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Tesi di laurea: APPROCCIO PLASTIC FREE: UN’INDAGINE SULLACONOSCENZA E PERCEZIONE DA PARTE DEI CITTADINI

Corso di Laurea in Comunicazione e Digital Media

Anno accademico 2022/23

ABSTRACT

Al giorno d’oggi è fortemente sostenuto e condiviso il ruolo fondamentale che assume la CSR come strumento di costruzione e consolidamento della brand reputation. In luce di ciò, sempre più realtà si impegnano in ambiti sociali e di tutela dell’ambiente.

In seguito all’entrata in vigore della Direttiva UE 2019/904 sulle Plastiche Monouso (SUP- Single Use Plastic) e del D.lgs. 8 novembre 2021, n. 196, sempre più aziende si stanno dirigendo verso un approccio Plastic Free, cioè si impegnano a sostituire o eliminare le plastiche monouso a favore di alternative riutilizzabili nei loro processi produttivi e di distribuzione, oltre che all’interno dei loro uffici.

L’obiettivo di questo elaborato è quello di indagare come il pubblico percepisce l’utilizzo dell’approccio Plastic Free da parte di brand e aziende; in particolare, l’elaborato vuole indagare se la conoscenza dell’impiego di questo tipo di approccio influenza i comportamenti di acquisto del pubblico e, in caso affermativo, in che modo li influenza.

Il Testo integrale della Tesi (43 pagine, in lingua italiana, formato .pdf) è disponibile a questo link




Mezza bottiglia d’acqua per una manciata di domande a ChatGPT. Come l’IA sta aumentando i consumi idrici

Mezza bottiglia d'acqua per una manciata di domande a ChatGPT. Come l'IA sta aumentando i consumi idrici

ietro la sfida dell’Intelligenza Artificiale generativa, e i suoi impatti su lavoro, società e comunicazione, ce n’è un’altra, altrettanto complessa: quella dei consumi idrici.

L’acqua viene usata per raffreddare i data center in cui vengono installati i server che elaborano le tantissime domande che vengono fatte, ogni minuto, a servizi come ChatGPT di OpenAI o Bard di Google: questo lavoro produce calore, proprio come un computer deve espellere aria calda generato dal lavoro del processore.

Ma i server devono lavorare in condizioni ottimali, perciò serve una certa temperatura: nei posti freddi, viene usata l’aria dall’esterno, ma a volte non è sufficiente e, a quel punto, viene aggiunta l’acqua.

Le Intelligenze Artificiali “bevono” tantissimo. Per addestrare ChatGPT sono serviti 3,5 milioni di litri d’acqua

Secondo le anticipazioni di una nuova ricerca, di cui ha dato notizia l’Associated Press e il cui paper verrà pubblicato entro la fine dell’anno, il gruppo di ricercatori guidato da Shaolei Ren, dell’Università della California, ha stimato che quando vengono fatte fra le 5 e le 50 domande a ChatGPT, a seconda del posto in cui si trova il server a cui viene inviata la richiesta, viene consumato mezzo litro di acqua. Praticamente una classica bottiglietta.

Nell’ultimo rapporto sul suo impatto ambientale, Microsoft, per esempio, ha evidenziato un netto aumento del consumo di acqua: da 4,7 megalitri di acqua dell’anno fiscale 2021 a 6,4 megalitri dell’anno fiscale successivo.

Secondo Ren, questo aumento può essere spiegato proprio con la crescita degli investimenti nell’IA generativa e alla collaborazione con OpenAI, in cui Microsoft ha investito dieci miliardi di dollari.

Come parte della collaborazione con OpenAI, Microsoft offre alcuni dei suoi data center per l’elaborazione delle richieste fatte a ChatGPT. Per esempio, uno di questi è in Iowa, negli Stati Uniti, dove Microsoft ha predisposto il supercomputer “più grande e più potente al mondo”.

Anche il consumo d’acqua di Google è aumentato fra il 2021 e il 2022: in questo caso del 20%; anche qui, alla luce dei maggiori investimenti nei sistemi basati sull’IA generativa.

