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RESILIENZA, CAPITALE SOCIALE E ISSUE MANAGEMENT PER UNA COMUNICAZIONE RESPONSABILE

Una riflessione sulla comunicazione di crisi nata dai due terremoti che hanno colpito L’Aquila e l’Emilia, con il contributo di numerosi soci Ferpi. La lettura di Toni Muzi Falconi alla luce dei temi di resilienza, capitale sociale e issue management.

Quale descrizione più convincente del diffuso paradigma per cui la comunicazione-con è (quasi) sempre più efficace dellacomunicazione-a… di leggibile nell’appena uscito “Disastri Naturali: una comunicazione responsabile?” (Bologna University Press, 2016), quando Massimo Alesii si sofferma sulla diversità dei modelli che hanno caratterizzato il governo della comunicazione nei due terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia?
Diffusa “resilienza comunitaria” in quest’ultimo e “centralismo comunicativo” nel primo.
Nonostante il recente deperimento degli indicatori relativi al capitale sociale del territorio emiliano, emerge ben chiaro dal racconto di Alesii il diverso spessore di resilienza (“legameria sociale”, la chiama argutamente nel libro un partecipante a un focus dell’Università di Modena e Reggio Emilia). Una resilienza alimentata da reti sociali orizzontali, peer-to-peer, ove è la comunicazione a orientare la qualità delle relazioni e non il contrario, come nel caso dell’Abruzzo dove la comunicazione fu esercizio di potere (politico) e di persuasione (mediatica).
Né conosco rendicontazione più aggiornata e vivace sulla utilità della “prevenzione di crisi” e poi -quando la crisi scoppia- sulle modalità della sua comunicazione, argomentata in questo lavoro da Luca Poma, con la insolita e benvenuta aggiunta di una intrigante suggestione del piano di crisi come “antifurto”, a tutela delle relazioni con gli stakeholder, quasi “copertina’ di Linus”.
In più, dando per scontato che mai una crisi si presenta proprio come era stata prevista, Poma aggiunge anche che l’esercitazione costante è sempre e comunque essenziale perché arricchisce il valore della prevenzione, focalizzando l’attenzione più sul “quando” e sul “come”, che non sul “se” operare.
Considero poi di inusitato livello la essenziale e asciutta lucidità del testo di Sergio Vazzoler quando descrive valori, dinamiche e importanza della comunicazione ambientale per il rafforzamento della partecipazione sociale ai processi decisionali pubblici (è di questi giorni finalmente il primo ingresso ufficiale della Commissione Europea nella elaborazione di una politica di “debat public”).
Basterebbero questi elementi a consigliare la lettura di questa opera – in larga parte dovuta alla passione e la competenza diBiagio Oppi e Stefano Martello – non solo agli studenti universitari, ma a tutti i professionisti, consulenti e dipendenti; giovani, maturi, nuovi vecchi e anziani (come è l’autore di questa nota) che per vivere si occupano di relazioni tramite strumenti e canali di comunicazione. E sono ormai quasi 150 mila nel nostro Paese.
Ma questa opera non finisce qui: le ricche, curiose e stimolanti testimonianze di Fabio Montella e Monica Argilli; insieme all’inedita metodologia di analisi e riflessione prodotta dagli studiosi dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ne fanno una lettura davvero originale nel panorama piuttosto banale e ripetitivo della nostra pubblicistica.
Per parte mia, provo ad aggiungere, se possibile, qualche ulteriore valore al lavoro dei miei colleghi, ripercorrendo quel particolare filone delle relazioni pubbliche noto come “issue management”.
Un filone che, soprattutto nella sua accezione “organizzativa”, appare particolarmente adatta a consolidare e rafforzare l’impianto narrativo di questo bel lavoro, nel tentativo di offrire spunti e indicazioni operative a chi dovrà occuparsi delle inevitabili crisi prossime venture.
