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La prima risorsa è il paesaggio: idee per il futuro

La prima risorsa è il paesaggio: idee per il futuro

Dal Poetto, scenario incantevole, lo sguardo si erde in un orizzonte inondato di sole. Un anticipo d’estate. Dallo storico stabilimento balneare “Il Lido”; a Cagliari, in cui si svolge la nuova sessione della scuola di formazione politica dei Riformatori, il profilo familiare della Sella del Diavolo sembra vicinissimo. Idee e progetti per la Sardegna del futuro. Un futuro che incombe e che richiede scelte coraggiose. “La Scuola”, spiega il responsabile Umberto Ticca, appena eletto in Consiglio Regionale, “è il luogo in cui creare dialogo e confronto. Un contributo per avere cittadini più consapevoli e amministratori pubblici più preparati per affrontare le nuove sfide”. Tre “docenti” hanno offerto numerosi spunti di dibattito sul ruolo della classe politica e sullo sviluppo dell’Isola.

Gli interventi

Il primo a salire in “cattedra” è stato Luca Poma, giornalista e consigliere politico, docente all’Università LUMSA di Roma, consigliere del senatore Giulio Terzi di Sant’Agata, che ha seguito nel periodo in cui è stato Ministro degli Esteri (dal 2011 al 2013). “Per costruire una buona reputazione politica” ha evidenziato “è necessario partire dalla qualità del servizio e della proposta. Non dobbiamo cedere alle sirene del marketing e della comunicazione facile che non comunica nulla se viene meno la qualità della proposta. I cittadini chiedono autenticità , trasparenza, coerenza”. Sarebbe necessario anche un atto di umiltà. “Possibile” aggiunge Poma “che i politici siano cronicamente incapaci di chiedere scusa? Saper chiedere scusa è un pregio. È un segno di solidità, non certo una forma di debolezza. In Italia i politici non chiedono mai scusa, pur cambiando posizione su singoli dossier con un trasformismo incredibile. E poi la capacità di ascolto: possibile che si facciano vivi solo in campagna elettorale? Una buona reputazione è legata all’identità, a quello che siamo e che facciamo e va costruita sul lungo periodo per non vanificare la proposta politica”.

Modello Barcellona

L’architetto Fabrizio Leoni, che tra studio professionale e università fa la spola tra Barcellona e Milano, ha presentato proprio il modello Barcellona, che “in 30-40 anni, un tempo brevissimo per l’urbanistica, si è inventata un modelli di sviluppo basato su una nuova immagine e su una solida organizzazione. Oggi propone ai residenti e ai turisti un nuvo stile di vita e un approccio radicalmente diverso rispetto alla fase precedente”. Modello replicabile in una città come Cagliari? “Perchè no, pur con gli opportuni adattamenti”.

Buongiorno SarDegna

Nell’ambito della scuola di formazione politica dei Riformatori anche l’incontro con Sergio Zancheddu, editore del gruppo L’Unione Sarda, che ha presentato, in dialogo con Michele Cossa, Il suo “Buongiorno SarDegna”. L’Imprenditore, osservando l’orizzonte del Golfo degli Angeli, ha ribadito che “i sardi non possono consentire che scenari come questo vengano rovinati irrimediabilmente. Il paesaggio è la nostra principale ricchezza e non possiamo perderla per la presenza di impianti eolici che rappresentano un danno gravissimo per il nostro ambiente”:

C’è una strada da seguire e porta a Borutta. Un caso esemplare: “Nei tetti degli edifici pubblici e delle case dei privati sono installati pannelli fotovoltaici per raggiungere l’autosufficienza energetica. Va benissimo generare energia da fonti rinnovabili ma nell’interesse esclusivo dei sardi senza lasciare spazio a speculatori”. E la tutela dell’ambiente è l’aspetto imprescindibile per sostenere lo sviluppo dell’Isola grazie al turismo. “Bisogna puntare” ha evidenziato Zancheddu, “su un target alto del turismo nazionale e mondiale. La scelta strategica deve essere quella di intercettare i flussi turistici in grado di spendere in cambio di servizi di qualità”. Un monito giunge anche dal contesto. Le potenzialità, ancora inespresse, si stagliano nell’orizzonte nitido del Golfo degli Angeli.




