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Stili di vita attivi e ambiente: Persone e Pianeta al centro delle politiche Ferrero

Innovazione, cura delle persone, sostegno alle comunità locali, promozione di stili di vita attivi tra giovani e famiglie, pratiche agricole sostenibili e salvaguardia dell’ambiente: sono gli elementi chiave della responsabilità sociale d’impresa della Ferrero.

Un impegno riassunto in due parole ‘Persone e Pianeta’, i due pilastri della sostenibilità, e descritto nel dettaglio nel VII Rapporto di responsabilità sociale d’impresa (Csr) presentato nella Sala delle Statue di Palazzo Rospigliosi, a Roma. Un’occasione per festeggiare anche i 70 anni dell’azienda, nata ad Alba nel 1946.

Ecco i numeri delle attività di sostenibilità sociale e ambientale realizzate dal Gruppo nel mondo tra il 1° settembre 2014 e il 31 agosto 2015. Al centro, dunque, cura delle ‘Persone’ ovvero – si legge nel report – attenzione ai consumatori che si declina con la scelta delle migliori materie prime, continua innovazione, piccole porzioni (80% dei prodotti sotto 130 kcal; apporto calorico per porzione di 100 Kcal) e, nel complesso, un’alta qualità dei prodotti. Oltre alla promozione di stili di vita attivi con l’inizitiva ‘Kinder+Sport’: 4,1 milioni i bambini messi in ‘movimento’ in 25 Paesi con un investimento di 10,6 mln di euro e 3.105 eventi organizzati.
‘Persone’ come anche i dipendenti e gli ex dipendenti del Gruppo, le loro famiglie, oltre alle comunità in cui Ferrero è presente. A questo scopo, l’azienda promuove diverse iniziative attraverso la Fondazione Ferrero e il progetto imprenditoriale Michele Ferrero attivo in Africa ed Asia.

Qualche numero: 40.721 collaboratori (al 31 agosto 2015), +19% rispetto allo scorso anno di cui 42,4% donne, 71,8% dei dipendenti a tempo indeterminato; 394.957 ore di formazione nella Ferrero University; +3.500 ex collaboratori e coniugi serviti dalla Fondazione Ferrero con 40 gruppi di attività, 580 visite mediche svolte 2015; 4.330 collaboratori del progetto Imprenditoriale Michele Ferrero.
L’azienda è anche impegnata nello sviluppo di pratiche agricole sostenibili e nel minimizzare il proprio impatto ambientale attraverso i progetti F-Acts (Ferrero Agricultural Commitment to Sustainability) e Fer Way (Ferrero Environmental Responsibility Way). Oltre alla nuova partnership con Save the Children, volta a rendere ancora più concreto l’impegno del Gruppo per la tutela dei diritti dei bambini nella filiera del cacao in Costa d’Avorio.
Ecco i numeri della sostenibilità ambientale: 100% olio di palma sostenibile certificato; 44% cacao certificato sostenibile; +22% potenza installata proveniente da fonti rinnovabili; 36% materiale riciclato negli imballaggi; 91,6% rifiuti recuperati; 100% di uova da galline allevate a terra in Europa.
Nel testo di introduzione al rapporto, il ceo Giovanni Ferrero ha ricordato: “Essere un Gruppo globale non ci impedisce di agire localmente mantenendo così il forte legame con le Persone e il territorio in cui operiamo. Ciò è dimostrato anche da una particolare attenzione alla mitigazione del cambiamento climatico: a settembre 2014 il gruppo Ferrero ha sottoscritto un accordo che prevede come obiettivo di dimezzare la deforestazione entro il 2020 e di bloccarla definitivamente entro il 2030”.
Videopillole nell’articolo originale




Marino Golinelli: “La mia fede laica: restituire la fortuna che ho ricevuto”

Ha investito 80 milioni per spingere i ragazzi a trovare le proprie passioni e aiutarli a realizzarle