Google, che fa parte del gruppo Alphabet, è la società che consuma più acqua, che perlopiù è potabile, fra le grandi società tecnologiche.

La sfida, quindi, è la coesistenza di progetti dei data center – che rappresentano anche una fonte di introiti per le città – con l’uso idrico a fine residenziale, soprattutto nelle zone dove l’acqua è scarsa e va preservata il più possibile.




TikTok, come i social ci leggono nel pensiero

TikTok, come i social ci leggono nel pensiero

Tutti, almeno una volta, abbiamo avuto l’impressione che i social ci leggano nel pensiero, quasi ci spiassero. Per capire se, e come, questo è possibile abbiamo fatto un esperimento eseguito dagli esperti informatici di Swascan di Pierguido Iezzi, con la supervisione scientifica di Andrea Rossetti, docente di Informatica giuridica della Bicocca, e Stefano Rossetti, avvocato per la protezione dei dati personali di noyb («None of your business», il centro europeo per i diritti digitali con sede a Vienna).

L’esperimento su TikTok

Abbiamo preso due smartphone: uno nuovo, mai usato prima e che per semplicità consideriamo intestato a Gabanelli, e uno utilizzato abitualmente che identifichiamo come intestato a Ravizza. Entrambi vengono collegati alla stessa rete wi-fi. Con il telefono vergine apriamo un account TikTok, il social che in Italia oggi conta 14,8 milioni di utenti attivi al mese, e 1,2 miliardi a livello globale, di cui il 25% con un’età compresa tra i 10 e i 19 anni. Per aprire il nuovo account bisogna fornire i dati personali e creare una password. Età minima richiesta 13 anni, ma di fatto lo usano anche i bambini perché non c’è nessun tipo di controllo. Per continuare occorre accettare i termini d’uso e la policy privacy. Vediamo che cosa si accetta con la nota scritta in caratteri minuscoli e che quasi nessuno legge ma che equivale alla firma di un contratto.

I termini d’uso

Le condizioni principali che accettiamo sono due, spiegate così da TikTok:
1) «Non devi pagare per l’uso della nostra Piattaforma, ma, in cambio, veniamo pagati da terzi affinché ti possano pubblicizzare o vendere prodotti»;
2) «Quando pubblichi un contenuto sulla Piattaforma, rimani il titolare dello stesso, tuttavia, potremo mostrarlo ad altri utenti e utilizzarlo per consentire la fruizione della Piattaforma, così come altri utenti potranno a loro volta utilizzarlo. Laddove tu decida di rimuoverlo successivamente, copie dello stesso realizzate da altri utenti potranno comunque essere visualizzate sulla Piattaforma».
Con l’informativa sulla privacy invece autorizziamo TikTok a raccogliere tutti i contenuti che creiamo: fotografie, video, registrazioni audio, livestream, commenti, hashtag, feedback, revisioni, nonché i relativi metadati (fra cui, quando, dove e da chi è stato creato il contenuto). I testi dei messaggi e i relativi metadati (l’ora in cui il messaggio è stato inviato, ricevuto e/o letto, nonché i partecipanti alla comunicazione). Informazioni sugli acquisti. Ci sono poi le informazioni raccolte in modo automatico: modello del dispositivo, il sistema operativo, gli schemi o i ritmi di battitura, l’indirizzo IP e la lingua del sistema. Localizzazione. Contenuti visualizzati, durata e frequenza di utilizzo. Infine ci sono le informazioni dedotte: generalità dei soggetti con cui interagisco, nonché i nostri interessi.