“Caporalato Armani? Impossibile non sapere. Reputazione ko. Investitori…”

"Caporalato Armani? Impossibile non sapere. Reputazione ko. Investitori..."

Costi abbattuti e sfruttamento degli operai, è bufera su Armani. Parla l’esperto Luca Poma: “Ci saranno impatti finanziari e reputazionali”

“Cose del genere impattano l’intero ecosistema del gruppo. Dire: ‘non ne ero al corrente’ è una via d’uscita di comodo e troppo debole. Non possiamo permetterci di chiudere un occhio su ciò che fanno i nostri fornitori.” Così Luca Poma, professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma e all’Università della Repubblica di San Marino, oltre che specialista in digital strategy e crisis communication, commenta con Affaritaliani la bufera giudiziaria che si è abbattuta nelle ultime ore sulla Giorgio Armani Operations spa.

Mentre gli abiti e gli accessori del marchio Armani incantano le passerelle di tutto il mondo, dietro le quinte si nasconde uno scenario di sfruttamento e abusi. Il Tribunale di Milano ha recentemente ordinato l’amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani Operations spa, società incaricata della progettazione e produzione per il colosso della moda. La ragione di tale provvedimento? Gli sfruttamenti e le condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare i dipendenti cinesi, impiegati in fabbriche dormitorio senza che Armani abbia preso le misure necessarie per prevenirlo. Secondo quanto dichiarato dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano, la Giorgio Armani Operations spa non avrebbe adottato contromisure adeguate per verificare le reali condizioni di lavoro degli operai né le capacità tecniche delle aziende appaltatrici. Di conseguenza, si sarebbe resa complice, anche se in modo colposo, di imprenditori che praticano lo sfruttamento attraverso il caporalato.

Secondo il professor Poma, quello che genera più sconcerto è che “un colosso come Giorgio Armani non abbia fatto previsione di rischio: quello che sta accadendo evidenzia il fatto che non è stato fatto un assessment sui rischi reputazionali che vanno previsti e mitigati.” Uno scivolone che la maison del lusso italiana non si sarebbe dovuta o potuta permettere vista la sua reputazione. L’accusa mossa dal Tribunale, seppur solo preventiva e non penale, andrà comunque a minare la sua credibilità.

Gli impatti ci saranno soprattutto dal punto di vista reputazionale“, dichiara Poma. “Reputazione è uguale a denaro- aggiunge- la migliore o peggiore reputazione di un marchio orienta i comportamenti d’acquisto. È ovvio che indirettamente ci saranno anche degli impatti finanziari.” È davvero sorprendente, persino per i più esperti del settore, che un’azienda di tale prestigio non abbia preso precauzioni, come una mappatura dei rischi, o agito preventivamente per correggere le non conformità. Poma suggerisce che Armani avrebbe potuto optare per un cambiamento di fornitore o avviare il proprio fornitore verso standard più in linea con le politiche del gruppo. Questo avrebbe non solo preservato la reputazione del marchio, ma avrebbe anche promosso un’azione virtuosa per migliorare l’ecosistema in cui opera il gruppo Armani.

Insomma la pratica incriminata è quanto mai cinica: Armani, attraverso la sua società Giorgio Armani Operations spa, esternalizza la produzione di parte della sua collezione a fornitori terzi, che a loro volta affidano il lavoro a opifici cinesi. Il risultato? Costi abbattuti, ma a carico di lavoratori sottopagati e costretti a vivere in condizioni disumane. Tutto ciò avviene sotto gli occhi di un colosso della moda che sembra aver voltato le spalle alla responsabilità sociale. Ma quali sono state esattamente le falle nell’ecosistema Armani? Poma evidenzia tre problemi chiave: “rating ESG (acronimo per “Environmental”, “Social” and “Governance”) rilasciato senza adeguata verifica, assenza totale o parziale di mappatura dei rischi e di interventi di mitigazione preventivi, e l’impatto sulla reputazione e a cascata sui comportamenti d’acquisto dei clienti e sul valore stesso del gruppo Armani”. 

