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Da Giano bifronte a Pinocchio. Le multinazionali con disturbi di identità

“Solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”. A leggere cosa raccontano di sé, tutte le multinazionali sono “straordinarie”, con un clima interno di lavoro piacevole e orientate al bene della comunità. Ma quante di queste “parole chiave” hanno poi un concreto riscontro nelle loro attività quotidiane?


Giano bifronte era un’antica e importante divinità romana, rappresentata con una testa bicefala: era il protettore di tutto ciò che concerne “una fine e un nuovo inizio”, ma – sicuramente a causa delle sue “due facce” – nella cultura popolare iniziò presto a essere simbolo di doppiezza, “di una cosa del suo opposto”. Pinocchio, come tutti sanno, è il personaggio di legno inventato da Collodi: sa essere buono, ma cade spesso nella tentazione di farsi trascinare da brutte compagnie, e nell’immaginario popolare è anche simbolo di bugia, con il suo naso che si allunga a dismisura quando mente, fino puntualmente a cacciarsi nei guai.

Aziende Pinocchio Bifronte: le multinazionali farmaceutiche

Ecco quattro brevi storie – ma se ne potrebbe citare molte, moltissime altre – di aziende con un atteggiamento che fonde bene le due figure simboliche sopra richiamate, al punto da generarne probabilmente una terza: il Pinocchio bifronte. A leggere cosa raccontano di sé, sono tutte multinazionali straordinarie, con clima interno di lavoro piacevole, e orientate al bene della comunità.
Partiamo da Big pharma facendo qualche nome: Novartis, Eli Llly, Glaxo, Shire, Gilead. Queste e altre aziende sembrano in varia misura coinvolte in qualcosa di simile ai “disturbi dissociativi d’identità”: sui loro bilanci sociali si fa un gran parlare di parole chiavi quali “solidarietà”, “salute”, “attenzione alle fasce deboli”, “mission al servizio della collettività”, ma quante di queste si traducono poi in comportamenti concreti?
Si dibatte spesso del redditizio business della produzione e vendita di psicofarmaci per bambini – circa 20 miliardi di dollari di incassi all’anno – ma soffermiamoci per un attimo sulla denuncia di Medici senza frontiere: in India le più grandi aziende del comparto farmaceutico e le associazioni di medici e pazienti sono schierati da anni su fronti contrapposti (benché le multinazionali del pharma dichiarino di essere “dalla parte di medici e pazienti”), in quanto la legge indiana permette di rifiutare alle grandi aziende le richieste di esclusive di brevetto per quei farmaci che non presentano “caratteristiche di forte innovazione e unicità”. Le Big pharma amano manipolare i brevetti cambiando appena due virgole per dare ulteriori 20 anni di vita a galline dalle uova d’oro che diversamente finirebbe sul mercato libere da brevetti e a disposizione di tutti. In India le piccole aziende locali fabbricanti di farmaci generici – medicinali i cui brevetti sono scaduti, e che quindi costa molto meno produrre, non dovendo pagare stratosferici diritti a nessuno – lavorano alacremente per mettere medicine a disposizione di pazienti di fasce poveredella società a prezzi 10, 20 a volte 50 volte inferiori a quelli delle grandi case produttrici.
Le pressioni sempre più sfacciate e insistenti di Big pharma potrebbero tuttavia modificare lo scenario in modo certamente non favorevole ai pazienti, come ha denunciato Silvia Mancini di Medici senza frontiere: “Le cose stanno cambiando, e presto probabilmente non potremo più disporre di medicine a basso costo da distribuire nelle zone più povere del mondo”, con buona pace di chi verrà semplicemente condannato a morte da questa scelta di business, e le cui storie probabilmente non troveranno spazio sui patinati bilanci sociali delle grandi multinazionali farmaceutiche.

india farmaci

Impiegati usa e getta

Spostiamoci dall’India agli Stati Uniti, con l’eclatante inchiesta del New York Times, Impiegati usa e getta, sul colosso delle vendite online, Amazon: ritmi di lavoro estenuanti, capi ufficio che penalizzano gli impiegati che non rispondono alle email di lavoro durante la notte o nei giorni di ferie, un sistema informatico che permette di fare delazioni anonime a danni dei colleghi, dipendenti malati di cancro a rischio licenziamento in quanto “le difficoltà della vita privata non devono interferire con le prestazioni lavorative”, o donne vittime di aborto spontaneo mandate in viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento con note del tipo “se hai tutta quest’intenzione di metter su famiglia, come sembra, sappi che questo non è il posto giusto per te”.
L’elenco delle vessazioni in Amazon è lungo pagine e pagine, e tutto ciò fa a pugni con le roboanti dichiarazioni di intenti pubblicate online dall’azienda sui documenti di rendicontazione sociale, tanto che l’amministratore delegato Jeff Bezos – che ogni anno secondo la Harvard Business Review si contende con il Ceodella Apple, Tim Cook, il primo posto come Ceo più performante nel mondo – ha dichiarato al New York Times, “Questa non è l’Amazon che conosco”. Eppure le due realtà paiono convivere in perfetto stile Giano bifronte: un’azienda apparentemente attenta al rispetto dei diritti dei dipendenti e al clima di lavoro interno, e nel contempo la stessa azienda bulimicamente proiettata verso un modello di business che prevede “guadagni, sempre più guadagni, a qualunque costo”.