Nel 1976 lo statunitense Howard Chase – professionista assai vicino al Presidente Eisenhower, e uno dei sei fondatori della Public Relations Society of America – pubblicò un lavoro indicando con il nome di “issue management” una interpretazione della comunicazione d’impresa come ‘colla’ che tiene insieme l’organizzazione composta da network di relazioni.
Si tratta, ancora oggi, del livello più avanzato e maturo di integrazione delle relazioni pubbliche come costitutive della funzione di direzione.
In breve: qualsiasi organizzazione identifica, monitora e orienta – in funzione dei propri obiettivi, caratteristici e unici – le diverse dinamiche delle ‘variabili’ sociali e culturali e dei ‘fattori’ economici e tecnologici che ne influenzano il raggiungimento.
Gli “early adopters”, anche a causa della crescente regolazione pubblica cui venivano sottoposte nella seconda metà degli anni settanta, furono le grandi imprese del tabacco e dell’alcool, delle armi e della tecnologia.
In assoluto all’avanguardia fin dal 1976, la IBM, specialmente in Europa dove le regolazioni dei singoli mercati erano le più diversificate.
Fu allora, nel 1980, che un gruppo di brillanti giovani ex IBMers britannici (Ian Dauman, John Stopford, Geoffrey Morris e Dick Van Den Bergh) fondarono una società di consulenza strategica (Matrix limited) i cui primi clienti furono la Philip Morris e la Shell (!!).
Lo schema organizzativo, parallelo e contemporaneo a quello tradizionalmente gerarchico e verticale, è a matrice: massimo dieci ‘issue’ selezionate incrociando la loro importanza e urgenza. Per ciascuna issue una squadra coordinata da un issue manager e composta da un analyst, un advocate e un account, con ruoli intercambiabili in funzione delle singole competenze e abilità.
L’account segue con attenzione le dinamiche interne dell’organizzazione e come queste impattano sulla specifica issue; l’advocate è l’esperto della rappresentazione presso i regolatori e gli influenti; l’analyst è invece l’esperto della materia specifica; mentre l’issue manager formula la definizione e l’aggiornamento continuo di una policy per ciascuna tematica, assicurando la funzionalità del lavoro collettivo.
La squadra “scorrazza” su e giù e attraverso l’organizzazione formale, con tutte gli immaginabili conflitti ma anche arricchimenti culturali interni stimolatori di straordinari risultati sul campo.
In Italia, nel 1981, nacque la Intermatrix Italia, un srl con azionisti, insieme alla Casa Madre inglese: la Scr Associati (leader nelle relazioni pubbliche); Methodos (leader nella formazione manageriale); il consulente di direzione Mario Unnia; l’economista Antonio Martelli; i sociologi Enrico Finzi e Renato Mannheimer; e il ricercatore Gadi Schonheit. Insomma una gran bella squadra.
Fra i primissimi clienti, la Xerox Italia che, complice il capo della comunicazione Paolo Pasini, commissionò alla neonata società la stesura di un “manuale di issue management” che negli anni successivi ebbe ampia distribuzione soprattutto in ambienti confindustriali andando ad arricchire soprattutto la cultura manageriale del movimento dei giovani imprenditori.
Rimango convinto che l’issue management, nella sua formulazione culturale e organizzativa, rappresenti oggi la metodologia di direzione che meglio integra le logiche fuzzy e relazionali indotte dalle tecnologie prodotte dalla globalizzazione, la società a rete e le rivoluzioni del sistema dei media e del discorso pubblico.
Concludendo, ogni riflessione operativa intorno alla resilienza di un territorio in preparazione (o in presenza) di turbamenti materiali, economici, sociali e culturali costituisce grazie all’esperienza dell’issue management un forte valore aggiunto al capitale sociale di un territorio.




