GREENWASHING

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Matteo Salvini, nell’ultimo mese, solo su Facebook ha pubblicato ben 266 post (una media di 7,6 al giorno), forte dei suoi 5 milioni di follower. Giorgia Meloni (2,9 milioni di follower), per avere un solido termine di paragone, ha postato appena 38 messaggi (1,1 volta al giorno). Il vicepremier e leader della Lega, su Meta, fa correre la sua macchina di comunicazione e propaganda social quasi 8 volte più forte rispetto a quella della premier e presidente di Fratelli d’Italia.
La dinamica, sempre focalizzando sugli ultimi 30 giorni, si riverbera anche sugli altri tre principali social, dove Salvini è saldamente in testa rispetto a Meloni: X (ex Twitter): 134 post rispetto a 61; Instagram: 241 rispetto a 43; TikTok: 42 contro 17. Questi numeri, frutto di un’analisi realizzata da DeRev per il Corriere, fotografano la forte accelerazione che Salvini ha impresso alla sua struttura di comunicazione, che ai tempi d’oro del 30% e passa di consensi fu ribattezzata «La Bestia» per la sua potenza di fuoco, gestita direttamente da Luca Morisi. Quest’ultimo, da tempo, dopo lo scandalo che lo vide protagonista, oggi è impegnato fuori dalla politica e a supervisionare ci sono due giovani: Leonardo Foa, figlio di Marcello (ex presidente Rai) e Daniele Bertana, capo della segreteria particolare del Capitano al ministero e membro del suo staff dall’aprile del 2017: «Il gatto e la volpe», scriveva l’anno dopo su Instagram, pubblicando un selfie con il mentore Morisi
I dati rispecchiano il cambio di passo che Salvini ha fatto scattare a livello politico, tornando a puntare sui toni più forti, privilegiati in passato, e tornando a cavalcare con forza temi di attualità, come ad esempio l’emergenza migranti o il caso della giudice Apostolico, che hanno fatto schizzare nuovamente gli indici di engagement (le interazioni in rapporto al numero di follower, nella rilevazione di DeRev) di Salvini. Risorse importanti, anche ricorrendo a sponsorizzazioni a pagamento su Meta, sono state investite dal leader della Lega per promuovere l’ultimo raduno di Pontida e, soprattutto, per creare attesa riguardo l’intervento di Marine Le Pen alla storica kermesse.
L’incremento di contenuti sui social dimostra come Salvini, ma non solo lui, sia già in piena campagna elettorale per le Europee del prossimo giugno. Un binario doppio, per il vicepremier, che, oltre a dover superare il 10% per rinsaldare la sua leadership di partito, è impegnato in una sfida interna verso FdI e la premier, a cui spera di sfilare i voti più a destra proprio con il ritorno ai toni forti. Secondo l’ultimo sondaggio di Ipsos per il Corriere, la Lega sarebbe cresciuta del 2% rispetto a settembre, arrivando al 10,1%.
Sono questi i frutti di questo ritorno al passato? A livello di consensi è molto probabile. C’è però un «ma». L’analisi di DeRev, società specializzata in strategie digitali, evidenzia attraverso i numeri come l’appeal dei profili social salviani sia assai diminuito. Un esempio chiave? Su Facebook, a fronte di 266 post, il tasso di engagement su base giornaliera rilevato è dello 0,83%, cioè pressoché lo stesso di Meloni che ha pubblicato 8 volte in meno rispetto al suo vice. «La nuova strategia pare voler abbandonare Twitter e Facebook a favore di Instagram e TikTok, dove l’engagement di Salvini supera quello Meloni: su queste due piattaforme c’è un target di pubblico più giovane e reattivo ma soprattutto l’algoritmo consente l’emersione di temi e trend utili a chi vuole essere trendsetter ed essere sempre al centro del dibattito», spiega Roberto Esposito, amministratore delegato di DeRev. E poi: «Tuttavia, in termini di interazioni sui singoli post, sono lontani i tempi della Bestia del 2021. Segnale che la nuova strategia di rianimazione non sta generando, almeno per il momento, una risposta da parte dei cittadini».
Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato un procedimento istruttorio nei confronti di Meta-Instagram e dell’influencer Asia Valente.
Lo si legge in una nota secondo cui in particolare, Meta avrebbe omesso di adottare misure idonee a impedire la pubblicazione su Instagram di messaggi potenzialmente ingannevoli.
Infatti Asia Valente pubblicherebbe sul canale social foto e video di ristoranti, di spa, di hotel e di altre strutture turistiche, con le quali si ritiene possa intrattenere rapporti commerciali, senza utilizzare alcuna dicitura che evidenzi la natura promozionale di questi contenuti.