magazzino amazon

Un magazzino Amazon in Inghilterra © Peter Macdiarmid/Getty Images

Creare obbedienza con la paura

Dagli Stati Uniti, diamo un’occhiata in casa nostra, con la storia di un’azienda apparentemente molto attenta, secondo le solite dichiarazioni sui bilanci sociali, buone per comunicati e conferenze stampa, ai risvolti etici e sociali della propria attività: Enel.
Francesco Starace, amministratore delegato della nostra azienda elettrica nazionale ha illustrato il suo pensiero durante un incontro tenuto a Roma con gli studenti dell’Università Luiss, dove ha spiegato come “generare cambiamento nelle aziende”. In riposta all’innocente domanda di uno studente, che chiedeva “quanto contano i propri collaboratori, e quali sono gli ingredienti di successo per un cambiamento”, Starace ha risposto: “È facile. Alla gente non piace soffrire”. Dimenticatevi ogni buon corso di leadership e di motivazione del personale, perché il principio cardine secondo Starace è il seguente: “Per spingere all’obbedienza e al cambiamento i sottoposti è necessario distruggere chi ha idee diverse da quelle del leader. Per farlo ci sono alcune cose abbastanza semplici da fare: innanzitutto ci vuole un gruppo di persone fedeli all’idea del capo; successivamente, si devono distruggere fisicamente i centri di potere che all’interno di un’azienda si oppongono al volere del leader, inserendo persone fedeli all’interno dei gangli dell’organizzazione dove lavorano coloro che hanno idee diverse (…), e creando malessere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento nel modo più plateale e manifesto possibile, in modo da ispirare paura agli altri”.
Come mai questi “illuminati” principi di leadership aziendale non sono declinati sui siti web aziendali e sul bilancio sociale Enel, firmato paradossalmente dallo stesso Starace, dove al contrario si fa un gran parlare di “coinvolgimento”, “creazione di valore”, “collaborazione”, “piani di sviluppo individuali delle persone” e addirittura di “wellness aziendale”.

lavoratori enel multinazionali

Lavoratori a una centrale Enel © Alessandra Benedetti/Corbis via Getty Images

Gay-friendly – a corrente alternata

Ultima storia, quella di Fiat, o meglio Fiat Chrysler automobiles (Fca), che ha segnalato con un comunicato stampa in olandese, poi tradotto in inglese per i mercati esteri, ma mai proattivamente diffuso in Italia, di aver sostenuto attivamente il Gay pride di Amsterdam, grazie anche alla lodevole sensibilità personale sui temi Lgbt di Cristiana Alicata, responsabile di Fca Olanda. In effetti, come certifica il portale Gay.it, l’auto che più di tutte “ci ha messo il muso” per la comunità Lgbt è la Fiat 500: è stata per ben due volte eletta Gay car of the year, e come le migliori drag queen la baby di casa Fiat “ha saputo travestirsi e trasformarsi come una vera regina del palcoscenico, assumendo colori ispirati a Barbie e Gucci”. In occasione appunto del Gay pride di Amsterdam è stata dipinta completamente di rosa, con l’hashtag #welovepink e ha sfrecciato orgogliosa sulle acque dei canali della capitale olandese. Già per altri Gay Pride, questa volta negli Stati Uniti, la 500 prese le tinte della bandiera arcobaleno, troneggiando tra carri e partecipanti alle parate che celebravano la legalizzazione del matrimonio egualitario in America, e, ancor prima, si distinse nell’Orgullo di Madrid del 2010 con 5 modelli speciali a rappresentanza di diverse “specie della fauna Lgbt”, quali Drag, Leather, Lesbo, Orso e Cool. Si era “travestita” con paillette, cuoio, pelliccia, rossetto e persino gli specchietti in palla da discoteca, che ne avevano decorato la carrozzeria, per richiamare in modo scherzoso alcuni stereotipi del mondo queer.
Ma tutto questo orgoglio gay sparisce purtroppo quando si varcano i confini del Bel Paese, che tra l’altro – troppo spesso qualcuno lo dimentica – alla Fiat ha dato i natali. Nel bilancio sociale della multinazionale dell’auto la parola “Lgbt” o simili non compare infatti neppure una volta, se non indirettamente e molto genericamente nella sezione in lingua inglese Culture of diversity and inclusion, quando si cita tra le molte associazioni alle quali la Fabbrica italiana automobili Torino aderisce anche la californiana Gay and lesbian alliance.
“Trovo sconcertante questo comportamento ambiguo. Evidentemente, per quanto un’azienda sia grande, in quanto con Dna italiano resta sempre e comunque un’azienda ‘provinciale’ ”, ha dichiarato Fabio Canino, presentatore Rai e noto attivista Lgbt, che della promozione della “pink economy” ne ha fatto una vera e propria battaglia, anche nel suo ultimo libro dal titolo Rainbow Republic, aggiungendo: “Posso solo augurarmi che prima o poi anche la Fca riesca a mettere la freccia e a sorpassare i pregiudizi che evidentemente dimostra ancora in Italia verso il mondo Lgbt”.
Nei prossimi anni scopriremo se questo è solo l’inizio di un percorso di maturazione culturale interno, iniziato in Olanda e negli Stati Uniti, e che si manifesterà poi anche nel nostro Paese.

Mettiamo le multinazionali sul lettino

Ebbene, che siano le aziende citate in quest’articolo, piuttosto che Shell, la società petrolifera “green” i cui impianti hanno causato danni ambientali per miliardi di dollari nel Golfo del Messico, o la banca “attenta alle persone”  che poi vende obbligazioni tossiche rovinando decine di migliaia di famiglie e facendo suicidare vari imprenditori, c’è da chiedersi quanto spazio separa la verità dalla finzione. Quanto è sottile la patina di smalto verde che le aziende si danno compulsivamente per apparire più eco e trendy agli occhi del mondo, al solo fine di orientare in modo più profittevole i comportamenti di acquisto dei cittadini. Quanto è fragile e traballante l’impalcatura di bugie della quale si circondano. Quanto è ampio il solco tra l’unità interna che si occupa di politiche sociali, di sostenibilità e di rendicontazione ambientale, e il top management che poi prende realmente le decisioni strategiche. Che ruolo hanno i “complici” di questi “delitti”, ovvero i consulenti, i comunicatori e i relatori pubblici, i Mandrake dei nostri giorni, che truccano le carte migliorando il percepito, e aiutando le grandi aziende nella loro opera di lifting”, chiudendo tutti gli occhi possibili in nome della pubblicità, del marketing e del business.
Abbiamo citato i Disturbi dissociativi dell’identità, o Disturbi da personalità multipla, fenomeni di forte disagio la cui caratteristica essenziale, seconda la psichiatria, è la presenza di due o più distinte identità o stati di personalità che in modo ricorrente assumono il controllo del comportamento dell’individuo, con incapacità di ricordare notizie importanti troppo estesa per essere spiegata con una banale tendenza alla dimenticanza, e con pensieri ed emozioni della cosiddetta “personalità secondaria” che risultano assai differenti da quelli da quella principale. Le aziende sono gruppi umani organizzati per raggiungere uno scopo comune. Probabilmente ne riflettono in qualche modo le patologie, il che riporterebbe di stringente attualità le intuizioni di Adriano Olivetti, grande estimatore dello psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, al punto da creare con lo psicologo Cesare Musatti già negli anni Sessanta uno dei primi e più importanti gruppi di ricerca di psicologia del lavoro in Italia, che aveva come centro di sperimentazione proprio la grande fabbrica Olivetti di allora.
Il problema tuttavia è mettere le multinazionali sul lettino: c’è da chiedersi quante accetteranno di farlo spontaneamente, prima che si renda necessario un Trattamento sanitario obbligatorio con camicia di forza, come quello che ha costretto Volkswagen a rivedere bruscamente le sue policy di responsabilità sociale in occasione del recente Dieselgate, a seguito dei miliardi di euro persi in borsa proprio a causa delle menzogne raccontate al mercato.
 