ALGORITMI

Una traccia redatta a quattro mani da Michele Mezza e Toni Muzi Falconi per l’avvio di una possibile riflessione sul tema degli “algoritmi” in Italia e nel mondo. In vista di due incontri sul tema a Roma e Milano.


Mezzo secolo di sociologia dei consumi ci ha insegnato (almeno questo!) che il solo insorgere dei desideri e delle necessità segnala qualche subalternità verso chi li soddisfa.
Ecco allora alcune domande chiave le cui risposte consentono di acquisire un minimo di consapevolezza intorno alla dialettica sociale indotta dal digitale: possiamo ritenere ‘oggettiva’ la struttura semantica dei colossi digitali sapendo che linguaggi, modalità di accesso, selezioni dei contenuti, sistemi di catalogazione sono tutti  elementi ignoti e  privi di opzioni alternative?  Chi “negozia” l’algoritmo? Con chi? Con quali valori e interessi ?
E poi, quella delega generale affidata alla potenza computazione che standardizza i problemi e indicizza le soluzioni, non conduce ad una omologazione della conoscenza?
Qualche giorno fa il rappresentante legale di Facebook ha inviato una lettera al presidente della commissione commercio del senato degli USA John Trune spiegando che le accuse di manipolazione semantica e cognitiva ai sistemi automatici che smistano sul suo social le informazioni si devono solo a “possibili ma isolate azioni di qualche singolo tecnico  che collabora ai progetti di ricerca di Facebook per colmare il gap fra quello che un algoritmo può fare oggi e quello che ci auguriamo potrà fare in futuro”.
Questo gap è oggi forse al centro di una competizione globale di più vasta portata che ci coinvolge tutti. L’anedottica è pressante. L’automatizzazione delle attività discrezionali, quando si intreccia alla potenza di profilazione e personalizzazione delle offerte, altera le relazioni sociali e le forme linguistiche di intere comunità, come spiegava recentemente un approfondimento della Harvard Business Review.

La posta in gioco

Si gioca una partita che forse sovverte la gerarchia uscita dalla rivoluzione industriale.
La smaterializzazione dei valori e del consumo, insieme alla materializzazione  della conoscenza grazie alla comunicazione, trasforma il semplice utente in una figura potenzialmente forte, proprio per la sua inedita capacità di attribuire senso comune e credito sociale al senso del racconto, al servizio o al prodotto. Sicuramente affida ad una nuova funzione, quella del service provider, il ruolo di predisporre e incanalare le nostre richieste più personali.
Del resto, se da un lato l’utente chiede sempre maggiore personalizzazione, dall’altro il distributore di servizi e contenuti si sostituisce ai mediatori tradizionali con una offerta in larga parte gratuita, in cambio di una passiva omologazione a quei sistemi intelligenti  per cui, a fronte di una velocizzazione del servizio,  ogni sistema editoriale, ogni data base, ogni  dizionario impone un allineamento a logiche, linguaggi e discipline indotte da procedure algoritmiche ignote all’utente.

I nostri tesoretti

In una economia sempre più intrecciata alla rete sembrerebbe prodursi un riequilibrio nel rapporto fra produttore e consumatore a favore di quest’ultimo.
Per esempio: la web reputation – per cui il giudizio e le esperienze di persone che conosciamo diventano trasmissibili e consultabili riducendo così l’imprevisto di una nostra scelta grazie ai giudizi di chi quella scelta l’ha già fatta.
Per esempio: il data mining – quel processo che mediante software sofisticati ma facilmente accessibili, ci permette di raccogliere grandi quantità di dati inerenti le nostre scelte  di consumo e quindi di ricostruire profili altamente aderenti alla nostra persona, arrivando così a decifrare anche le condizioni e le premesse per decisioni future.

Eppure

Nella tradizionale relazione produzione/consumo si sono introdotti nuovi soggetti e le nostre attività quotidiane sono sempre più scandite e mediate da entità quali il software e il server. E questo rende asimmetriche le relazioni e i legami sociali.

E noi?

Queste dinamiche ci vedono socialmente esposti su vari fronti.
Uno è il settore Pubblico. Man mano che le Amministrazioni Pubbliche procedono nella digitalizzazione dei  servizi e delle identità di cittadinanza, cresce troppo lentamente una diversa cultura del controllo e del confronto sulle soluzioni adottate. Quali sono le piattaforme scelte? In base a quali modelli comportamentali funzionano? Che garanzie di autonomia e di sovranità assicurano alla comunità? Insomma, usando i nuovi dispositivi chi acquista poteri? Lo stato, Il cittadino o il gestore del sistema tecnologico?
Un altro è il settore Privato. Come si configurano le transazioni digitali? Chi controlla i dati che rilasciamo? Chi misura il modo in cui questi dati producono ricchezza ulteriore?
Pare maturo negoziare forme di discussione con i network  per arrivare ad una esplicitazione concordata dei diritti, dei doveri e dei poteri del cittadino/utente consumatore capace di ‘pungolare’ (nudge) gli imperi tecnologici verso rapporti trasparenti di reciprocità: per esempio, tu usi gratuitamente i miei dati se però io posso usare gratuitamente la tua potenza di calcolo.
 




