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Per Acqua Eva un danno stimato in 13 milioni. Per Bertone di Sant’Anna “un dispetto per i torti che avevo subito”

Per Acqua Eva un danno stimato in 13 milioni. Per Bertone di Sant'Anna "un dispetto per i torti che avevo subito"

Nuova udienza, presso il tribunale di Cuneo, del processo in cui Sant’Anna, colosso dell’acqua minerale, è chiamata a difendersi dalle accuse di diffamazione e turbativa dell’industria e del commercio. Imputati, il presidente e amministratore delegato Alberto Bertone e il direttore commerciale Luca Chieri, accusati di essere i mandanti della pubblicazione di un articolo in cui si insinuava che Acqua Eva fosse controllata dalla catena di supermercati tedesca Lidl. 

La conseguenza è stata, a detta dell’azienda di Paesana, un danno quantificato in oltre 13milioni di euro.

A tanto, infatti, ammonterebbe il danno finanziario, calcolato sulle presunte perdite patite tra il 2019 e il 2023 e sulla trattativa sfumata con la Red Circle Investments, che prevedeva un’espansione del marchio negli Stati Uniti e in Giappone. A questo si aggiungerebbe il danno reputazionale, che da solo è stato stimato in oltre tre milioni di euro. Le cifre sono la conclusione delle analisi e delle perizie effettuate dai due consulenti di Acqua Eva, il professore di Economia applicata dell’Università di Torino Davide Vannoni e il docente Luca Poma, professore di Reputation management all’Università LUMSA di Roma. 

Dall’altro lato, i consulenti di Acqua Sant’Anna, Luigi Forgione e Stefano Ambrosoli, entrambi esperti buyer nel settore della grande distribuzione – ma non per la Coop, come ha rilevato l’avvocato di Acqua Eva Nicola Menardo – hanno spiegato come, stando alla loro pluriennale esperienza, in nessun modo un articolo, ancorché diffamatorio, possa avere un peso tale da far decidere di sospendere i contratti con un fornitore che garantisca alta marginalità. 

Marginalità non legata solo ai volumi di vendita, come hanno sottolineato i due professionisti, ma ad altre voci, come i contributi promozionali o le richieste di un particolare posizionamento sugli scaffali. Queste, sulle scelte dei buyer, pesarebbero per un 75%. 

Solo ed esclusivamente strategie commerciali, dunque, stando alla loro esperienza professionale, sarebbero alla base della decisione della Unicoop Firenze di sospendere la fornitura di Acqua Eva dal 2019 fino al 2021 e di Coop Alleanza 3.0 di togliere le bottiglie di Acqua Eva dagli scaffali dei propri punti vendita.

Certamente non quello che è stato più volte definito, se non derubricato, a chiacchiericcio o gossip.

E di gossip ha parlato anche l’imputato Alberto Bertone, oggi ascoltato in aula. Il patron della Sant’Anna ha dato la sua versione dei fatti, evidenziando come quell’articolo non sia stato scritto con lo scopo di creare un danno economico ma semplicemente per creare dell’imbarazzo.

“Anche su Sant’Anna i gossip ci sono sempre stati. Tra questi, che noi fossimo di Coca Cola o di Esselunga. Poi, si era diffusa la voce che la nostra acqua puzzasse. E’ assurdo pensare o sostenere che un gossip possa indurre i buyer a non volere più un prodotto. Questa è una barzelletta a cui può credere solo chi non è del nostro mestiere”, ha detto Bertone.

Lui, invece, quello che avrebbe subito i torti. “Acqua Eva la sento anche mia, perché nelle prime fasi ero stato coinvolto nell’operazione. Ero andato sul posto con i miei due fontanieri e geologi, oltre che con il mio direttore commerciale, Paolo Nocera. Avevo spiegato il funzionamento del mercato, le linee di imbottigliamento“, ricorda Bertone.

Poi, a distanza di tempo, la scoperta, quasi casuale, che “ero stato estromesso. Mi avevano preso il know-how, il direttore commerciale Nocera e i distributori di parecchie regioni d’Italia. Sono riuscito a trattenere Cheri dandogli tre volte lo stipendio. E’ la prima volta che qualcuno nasce distruggendo un altro – ha ancora detto Bertone visibilmente alterato. All’epoca eravamo un’azienda piccola, di 30 persone, e mi avevano tolto il direttore e tutto il reparto commerciale. Ero disperato”. 