Le conseguenze del consenso

Noi non lo vediamo, ma ogni volta che utilizziamo TikTok, come qualsiasi altro social, si generano migliaia di file di testo con tutte le informazioni di cui sopra. A chi vanno questi dati? Dall’analisi del traffico degli esperti di Swascan si vede che i file confluiscono nei server di proprietà di TikTok e in un’immensa rete di computer (CDN) che ridistribuisce i contenuti. Da qui le informazioni che ci riguardano – lo sappiamo perché lo dichiara lo stesso TikTok – vengono inviate ai cosiddetti data broker, ossia società specializzate nelle operazioni di profilazione che classificano ogni singolo utente e lo collocano in una o più categorie. I data broker di TikTok sono 16: Adbrix Original, Adform, Adjust, Appmetrica, Appsflyer, Branch, Doubleclick, Flashtalking, Kantar, Kochava, Moat by Oracle, Mytracker, Nielsen, Singular, Sizmek, Tenjin. A questo punto si alza un muro: cosa accade durante il data sharing (la condivisione dei dati) è impossibile da ricostruire, perché le piattaforme schermano il flusso dei dati e anche gli esperti di informatica non riescono a «bucarlo». È il motivo per cui abbiamo deciso di procedere con l’esperimento sul campo per un paio di settimane e vedere concretamente cosa succede sui due telefoni.

Test numero 1

Sullo smartphone vergine di Gabanelli decidiamo di seguire 20 brand tra i più noti e seguiti: Adidas, Balenciaga, Chiara Ferragni, Dior, LuisaviaRoma, Nike, Zalando, Zara, ecc. Ebbene, su Instagram del telefono di Ravizza, dove non è stata eseguita nessuna ricerca, compare la pubblicità degli stessi brand di cui è diventata follower Gabanelli. È la conferma pratica che tramite i data broker almeno tre informazioni essenziali passano da TikTok di Gabanelli a Instagram di Ravizza: indirizzo IP, user agent e geolocalizzazione. Il risultato è che in base all’indirizzo Ip che indica il wi-fi a cui io sono collegata, chi è vicino a me e collegato alla stessa rete, riceve pubblicità su quello che interessa a me.

Test numero 2

Sul telefono vergine cerchiamo su Google informazioni su un noto brand di tecnologia, Samsung, e accettiamo tutti i cookies. Su TikTok di Gabanelli compare in tempo reale la pubblicità di Samsung. Il perché sta nell’analisi del traffico dei dati: per le campagne social Samsung manda le informazioni alla società Sprinklr, che a sua volta è partner di TikTok.

Test numero 3

Sempre su TikTok del telefono usato abitualmente da Ravizza compare la pubblicità di VGP, un’agenzia di videogames. Dall’analisi del passaggio di informazioni si vede che TikTok fornisce al data broker Adjust i dati degli utenti, che in base alla loro profilazione possono diventare giocatori. Siccome Adjust è anche socio di VGP, grazie alle informazioni ricevute può fare pubblicità mirata su TikTok individuando gli utenti più inclini a spendere soldi all’interno dell’app. Il team di marketing di VGP riceve poi notifiche in tempo reale da TikTok su chi clicca, chi scarica e chi acquista. In questo modo il Roas di VGP, che è l’indice di redditività che misura l’efficienza degli investimenti pubblicitari, è passato dal 15 al 30%. Ma come ha fatto Ravizza a finire classificata come potenziale giocatrice? È stato sufficiente fare qualche ricerca sulle società di game per scriverci un articolo. Ogni click viene registrato e quindi diventa possibile protocollare l’intera vita.