In altre parole il regno di re Giorgio non si è ben guardato dai rischi che un comportamento del genere avrebbe comportato, prevenendo fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo. D’altronde tutte le accuse sono state sviate dalla casa di moda con un’alzata di spallucce, a mò di “non ne sapevo nulla”.

Questo, secondo il professor Poma alimenta anche interrogativi sulla sostenibilità dell’azienda stessa. Oramai la sostenibilità della moda interessa molto in teoria e poco nella pratica. In pochi si chiedono se i capi che comprano sono prodotti nel rispetto delle persone e dell’ambiente stesso. “È diventato così di moda il termine sostenibilità ma c’è da chiedersi: ‘Interessano di più i certificati appesi com diploma sulla nostra scrivania virtuale o ci interessa incidere sui processi e sull’ecosistema in cui lavoriamo? Se ci interessa prenderci cura di quello che ci circonda allora il comportamento deve essere diverso da quello tenuto dalla Giorgio Armani Spa’”. 

D’altro canto la vicenda si intreccia inevitabilmente con riflessioni sul futuro dell’azienda e sul suo fondatore, Giorgio Armani. Nonostante i suoi 89 anni, Armani si dimostra ancora un visionario, ma resta il dubbio su chi potrà davvero mantenere vivo il suo spirito imprenditoriale e la sua etica aziendale. Il designer, che non ha eredi diretti, ha già pianificato il “dopo Giorgio” con la creazione della Fondazione Giorgio Armani, istituita con l’obiettivo di realizzare progetti di utilità pubblica e sociale, garantendo nel tempo la coerenza e il rispetto dei principi fondamentali che hanno guidato la sua lunga carriera nel mondo della moda.

Ora la Giorgio Armani Operations spa, sebbene non sia oggetto di un’indagine penale, è stata messa sul banco degli imputati. Ma cosa significa tutto ciò per il futuro di Armani? È qui che le cose si fanno davvero interessanti. Mentre l’azienda guardava al futuro con una possibile quotazione in Borsa da quasi 5 miliardi di euro, ora si trova ad affrontare una crisi di fiducia senza precedenti. Il rischio di perdere credibilità è come una spada di Damocle che pende sulla sua testa. In particolare, dopo la rivelazione dello scorso anno di un documento top secret che delineava il futuro di Armani dopo Giorgio, si era discusso animatamente della sua possibile quotazione in Borsa, con una valutazione stimata tra i 5 e i 7 miliardi di euro.

È impossibile non considerare le potenziali conseguenze di questo commissariamento sull’economia e sulla reputazione del marchio. “Non c’è dubbio che un’eccellenza italiana come la Giorgio Armani disponga, nonostante ciò che è accaduto, degli strumenti per intervenire rapidamente e risolvere il problema. La quotazione in Borsa è salva“, riflette il professore Poma, evidenziando, però un altro scenario. “Il tema è un altro: quante altre non conformità ci sono? Se vale la regola del ‘non sapevo’ quante altre irregolarità ci saranno ancora?”

Tuttavia, ora, in un’atmosfera carica di incertezza, l’accusa mossa dal Tribunale potrebbe generare due possibili scenari: da un lato, l’accelerazione della vendita del Gruppo come misura di precauzione estrema, dall’altro, potrebbe agire come un deterrente, allontanando potenziali investitori e mettendo a repentaglio la stabilità futura dell’azienda. Poma consiglia “a chiunque andasse ad acquistare azioni della Giorgio Armani Spa di non accontentarsi di dichiarazioni di principio o di rating ESG positive, ma di verificare effettivamente cosa si sta comprando.”

Insomma, l’esperto riconosce che sebbene il futuro economico di Armani sembri al sicuro, episodi come questi mettono in luce delle vulnerabilità che non possono essere ignorate, specialmente “perchè chi compra che deve farsi onere di correggere eventuali non conformità qualora ci sia un passaggio di mano oppure un acquisto da parte di investitori istituzionali.” E conclude consigliando: “se ci fosse una quotazione che prevedesse il passaggio di controllo a un fondo d’investimento, io, se fossi il fondo, condurrei un’attenta analisi dei rischi reputazionali prima di procedere all’acquisto di Armani“. 