Ma, ha specificato Bertone, nonostante tutto “non ho mai fatto causa ai concorrenti”. Un’acredine, dunque, maturata negli anni, acuita dal “gossip” dell’acqua che puzzava e concretizzatasi con quell’articolo, commissionato per fare “un dispetto”, a detta di Bertone. “Io non lo avevo nemmeno letto, neppure la bozza”, ha rimarcato l’imprenditore. Ma che, secondo Acqua Eva, ha cagionato un danno di 13 milioni. 

Nella prossima udienza, il prossimo 7 marzo, saranno ascoltati i testi della difesa.




Guerra dell’acqua, la versione di Bertone: “Acqua Eva ha cercato di distruggermi, il mio era solo gossip”

Guerra dell’acqua, la versione di Bertone: “Acqua Eva ha cercato di distruggermi, il mio era solo gossip”

Era il suo giorno e lui non si è negato. Nell’aula assise del tribunale di Cuneo Alberto Bertone, il “signor Sant’Anna”, ha parlato a lungo di tutti gli aspetti connessi alla vicenda per cui è imputato di diffamazione e turbata libertà del commercio, insieme al suo direttore commerciale, Luca Cheri.

Un fiume in piena, verrebbe da dire, con un’analogia appropriata alla “guerra dell’acqua” che si sta combattendo tra il colosso di Vinadio e i concorrenti di Paesana, la Fonti Alta Valle Po della famiglia Rivoira, titolare del marchio Acqua Eva. Da “radio gazzosa”, come Bertone definisce il chiacchiericcio tra i produttori di acque minerali, lo scontro è giunto nelle aule di tribunale. È un’ostilità che arriva da lontano, ben prima della denuncia presentata dai Rivoira nel 2018, dopo la scoperta di una fantomatica testata giornalistica (“Mercato Alimentare”) che riportava informazioni delicate: si parlava di un’imminente acquisizione del marchio Eva da parte della catena Lidl. Un sassolino che avrebbe provocato una valanga, secondo la parte civile. A testimonianza di questo si sono portate mail, telefonate, perfino gli audio delle conversazioni registrate tra il direttore commerciale di Acqua Eva, Emanuele Pacetta, e lo scaffalista di un punto vendita Coop toscano. Al manager, che si era finto un normale cliente, l’addetto aveva risposto che Acqua Eva non veniva più venduta “perché l’ha comprata Lidl”.

Dietro al famigerato sito, registrato a nome della sua defunta nonna, c’era un 22enne neodipendente di Bertone, Davide Moscato. E dietro a Moscato – che ha già definito la questione con la giustizia – secondo le accuse c’erano Cheri e lo stesso Bertone. Il quale non ha negato le pressioni sul suo collaboratore, provate del resto dai messaggi via Whatsapp. Ma lo scopo, ha precisato, non era certo quello di creare un danno economico: “È assurdo pensarlo. Un link mandato a una sola persona [Luciano Villani, category manager di Coop Italia, ndr] non poteva creare nessun danno”. Ma allora, qual era il senso di tutto? Una ripicca, visto che gli agenti di Acqua Eva – secondo l’imputato – avrebbero approfittato di un problema di produzione nello stabilimento di Vinadio, per far circolare voci malevole su Sant’Anna: “Parlavano di ‘acqua che puzza’. Volevamo mettere in soggezione anche loro”. L’idea sarebbe nata durante un pranzo di lavoro fra Bertone, Cheri e Moscato, a suggerirla sarebbe stato proprio quest’ultimo: “L’avevo conosciuto in università, era un ragazzo sveglio che faceva molte domande sul commercio online. In quell’occasione disse che poteva cercare documentazione su Eva e Lidl e realizzare un link”.