Le tracce digitali

Per dare un’idea della precisione dei dati raccolti su ciascun individuo, si può osservare il recente caso della «lista Xandr», uno dei principali data brokers. La lista permette di conoscere il grado di dettaglio con cui queste società operano. Per esempio, se utilizzate il vostro cellulare con una frequenza superiore alla media, sarete etichettati come «Mobile addicts». Una certa tendenza a comprare farmaci online vi collocherà nella categoria «Addiction medicine». Se fai ricerche online sull’aborto diventi sostenitore dell’«Abortion Rights». Poi ci sono le categorie sull’etnia (italiani, ispanici, ecc.), le classificazioni di classe («Sophisticated hispanic»), situazione finanziaria («Very poor»), e stato di salute. Gli «Xandr files» dimostrano che le informazioni si stratificano nel tempo e non sono utilizzate solo per le annunciate finalità pubblicitarie. Le stesse informazioni sono infatti usate, per fare qualche esempio, per valutare il merito creditizio, nella ricerca del personale e per il microtargeting politico (qui la fonte).
Shufa, un’azienda tedesca privata che raccoglie dati di natura economica e finanziaria
 di cittadini e imprese a vantaggio di agenzie di credito e dei loro partner commerciali, possiede i dati di circa 66 milioni di cittadini tedeschi. Quella Usa di analisi di big data Acxiom dispone dei dati di circa 300 milioni di cittadini americani, cioè quasi tutti. Il suo quartier generale nell’Arkansas è protetto da cancelli strettamente sorvegliati, come fosse un edificio del Servizi Segreti, ed è probabile che abbia più informazioni sugli americani della stessa Fbi.
Il filosofo sudcoreano Byung-chul Han nel saggio «Nello sciame» la sintetizza così: «L’analisi dei big data permette di conoscere modelli di comportamento che rendono possibili anche delle previsioni: al posto dei modelli basati su ipotesi subentra il confronto diretto dei dati. E quindi la teoria è superflua. La società della sorveglianza digitale, che ha accesso all’inconscio collettivo, al futuro comportamento delle masse, sviluppa tratti totalitari: ci consegna alla programmazione psicopolitica e al controllo».




Come ti demolisco la reputazione parte II

Come ti demolisco la reputazione parte II

Ci risiamo, ne avevo già parlato precedentemente nella mia analisi dal titolo “Fake Reputation”, ma quanto pare il malcostume professionale è destinato non solo a non venir abbandonato, ma anzi a intensificarsi: un’inchiesta del consorzio giornalistico Forbidden Stories, ripresa su un articolo del settimanale tedesco Die Zeit a firma di Holger Stark e Fritz Zimmermann, conferma – tra le altre cose – la tendenza crescente alla manipolazione della reputazione.

Qual è il bene tutelato?

Secondo un’indagine di Weber Shandwick dal titolo ‘The State of Corporate Reputation’, il 63% del valore di mercato di un’organizzazione è attribuibile alla sua reputazione: la letteratura oggi ci suggerisce quanto, senza ombra di dubbio, la reputazione abbia un impatto diretto sul valore di qualunque azienda o personaggio, toccando un insieme di fattori come identità, immagine, notorietà e riconoscibilità, che influiscono sugli stakeholder e sul valore percepito dai cittadini.

Uno dei pilastri ai quali prestare maggiore attenzione è quello dell’autenticità, aspetto di fondamentale importanza che pare ancor oggi sottostimato da un numero di organizzazioni insospettabilmente alto su scala globale, e senza la quale è impossibile costruire fiducia e mantenere un adeguato grado di allineamento e coerenza tra identità dell’organizzazione e l’immagine comunicata all’esterno.

Il punto è che nel XXI secolo poter contare su una buona reputazione significa poter guadagnare (molti) più soldi. Il Reputation Institute USA stima che, in media, una variazione di un punto nell’indice reputazionale di un’organizzazione – misurato dal loro indice RepTrak® – vale circa il 2,6% del valore di mercato dell’organizzazione; l’Istituto ha anche creato un portafoglio composto dalle 10 società più quotate ogni anno dal punto di vista reputazionale, e i risultati nel periodo di tempo considerato (10 anni) dimostrano che un investimento di $ 1.000 distribuito equamente tra le azioni delle prime 10 società per buona reputazione, sarebbe valso, 10 anni dopo, $ 3.025, con un rendimento migliore del 50% rispetto all’indice Dow Jones ($ 2.053), all’indice Russell 3000 ($ 2.030) e all’indice S&P 500 ($ 2.010), e che sovraperforma quindi rispetto alle medie di mercato.