In altre parole, Armani non sta per andare in bancarotta, ma la sua reputazione inizia a vacillare. Se un tempo veniva valutato in Borsa a cifre da capogiro, ora potrebbe esserci un’inversione di marcia. Gli investitori faranno di certo un bel passo indietro prima di tuffarsi in un terreno che ha già iniziato a franare. E chissà quanti altri scheletri si nascondono nell’armadio di re Giorgio.




Pinkwashing: eh no, Economy, fateli quei nomi!

Pinkwashing: eh no, Economy, fateli quei nomi!

Con colpevole ritardo, ho sfogliato un numero del bel mensile Economy, diretto da Sergio Luciano. Copertina assai attraente per chi come me si occupa di reputation management: “Pink washing. Dietro il fervore della parità, l’insidia del bluff: come scoprirla e evitarla”.

La cover story è tanto ben documentata quanto inquietante. Ecco qualche dato in ordine sparso: in Italia (fonti ISTAT, JobPricing e Deloitte) solo il 15,5% dei CEO è donna; solo il 22,2% è Presidente di CdA; la percentuale di donne nei Board per il 50% circa delle aziende oscilla tra “nessuna” a un quinto, per non parlare delle drammatiche percentuali (basse) di donne dirigenti, spessissimo con ruoli ad effetto (come ad esempio “responsabile per la sostenibilità” o “responsabile per la parità di genere”, incarichi che fanno tanto fine, salvo poi non dotarle di budget nel 46% dei casi).

Perché – ci chiediamo – a esatta parità di incarico con un uomo le donne in Italia sono pagate dal 10 al 15% in meno? Come si giustifica questo dato da parte di aziende “così attente alla sostenibilità”?

È surreale notare come l’8 marzo, Giornata internazionale per i diritti delle donne, tutte le bacheche digitali del mondo si tingano di rosa o di giallo (il colore della mimosa), salvo poi contraddirsi per i restanti 364 giorni dell’anno: prova ne sia che la grande maggioranza delle certificazioni di sostenibilità GRI sono solo “with reference”, e non “in accordance”, ovvero basati su “cherry-picking” di indicatori graditi alle imprese e non già interamente aderenti alle stringenti indicazioni del Global Reporting Initiative, che è il riferimento più diffuso presso le organizzazioni di tutto il mondo per misurare e comunicare, con il massimo livello di trasparenza, le performance in termini di sostenibilità. E anche sull’autenticità dei famosi rating ESG è bene stendere un velo pietoso, come dimostrano numerose ricerche, una delle quali condotta proprio dal mio team nel 2023, grazie a un finanziamento del Parlamento Europeo, e presentata al Senato della Repubblica l’ottobre scorso.

Inutile ripetere per l’ennesima volta nozioni date totalmente per acquisite nel reputation management, secondo i cui fondamentali sia impossibile costruire valore per gli azionisti sul medio-lungo termine se non mettendosi in pace la coscienza circa la necessità di privilegiare un approccio autentico al business, evitando maquillage, marketing autoreferenziale e lifting pubblicitari (ne abbiamo parlato proprio recentemente in un ricco ed appassionante evento alla IULM).

Un ultimo quesito rimane però irrisolto, a proposito di green, pink e social washing. L’articolo di Economy inizia così (riporto verbatim): “Qual è quella casa di moda, la prima ad aver ottenuto la certificazione per la parità di genere, che dopo aver stabilito nel 2015 come obiettivo l’eliminazione del gender gap, nel proprio report d’impatto scrive che negli ultimi 8 anni ha ‘iniziato ad analizzare la situazione in più di 45 Paesi’? E chi è quel gestore di concessioni autostradali premiato per le sue politiche nella parità di genere con l’inserimento nel Gender Equality Index di Bloomberg, che dopo il delisting dalla borsa ha nominato un CdA di soli uomini? E qual è quella banca che dopo aver sottoscritto il Ceo Champion Commitment Zero Gender Gap, poco prima di deliberare un aumento del compenso del 30% al proprio AD, uomo, ha accolto le dimissioni immediate dal CdA del presidente del comitato remunerazioni, donna, sostituendola peraltro con un uomo?”