Un sito non indicizzato, inaccessibile a chiunque non avesse ricevuto un link diretto. Alla fine l’“operazione” si fece, sebbene l’avvocato di Sant’Anna l’avesse sconsigliata: “Non ho partecipato alla redazione dell’articolo e non ho nemmeno aperto la bozza che mi inviò Moscato via mail” assicura Bertone, sostenendo quindi di non sapere cosa fosse stato davvero scritto. Era solo gossip, dice, nulla di cui “radio gazzosa” non fosse già a conoscenza: “Bastava girare nei supermercati: non trovavi Eva da nessuna parte, la trovavi solo in Lidl e anche con una presenza massiccia”. E l’idea che alcune coop abbiano troncato i rapporti con Eva, dato che si diceva fosse stata acquistata da una catena di supermercati concorrenti? “È una barzelletta, può crederci solo chi non fa questo mestiere”. Idem per quanto riguarda la mancata acquisizione di una partecipazione societaria in Acqua Eva da parte di Red Circle, la finanziaria di Renzo Rosso“Il problema reale è che erano distanti sul prezzo: il gruppo Rosso lo valutava 25 milioni, i Rivoira chiedevano 40 milioni. Inoltre non c’era la titolarità del marchio nei mercati esteri”.

Non era stata solo la faccenda dell’“acqua che puzza” a far saltare la mosca al naso al patron di Sant’Anna, in realtà. Nella compagine di Eva, ai primordi, ci sarebbe dovuto essere proprio Bertone. Poi l’affare andò a monte, arrivarono i Rivoira e Sant’Anna ne subì l’agguerrita concorrenza, soprattutto in termini di organico: da Vinadio erano usciti l’allora direttore commerciale e vari responsabili. “È la prima volta nella storia delle acque minerali che qualcuno nasce cercando di distruggere un altro: ero disperato, quando mi sono trovato senza direttore commerciale e senza l’intera struttura” lamenta Bertone ancora adesso, dopo più di dieci anni: “Gli avevano promesso mari e monti, sicuramente c’era qualcosa di mezzo: altrimenti non sarebbero passati da un’azienda leader di mercato a gente che, con tutto il rispetto, vende frutta e verdura”. Altri argomenti buoni per “radio gazzosa”.

Ben più tangibile è la questione dei danni, stimati dalla parte civile in 10 milioni e 40mila euro per i mancati ricavi e le perdite di profitti, più altri 3 milioni e 184mila euro solo per i danni alla reputazione. “Oggi la reputazione equivale a soldi, non è più solo un parlar bene o male di qualcuno” spiega il professor Luca Poma, docente di reputation management, con un riferimento all’affaire Chiara Ferragni, sulla bocca di tutti in questi giorni e oggetto di attenzioni anche nella Procura di Cuneo. Calcoli sbagliati, ribattono i consulenti di difesa, ammesso e non concesso che un danno ci sia stato: “Un gossip non può influenzare le scelte assortimentali della grande distribuzione”. Se ne riparlerà tirando le fila del processo, nel frattempo è in programma per il 7 marzo prossimo l’audizione dei testi rimanenti.




Seth Godin: «Gli influencer sono il passato, caduti nella trappola dei social»

Seth Godin: «Gli influencer sono il passato, caduti nella trappola dei social»

«Il futuro degli influencer appartiene già al passato. Perché nella maggior parte dei casi coloro che vengono definiti influencer non lo sono affatto. Piuttosto sono hacker egoriferiti legati alle pubbliche relazioni, e per giunta spesso scarsamente remunerati. D’altronde raccontarsi sui social media è una corsa che non porta alcun vantaggio, perché nel lungo periodo non genera né attenzione e né fiducia. Nella stragrande maggioranza dei casi i social sono una trappola. Certamente ci forniscono un microfono, ma sta poi soltanto a noi decidere come utilizzarlo al meglio». Così sentenzia senza mezzi termini il guru del marketing contemporaneo Seth Godin. Il suo j’accuse non lascia spazio ad equivoci: messe al bando le degenerazioni social, ciò che resta è l’esperienza autentica del cliente, un mosaico di aspettative racchiuse nei suoi bisogni spesso disattesi e nel suo vissuto da ascoltare. Un percorso da intraprendere giorno per giorno, con costanza e senza sconti. Godin lo racconta nel suo nuovo libro “La Pratica”, edito per l’Italia da Roi Edizioni e in uscita da mercoledì 17 febbraio.