Stupida stupida pubblicità

Il fatto è che i pubblicitari non sanno nulla di me. Provano da anni a seguirmi in rete o al casello dell’autostrada, al bancomat o quando compro il vino online, ma di me continuano a non sapere un accidente. Usano tecnologie sofisticate, misteriose e un po’ angoscianti, comprano montagne di dati da spacciatori poco raccomandabili, li incrociano e li confrontano ma alla fine continuano a non sapere nulla di me. Si comportano con me da stupidi, forse perché sono stupidi.
Se non fossero stupidi avrebbero capito che a me la pubblicità piace, che sono curioso, che se l’invito è ben proposto ed elegante, ironico o strano, io sono disposto a seguirlo. E magari perché no a comprare il prodotto. Ciò non accade mai (praticamente mai) non perché io odi la pubblicità ma perché la pubblicitá sembra scritta da qualcuno che non mi conosce e non sa nulla di me. Qualcuno che dopo l’analisi di migliaia di dati che mi riguardano produce un oggetto medio che mi indispettisce. Un oggetto in molti casi respingente e molesto fino al sadismo, che urla e disturba e inquina il mondo.
La pubblicitá è un business talmente evoluto e che riguarda così tanti specialisti che una volta uscito dalla sua fase più artigianale ha finito per costruire attorno a sé il mito della propria complessità. Sono pieni di sigle ed acronimi i pubblicitari, snocciolano target, focus group e numeri con grande naturalezza. Seguono gli sguardi dei navigatori dentro le pagine web e gli sbadigli delle patate da divano di fronte alla TV. Hanno maghi e guru molto rispettati che tutti ascoltano in ipnotizzato silenzio: c’è una tale iperspecializzazione nell’ambiente che provare anche solo a ipotizzare – osservandolo da fuori – che tanta professionalità e ricerca producano alla fine un prodotto stupido sembra quasi un’affermazione da ignorante vero.
Il risultato che io ho di fronte agli occhi è invece quello di un prodotto stupido, massificato, pensato per altri stupidi. Nessuno è ovviamente interessato a dirlo troppo forte per il rischio concreto di essere poi in qualche misura iscritto al club. Invece oggi spesso la pubblicità è un prodotto violentemente imperfetto, che, molto prima di reclamizzare qualcosa, illustra con esattezza la stupidità del mondo.
Se la pubblicità non fosse stupida e non avesse sprecato così vistosamente tutti i numeretti che ha raccolto su di me negli ultimi decenni saprebbe che a me le pubblicità piacciono. Mi piacciono per esempio quelle sui giornali non italiani. Sono addirittura una delle ragioni che me li rendono interessanti. Per esempio io sono abbonato al New Yorker ed una delle cose che osservo per prima quando lo sfoglio, sono le pubblicità. Immagini e testi che molto spesso dicono moltissimo del luogo da cui provengono. Per esempio qualche settimana fa sul New Yorker c’erano 4 pagine di pubblicità di un chemioterapico di nuova generazione per certi tipi di tumore del polmone inoperabili. “Chiedi al tuo dottore di prescrivertelo” diceva la pubblicità: e insomma, raccontano più quelle pagine di un lungo racconto di Gay Talese. Ma non si tratta solo di bassa sociologia: le automobili in vendita sono differenti dall’altra parte del mondo, i frigoriferi sono giganteschi sul New Yorker, osservarli e fare confronti (e magari comprarli) è interessante.
Se la pubblicità che mi insegue ogni giorno non fosse stupida e non continuasse tranquillamente a non sapere nulla di me, saprebbe che a me, per esempio, quando apro il sito web del Guardian non piace troppo vedere i banner della Coop di Forlì o quelli dell’albergo che ho prenotato su booking la settimana scorsa. Che una simile scelta ottiene l’effetto opposto a quello prefissato: non mi invoglia ad acquistare un prodotto (tantomeno uno che ho appena acquistato, figuriamoci) ma si appunta al mio petto come un promemoria potentissimo: questa roba che stai apparecchiando per me è stupida e non funziona.
Io trovo incredibile che un simile tempesta di cervelli, dopo aver sondato la mia vita in grande profondità, produca risultati tanto miseri. Se la pubblicità non capisce che a me i video con l’audio acceso disturbano più di una coltellata significa che ha fallito. Avessi una azienda che vuole aumentare il fatturato non mi rivolgerei a gente del genere. Qualcuno in questo momento da qualche parte del mondo sta spiegando a qualcun altro che i video con l’audio acceso sui siti web funzionano, che fanno aumentare le vendite, che hanno un (aggiungi acronimo tecnico a caso) superiore del 32% al (aggiungi altro acronimo tecnico a caso). E nessuno da nessuna parte del mondo sta dicendo a questi tizi: guardate siete dei falliti, siete stupidi e superficiali e invece che vendere merendine ed automobili inquinate il mondo e basta.
Non sono così naive da pensare che la pubblicità debba acconsentire alle esigenze del pollo da spennare che sta scrivendo queste righe. Ma lo sono abbastanza per dire che se a questo punto questo è tutto quello che mi sapete proporre allora forse siete degli incapaci. O degli stupidi. O tutti e due.