Le parole che ricorrono più spesso nelle frasi di Marino Golinelli sono domani e futuro. Insolito per una persona di 95 anni. Giacca alla coreana, fazzoletto rosa, quest’industriale farmaceutico, fondatore di un gruppo che fattura 900 milioni con quasi tremila dipendenti, è una sfida ai luoghi comuni. Pochi avrebbero potuto immaginare che il figlio di un contadino, uno che nel dopoguerra comprava lo zucchero al mercato nero per confezionare sciroppi e poi li portava alle farmacie in bici cercando di non far cadere la damigiana, quasi 70 anni dopo sarebbe stato qui.
Siamo in un ufficio vetrato nella zona industriale di Bologna, sospeso sopra l’opificio Golinelli, un laboratorio della conoscenza di novemila metri quadri, che da oggi sarà pieno di ragazzi. Il luogo scelto da questo imprenditore per restituire la fortuna ricevuta, con un investimento di oltre 80 milioni di euro.
Golinelli, perché tutto questo?  
«Per fornire ai giovani dai 18 mesi ai 35 anni strumenti per la conoscenza. Vogliamo prepararli alla società che noi non possiamo neppure immaginare».
Avete chiamato questa sede opificio, un nome che sa di passato, di manualità.  
«La dimensione del fare è fondamentale per capire. Partiamo dal passato per immaginare il futuro. Tutte le domande della cultura, in ogni tempo, alla fine si misurano con un perché. Perché facciamo, perché siamo a questo mondo?»
Già, perché?  
«Siamo qui per formare le persone che costruiranno il rinascimento del paese. Cosa posso fare per restituire alla società quel che ho avuto?»
Come mai questa domanda?  
«Ho avuto la fortuna di avvicinarmi al mondo della scienza. Ero un ragazzo amorfo, non di particolare intelligenza a livello scolastico. Per caso a 16 anni ho trovato un libro sulla teoria atomica di Niels Bohr. Da qui è nata la mia passione, l’impresa. Credo che queste potenzialità le abbiano tutti i ragazzi. Credo nell’uomo».
È religioso?  
«Sono un evoluzionista, penso finiremo per essere pietra. Ma questo aumenta la nostra responsabilità di lasciare come testamento qualcosa per gli altri. La creatività è in tutti, va liberata e fatta crescere attraverso la preparazione. Quel che noi lasciamo segnerà l’evoluzione culturale. Ripeto: ho fiducia nell’uomo».
Come ha trovato questa fede laica? 
«Oggi guardo la società che ho fondato, Alfa Wassermann, e vedo un’azienda internazionale. Ma molte volte ho rischiato di fallire. Se ho continuato è perché credo. Mi ripeto spesso una frase: opera come se Dio ci fosse».
Oltre che di scienza, lei è appassionato d’arte.  
«Molto. Vedo l’artista come un ricercatore della società, in questo non è diverso da uno scienziato. Anzi spesso l’estetica individua prima i bisogni del futuro. L’arte per me è un modo per capire il mondo. Ma non sono un collezionista, tantomeno un mecenate».
Non le piace la parola?  
«Il mecenate è una persona che ha mezzi e fa cose molto belle, ma sempre donando, con un’idea di sussidiarietà, si tratti di un restauro o di un macchinario per un ospedale. Mi sento un filantropo, uno che ama l’uomo, crea, ragiona su un piano operativo, costruendo cose che resistano nel tempo. È per questo che è nata la fondazione Golinelli. Sono danari miei, non dell’azienda. Per rendere quel che ho ricevuto».
Nel nostro paese non è comune.
«Infatti non vado d’accordo con i colleghi imprenditori».
Come mai?
«Pochi, forse il 10 o il 20 per cento, hanno il concetto della responsabilità sociale».
I nvece stare in mezzo ai ragazzi le piace.
«È una bella energia passeggiare con loro. A volte si perdono per responsabilità dei genitori, che non sono culturalmente preparati. Ma ce ne sono moltissimi in gamba. Purtroppo viviamo in un ambiente corrotto. Il nostro è un paese con poca cultura e molta corruzione».
Perché?  
«Si pecca. Poi una misericordia, un pater, un’ave e un gloria, ed è tutto perdonato».
Ci frega la confessione?
«In qualche modo. E il benessere non sempre aiuta. Chi nasce povero ha una marcia in più».
A proposito di frugalità: è vero che non ha la macchina?  
«Nemmeno la casa».
Cioè?  
«Vivo in affitto. Avere case comporta solo gran confusioni ereditarie».
Ma i suoi figli hanno capito? 
«Sì, e non è stato difficile spiegarglielo, conoscono bene le mie idee».
Cosa dice ai ragazzi che incontra per motivarli?  
«Spesso scambiamo gli agi per diritti, scordiamo le responsabilità verso gli altri. Il mio modo per spronarli è stato far nascere tutto questo. Bisogna insegnare loro la passione, si tratti di correre in bici o di fare impresa. Abituarli a cercare la propria luce».
Segue ancora l’azienda?  
«Certo (e mostra la trimestrale ndr)».
Che rapporto ha con la tecnologia? 
«C’è il timore che schiacci l’uomo, ma non sarà così. Dico spesso una frase di papa Francesco: “Non abbiate paura”».
Francesco, Dio: la religione è una presenza continua.  
«Non la religione, l’etica. Le religioni sono necessarie perché ancora la cultura non basta a far capire a un uomo di non aver paura della morte. Si parla così poco della morte, non la insegnano neppure agli studenti di medicina. E come possono curare bene i malati?»
Ha paura della morte?
«Un po’ sì, ma cerco di rimediare con un dovere: pensare a quel che lascio ai giovani. La formazione, la cultura.
Se ne avesse uno qui, ora, che precetto gli impartirebbe?  
«Credi. E fai, come ho fatto io».