José Mujica: "Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una"

“Appartengo a una generazione che ha voluto cambiare il mondo, ma che ha commesso il terribile errore di non volere cambiare prima se stessa”.
José Mujica, l’80enne ex presidente dell’Uruguay che durante l’epoca della dittatura fu imprigionato per 15 anni in una cella di isolamento, ha una visione del mondo piuttosto chiara. Il lungo periodo in carcere gli ha permesso di pensare molto e, in occasione dell’inaugurazione del Congresso sulla Saggezza e sulla Conoscenza organizzato dalla stazione radio spagnola Cadena Ser a Cordova, ha illustrato alcuni cardini della propria concezione dell’esistenza.

In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ció che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere. Per questo, ciò che più mi offende oggi è la poca importanza che diamo al fatto di essere vivi.

Da quando, qualche mese fa, Mujica ha smesso di governare il proprio Paese, ha iniziato a viaggiare parecchio ed è diventato un punto di riferimento per diverse persone. Molti apprezzano le sue idee, il suo modo di essere semplice e il suo parlar chiaro.

Essere anziano è un vantaggio, perché da giovane uno può montarsi la testa con tutti questi elogi. Però non sono né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25 anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida telefonica a Seneca.

Il filosofo romano vissuto a Cordova è stato una costante nel discorso dell’80enne. “Seneca affermava che non è povero chi ha poco, ma chi desidera molto”. Mujica si è cosí concentrato sull’economia di mercato e su un sistema di crescita basato sul consumo.

Io lotto contro l’idea che la felicità stia nella capacità di comprare cose nuove. Non siamo venuti al mondo solo per lavorare e per comprare; siamo nati per vivere. La vita è un miracolo; la vita è un regalo. E ne abbiamo solo una.




Richard Dickson di Mattel: il potere di un giocattolo come Barbie

Il presidente di Mattel racconta al Wired Next Fest come Barbie sia riuscita a rimanere un’icona per 70 anni, ascoltando il suo pubblico


Come resti sulla cresta dell’onda con un giocattolo degli anni ’60? Ce lo ha spiegato al Wired Next Fest 2016 Richard Dickson, presidente e Coo di Mattel.
Certi oggetti raggiungono col tempo lo status di “icone senza tempo”, ma la verità è che il tempo è uno dei fattori più importanti non solo per l’uomo, ma anche per i marchi, soprattutto quando ti chiami Mattel, sei nel giro da 70 anni e devi affrontare un periodo molto particolare per il mondo dei giocattoli.
Il tempo passa, ma più o meno i bambini hanno la propria giornata scandita sempre dai soliti ritmi: dormono un certo numero di ore, devono andare a scuola, fare eventuali attività sociali e così via. Tuttavia quella piccola porzione di tempo che possono dedicare al gioco, quei momenti che valgono oro per qualunque azienda del settore, sono stati completamente stravolti. Senza contare i centinaia di migliaia di giocattoli disponibili abbiamo i videogiochi, i social, la televisione, YouTube, i tablet, stimoli su stimoli che si accumulano e si contendono l’attenzione dei bambini e che allo stesso tempo devono convincere i genitori, come si può spiccare in questa giungla selvaggia?
Per spiegare la ricetta del successo, Dickson ha utilizzato Barbie,forse il marchio più famoso e longevo di Mattel. Prima di diventare un’icona pop degna di finire in un museo, Barbie è stata un giocattolo innovativo, uno dei primi a venire pubblicizzato in quella strana bestia che era la televisione nel 1964. Da quell’anno “Barbie non è mai rimasta ferma, ha iniziato a far parte di molte vite, interpretando lo spirito del tempo attraverso lo stile e la cultura del momento”.
Anche se le più vendute rimangono quelle che indossavano abiti da fiabia, abbiamo avuto la Barbie vestita come Jackie Kennedynegli anni ’60, la Barbie Malibu negli anni ’70 e una Barbie molto più in carriera nei ’90. In ogni epoca la bambola ha rappresentato uno strumento per far vivere alle bambine il ruolo e il mondo che volevano.
Ma col tempo questo potere è andato impoverendosi, pensiamoci bene, quante volte abbiamo visto la Barbie associata al concetto diragazza stupida, vuota, una bambola appunto, se non addirittura un’idea femminile assurdo e irraggiungibile che forzava le nuove generazioni a standard esagerati.
A questo punto Mattel è dovuta correre ai ripari, cercando di mantenere il senso di aspettativa e meraviglia. Per farlo ha dovuto capire ancora meglio che se vuoi vendere un giocattolo devi parlare a due tipi di pubblico: i bambini, che lo desiderano, e igenitori, che lo approvano.
Un lavoro di raffinamento del messaggio nato da ricerche di mercato e dall’intuizione di capire che un brand non deve solo riflettere la cultura del suo tempo, ma ispirarla, andando, se necessario, contro i propri valori tradizionali.
Una Barbie che vuole essere al passo coi tempi dev’essere diversa,inclusiva, ma anche individuale. Deve saper riflettere l’esigenza dei bambini di sentirsi rappresentati, deve aiutarli a scoprire la propria identità, sviluppando un’immagine di se stessi sana, apprezzando le mille diversità del mondo.
Per questo Barbie ora è disponibile molte più forme del viso, colori dei capelli, corporature, tratti facciali e tonalità della pelle. Per questo i suoi piedi non sono più modellati in modo che possa indossare solo scarpe col tacco. Il giocattolo ha vissuto un profondo ripensamento che ha cambiato il suo ruolo, da modello da imitare a sostegno alla propria personalità.