La reputazione degli organi finanziari di regolazione e controllo

I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato (i bond subordinati), e questo è successo soltanto in Italia, così Stefano Feltri su Il Fatto riferendo le dichiarazioni del commissario UE alla concorrenza la danese Margrethe Vestage.
Parto da qui per sottolineare che il mercato bancario e finanziario italiano è solo una minuscola componente di un sistema globale… che –nel suo insieme- sfugge a qualsiasi, anche la più benevola, interpretazione del termine  inglese ‘accountability’ e nessuno lo sa meglio delle persone che oggi sono qui.
Non è certo casuale che solo poche settimane fa a Davos, alla presentazione del Trust Meltdown Report VII – 2016, si è appreso che l’industria bancaria globale, nonostante la sua ripresa ‘reale’ avviata già nel 2014 e 2015, ha invece in questi ultimi anni, e di parecchio, peggiorato il proprio rating intangibile e reputazionale.
Secondo l’analisi di Media Tenor International, il sistema globale dei media trasmette oggi del sistema bancario una reputazione peggiore –nell’ordine- di quella dell’ISIS, dell’industria della droga, delle armi, del tabacco e della farmaceutica…
Sicuramente non possiamo trascurare che la reputazione del sistema bancario italiano nel nostro Paese risente anche di questo, ma – come abbiamo già indicato prima citando Feltri – l’Italia ha anche le sue specificità.
Parliamo allora di reputazione, di come la si valuta e di come -se solo ne fossero consapevoli- Consob e Banca d’Italia potrebbero ‘pungolare’ (inteso come ‘nudging’… e ne approfitto per informarvi che la prossima settimana a Bruxelles (http://www.eesc.europa.eu/?i=portal.fr.events-and-activities-nudge-thinking)  la Commissione Europea (honny soi qui mal y pense) tiene il suo primo symposio/colloquio ufficiale sul nudging (inaugurato da Obama già a conclusione del primo mandato, poi recentemente assunto a dogma da Cameron e per ora soltanto ‘sognato’ dal nostro Renzi)… la pratica comunicativa che interpreta la reputazione anche come strumento di controllo sociale.
Per prima cosa, la reputazione di una organizzazione è ben diversa dalla identità, o dalla immagine.

  • L’identità è l’insieme dei fondamentali di un soggetto (storia, missione, visione, strategia, valori guida: epigenetica)
  • L’immagine è quello che gli altri ‘percepiscono’ del soggetto sia attraverso l’esperienza diretta che la sua comunicazione
  • La reputazione invece è ciò che gli altri dicono agli altri dell’organizzazione.

L’implicazione è che la reputazione è un giudizio, seppur mutabile, ma relativamente consolidato: al punto che le persone si sentono libere di esprimere quel giudizio con gli altri sapendo però di mettere in gioco anche  la propria reputazione.
E’ dai primi anni novanta del secolo scorso che gli studiosi del management e della comunicazione organizzativa dibattono la complementarietà o la contrapposizione fra la scuola delle relazioni e quella della reputazione, e il dibattito continua.
Negli anni ho maturato la convinzione – grazie anche a esperienze concrete, professionali, sul campo – che la comunicazione è sì un importante strumento a diposizione dell’ organizzazione, ma lo è sopratutto se contribuisce a creare relazioni con gli stakeholder (soggetti consapevoli, interessati e influenti sul raggiungimento degli obiettivi che persegue).
Va da sé che relazioni efficaci con gli stakeholder rafforzano la reputazione dell’organizzazione.
E’ raro, infatti, osservare organizzazioni di buona reputazione prescindere dal tentativo di governare con sagacia le relazioni con gli stakeholder orientandole al dialogo e al coinvolgimento attivo (bridging). Mentre può accadere che organizzazioni di scarsa, o cattiva o  inconsapevole reputazione investano per lo più in attività tattiche di comunicazione orientate alla propria difesa (buffering).
E’ certo possibile monitorare la reputazione, individuandone anche i punti deboli e forti, ed è certo possibile operare per migliorarla, ma non è possibile gestirla perché la reputazione la determinano gli stakeholder.
In questa prospettiva sono proprio le relazioni che vanno migliorate, e queste non solo si possono monitorare e valutare, ma anche gestire.
Gli indicatori che si usano per valutare l’efficacia delle relazioni sono perlomeno quattro:

  1. la soddisfazione nella relazione,
  2. l’impegno nella relazione,
  3. la fiducia nella relazione,
  4. l’equilibrio di potere nella relazione.

In situazioni specifiche si possono anche considerare l’attrazione’, la necessità e l’intensità come ulteriori variabili. La prima e la terza intese come forze emotive che connettono i soggetti della relazione e la seconda intesa come reciproca interdipendenza.
La rilevazione presso gli stakeholder di questi indicatori (da 1 a 10, o da 1 a 100, o con altre scale) consente all’organizzazione non solo di valutare il punto di partenza, ma anche di decidere, per un certo periodo e a fronte di determinati investimenti di tempo e di risorse, obiettivi specifici di miglioramento da raggiungere e poi verificare se siano stati raggiunti.
Rispetto invece allo specifico della reputazione vi sono altri indicatori di valutazione e i più aggiornati sono le sette dimensioni del Reputation Institute e riferite alla specifica organizzazione:

  • qualità del prodotto/servizio,
  • qualità della sua innovazione,
  • qualità del luogo di lavoro,
  • qualità della sua governance,
  • qualità della sua responsabilità sociale,
  • qualità della sua direzione e
  • qualità della sua performance.

E’ quindi essenziale per prima cosa selezionare con accuratezza gli stakeholder veri (consapevoli, interessati e influenti nel sostenere oppure ostacolare gli obiettivi dell’organizzazione, e quindi verosimilmente in grado di valutare le variabili).
Può la reputazione di una organizzazione rappresentare – dal punto di vista dell’interesse pubblico e di quello dei pubblici interessati e consapevoli (stakeholder) – una forma di ‘controllo sociale’ dell’organizzazione?
E’ una domanda importante in un mondo dove il capitale sociale appare in via di estinzione, ma dove si potrebbe fare molto interpretando la resilienza e i suoi relativi ‘rimbalzi’ come nuova forma di capitale sociale basata sulla qualità delle relazioni fra i soggetti attori di un qualsiasi mercato o spazio.
Un inconsapevole e sostanzioso ‘assist’ è  venuto dalla recente intervista a Repubblica del direttore generale della Banca d’Italia dove, riferendosi alla propria comunicazione dice, testuale:

Qui si poteva fare meglio, ed è una responsabilità che riguarda tutte le istituzioni, incluse quelle politiche. Nella nostra storia di Banca d’Italia, la riservatezza totale era un valore fondante, come per il resto delle banche centrali. Poi il mondo è cambiato, siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata. Venendo però da un mondo di quel tipo ed essendo ancora vincolati al segreto d’ufficio e istruttorio a volte incontriamo difficoltà. La comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa. Stiamo imparando”.

