:
– Il leader ha saputo scegliere la sua squadra non necessariamente fra chi la pensa come lui, ma fra coloro che sono ritenuti i migliori nel loro campo. E come spesso accade, ha dovuto convincerli, superando le famose “frasi killer” (“non si può fare…”, “Non abbiamo abbastanza risorse …”).
Proprio come succede in azienda, no?

La comunicazione. Come nel video qui sopra, certamente fatto ad hoc per raccontare (e quindi “Storytelling”, che va tanto di moda, ma in realtà è sempre esistito) e coinvolgere “dipendenti”,  “fornitori” e “investitori”. In questo caso, si tratta di individuare 1000 musicisti per realizzare un video, intorno ad un progetto comune, chiedendo un supporto economico a perfetti sconosciuti.
Per essere credibili, bisogna avere un’ottima reputazione, saperlo comunicare in maniera professionale, dare il giusto riconoscimento a tutti i collaboratori, stuzzicare e dare un motivo per esserci a tutti coloro che aderiranno o attraverso una donazione o gratuitamente con il proprio lavoro.
I vostri Capi sono capaci di farlo?
– Il fallimento come stimolo ad andare avanti. E’ uno dei grandi temi di questi anni, il salto di paradigma da come si è sempre gestita un’azienda, premiando i migliori ed escludendo gli altri. Calpestando terreni noti senza mai avventurarsi ed esplorare altri possibili percorsi.
Succede quindi che il crowdfunding previsto (40.000 euro, tanti per il crowdfunding italiano ad esclusione di Telethon!) non è stato sufficiente. Si decide quindi di prorogare il periodo di raccolta di un mese. Il leader però ci mette la faccia. Comunica che ci crede e che vuole andare avanti. Apertamente spiega cosa si sta facendo e che manca davvero poco alla realizzazione del progetto. Stimola, spinge, parla in prima persona. E alla fine, il risultato viene raggiunto grazie anche al supporto di aziende importanti che iniziano ad “annusare” la visibilità che questo progetto può loro riservare.
Contaminazione e diversità: Ad un certo punto, aderisce anche un importante Maestro d’Orchestra. Marco Sabiu è colui che dirigerà i 1000 dipendenti con cervelli, culture, mondi, idee, logiche musicali e chi più ne ha più ne metta. Non stiamo parlando di musicisti con un alfabeto comune, un’orchestra a cui basta mettere di fronte uno spartito perché tutti interpretino tempi, toni e note nello stesso modo. Stiamo parlando di 1000 Persone. Che non si conoscono, che non hanno mai suonato insieme, che vengono da città diverse, da storie diverse, con idee e modelli diversi.
Faccio difficoltà a pensare ad un esempio migliore di questo per affermare quanto la diversità, la complessità e la contaminazione siano i veri agenti del rinnovamento per le aziende. Aziende che vogliono persone tutte uguali, uniformate, che non mettano mai in dubbio una scelta e soprattutto “provenienti dallo stesso settore”.
Il risultato è stupefacente. Lo avete condiviso migliaia di volte sulle vostre bacheche a testimonianza di come alla fine, sono le aziende più improbabili quelle che fanno la differenza.
E invece, sono solo canzonette.