“Si dice il peccato ma non il peccatore”, sostiene Economy. E no, cara rivista! Se vuoi parlare di “sciacquate di rosa” con competenza, devi dire sia peccato che peccatore, diversamente stai trattando il tema per vendere copie ma senza assumerti quelle responsabilità che dovrebbero essere ben proprie di un sano giornalismo. E stai, forse, facendo un po’ washing anche tu.

Autocitarsi è sempre antipatico, ma ti diamo una mano senza bisogno di andare troppo lontano: qui trovi un’analisi sulla discriminazione di genere nel mondo delle agenzie pubblicitarie; qui sulla scarsa autenticità nel mondo degli Influencer; qui su non conformità (gravi, per come denunciate) sul semi-monopolista della ristorazione autostradale; qui sullo scandalo Dieselgate; qui sui falsi fondi ESG della più nota banca tedesca; qui su una primaria multinazionale del pharma che ha alterato i dati scientifici pur di immettere sul mercato uno psicofarmaco in grado di indurre al suicidio bambini e adolescenti; e potremmo continuare a lungo. Tutti articoli firmati, e con brand in evidenza e – laddove disponibili – nomi e cognomi dei manager coinvolti.

Perché si fa presto a denunciare la scarsa autenticità: salvo rischiare di esserne vittime noi stessi.




BIG-TECH E LA REPUTAZIONE “SHORT TERM”: È COSI CHE SI COSTRUISCE VALORE?

BIG-TECH E LA REPUTAZIONE “SHORT TERM”: È COSI CHE SI COSTRUISCE VALORE?

Certo, noi siamo i rompiscatole. Quelli che parlano a vuoto, i predittori di sventure. Coloro che hanno come saldo riferimento il medio-lungo termine e criticano il marketing fine a sé stesso, e l’effimero approccio della comunicazione e della pubblicità centrate solo sull’immagine fatua, e non sull’identità. Quelli che restano convinti che per preservare valore le crisi vadano previste, che ci si debba attrezzare prima. Insomma, coloro che – pur guardando più che mai al futuro, ma tenendosi ben ancorati al primo pilastro della costruzione di buona reputazione, che è la qualità del prodotto – paiono un po’ demodè, d’antan, pedanti e poco trendy e non in sintonia con i ritmi frenetici dell’high-tech.

Si, lo ammetto, siamo così. Restiamo convinti che per costruire aziende che durino nel tempo serva un’idea intelligente, un prodotto o servizio di eccezionale qualità, un post vendita memorabile, un approccio tassativamente multi-stakeholder (sveglia, amici del marketing: gli acquirenti non sono l’unico pubblico di riferimento per costruire valore), e una spiccata capacità di previsione di scenario, per anticipare eventuali crisi reputazionali.

Ma noi siamo fuori moda: la tendenza è dettata dall’alta entropia delle big-tech. Ok, bene.

Allora leggiamo qualche dato:

  • Amazon ha annunciato quest’anno un taglio di personale per 27.000 unità, Meta per 11.000 unità, Google per 12.000, Paypal per 2.000, Zoom per 1.300;
  • Il New York Times ha fatto causa a Google per aver utilizzato illecitamente milioni di contenuti giornalistici per addestrare la propria intelligenza artificiale, la richiesta di risarcimento danni fa tremare i polsi;
  • l’Antitrust europea ha ingiunto alla Apple di consentire ai propri utenti di installare anche App di terze parti, rompendo così lo storico monopolio della “mela”;
  • l’OCSE ha approvato la Global Minimum Tax, che impone ai colossi del web con ricavi superiori a 750 milioni di euro (quindi tutti i “big”) di pagare il 15% di imposte, mettendo fine quindi all’elusione fiscale che ha permesso a queste aziende di non pagare tasse macinando più utili;
  • AirBnb si è vista sequestrare 779 milioni di euro dalle autorità per non aver versato la cedolare secca sugli affitti degli appartamenti messi in affitto sulla piattaforma;
  • la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha comminato una multa di 2,4 miliardi di euro a Google perché su Google Shopping avrebbe reso i suoi concorrenti praticamente invisibili agli utenti;
  • sempre l’Unione Europea ha comminato 8 miliardi di dollari di multa ad Android per pratiche anticoncorrenziali;
  • la Federal Trade Commission ha fatto causa ad Amazon, insieme ai procuratori di ben 17 Stati USA, con l’accusa di monopolismo, finalizzato a far pagare ad acquirenti e venditori somme più alte per avere un servizio peggiore;
  • l’AgCom ha sanzionato sempre Amazon per 1 miliardo di euro perché favorirebbe il proprio servizio di logistica a scapito di operatori concorrenti;
  • il nuovo Social Threads lanciato da Mark Zurkerberg già zoppica, con poco più di 150 milioni di download in tutto il mondo (e un numero di utenti attivi in calo);
  • X, ex Twitter, la cui maggioranza è stata acquisita da quel genio (sic!) di Elon Musk, ha perso il 70% di valore da quando il pirotecnico ed eccentrico miliardario l’ha acquistato (a riprova della correlazione esistente tra reputazione del brand e valore assoluto dello stesso);
  • il pandoro-gate che ha malamente coinvolto Chiara Ferragni, le cui aziende sono state squassate proprio dalla sua obiettiva carenza di autenticità percepita, con danni per decine di milioni di euro in termini di perdite di valore, è solo l’ultimo dei preoccupanti indicatori del tramonto di un modello di influencer marketing centrato sull’apparenza;
  • secondo il colosso della consulenza strategica Gartner, società di Stamford (USA) che si occupa di analisi nel campo della tecnologia dell’informazione, entro 2, massimo 3 anni, il 50% degli utenti avrà abbandonato i Social, tenendo magari attivi i profili ma non interagendo più online.