Prendendola alla lettera, si potrebbe dire che la reputazione (quel giudizio che gli altri esprimono di te quando non ci sei) del sistema bancario presso i suoi stakeholder sia negativa anche perché ‘il mondo è cambiato e siamo entrati in una fase di trasparenza e comunicazione più organizzata’.
Si aggiunga che le reputazioni di Bankitalia e Consob oggi  traballano anche perché sono pessime le reputazioni dei singoli istituti bancari che i due sono chiamati a vigilare. Se, come ha argutamente detto qualche giorno fa a la Stampa l’ex Ministro Vincenzo Visco evocando ‘la cattura del vigilante da parte del vigilante’, è scontato che il controllore sia sempre influenzato dai controllati e viceversa. Ulteriore preziosa e utile distinzione è quella, sempre di Visco, sul diverso ruolo di Bankitalia (tutelare la stabilità del sistema) e Consob (assicurare la trasparenza del mercato).
Se poi analizziamo con gli stessi criteri i recentissimi discorsi del Presidente della Consob prima e dopo la trasmissione di Milena Gabanelli e i successivi commenti critici anche di esponenti autorevoli del Governo, possiamo concludere che, pur sapendo che i poteri reali della Banca d’Italia e della Consob sono ormai molto limitati, fra questi rimane sicuramente da esercitare, se solo lo si volesse, la facoltà di ‘nudging’, inteso qui come potere di ‘pungolare’ i singoli istituti bancari, grandi e piccoli -promettendo premi e minacciando punizioni ai cda in base alle loro dinamiche reputazionali valutate secondo indicatori e criteri ormai validati e consolidati in tutto il mondo.
In questo senso si può parlare, credo, di ruolo sociale della reputazione e di quest’ultima come componente del ‘capitale sociale’ di una nazione, di un territorio, di una istituzione, di una banca, di un gruppo dirigente, di un insieme di persone che ci lavorano. Un capitale monitorabile e valutabile come valore, sia aggiunto che sottratto.




Wikipedia, Aranzulla e tutte le regole per cui una pagina può essere cancellata

Wikipedia, Aranzulla e tutte le regole per cui una pagina può essere cancellata

Sta facendo discutere la soppressione della pagina Wikipedia di Salvatore Aranzulla. Le regole secondo cui una pagina può essere cancellata sono chiare, al contrario del modo in cui vengono applicate

Wikipedia è uno strumento meraviglioso, fosse solo perché contribuisce a sottolineare la potenza del web, nella sua accezione di non-luogo in cui possono incontrarsi idee, sapere, coscienze e conoscenze. L’essere risorsa alimentata dalla partecipazione dei singoli, però, è anche il suo più grosso limite, perché ci si aspetta che sia sempre in costante miglioramento e perché l’esercizio di coordinamento tra gli utenti deve essere impeccabile e, alla luce dei fatti, l’assenza di una linea comportamentale omogenea sembra essere il limite più grande da superare.

Ma andiamo con ordine. Un articolo apparso su Vice racconta del caso Aranzulla e di come la cancellazione della sua pagina abbia diviso in due i contributor: quelli contrari alla cancellazione sostengono che la quantità di articoli e libri prodotti dal giovane siciliano siano sufficienti a giustificarne la presenza su Wikipedia mentre nelle fila degli oppositori si cavalca la presunta banalità dei contenuti che Aranzulla produce e che — dicono — non hanno alcuna rilevanza.

Il regolamento di Wikipedia è chiaro e fatto bene, tanto da riuscire a contenere in solo 11 criteri i principi a cui una pagina deve sottostare per essere pubblicabile. A questi si aggiungono dei parametri suddivisi per categorie specifiche di persone, tra le quali appare anche quella dello scrittore in cui Aranzulla, che di libri ne ha scritti diversi, potrebbe essere annoverato.

Facendo scorrere gli 11 criteri principali e quelli settoriali ci si accorge che sono coperte una grande quantità di condizioni e, da questo punto di vista, Wikipedia è inappuntabile. Certo, si può discutere sulla completezza dei parametri, sulla loro verificabilità e, perché no, anche sulla loro opportunità. Ma esistono, sono aperti a tutti e chiari. La pagina di Aranzulla, secondo queste regole, è stata rimossa correttamente. Essere divulgatore non appare in nessuno dei requisiti essenziali per essere su Wikipedia, così come non è sufficiente avere scritto dei libri, perché anche questi devono sottostare a delle regole che ne sanciscono l’enciclopedicità.

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(Immagine: it.wikipedia.org)

Il parametro numero 5 però è tutt’altro che misurabile“Ha venduto un elevato numero di copie” non significa nulla. Tra i suoi libri, dice Aranzulla, ce ne sono alcuni che hanno venduto 15mila esemplari, un numero di tutto rispetto. Se ne deduce che se la sua persona non ha levatura enciclopedica, i suoi libri sì. Occorre quindi capire qual è il senso e lo scopo di impedire ad uno scrittore di avere una pagina Wikipedia se le sue opere possono invece esservi pubblicate.

Il caso Aranzulla, per concludere, non è nato in tempi recenti. Il log di Wikipedia è piuttosto lungo e, in genere, rimprovera alla pagina del divulgatore una certa inclinazione allo spam autopromozionale. Alcuni wikipediani certificano la pagina altri la cassano. Il che equivale ad un problema.

Il caso Drago

Filippo Drago è un medico siciliano che, per carriera professionale e per numero di pubblicazioni scientifiche, ha tutti i diritti di essere su Wikipedia. Infatti c’è, ma solo su quella in lingua inglese. La sua pagina in italiano è stata cancellata perché ritenuta autoreferenziale, pure essendo la traduzione letterale di quella anglofona.

Le regole della Wikipedia originaria hanno un peso diverso da quella italiana. Il problema, in questo caso almeno, è comprendere quali conoscenze specifiche hanno gli amministratori che promuovono la cancellazione (o l’accettazione) di una pagina. E questo ci porta ai meccanismi di verifica.