Simposio Medicine Non Convenzionali

Appena svolto a Roma, in una sala del Senato, un importante Simposio delle medicine Non Convenzionali e Complementari. L’intervista è un’occasione per sentire come è andata.
Ascolta l’audio:




Il consumatore conta più dell’elettore: perché il caso Foodora è una piccola rivoluzione

Appellarsi ai consumatori, non alla politica: questa la scelta dei lavoratori sottopagati del colosso tedesco per la consegna di cibo online. Una scelta che dimostra come ormai si voti anche con la carta di credito. E che il potere del consumatore è enorme, se impara a usarlo

Oggi non si vota più solo nelle cabine elettorali. E forse non è solo l’indifferenza ad aver svuotato di senso le elezioni e le istituzioni democratiche. È anche la fine di un monopolio. Perché oggi si vota pure coi piedi, andandosene, cercando un Paese a misura delle proprie ambizioni e delle proprie necessità, perlomeno fino a che sarà consentito farlo. E si vota pure con la carta di credito – o col portafoglio, se preferite, come dice l’economista Leonardo Becchetti – comprando beni e servizi che rispondano ai propri valori, al bisogno di costruire una relazione attraverso l’acquisto, al sentirsi parte di una comunità.
Aria fritta? Forse. Ma con ogni probabilità oggi non esisterebbe Eataly se non ci fosse stata alle spalle una comunità come Slow Food, in grado di canonizzare un sistema di valori che è penetrato persino in una multinazionale come McDonald’s, cambiandone il modello di business. E le stesse realtà selezionate e presentate al Festival delle Comunità del Cambiamento promosso da Rena a Milano, raccontano proprio questo: che oggi per stare sulla frontiera dell’innovazione l’impresa – come dicono chiaramente economisti quali Stefano Micelli e Paolo Venturi – deve essere anche un attore sociale, ibrido, capace di costruire relazioni oltre che prodotti.
In altre parole, deve imparare a caricarsi sulle spalle il cambiamento della propria comunità di riferimento. Dal Laboratorio Creativo Geppetto, che offre soluzioni IoT alle imprese artigiane, a Maam – acronimo di “maternity as a master”, la maternità è un master: a proposito di #fertilityday – che propone alle grandi aziende percorsi di reinserimento ed empowerment professionale alle mamme lavoratrici. Da Eattiamo, che spedisce box di prodotti alimentari italiani, per promuovere il cibo made in Italy di qualità in America, al Progetto Quid, un marchio di moda che nasce da tessuti di qualità del miglior Made in Italy recuperati localmente per mano di donne con un passato di fragilità.
Il sottotesto politico non è banale: in quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Pensate al danno reputazionale per la Barilla dopo le frasi dell’amministratore delegato in difesa della famiglia tradizionale, ai guai che l’azienda ha dovuto sopportare per una protesta estemporanea, non certo organizzata. Pensate cosa potrebbe accadere se questo potere venisse compreso e utilizzato fino in fondo dai consumatori per promuovere o bocciare un marchio o un prodotto che non rispetta l’ambiente, i suoi lavoratori, i territori in cui opera.