In questa intervista, rilasciata in esclusiva per l’Italia al Sole 24 Ore, Godin si schiera per la creatività, a patto che sia fatta di studio meticoloso, di preparazione costante, di pratica. «La creatività non ha niente a che fare con doti innate o spontanee, ma è un’abilità che tutti possono sviluppare nel lavoro. A condizione però che la si attui giorno dopo giorno. La pratica è a portata di mano soltanto se siamo disposti a impegnarci. E aprirà la porta al cambiamento e al successo. Perché diventiamo ciò che facciamo», afferma Godin, autore di diciannove best seller internazionali tradotti in 35 lingue e che hanno cambiato radicalmente il modo di pensare e fare il marketing. Il suo blog è il più seguito al mondo con oltre un milione di lettori quotidiani. Quindi giù dalla torre quelle scelte acchiappalike per le quali ci siamo assuefatti e spazio ad una visione nel tempo. Un ritorno alla concretezza, oltre i patinati effetti speciali degli stream.

«Oggi l’accesso per tutti a un microfono è un dato di fatto, la differenza la fanno però quelle persone che decidono di apportare cambiamenti reali nel mondo, lavorando generosamente e senza distrazioni. Ecco perché il vero creativo è il leader che crea la soluzione del problema. La creatività è una scelta ed è un’abilità, non un talento. È un’opportunità per migliorare l’arte dell’invenzione. È il lavoro di ascolto, di comprensione del cliente e del mercato. Questa visione affonda le radici nella tradizione italiana: la si coglie in Leonardo, in Michelangelo, in Dante. Quello che impariamo da queste figure è che essere pionieri e affrontare le difficoltà è il segreto per una leadership efficace», precisa Godin.

In questo tempo fragile dettato dalla pandemia il leader dove scova le soluzioni?

Intanto partiamo dal presupposto che i leader sono esploratori: scoprono volontariamente cosa c’è dopo. E non è una scelta facile, perché i leader spesso si sbagliano e hanno molte priorità con cui destreggiarsi. L’obiettivo non è adattarsi al contesto, bensì fare la differenza. Quindi essere controcorrente.

La creatività è una soluzione nella gestione della complessità?

I sistemi complessi non possono essere gestiti facilmente. Devono essere compresi. Troppe persone hanno paura di agire. Ma sta a noi cambiare i sistemi, e non viceversa.

Il marketing come dovrebbe affrontare questo tempo difficile?

Il marketing è ciò che facciamo ogni giorno, la storia che raccontiamo, le persone che serviamo. Non dovremmo perdere tempo a parlare e dovremmo impegnarci ad ascoltare, mostrandoci con empatia. Solo così si potrà generare il vero cambiamento.

Parla di empatia, ma con quale tono di voce oggi è meglio relazionarsi con i clienti?

Cercare di decodificare il tono di voce che i nostri clienti si aspettano è una sfida inutile. Perché quei clienti che ci danno attenzione e fiducia vorrebbero essere guidati, abbracciando i nostri valori. Nessuno vuole essere imbrogliato. La creatività permette di presentarsi ai clienti con una visione, un punto di vista associato ad un’azione.

A proposito di azione, uno dei concetti più sdoganati degli ultimi mesi è quel brand activism inteso come attivismo della marca: è un trend a cui crede?

Per me l’unico trend da seguire è quello di essere umani nella relazione e gestione del cliente. Quando facciamo un lavoro di cui siamo orgogliosi abbiamo una bussola che ci orienta. In fondo nell’eccellenza possiamo leggere in filigrana la storia di ogni grande azienda italiana. D’altronde il cliente non sceglie un brand perché è il più economico, ma perché si prende cura di lui, lavora indefessamente per lui, lo difende e per farlo ci mette la faccia.

Nel libro si oppone strenuamente alla manipolazione e alla persuasione e auspica che si possa scommettere sulla generosità: ma questo ragionamento come si concretizza nelle strategie di vendita?

Pensiamo soltanto ai marchi che ci interessano, agli articoli per i quali faremmo di tutto, alle proposte per le quali pagheremmo anche un extra: l’elemento che accomuna tutte queste situazioni è che riguardano aziende che non sono moleste nei nostri confronti. Ossia aziende che non infastidiscono. Oggi non c’è più spazio per gli squali.

Restiamo sulla generosità, alla quale dedica un intero capitolo: in che modo la creatività è un generoso atto di leadership?