Alphabet

Torniamo ai primi giorni di ottobre del 2015, quando Alphabet è diventata di fatto la holding che racchiude tutti i rami di quella azienda che, fino al giorno prima, era nota a tutti con il nome di Google. La nascita della holding, riportata con largo anticipo dalla stampa internazionale, ha spinto gli utenti di molti paesi a creare l’apposita pagina sull’enciclopedia libera, accolta da molti wikipediani tranne quelli in Italia che hanno deciso di cancellare la pagina sostenendo che Alphabet non fosse ancora ufficialmente nata. La discussione che ne è nata mostra come le regole, pure essendo chiare, vengono applicate a geometria variabile da questo o quell’amministratore. Di fatto le voci su Wikipedia si affidano a due principi generali da cui dipendono tutti gli altri, ovvero la verificabilità e l’attendibilità delle fonti.  Nel caso di Alphabet, la cui pagina è stata creata prima che la holding nascesse, è stata ritenuta non degna di pubblicazione nonostante fosse verificabile anche tramite quelle stesse fonti che verrebbero ritenute attendibili in qualsiasi altra pagina, come ad esempio i principali quotidiani nazionali che hanno dato ampio risalto all’aggruppamento di Google.

Wanna Marchi

Wanna Marchi, secondo Wikpedia, è un personaggio televisivo nonché una truffatrice italiana. Non si capisce per quale motivo abbia una pagina sull’enciclopedia poiché, al contrario di quanto elencato tra i requisiti, non ha ricoperto ruoli da protagonista né, tanto meno, è stata insignita di premi.

Giosada

La pagina Wikipedia dedicata a Giovanni Sada, noto con il nome di Giosada, è proprio in questi giorni nell’elenco di quelle da cancellare. La discussione che sta nascendo attorno all’opportunità di lasciarla online descrive bene lo stato di confusione che vige tra gli amministratori e gli utenti della versione nostrana di Wikipedia. I criteri di accettazione di una voce enciclopedica prevedono, tra le altre cose, l’avere vinto un reality show. Sada si è imposto nell’edizione 2015 di X-Factor. Questo non fa di lui, sostiene qualcuno nella discussione, un campione di vendite e incassi quindi si può fare a meno della voce a lui dedicata. Caos allo stato puro.

In conclusione, benché regole e requisiti siano chiari, la loro applicazione è perfettibile. C’è bisogno di una revisione dei ruoli e dei compiti degli amministratori italiani di Wikipedia, peraltro una piccola comunità che potrebbe di certo organizzarsi meglio.




Della reputazione

Nell’epoca di Snapchat, e della piena realizzazione della profezia di Warren Buffet “sui 5 minuti che servono per distruggerla”, c’è ancora qualcuno convinto che la reputazione – il più importante e prezioso asset intangibile del XXI secolo – sia qualcosa che si costruisce grazie – solamente – a uscite sui giornali…o organizzando eventi dove si discute – con 15 anni di ritardo rispetto a libri “cult” come “Governare le relazioni” – dell’importanza del dialogo con gli stakeholder.
Allora forse, sorprendentemente, c’è spazio per un decalogo di buone prassi, o qualcosa che gli somigli.
Alzo Manuzio, mentre i suoi tascabili diventavano di moda in tutta Europa e Isabella d’Este lamentava che “si potevano leggere ovunque, ma non erano certo economici”, ospitava a casa propria per un anno intero Erasmo da Rotterdam, il quale ebbe a sentenziare su Andrea Torresano – socio e suocero di Manunzio – che si trattava di “uno spilorcio povero di spirito e interessato solo al guadagno”; frase giunta fino a noi, cinque secoli dopo, a dimostrazione che la cattiva reputazione è davvero dura a morire.
Orbene: per cosa e come vogliamo essere conosciuti e ricordati? Ce lo chiediamo ogni qual volta – amministratori delegati, personaggi pubblici, aziende, direttori di ONG, tutti curiosi e insieme nervosi – ci Googliamo per verificare chi dice che cosa di noi. Ma non è solo sfizio: sono soldi, se è vero – ed è vero – che una parte significativa del valore di borsa di una blue-chip deriva sul suo indice reputazionale.
Per chiarirci, quattro parole chiave: l’identità, che riguarda il proprio DNA, la propria essenza, per come il personaggio o l’organizzazione vogliono che sia manifestata visivamente al pubblico, attraverso il proprio nome, logo, pay-off, prodotti, servizi, stabilimenti, sedi; l’immagine che è il riflesso dell’identità dell’organizzazione così come è percepita – anche in modo differente – dai diversi pubblici; infine, la reputazione, ovvero il grado di allineamento tra l’identità dell’azienda e la sua immagine, costruita nel tempo dall’organizzazione insieme ai suoi pubblici. Da non dimenticare che la reputazione può migliorare sempre e solo se la relazione tra i soggetti è basata su criteri di autenticità.
Il dibattito spesso si scatena su breve termine versus medio-lungo termine: “il problema ce l’ho ora” – lato imprenditore – contro “serve un po’ più di tempo per non costruire un gigante su piedi d’argilla, cadere e farsi ancora più male”, lato consulente. Premesso che il tempo è solo una parte dell’equazione – un’altra ad esempio, bisogna essere schietti, è il denaro, che agisce da “acceleratore di processo” – ecco un decalogo – anzi, due – di regole pratiche da ricordare.

10 “Consigli per gli acquisti” a chi la reputazione la vuole costruire/se la vuole comprare