Per l’Antitrust l’influencer Asia Valente, verso la quale è stata aperta una istruttoria assieme a Instagram-Meta per “messaggi potenzialmente ingannevoli” nei post, “vanterebbe una notevole popolarità basata su un numero consistente di follower, circa 2 milioni, la maggior parte dei quali sembrerebbe non autentica”. Lo si legge nella nota diffusa dall’Autorità.
Meta-Instagram, sottolinea l’Antitrust,” non fornirebbe adeguata informazione sull’esistenza e sulle modalità d’uso dello strumento per contrassegnare i contenuti brandizzati né controllerebbe l’effettivo e corretto utilizzo di tale strumento, soprattutto in relazione a contenuti promozionali pubblicati da utenti estremamente popolari, quali gli influencer. Infine, la società non svolgerebbe verifiche in merito all’autenticità delle interazioni sulla propria piattaforma in modo da evitare la raccolta artificiale di “mi piace” e di follower”.
Nell’era dell’innovazione e dell’evoluzione continua del mercato, l’importanza dell’”Open Innovation” (secondo il celeberrimo paradigma di Henry Chesbrough) è ormai un assioma consolidato e riconosciuto, e non solo dagli esperti del settore. L’apertura all’innovazione proveniente dall’esterno, tramite collaborazioni, partnership e acquisizioni, è diventata un fattore cruciale per il successo e la sopravvivenza di qualsiasi organizzazione.
Questa consapevolezza non deve far dimenticare però che, se è vero che l’esterno dell’organizzazione contamina l’interno e genera i presupposti dell’innovazione, senza un contesto interno pronto a riceverla, l’Open Innovation non ha speranza di successo. La cultura aziendale è il fondamento su cui si poggia l’innovazione. Le persone che lavorano in un’azienda sono le prime a poter generare idee innovative e ad applicarle al meglio nel loro contesto o, al contrario, a rifiutare le buone suggestioni che arrivano dall’esterno e rendere vano ogni tentativo di cambiamento.
Grazie al lavoro di consulenza focalizzato sulla “People Driven Innovation”, è possibile osservare come l’innovazione possa essere generata solo all’interno di un contesto culturale preparato, con il supporto di una leadership consapevole e l’adozione di processi strutturati per gestirla.
Per ragionare in termini reali di innovazione, ed evitare il rischio di interventi superficiali, vale la pena soffermarsi sulle contraddizioni intrinseche del concetto stesso di innovazione, per capire qual è il lavoro da fare per venire a capo di tali contraddizioni.
Innovare non è un’azione scontata per un’azienda. Nella maggior parte dei casi si tratta di un processo addirittura contraddittorio. Se da una parte ogni impresa deve cercare di massimizzare il proprio vantaggio competitivo, dall’altra, l’esigenza altrettanto urgente di innovare la distoglie dal primo compito, per esplorare nuovi campi su cui ampliare il business. Questi due obiettivi sono spesso in aperto conflitto.
La capacità di un’azienda di bilanciare lo sfruttamento del proprio vantaggio competitivo (exploitation) e l’esplorazione di nuovi campi per innovare (exploration) è detta “ambidestrismo organizzativo”. Le strategie ambidestre, capaci di superare la contraddizione tra presente e futuro, possono concretizzarsi operativamente in uno di questi 3 modelli:
È, probabilmente, la modalità tradizionale per affrontare la contraddizione di cui abbiamo parlato. Essa prevede l’adozione di strutture organizzative distinte, dedicate rispettivamente all’exploitation e all’exploration (tipicamente produzione e R&D). In questo modo, l’azienda può concentrare le risorse e gli sforzi in modo separato per massimizzare i risultati in entrambe le dimensioni.
Tuttavia, un approccio di questo tipo presenta non poche criticità. Ad esempio, la separazione tra le strutture può generare tensioni interne e ostacolare la comunicazione e la collaborazione tra funzioni, possono nascere difficoltà nel coordinare il flusso di attività o nel definire le priorità.
Per superare alcuni limiti, sono stati sviluppati modelli alternativi di ambidestrismo, come quello sequenziale o quello contestuale. L’ambidestrismo sequenziale prevede l’adozione di strutture temporanee che consentono di esplorare e sperimentare (Hackathon, Task Force etc…), seguite da attività di implementazione e sfruttamento delle soluzioni identificate.