In quanto cittadini, il potere che abbiamo perso da elettori e lavoratori ci è stato restituito in quanto consumatori. Ed è un potere enorme, che i social network possono gonfiare a dismisura e del quale ancora non siamo del tutto consapevoli. Il caso Foodora ne è l’esempio

Il caso Foodora, in qualche modo, rappresenta un ulteriore passo in avanti, perlomeno in Italia, nell’acquisizione, di tale consapevolezza. Difficile non conosciate l’azienda tedesca, leader di mercato nella consegna di cibo a domicilio, o che mai abbiate incrociato uno dei suoi ciclisti in giacca fucsia. Succede che alcuni di loro, segnatamente quelli che lavorano a Torino, decidano di incrociare le braccia. Hanno tempi di consegna strettissimi e per rispettarli – e non essere “disattivati” – sono costretti a prendersi un bel po’ di rischi. Devono metterci loro bicicletta, telefono e pure il casco. Sono pagati malissimo, 2,70 euro a consegna – valore complessivo della startup: 3 miliardi di dollari, per la cronaca. E se qualcuno protesta, viene messo alla porta senza troppi complimenti.
Fino a qualche anno fa, o in altri contesti, la cosa sarebbe passata sotto silenzio. Oggi non più. Oggi di fronte ai numeri da capogiro dell’azienda tedesca non fa nemmeno sorridere la patetica – e pure un bel po’ ipocrita – giustificazione dei suoi amministratori italiani, che raccontano che lavorare per Fooodora sia «un’opportunità per chi ama andare in bici, guadagnando anche un piccolo stipendio», come se sotto questa patina buonista in salsa sharing economy non si celi un rapporto di lavoro para-subordinato e per giunta sottopagato. E dietro quella disponibilità ad «ascoltare i ragazzi», non collettivamente ma «face to face» non si nasconda un tentativo nemmeno troppo velato di intimidazione.
Nel Paese della disoccupazione giovanile al 40%, della fuga dei cervelli e del record di giovani che né studiano né lavorano, il loro sciopero fa rumore, così come la loro campagna di boicottaggio dell’azienda per cui lavorano. Non è la prima volta che accade nel mondo – negli Usa la class action degli ex-autisti contro Uber ha fatto molto rumore – ma è il segnale di una nuova consapevolezza dei lavoratori. Magari sarà una bolla di sapone, ma finalmente hanno capito che per contare qualcosa devono rivolgersi al consumatore, non al parlamentare o al ministro. Di una cosa però siamo certi: c’è molta più politica qui che in tutta la campagna referendaria o in quella per eleggere il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America.



Perché dobbiamo produrre dati digitali che muoiano come noi

Gli esseri umani hanno alle spalle un’esperienza di 200.000 anni nel rapportarsi con la morte, eppure mai come ora sembriamo incapaci di farlo. La tecnologia del 2016 ha trasformato l’idea di “passare all’altro mondo” quasi una violazione—qualcosa di non naturale. Non è che la morte sia mai stata una cosa bella, ma ad un certo punto della storia della specie, forse, era una faccenda più normale di quanto non sia ora.
Grossa parte della sua anormalità è data dall’esistenza delle identità digitali. Come persone, siamo in grado di diffondere il nostro io ovunque: abbiamo l’illusione dell’immaterialità; e ciò che resta è l’ansia di un aldilà digitale. Dove una volta l’esistenza materiale del defunto poteva essere racchiusa in un triste pomeriggio di ricordi e pulizie, ora persiste e indugia.
Non è un bene? Forse no, stando a quanto scritto in una ricerca pubblicata questo mese su ACM Transactions on Computer-Human Interaction da un trio di ricercatori che lavorano rispettivamente alla University of Lancaster, alla University of California, e alla Carnegie Mellon University. Per quanto possiamo voler tenere i morti vicino a noi, e per quanto possa essere semplice, forse non è ciò che ci serve per superare un lutto.