Inoltre Mattel ha anche lanciato il programma Shero, ovvero omaggiando alcune donne particolarmente forti ed eroiche con una bambola a loro dedicata. Per questo l’azienda ha avviato un profondo dialogo con le mamme di tutto il mondo, ascoltandole e informandole su come la figura di Barbie stava cambiando. Il risultato di questo profondo ripensamento è uno spot che è stato uno dei più visti del 2015 e ha fatto incetta di premi in ogni festival dedicato all’advertising.
Dunque quale può essere la ricetta di lunga vita per un giocattolo? – ha concluso Dickson – Diventare strumento di miglioramento, trovare uno scopo, aspirare a cambiare il mondo e mettere tutto ciò anche di fronte alla tradizione, se necessario”.




Una nuova reputazione per banche e controllori bancari

Intervento di Luca Poma al seminario “Una nuova reputazione per banche e controllori bancari”. GRUPPO FEDERICO CAFFE’ & ASSOTAG – FONDAZIONE BASSO.

ROMA, 26/04/2016


Vorrei iniziare il mio intervento parlando di viaggi. Di mete turistiche. Siamo tutti un po’ stressati: a chi non piace evadere dalla routine? Se vi recaste subito dopo la fine di questo incontro in un agenzia viaggi, vi sentireste proporre destinazioni come Maldive, o Fiji, o capitali del nord Europa. Per i più “coraggiosi”, magari in Oman, che nonostante le tensioni con il mondo musulmano va molto di moda…
Sicuramente ci scommetto, nessuno vi proporrebbe Detroit, l’ex capitale USA dell’automotive, un po’ in disarmo. Una città in crisi. Eppure come suggerisce il filosofo svizzero Alain de Botton in un recente articolo sul Financial Times, una gita a Detroit farebbe bene a molti. Magari sul West Oakman Boulevard. De Botton fa questa osservazione provocatoria: “se vi dicessi che per qualche ragione tra 700 anni la Tate Gallery non esisterà più, interesserebbe a qualcuno?”.
Quando hanno costruito il Colosseo, non si sono posti il problema di quando sarebbe crollato: dopo millenni. Sono i normali tempi della storia. Ma sul West Oakman Boulevard di Detroit 8 anni fa c’era vita, nonostante i problemi che da decenni affliggevano la città: c’erano coppie che arredavano la cameretta dei bambini, ridipingevano casa e pensavano al futuro. Oggi, lì, si compra all’asta una villetta con poco più di mille dollari. Una gita a Detroit farebbe bene a tutti, per ricordarci “quanto le cose cambiano in fretta” nel mondo di oggi.
Le cose cambiano in fretta. Tra i pochi che paiono non averlo capito, ci sono i principali protagonisti delle istituzioni di controllo finanziario. Cito dichiarazioni, uscite in recenti articoli sulla dialettica Roma/Bruxelles: I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato, e ciò, in questa misura, è successo soltanto in Italia. La Banca d’Italia non ha presentato a Bruxelles alcuna stima del reale valore economico dei crediti in sofferenza e quindi i tecnici UE hanno applicato il loro metodo standard, che impone una svalutazione massiccia”. Non voglio entrare nel merito delle dinamiche Roma/Bruxelles e dei torti e delle ragioni, ma a leggere questo, pare che la reputazione sia l’ultimo dei problemi dei nostri organismi di controllo finanziario…
E richiamo nuovamente anche l’intervista del DG Bankitalia già citata da chi mi ha preceduto: “Si poteva fare meglio; il mondo è cambiato; la comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa; stiamo imparando”. Ricordiamo che le parole sono i vestiti dei nostri pensieri: cosa sta pensando quindi il Dott. Rossi?
“Stiamo imparando”: con calma, verrebbe da dire… Leggasi: c’è stato il terremoto, lo sapevamo, non ve l’abbiamo detto per “n” motivi, voi (voi!) avete perso tutto o parte del Vostro patrimonio. Ok, abbiate pazienza, la prossima volta forse – forse! – faremo meglio…