Una risposta ancora più efficace arriva dall’ambidestrismo contestuale: in questo caso le strutture sono integrate e l’organizzazione è costretta ad affrontare contemporaneamente le esigenze di entrambe le dimensioni. Unico criterio per la realizzazione di un tale contesto: coltivare una cultura dell’innovazione che promuova l’autonomia di azione, la cooperazione e la capacità di gestire situazioni incerte.
L’ambidestrismo contestuale è un modello capillare, che si fonda sulla possibilità di abilitare tutte le persone dell’organizzazione ad innovare, promuovendo comportamenti ambidestri. Ovviamente, questo tipo di configurazione può nascere solo in presenza di alcuni specifici prerequisiti:
In un mondo in cui l’innovazione è la chiave per il successo aziendale, diventa fondamentale coltivare una cultura dell’innovazione che parta dall’interno delle organizzazioni.
Non basta solo trovare da qualche parte un’idea geniale, bisogna anche saperla implementare. Sarebbe come venire a sapere dell’esistenza di un tesoro nascosto, senza avere la mappa per trovarlo: potreste trovarvi con una o molte idee brillanti, ma senza la giusta cultura interna, non avrete la possibilità di trasformarle in un successo.
Le conseguenze della crisi climatica e della globalizzazione a cui assistiamo ogni giorno hanno generato nei cittadini-consumatori una crescente consapevolezza e presa di responsabilità rispetto alle tematiche sociali. Non solo promesse e dichiarazione d’intenti: il pubblico chiede alle aziende di intervenire e di condividere tale impegno per potervi partecipare.
Molte imprese si astengono dall’esplicitare il loro supporto a cause sociali e di concentrare gli sforzi comunicativi sulle proposte commerciali. Quando si trattano temi così delicati, il rischio di commettere passi falsi è alto e contribuisce a preferire il non schierarsi rispetto alla possibilità di inciampare in qualche controversia indesiderata.
Ma i consumatori come percepiscono tale silenzio? La neutralità non premia. Anzi, rappresenta un vero e proprio fallimento con risvolti negativi ad ampio raggio. Inoltre, ignorare la comunicazione alla sostenibilità significa esclude a priori dalla propria strategia un nuovo, potente driver di scelta.
Ora più che mai, il successo di un’impresa inizia con un brand e non con un prodotto.
A dirlo è Interbrand, società leader specializzata nel branding, che ogni anno stila un ranking delle prime 100 marche con il più alto valore di mercato a livello globale.
In breve, potremmo definire il brand come una serie di attributi, significati e valori sedimentati nella memoria delle persone e, allo stesso, il canale privilegiato di cui l’azienda dispone per rappresentare sé stessa. L’operato del brand non deve deludere le aspettative dei consumatori e, per non invalidare tutto il lavoro svolto, deve essere veicolato secondo una strategia ben studiata.
Non sorprende quindi trovare ai vertici del Best Global Brand realtà che hanno capito come, dove e quando sfruttare la propria marca per risolvere le esigenze degli individui in target, in un panorama di costante e rapido mutamento.
Il trionfo di aziende come Apple o Amazon si fonda su un percorso di analisi-strategia-operatività volto a creare e rafforzare nella mente del pubblico associazioni di marca benefiche per la propria reputazione e, in ultimo, profittevoli.
Dunque, in uno scenario di mercato frenetico e affollato, dove qualità dei prodotti e prezzo hanno sempre meno potere competitivo, per differenziarsi bisogna cambiare strategia. Rivelare e sostenere concretamente la propria adesione a cause sociali risponde a un bisogno emergente del pubblico: sentirsi agente attivo del cambiamento attraverso il brand. Da qui, la nascita del Brand Activism.
Globalmente stiamo assistendo al collasso della fiducia nelle istituzioni tradizionali, ritenute incapaci di far fronte agli eventi e di alleggerire il senso di incertezza collettiva. Viceversa, la credibilità delle aziende sta registrando un’impennata che non sembra arrestarsi.
Qualsiasi sia la causa di tale inversione di rotta, le conseguenze per il marketing sono chiare: oggi ci si aspetta che le imprese siano agenti del cambiamento.
Un’attesa che, secondo l’ultima edizione dell’Edelman Trust Barometer, supera quella legata alla produzione di prodotti e servizi di qualità. Ad esempio, il 64% dei consumatori globali afferma che comprerebbe o boicotterebbe un brand sulla base del suo impegno sociale e politico. Così come il 74% degli investitori istituzionali rivedrebbe i propri investimenti su aziende che ignorano le linee guida ESG.
Prendere posizione nei confronti di problematiche ambientali, sociali o governative è una dichiarazione d’intenti nobile ma non è più sufficiente. Quel che conta è l’impegno concreto e autentico in attività a favore di tali questioni. La strada da percorrere è quindi quella del Brand Activism!