E via discorrendo, potremmo continuare a lungo. Però siamo noi che non capiamo, e che ci ostiniamo a ritenere che il rispetto dei fondamentali del reputation management sia indispensabile per mitigare davvero i rischi e garantire costruzione di valore per i decenni a venire.

Ed eccoci qui, seduti al bordo del fiume, ad aspettare il passaggio dei cadaveri di quelli là, cool e intelligenti: quelli che “la borsa e la Silicon Valley sono mondi di squali, bisogna innanzitutto prendere, altrochè”.

Che poi Wall Street di Oliver Stone è del 1987: son passati 35 anni, e certa gente, di danni, non ne ha forse già fatti abbastanza?




Amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations

Amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations

La Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano ha disposto l’amministrazione giudiziaria per la Giorgio Armani operations spa, società che si occupa di progettazione e produzione di abbigliamento e accessori del gruppo del colosso della moda, a seguito di un’inchiesta dei pm Paolo Storari e Luisa Baima Bollone e dei carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro.

Indagine con al centro un presunto sfruttamento del lavoro, attraverso l’utilizzo negli appalti per la produzione di opifici abusivi e il ricorso a manodopera cinese in nero e clandestina. 

La Giorgio Armani operations spa, controllata dalla Giorgio Armani spa, sarebbe stata “ritenuta incapace di prevenire e arginare fenomeni di sfruttamento lavorativo nell’ambito del ciclo produttivo non avendo messo in atto misure idonee alla verifica delle reali condizioni lavorative ovvero delle capacità tecniche delle aziende appaltatrici tanto da agevolare (colposamente) soggetti raggiunti da corposi elementi probatori in ordine al delitto di caporalato”. E’ quanto viene spiegato dagli investigatori in relazione alla misura di amministrazione giudiziaria disposta dal Tribunale di Milano. 

Si è potuto accertare, spiegano i carabinieri, che “la casa di moda affidi, attraverso una società in house creata ad hoc per la progettazione, produzione e industrializzazione delle collezioni di moda e accessori”, ossia la Giorgio Armani operations spa, “mediante un contratto di fornitura, l’intera produzione di parte della collezione di borse e accessori 2024 a società terze, con completa esternalizzazione dei processi produttivi”.

L’azienda fornitrice, però, “dispone solo nominalmente di adeguata capacità produttiva e può competere sul mercato solo esternalizzando a sua volta le commesse ad opifici cinesi, i quali riescono ad abbattere i costi ricorrendo all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento”. Un presunto “sistema” che avrebbe permesso “di realizzare una massimizzazione dei profitti inducendo” l’opificio cinese “che produce effettivamente i manufatti ad abbattere i costi da lavoro (contributivi, assicurativi e imposte dirette) facendo ricorso a manovalanza ‘in nero’ e clandestina, non osservando le norme relative alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché non rispettando i Contratti Collettivi Nazionali Lavoro di settore riguardo retribuzioni della manodopera, orari di lavoro, pause e ferie”.