Intanto la leadership è volontaria. È volontario guidare ed è volontario seguire. I manager usano l’autorità per imporsi, ma la leadership implica l’azione responsabile. Per troppo tempo siamo stati offuscati dalla vera natura del concetto di leadership. Non si tratta affatto di autorità. È piuttosto il coraggioso lavoro di inventare il futuro. I leader dipingono un quadro del domani e ci incoraggiano ad andare lì con loro. Che è ciò che sta facendo chiunque generi un cambiamento attraverso il proprio lavoro creativo.

Per i leader cosa è cambiato con l’emergenza della pandemia?

Nello scorso anno molti amministratori delegati si sono nascosti dietro maschere. Ma altri hanno deciso che era il momento migliore per incontrare in modo autentico la propria gente e per individuare nuove strade da percorrere insieme.

In Italia l’ultima intervista che ha rilasciato due anni fa sempre al Sole 24 Ore ha fatto scalpore perché ha dichiarato senza troppi giri di parole che “bisogna scendere dalla giostra dei social che va sempre più veloce e non porta da nessuna parte”. La pensa ancora così?

Ne sono ancora più convinto. Però stiamo vedendo sempre meno aziende che cercano di fare acrobazie social o che generano rumore di fondo. Aumentano invece quelle realtà che comprendono come l’ascolto faccia la differenza. Ed è una bellissima notizia.




«Ladri di contenuti». Via negli Usa alla class action degli autori contro OpenAI: 150mila dollari di danni per ogni libro «rubato»

«Ladri di contenuti». Via negli Usa alla class action degli autori contro OpenAI: 150mila dollari di danni per ogni libro «rubato»

Il 2023 si era chiuso con una brutta notizia per OpenAI, il 2024 sembra aprirsi sulla stessa traccia. Due saggisti americani hanno infatti fatto causa all’azienda-madre di ChatGPT e a Microsoft, il principale investitore che le sta dietro, per violazione della legge sul diritto d’autore. Nicholas Basbanes e Nicholas Gage hanno presentato la causa venerdì 5 gennaio al tribunale federale di Manhattan, riporta Cnbc, e chiedono 150mila di dollari di danni per ogni opera di cui il software avrebbe violato i diritti. OpenAI ha «semplicemente rubato» i loro lavori per darli in posto al machine learning che spinge l’evoluzione di ChatGPT, sostengono Gage e Basbanes. L’iniziativa legale potrebbe fare molto male alle due aziende Usa, perché gli avvocati hanno spiegato di intenderla come la mossa d’apertura di una class action – una causa collettiva – cui potrebbero unirsi tutti gli autori di “non-fiction” che si ritengano danneggiati dalle azioni di OpenAI. La logica con cui viene allenato e fatto crescere il chatbot di intelligenza artificiale generativa implica che le due società che le stanno dietro «non hanno nulla di diverso da un ladro comune», si legge nel testo della causa. A fine dicembre del 2023, il New York Times ha citato in giudizio con motivazioni del tutto simili Microsoft e OpenAI, chiedendo loro, dopo il fallimento dei contatti extragiudiziali per trovare un accordo sull’utilizzo dei contenuti del quotidiano, di rifondere danni per miliardi di dollari. Mentre lo scorso settembre era stato un gruppo di noti romanzieri americani, tra cui Jonathan Franzen e Michael Connelly, a far causa al gruppo guidato da Sam Altman, anche in quel caso nel tentativo di dare avvio a una class action per conto degli autori americani di “fiction”. Né Microsoft né OpenAI hanno per il momento reagito ufficialmente alla nuova iniziativa legale.




Così l’Onu vuole dare delle regole per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale: i 5 «principi»

Così l'Onu vuole dare delle regole per lo sviluppo dell'intelligenza artificiale: i 5 «principi»

NEW YORK – «Governare l’intelligenza artificiale per l’Umanità»: l’immensità e la complessità della missione affidata all’«AI Advisory Board», la commissione degli esperti dell’Onu incaricata di studiare regole comuni per cogliere le opportunità e minimizzare i rischi di queste nuove straordinarie tecnologie digitali, emerge fin dal titolo del rapporto appena messo in rete dai 38 membri dell’organismo (unico italiano il francescano Paolo Benanti, studioso di etica della tecnologia e docente della Pontificia università Gregoriana).