Anche senza scomodare gli eccezionali studi di Eccles ad Harvard, è da tempo dimostrato in via definitiva che costruire buona reputazione aumenta il valore delle organizzazioni (e l’influenza di singoli personaggi pubblici, che siano politici, artisti, sportivi, etc.), come conferma anche la vera e propria corsa alle “certificazioni” in ambito ESG (Enviromental, Social and Governance) il cui possesso aumenta l’agibilità sul mercato delle aziende e la raccolta di denaro da parte dei fondi di investimento green, la cui reale sostenibilità è in realtà tutta da dimostrare, come abbiamo discusso in una recente ricerca scientifica presentata al Parlamento Europeo a Bruxelles.

Insomma, reputazione è uguale a denaro: quindi – si chiede qualcuno – perché non manipolarla per guadagnare di più?

Le “lavanderie reputazionali”

Come avevo segnalato in una precedente analisi, un’ inchiesta della Media Foundation Qurium, ripresa e ampliata in Italia da Lorenzo Bagnoli per conto di Investigative Reporting Projecy Italy, denuncia ciò che era noto tra gli addetti ai lavori, ovvero che esistono vere e proprie “lavanderie reputazionali”, agenzie e organizzazioni che hanno come scopo la sistematica alterazione del perimetro reputazionale di marchi e di personaggi, con tecniche le più varie: manipolazione a pagamento delle schede di Wikipedia, la consultatissima enciclopedia online; applicazione esasperata e forzate delle norme sul diritto all’oblio; comunicazioni dal sapore vagamente intimidatorio indirizzate alle redazioni giornalistiche per ottenere la rimozione di articoli poco lusinghieri pubblicati in passato sui propri clienti; pubblicazione di articoli positivi a raffica – basati sul nulla, costruiti a tavolino – con l’intento di far scalare quelli negativi nelle ultime pagine di Google; backlink selvaggio (tra i fattori che Google tiene in considerazione per decidere la posizione di un link tra i risultati di ricerca c’è il backlink, ovvero quante volte quel link sia stato incluso in altri siti web, e quindi per manipolare i risultati di ricerca si possono creare backlink di un certo articolo lusinghiero su centinaia di siti web “fake”, attivati solo per alterare questo  indice), e via discorrendo.

Tra i Clienti di queste agenzie, nella migliore delle ipotesi risultano aziende che hanno subito e patito precedenti campagne di “black PR” e che desiderano quindi – a volte legittimamente – riposizionare la propria immagine; ma – nella peggiore – troviamo anche società interessate a spingere forsennatamente sulle vendite a qualunque costo, o uomini dello spettacolo accusati di molestie sessuali, professionisti coinvolti in frodi finanziarie internazionali, o peggio ancora banchieri condannati per riciclaggio, corruttori e trafficanti di droga: l’inchiesta che ho richiamato fa coraggiosamente diversi nomi e cognomi, sia dei clienti, italiani e stranieri, ma anche delle agenzie di relazioni pubbliche e comunicazione pronte a imbastire e gestire progetti di questo tipo, con una spregiudicatezza degna a mio avviso dell’attenzione di un Magistrato.

Ma l’inchiesta di Forbidden Stories svela anche altro.

Siamo i “cattivi”, e ce ne vantiamo

Se ormai la costruzione a tavolino della reputazione, ovvero la “sistemazione” in senso migliorativo di quella esistente, è prassi risaputa e diffusa, perché non acquistare vantaggio competitivo distruggendo per quanto possibile quella dei propri interlocutori?

Il team “Jorge” è un gruppo israeliano specializzato nella diffusione di notizie false, interferenze nelle campagne elettorali e manipolazione dell’opinione pubblica anche a fini di decostruzione reputazionale, mediante l’utilizzo di un esercito di account fake e avatar. E Jorge non è certamente un caso isolato: le agenzie specializzate in questo genere di “servizi” sarebbero circa una sessantina al mondo.