E per carità: che i mass-media non disturbino il manovratore…! Cito un altro vigolettato: “Uno degli indici più preoccupanti dell’accrescersi nel nostro Paese di una situazione di “regime” è costituito dall’aggravarsi del conformismo dell’informazione, con particolare riguardo all’informazione economica”. La frase è proprio del Prof. Federico Caffè, al cui nome è dedicato il gruppo di studio che ha contribuito a organizzare l’evento di oggi qui a Roma. Era la fine degli anni ’70.
Da allora non dev’essere cambiato poi molto, dal momento che ho incontrato serie difficoltà a rintracciare articoli recenti della stampa nazionale che ponessero nella giusta luce le vere carenze strutturali del sistema bancario italiano e degli organismi finanziari di controllo dal punto di vista della comunicazione, specie digitale, e del reputation management.
Si fa allarmismo, si “strilla”, ma sempre genericamente: la tal banca è in crisi, quell’altra è sottocapitalizzata, l’altro ha ‘annegato’ la crisi in una fusione. Ma mai che si facciano nomi e cognomi precisi e si individuino responsabilità circostanziate. E qui tante volte il peccato più che di commissione è di omissione, ma non è meno grave, perché come ci ricorda il Vangelo secondo Matteo “il giudizio finale avverrà tutto su peccati di omissione”.
E dire che già nella preistoria del web, nel 1997, il Comitato di Basilea sottolineava che “Il Rischio di reputazione deriva da disfunzioni operative, dal mancato rispetto delle leggi e dei regolamenti, come anche da altre fonti: il rischio reputazionale è particolarmente dannoso per le banche, poiché la natura della loro attività richiede il mantenimento della fiducia dei depositanti, creditori e del mercato generale”. Lo scrivevano 20 anni fa.
A tutti interessa la propria reputazione, cosa dicono gli altri di noi. Saltiamo subito sulla sedia se ci Googliamo e intravediamo qualche criticità, qualche recensione negativa. Il che – esaminando lo scenario delle banche italiane – equivale a dire che nostra moglie entra in casa, trovando la porta aperta, tutta la casa svuotata e sottosopra, e noi sereni sereni seduti sul divano a berci un bicchiere di vino leggendo il giornale… “Caro, ma cosa è successo!”. “Niente amore, sono passati i ladri”. Questo è l’atteggiamento sul tema della reputazione, largo circa. Ci si pone eventualmente il problema sempre “fuori tempo massimo”.
Ci infastidiamo, se parlano male di noi, quindi, ma dio ci scampi dal fare le poche essenziali cose che farebbero in modo che nessuno avesse motivi per parlar male di noi! Qual è il problema? Stimolare troppo la plasticità della nostra rete neurale ci affaticherebbe?
A proposito di reti neurali, nel 2008 pubblicai un breve saggio che incrociava temi come la logica aristotelica e la logica fuzzy. Oggi, a distanza di anni, vi dico che quell’analisi si può tranquillamente applicare anche al management della reputazione. Esistono un valore 0 e un valore 1, e non è che la reputazione di un Istituto bancario “esiste o non esiste”, o è buona o cattiva… questa sarebbe la logica Aristotelica. Invece tra zero e uno vi sono infiniti valori di verità. Infiniti-valori-di verità. Uno non è che o è vivo o è morto: dagli 0 ai 90 anni succedono delle cose…
Ebbene, sono proprio queste le cose delle quali nell’establishment finanziario nessuno si occupa: e dire che c’è una sensibilità, ci sono delle tecniche, il reputation management ormai è codificato, non dico che è una scienza, perché di assoluto della gestione delle imprese non c’è nulla, ma poco ci manca. Allora perché anche se tutti sanno cosa bisognerebbe fare oggi per non avere problemi di reputazione, e quindi di valore di borsa, nessuno lo fa, o pochi lo fanno…?