A partire da dicembre 2023 i carabinieri hanno effettuato “accertamenti sulle modalità di produzione, confezionamento e commercializzazione dei capi di alta moda procedendo al controllo dei soggetti affidatari delle forniture nonché dei sub affidatari non autorizzati costituiti esclusivamente da opifici gestiti da cittadini cinesi nella provincia di Milano e Bergamo”. Sono stati controllati quattro opifici “tutti risultati irregolari nei quali sono stati identificati 29 lavoratori di cui 12 occupati in nero e anche 9 clandestini”.

Negli stabilimenti di produzione effettiva e non autorizzata è stato riscontrato che la lavorazione avveniva “in condizione di sfruttamento (pagamento sotto soglia, orario di lavoro non conforme, ambienti di lavoro insalubri), in presenza di gravi violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (omessa sorveglianza sanitaria, omessa formazione e informazione) nonché ospitando la manodopera in dormitori realizzati abusivamente ed in condizioni igienico sanitarie sotto minimo etico”. Sono indagati per caporalato quattro titolari “di aziende di diritto o di fatto di origine cinese” e nove “persone non in regola con la permanenza e il soggiorno”.

Infine, sono state comminate “ammende pari a oltre 80.000 euro e sanzioni amministrative pari a 65.000 euro e per 4 aziende è stata disposta la sospensione dell’attività per gravi violazioni in materia di sicurezza e per utilizzo di lavoro nero”. 

Giudici su società Armani, ‘sistema che prosegue da 7 anni’

Non si tratta di “fatti episodici” ma di un “sistema di produzione generalizzato e consolidato” che riguarda diverse “categorie di beni”, come “borse e cinture”, e che “si ripete, quantomeno dal 2017 sino ai più recenti accertamenti dello scorso febbraio” con la produzione “della merce a marchio Giorgio Armani” realizzata “in concreto” da “opifici cinesi”. Lo scrivono i giudici di Milano Pendino-Rispoli-Cucciniello nel provvedimento con cui hanno di fatto commissariato per un anno la Giorgio Armani operations spa, a seguito dell’inchiesta del pm Storari e dei carabinieri su un presunto caporalato.

Giudici, per prodotti Armani 14 ore di lavoro per 2 euro all’ora

La produzione negli opifici abusivi cinesi di abbigliamento e accessori, venduti poi con marchio Giorgio Armani, era “attiva per oltre 14 ore al giorno, anche festivi”, con lavoratori “sottoposti a ritmi di lavoro massacranti” e con una situazione caratterizzata da “pericolo per la sicurezza” della manodopera, che lavorava e dormiva in “condizioni alloggiative degradanti”. E con paghe “anche di 2-3 euro orarie, tali da essere giudicate sotto minimo etico”. E’ il quadro che emerge dal provvedimento del Tribunale di Milano, attraverso testimonianze degli stessi lavoratori e accertamenti dei carabinieri, con cui è stata disposta l’amministrazione giudiziaria per un anno per la Giorgio Armani operations spa, società del gruppo del colosso dell’alta moda. Un’inchiesta che si inserisce in un filone di indagini aperto dalla Procura di Milano sullo sfruttamento del lavoro, che dopo aver toccato, sempre con fascicoli coordinati dal pm Paolo Storari, grandi aziende di trasporti, logistica, servizi di vigilanza e altri settori, sta approfondendo il mondo della moda. Nei mesi scorsi era stata commissariata dal Tribunale la Alviero Martini spa ed era emerso uno schema simile a quello venuta a galla oggi.

Armani, ‘abbiamo sempre attuato misure di controllo’

“La società ha da sempre in atto misure di controllo e di prevenzione atte a minimizzare abusi nella catena di fornitura”. Così in una nota la Giorgio Armani commenta la misura di prevenzione disposta dal tribunale di Milano per la GA Operations. “La GA Operations – conclude la nota – collaborerà con la massima trasparenza con gli organi competenti per chiarire la propria posizione rispetto alla vicenda”.