  1. Evita l’eccesso di supponenza, che ti incastrerà in processi decisionali non logici, del tipo “bisognerebbe fare X ma faccio di testa mia facendo Y”. Ricordati che paghi qualcuno: se non ti piace, caccialo, ma finchè lavora per te, segui i suoi consigli;
  2. non dire “certo che si” a qualunque proposta di uscita sui mass-media. “Meglio più che meno” è il motto dei bulimici, dei macellai, dei venditori di enciclopedie porta a porta, degli addetti stampa, e dei centri media, con la loro ottusa strategia di “occupazione di spazi”. A volte tacersi per un attimo, e privilegiare la qualità alla quantità, è indice di buon senso;
  3. non tutto è una crisi reputazionale: se hai appena fatto un regalo costoso a una Tua amica, non c’è problema; se il regalo è un gioiello o un appartamento e la Tua amica è minorenne o un transessuale cocainomane, il problema potrebbe sussistere, agli occhi del pubblico. Devi saper distinguere, ma nel dubbio, chiedi sempre a quello che paghi per darti consigli, e possibilmente farlo velocemente: un reputation manager non si scandalizza se lo disturbi la notte tra sabato e domenica alle 3 di mattina, e – se si scandalizza – cambia consulente;
  4. se il tuo consulente in reputation-management non ti assilla chiedendoti collaborazione per impostare le strategie di difesa per affrontare ipotetici scenari futuri di crisi reputazionale, anche in questo caso cambia consulente. Si, è vero, è fastidioso avere in casa un ibrido tra un uccello del malaugurio e il grillo parlante di Mastro Geppetto, ma d’altra parte, da che mondo e mondo, solo un idiota farebbe la polizza di assicurazione contro i furti dopo che siano passati i ladri; e tu non sei un idiota, vero…?
  5. se il Tuo consulente oltre a non fare previsione di scenario è “una grande e importante agenzia di comunicazione e relazioni pubbliche esperta anche in comunicazione di crisi”, magari che “partecipa a gare al massimo ribasso” pur di fare budget, oltre che mandarla a casa fagli causa chiedigli indietro gli ultimi 10 anni di parcelle. Fai la cosa giusta: aiuta noi poveri professionisti a ripulire il mercato, e a far conoscere i Mc Donald della comunicazione per quello che sono; giuro che ti dimostreremo gratitudine…
  6. ricordati che le relazioni con gli stakeholder sono come i gradi di parentela, vanno coltivate: i parenti lontani che ti lasciano grandi fortune esistono solo nel sogni e nelle favole di Walt Disney;
  7. esistono – almeno – quattro tipi differenti di “scambio” possibili con la tua rete di relazioni: prendere soldi e non dare nulla; prendere soldi e dare poco; prendere soldi e dare esattamente ciò che la gente si aspetta, cosa di per se assai rara; infine, prendere soldi e dare un “x” in più rispetto a ciò che è atteso dall’organizzazione che assistiamo con i nostri consigli. Questo quarto tipo di atteggiamento genera stupore: quell’x in più finirà dritto nel tuo zainetto reputazionale, che costituisce la tua “riserva” in caso di crisi, genererà valore in termini di passaparola sulla tua persona, scambiabile con comportamenti d’acquisto positivi. Quindi, sii intelligente, scaltro ed egoista: regala sempre più di quanto sei obbligato a fare e fai felici le persone;
  8. non esisti solo Tu al mondo, e se non entri nell’ordine di idee di restituire attorno a Te un po’ della Tua fortuna e di prenderti cura e far crescere l’ambiente che circonda il tuo business, finirai per venderti i prodotti a te stesso. Si chiama CSR, inserimento di preoccupazioni etiche nella vita d’impresa, o chiamala come vuoi, anche “Pippo”, ma falla, e fallo sapere: magari qualche altro folle come te t’imiterà, e il mondo migliorerà un poco;
  9. per contro, non insistere a voler costruire reputazione sovra-enfatizzando fino all’ossessione gli aspetti positivi delle tue azioni, dandoti una mano di verde perché è di moda essere “ecò”: ho compreso che paghi la scuola ai bambini in Bangladesh e versi l’obolo alle monache per ristrutturare l’antico altare della parrocchia, ma se non c’è qualcosa più di questo, se la Tua responsabilità sociale non è integrata nel tuo business a livello strategico, quando la vernice verde si scioglierà, avrai pregiudicato irrimediabilmente i comportamenti di acquisto dei tuoi utenti finali;
  10. se commetti un errore, e qualcuno viene a saperlo – il che nel mondo del web 2.0 significa: tra poche ore tutti lo sapranno – non perdere tempo a difendere l’indifendibile: la gente non è stupida, e per effetto di questo tu ti rendi ridicolo e bruci valore. Fai prima, e sei più efficace nel costruire reputazione, se fai la cosa più semplice del mondo: (a) chiedi scusa, (b) rimedi all’errore commesso, e (c ) spieghi perché quella dannata cosa non succederà mai più. Ti sorprenderà notare come le persone ti perdoneranno velocemente…

 10 “Consigli per gli acquisti” a chi una consulenza in reputazione pretende di venderla