Una bozza che non propone soluzioni

Il documento non propone ancora soluzioni specifiche ma definisce i problemi da affrontare e indica le metodologie che verranno seguite nel prossimo anno per tentare di risolverli come nelle intenzioni del Segretario generale delle Nazioni Unite: quando, a ottobre, Antonio Guterres ha istituito questo nuovo organismo, ha chiesto agli esperti di proporre soluzioni concrete in un rapporto finale da presentare entro la fine del 2024, ma ha anche sollecitato la pubblicazione, già alla fine del 2023, di un documento nel quale fissare obiettivi e metodi di lavoro. La commissione, copresieduta dall’americano James Manyika (vicepresidente di Google/Alphabet) e dalla spagnola Carme Artigas (ministro della digitalizzazione del governo di Madrid) e che ha come relatore il politologo di Eurasia Ian Bremmer, ha scelto di non affrontare singolarmente le opportunità offerte dall’AI e i numerosissimi rischi (da quelli sul futuro del lavoro e dell’istruzione a quelli della «guerra automatica» fino a possibili minacce esistenziali per l’umanità), preferendo inquadrare tutte le problematiche in una griglia fatta di 5 principi-guida e di una serie di funzioni per tradurre questi criteri in azioni concrete e coordinate: con l’obiettivo di omogeneizzare, per quanto possibile, sviluppo e applicazione delle nuove tecnologie nelle varie parti del mondo e di creare standard tecnici e normativi comuni, in modo da creare una vera interoperabilità dei sistemi. Fissando, al tempo stesso, criteri comuni di sicurezza per il controllo di una tecnologia che può essere usata anche come arma e che, teoricamente, potrebbe diventare essa stessa una minaccia per l’umanità se sfuggirà al suo controllo.

I 5 principi cardine

Le intenzioni sono buone: i 5 principi fanno riferimento alla tutela dei diritti e delle libertà individuali, alla necessità di armonizzare le regole allo studio o già varate in alcune parti del mondo per creare una governance dell’AI equa e indirizzata alla sostenibilità ambientale, il tutto restando nella cornice della Dichiarazione dei Diritti Universali dell’Onu. Ma tradurle in atti concreti è impresa ciclopica per la complessità dei problemi, la rapidità con cui la tecnologia evolve e, soprattutto, per il clima di contrapposizione tra grandi potenze e varie aree del mondo che rende sempre più difficile ogni forma di cooperazione.

Il lavoro della commissione

La commissione ne è consapevole, ma sa anche che l’Onu, unico foro di confronto comune riconosciuto da tutti i Paesi, anche se spesso incapace di decidere per via dei veti incrociati, è anche l’unica sede nella quale questo dialogo può prendere quota. Come? Individuando interessi, come quelli di sicurezza, che sono comuni a tutti i Paesi e replicando i modelli di cooperazione già esistenti negli organismi internazionali che regolano materie come l’analisi dei mutamenti climatici, le telecomunicazioni, il traffico aereo planetario, l’uso dell’energia nucleare, i sistemi internazionali di pagamento e quelli per la stabilità dei sistemi finanziari.
In concreto: si parte dall’ipotesi di creare un osservatorio analitico globale per coordinare le ricerche sugli aspetti critici dell’impatto dell’intelligenza artificiale nelle varie aree, sul modello dell’IPCC, la commissione Onu sul clima, mentre per la fissazione di standard tecnici globali ci si ispira alle esperienze dell’ICAO (l’organizzazione mondiale dell’aviazione civile) e dell’ITU (telecomunicazioni). Per le regole di sicurezza e la relativa sorveglianza si guarda, poi, all’esperienza IAEA (energia nucleare).

Il lungo percorso

Tante buone intenzioni e una road map. Vedremo nel prossimo anno se gli esperti venuti da ogni parte del mondo (Cina compresa), che ora apriranno una fase di confronto con le varie componenti delle comunità – dalle imprese ai lavoratori gli organismi della società civile – riusciranno a tradurre i propositi in proposte concrete. E fino a che punto i governi del mondo saranno disposti ad accettare regole comuni.