Cancellare qualcosa non ha assolutamente lo stesso potere catartico che ha, per esempio, il fatto di bruciare o dare via degli oggetti materiali

“Le persone vivono sempre di più la propria vita online, accumulando grandi quantità di averi digitali,” scrivono gli autori. “Molti di questi averi digitali rappresentano simbolicamente le relazioni, gli eventi e le attività importanti. Il campo di studi [che si occupa di relazioni tra esseri umani e computer] ha iniziato a esaminare questi averi digitali nel contesto della perdita e della separazione. Ad ogni modo, gran parte del lavoro esplora la conservazione e la celebrazione, nello specifico come gli averi possono avere una funzione positiva nel ricordare una relazione e nell’onorare una persona scomparsa.”
Una parte più contenuta del lavoro riguarda invece come liberarsi di questi oggetti, e il fatto che sia spesso un problema. Gli autori hanno cercato di capire meglio il fenomeno intervistando 10 psicoterapeuti—tutti specializzati nel facilitare i pazienti in lutto nella disposizione delle proprietà fisiche—da cui hanno poi sviluppato un quadro di lavoro teorico per distaccarsi dagli averi digitali dei morti.
“Durante i momenti di transizione della vita, le persone vogliono spesso allontanarsi dai ricordi più dolorosi, ma la natura disorganizzata delle collezioni digitali delle persone rende più difficile identificare quegli oggetti simbolici che è funzionale conservare o abbandonare,” prosegue il paper. “Questa mancanza di organizzazione significa anche che le persone possono imbattersi per caso in promemoria dolorosi senza preavviso alcuno. Le persone che cercano attivamente di disfarsi del materiale digitale relativo alla loro ultima rottura sentimentale, si trovano a fare i conti con l’inflessibilità della cancellazione.”
Cancellare qualcosa è un atto freddo, brutale. Le informazioni binarie organizzate che si traducono in un’immagine o in una email o in un video vengono improvvisamente scombinate, e la rappresentazione digitale è perduta come se fosse stata incastrata in una bomba nucleare e scaraventata nel vuoto dal portellone di un aereo. I terapisti intervistati hanno insistito nel dire che cancellare qualcosa non ha assolutamente lo stesso potere catartico che ha, per esempio, il fatto di bruciare o dare via degli oggetti materiali. È un attimo e poi è tutto finito (e così è la vita, per carità, ma avete capito il punto).

“Potremmo immaginare tecnologie future che fanno uso di componenti elettroniche transitorie auto-dissolventi o biodegradabili per contenere gli oggetti digitali di valore simbolico.”

La conclusione del paper, insomma, è che cancellare brutalmente un oggetto digitale non favorisce un superamento sano del lutto. Lasciar andare qualcuno o qualcosa è più facile se comprende un processo fisico che si sviluppa nel tempo. Non è un atto, ma un’esperienza. La domanda a questo punto è, come facciamo a rendere esperienziale la cancellazione digitale? Sarà mai possibile?
Gli autori sono fiduciosi. Anzi, la cosa si sposa bene con l’interazione tra esseri umani e computer di terza generazione, in cui le interazioni corporee e le esperienze sensoriali sono enfatizzate—l’interazione digitale oltre schermi, tastiere e mouse. Una delle implicazioni verte sull’idea che i contenitori digitali non siano progettati per conservare contenuti, ma per liberarli.
“Quando aperti, i contenitori potrebbero materializzare/mostrare il patrimonio digitale come testo, immagini, o suoni un pezzo alla volta per l’ultima volta, prima che scompaiano dalla percezione (rappresentando, in modo simbolico, la messa in atto della cancellazione) per non essere mai più ritrovati,” spiega il paper. “La disposizione degli effetti personali digitali, in questo caso, è sia visibile che rapida nel suo svolgersi davanti ai nostri occhi.”
“Potremmo progettare magazzini fragili ed effimeri anziché renderli permanenti e robusti, come sono ora,” prosegue il paper. “Il nostro studio sottolinea il valore degli elementi naturali come la terra e l’acqua e il loro intrinseco aspetto di deperibilità, dissoluzione e rinnovamento. Per esempio, potremmo immaginare tecnologie future che fanno uso di componenti elettroniche transitorie auto-dissolventi o biodegradabili per contenere gli oggetti digitali di valore simbolico. Tecnologie come queste potrebbero essere smaltite fisicamente o attraverso la dissoluzione o la decomposizione.”
C’è tanto altro da dire, ovviamente, ma l’idea è chiara. Quando moriamo, non scompariamo come fanno i dati. Come facciamo, dunque, a far sì che la morte dei dati sia come la nostra?