  1. se l’unica cosa che hai in mente quando il tuo mandante ti chiede un parere è “signorsì, ha ragione lei”, cambia immediatamente mestiere prima di far danni irreparabili. A volte le scelte possono apparire dolorose, ma – come per il medico, che è tenuto a far sempre una diagnosi onesta – anche Tu sei deontologicamente impegnato a dire al Tuo mandante sempre l’assoluta e sacrosanta verità. Se non gli piace, se ne farà una ragione; se non se ne fa una ragione, è meglio che gli stringi la mano e lo saluti, prima che le sue crisi reputazionali incontrollate travolgano anche te;
  2. il web oggi come oggi è un driver importante per la sfera reputazionale di individui, organizzazioni, aziende, personaggi pubblici, etc. Ma non è una casa di tolleranza: non è che “più paghi e più godi”. Quindi, trova una “posizione” assolutamente geniale che ti garantisca i migliori “amplessi”, tenendo però a mente che non sono le campagne di ADV a pagamento, ma soprattutto la creatività, la tempestività, il giusto tone of voice e l’empatia verso i vari pubblici che costruiscono una reputazione di successo;
  3. il ristorante migliore è sempre quello dietro l’angolo, a 50 metri da dove ti sei appena seduto: quindi non smettere mai di guardare oltre;
  4. il rapporto con i mass-media è tanto essenziale quanto complesso, e anche in questo caso è una questione di relazioni, non di quantità: in ogni caso, quando, sempre al ristorante, arrivati al caffè, il giornalista dice “non c’è problema, useremo solo le parti migliori dell’intervista”, non gli credere; se lo ripete due volte, uccidilo; se non lo uccidi, sarà il tuo Cliente a uccidere te;
  5. il mondo non finisce con l’incarico che stai seguendo ora, ed esiste anche la Tua di reputazione. Se ti stai dando da fare per spiegare al mondo che Mengele era in fondo una brava persona, che Matteo Renzi non è sempre attaccato allo smartphone come dicono i pentastellati, e che Donald Rumsfeld non ha fatto una porcata nel convincere George W. Bush a invadere l’Iraq, forse – udite udite, relatori pubblici – stai sbagliando qualcosa. Incasserai delle parcelle, è vero, ma il valore immateriale che brucerai oggi, alleggerendo il tuo “zainetto reputazionale”, faticherai quattro volte di più a recuperarlo domani;
  6. il mondo non finisce neppure con l’incasso della prossima fattura mensile: se non ti spacchi la testa a fare previsione di scenario, immaginando problemi reputazionali futuri tali da mettere in crisi il tuo assistito, arriverai tragicamente impreparato ai prossimi appuntamenti cruciali: quando ciò accadrà, avrai poche decine di minuti per decidere la cosa giusta da fare, e – per quanto ti reputi intelligente e preparato, e tutti pensiamo di esserlo più di chiunque altro – se non hai masticato in anticipo lo scenario, sarà un vero disastro;
  7. nel delirio più nero dell’entropia della comunicazione, quando tutto è caos, c’è un punto altissimo della curva gaussiana delle polemiche on-line nel quale ti chiederai “chi me l’ha fatto fare ad aprire questo thread”. Resistere, resistere, resistere, diceva quel Magistrato: prosegui testardamente e con sangue freddo ed equilibrio nel tuo lavoro di “manipolazione” – cosa mai ci sarà di così scandaloso nel plasmare con le mani…? – e impegnati per risolvere il conflitto muovendoti sulla linea di “minor resistenza”, applicando la tecnica del Tai Chi Chuan in chiave di comunicazione e scoprendo qual è la breccia nel punto più debole delle argomentazioni del tuo interlocutore… e a un certo punto, “magicamente”, ciò che è negativo passerà a neutrale e – se sei davvero bravo – ciò che è neutrale passerà a positivo. Soprattutto, fallo tu, non farlo fare a un tuo stagista: non è vero che siamo tutti intercambiabili, serve una particolare “sensibilità” per fare questo lavoro, e i soldi che ti paga il tuo Cliente mi pare siano buoni…
  8. solo il 7% delle organizzazioni comprendono il valore reale delle interazioni e l’81% non ha una chiara strategia sui Social. Aprire e gestire una pagina Facebook o un account Twitter non può essere una questione di onanismo: non sono luoghi “dove bisogna essere” ed è finita li. Facebook dovrebbe inserire nel proprio algoritmo un automatismo: al terzo commento di utenti senza risposta, puff… la pagina sparisce, si chiude senza chiedere il permesso. Ai politici che usano Facebook solo per pubblicare i loro comunicati stampa e “le cose che fanno”, alle celebrities che non interagiscono con i fans, e alle aziende che pubblicano compulsivamente post promozionali del tipo “accattati il prodotto con lo sconto mirabolante”, non dovrebbe essere permesso essere sui Social. Disturbano;
  9. spiega al Tuo assistito che il motore della reputazione sono le emozioni. Non sono la macchina enorme, i vestiti firmati e le scarpe costose, la bionda o il biondo accanto, le foto delle spiagge esotiche ossessivamente postate su Facebook, il curriculum senza fine o l’amicizia con il potente di turno a fare dell’organizzazione una “Lovemark”. Mi ripeto: sono le emozioni. E posto che – come dicevano quei quattro già vent’anni fa – “i mercati sono conversazioni”, come generare emozioni sul pubblico in modo coerente con la storia e l’identità del proprio Cliente è la vera sfida di ogni reputation manager;
  10. infine, non dimenticare mai il ruolo delle immagini nella civiltà contemporanea: le statistiche dimostrano che sono foto e video gli strumenti migliori per trasmettere il senso della propria identità, toccando le corde più profonde, generando empatia, e facendoci “sentire con” un brand, una persona, un leader politico. Quando è stata l’ultima volta che il Tuo assistito ha fatto uno shooting decente?

Conclusioni

Come ho ricordato in un mio precedente short-form, Calvino venne definito da un articolo della Harvard University Press «…Uno dei migliori storyteller del mondo» – e morì alla vigilia della partenza per le sue “Lezioni americane”.
E’ evidente la possibile correlazione tra i “Six Memo” e le tecniche di gestione della reputazione, se richiamiamo la necessità di togliere fronzoli, tornare all’essenziale e a un approccio quasi impalpabile, ma al contempo netto, nel disegnare l’opera, come mirabilmente faceva lo scalpello del veneziano Canova, in grado di trasferire all’occhio di chi guarda plasticità, grazia, leggerezza e luce pura, ma senza fronzoli; lo scopo finale è senz’altro quello di tentare di far interiorizzare ad altri parte del DNA del nostro Cliente, costruendo non “discussioni”, dove qualcuno deve per forza alla fine aver ragione, bensì “dialoghi”, dove il punto di vista nostro può “impollinare” l’altro, arricchendolo e regalandogli valore, in modo naturale e senza forzature, maturando quindi un “credito” di reputazione, appunto, a nostro favore.
Inoltre, sempre per citare lo straordinario scrittore italiano nato a Cuba, per gestire bene la reputazione di altri, costruirla, o evitare che crolli inaspettatamente, è essenziale avere Quickness, ovvero intuizione, capacità di sintonizzarsi velocemente con i frequenti cambiamenti di stato dell’ambiente che ci circonda, e abilità di collegare punti dell’equazione apparentemente lontani tra loro, ricordando che la leggerezza nella forma e la rapidità nella trasmissione – tipici del secolo del virtuale e degli scenari “liquidi” – non devono mai far abdicare alla consistenza del messaggio.
Sempre Calvino scrive: «Chi è ognuno di noi, se non una combinatoria di esperienze e informazioni, che può essere rimescolata e riordinata in tutti i modi possibili…?». Questo è probabilmente il lavoro di un reputation manager: essere un buon sarto, maniacalmente accurato, appassionato nel cucire un abito haute-couture che ben si adatti alla configurazione fisica del proprio assistito, quindi ogni volta differente e personalizzato.
Allora – come tante piccole parti di una grande mappa, nella quale ogni elemento è fortemente interconnesso con tutti gli altri che lo circondano – quando immaginiamo, scriviamo e attuiamo le nostre strategie di comunicazione dovremmo riflettere più incisivamente sugli effetti concreti che le nostre azioni hanno a 360°, non solo sull’organizzazione al servizio della quale lavoriamo, ma su tutto l’ambiente che la e ci circonda, dal momento che siamo agenti attivi in una rete neurale sociale molto più ampia di quanto apparentemente potremmo sospettare.