Jorge è “fuori dai radar”: la sede si trova al terzo piano di un palazzo di Modi’in, una cittadina di 90.000 abitanti 35 km a sud di Tel Aviv, senza targa sulle porte e senza neppure un sito internet. Jorge, capo del team, si chiama in realtà Tal Hanan, ha un passato come membro delle forze speciali israeliane e si è messo poi in proprio creando l’agenzia, anche per guadagnare (molto) più denaro. A titolo di esempio, come documentato dall’inchiesta, il team ha manipolato trentatré diverse campagne elettorali di livello presidenziale in molti Paesi, di cui ventisette con successo.

Intercettazione delle comunicazioni telefoniche e web della controparte a fini di distruzione reputazionale piuttosto che furto di fotografie private da dispositivi mobili e pubblicazione di articoli diffamanti sulla stampa, sono solo alcuni degli strumenti correntemente utilizzati da questi “professionisti” delle relazioni pubbliche e della comunicazione digitale.

Ma anche creazione di migliaia di profili Social fake da usare contro l’obiettivo della campagna di black-PR, gestiti tramite la piattaforma (di proprietà del team Jorge) AIMS, Advanced Impact Media Solution (soluzioni mediatiche ad impatto avanzato), in grado con pochissimi click di creare un’identità virtuale completa di profili sui Social network e anche di profilo su Amazon, così da renderli più credibili. Il team ha decine di migliaia di profili fake attivi, pronti ad essere scatenati contro un oppositore o concorrente del cliente del momento, al fine di devastarne la reputazione.

Ad esempio, documenta l’inchiesta, da un finto account femminile è stato inviato a casa di un politico in vista un pacco con dei sex toys e una lettera d’amore (falsa, ma molto ben costruita): la moglie del politico ha aperto il pacco, ha cacciato di casa il marito, e la storia è finita su tutti i giornali, con grave pregiudizio dell’obiettivo e demolizione della sua licenza di operare.

Queste tecniche sono utilizzate da questi team anche per campagne di attacco verso aziende e professionisti, e la situazione pare sempre più fuori controllo.

Etica professionale… o chiacchiere?

La domanda a questo punto sorge spontanea: quando una pubblica riflessione su queste male pratiche consulenziali e professionali, che alterano e “dopano” il mercato della reputazione anche nel nostro Paese, falsando anche la percezione che i cittadini hanno di marchi e persone influenti? Nei Codici etici delle associazioni di categoria, al di là di vaghe dichiarazioni di principio non si va, e – vista la pervasività del fenomeno – forse è ora di fare qualcosa di più incisivo.

Ne parleremo con autorevolissimi relatori in un webinar il giorno 21 settembre alle ore 17: la speranza è che associazioni di categoria come ad esempio FERPI, la Federazione Nazionale Relazioni Pubbliche Italiana, ma non solo, prendano posizione con qualche iniziativa concreta per arginare questi fenomeni tossici e pericolosi sia per il mercato che per la dignità degli stessi professionisti del settore.




Lo spot turistico francese che dà una lezione alla campagna pubblicitaria italiana con la Venere “influencer”

Lo spot turistico francese che dà una lezione alla campagna pubblicitaria italiana con la Venere "influencer"

Mentre l’Italia sfrutta il “potenziale” di un’influencer ispirata dalla Venere di Botticelli per divulgare le sue ricchezze culturali, la Francia si orienta verso figure rilevanti come Monet, Renoir, Caillebotte, Morisot, Pissarro e altre personalità di spicco dell’arte impressionista, impiegandole come ambasciatori all’interno di un coinvolgente video chiamato “Les voyages impressionnistes en Normandie et à Paris Region”. Questo non solo cattura l’attenzione, ma spinge gli spettatori all’azione, incoraggiandoli a preparare le proprie valigie. Nel breve filmato realizzato da Normandie Tourisme, una coppia di viaggiatori, Lauren e Kim, intraprende un affascinante percorso attraverso le regioni di Normandia, Parigi e l’Île-de-France, seguendo le orme dei rinomati pittori francesi. La scelta di mettere in luce l’Impressionismo non è casuale, considerando che la Francia si prepara a celebrare, nel 2024, il 150º anniversario di questo movimento artistico.