Questo modello di business presuppone che l’azienda sostenga una causa in linea con i valori dichiarati e, soprattutto, che agisca correlando o anteponendo il benessere collettivo agli suoi obiettivi economici.
Il Brand Activism rappresenta un vantaggio competitivo nella misura in cui le attività “prosociali” d’impresa rispondono alle aspettative dei suoi utenti, in modo stabile e coerente lungo tutti i touchpoint.
Solo dimostrando la trasparenza delle proprie azioni, il brand può allontanare possibili sospetti e accuse di Woke Washing, nonché puntare a stabilire relazioni funzionali e solide che fidelizzino il pubblico e lo rendano un Brand Advocate. L’influenza sulla reputazione e, di conseguenza, sulle vendite non può che essere positiva.
L’impresa si impegna a promuovere questo nuovo valore di brand, a farsi leader nel ridefinire una politica fondata su valori trasversali, a stringere partnership mirate e a digitalizzare la sua presenza sul mercato e le sue comunicazioni, con l’obiettivo di raggiungere un pubblico globale e di coinvolgerlo nella co-creazione di contenuti.
Il Brand Activism diviene quindi una strategia di comunicazione per orientare i cittadini-consumatori attraverso messaggi e campagne studiate ad hoc…ma chi ci dice che saranno efficaci?
È qui che interviene il Neuromarketing!
Se integrare pratiche ESG in azienda e sostenere cause sociali rappresenta la soluzione alla domanda del pubblico, come mai spesso le proposte sostenibili vengono ignorate dagli stessi richiedenti una volta lanciate sul mercato?
Le indagini rilevano come il prezzo di articoli e servizi eco-friendly e fairtrade, di solito superiore a quello delle alternative non-sostenibili, sia il principale disincentivo all’acquisto. Eppure non è così per tutti: diversi studi EEG mostrano come messaggi e prodotti green suscitino una particolare attivazione del lobo frontale solo in consumatori con una spiccata sensibilità ambientalista, tale da ridurre l’influenza negativa del prezzo sulle loro scelte.
Questa evidenza aiuta a indirizzare tempo e budget in direzioni più profittevoli attraverso la realizzazione di comunicazioni allineate ai destinatari in target.
I consumatori green saranno più facili da raggiungere e convincere dichiarando il proprio impegno sociale mentre se ci si rivolge ad un pubblico più generale sarà necessario giustificare il costo della propria offerta o adottare nuove leve d’acquisto.
L’indagine integrata di attivazione cerebrale e fisiologica può predire se il design di un prodotto e del suo pack, così come lo storytelling di uno spot adv o la navigazione su una pagina web elicitano la risposta emozionale desiderata, ottimali per la strategia di Brand Activism sviluppata.
Ad esempio, test condotti su stimoli green evidenziano come la loro promozione tragga i maggiori benefici dall’uso di descrizioni verbali rispetto a soluzioni puramente grafiche. Parole e testi selezionati danno concretezza all’offerta, contribuendo a suscitare emozioni più intense e funzionali alla causa, come coinvolgimento e frustrazione, così da favorire la conversione e l’aumento della fiducia nel brand.
Oppure, l’analisi del comportamento visivo può supportare la progettazione di contenuti aiutando a disporre e a combinare le informazioni ESG in modo strategico.
Tramite metodologia Eye Tracking l’azienda può aumentare la visibilità di un pack a scaffale o in un’e-commerce, affinché venga notato e riconosciuto immediatamente come proposta green da consumatori distratti o dai fidelizzati che desiderano trovare subito quel che cercano. Può far sì che gli elementi grafici e testuali di un’etichetta non si annullino a vicenda nella competizione per l’attenzione dell’osservatore, ma che la loro sequenza di visione sia ottimale agli obiettivi di vendita e della persona. Può, insieme all’EEG, stimare lo sforzo mentale richiesto per processare il design dell’offerta e il messaggio veicolato al fine di renderli di facile comprensione e più apprezzabili.
Dunque, il Neuromarketing è uno strumento in grado di valorizzare la strategia di Brand Activism sviluppata e di aiutare l’impresa a raggiungere i vantaggi competitivi associati. Direziona attività e risorse nella creazione di prodotti e messaggi gradevoli, fruibili e in linea con i valori dichiarati e con le aspettative del pubblico.
L’azienda può così comunicare la propria sostenibilità in modo efficace ed autentico, puntando a stringere e rafforzare legami di fiducia, ispirare il cambiamento e, infine, aumentare il proprio valore sul mercato.