Proviamo a dare una risposta a questa importante domanda. In una mia recente intervista sull’Harvard Business Review – peraltro pubblicata grazie a una segnalazione di Toni Muzi Falconi, colgo l’occasione per ringraziarlo nuovamente – l’economista Stefano Zamagni ha dichiarato: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Beh, potrà dar fastidio a qualche manager, ma anche se non esistono gli assoluti io condivido la visione di Zamagni. “Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero – anche se qui, come Consigliere del Presidente di Ferrero, sono di parte – ha fondato la sua impresa, dice Zamagni, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppo pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”. Ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha ricordato Toni Muzi Falconi per certi analisti le banche hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS.
Cosa fare? Ma lo devo dire a voi, che rappresentate quasi tutti realtà strutturate e organizzazioni complesse? Eppure le cose da fare in prima battuta sarebbero davvero poche, essenziali, per certi versi non difficili da realizzare… qualunque buon reputation manager – e ce ne sono anche di ben più bravi di me – saprà indicarvi la strada. Forse facendovi pagare parcelle a 6 zeri, lo auguro a lui, chiunque sarà, perché è chiaro che più perdete tempo adesso, più si compromette lo scenario, e più dovrete pagare dopo per recuperare il vantaggio competitivo perduto.
Quindi lasciamo perdere cosa si potrebbe fare dal punto di vista tecnico, spendiamo invece due parole sul perché bisognerebbe smetterla di perdere tempo.
Ad esempio perché il Reputation Institute, che sicuramente tutti conoscete, ci dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da assets intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. Alla faccia del valore intangibile, della reputazione come asset “intangibile”… Permettemi la provocazione, a me pare assai tangibile: andatelo a dire a chi ci ha rimesso il proprio patrimonio personale in Volkswagen che la reputazione è un valore “intangibile”. Cosa c’è di più “tangibile” oggi come oggi della reputazione? La reputazione orienta tutti i comportamenti di acquisto, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity…
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora “con la diligenza del buon padre di famiglia”, per citare il codice Grandi del 1942; il manager che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finchè gli fa comodo, e incassa – è un manager traditore.
Ai traditori durante la guerra si sparava, pure girati di spalle, e se c’è qualcuno che pensa che l’importante sia solo fare profitto oggi, e la reputazione la vedremo un’altra volta, forse quella è la fine che merita, perché così facendo genera direttamente o indirettamente macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
Basta con la “deresponsabilizzazione” nel mondo del management e della finanza: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti… ebbene io non ci credo: ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, delle persone che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni, che non agiscono (anche) per il bene generale pur trovando una giusta contemperazione con i loro interessi particolari, ma che – non sapendo e non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone credetemi qualcuno prima o poi chiederà conto.
Bene. Niente punizioni corporali per questi comportamenti, c’è stata nel frattempo la Universal Declaration of Human Right, però a quel tipo di manager – permettete – perlomeno venga portato via tutto ciò che possiede. Tutto. Neanche la casetta al mare deve restargli: punirne uno per educarne cento. Idem quei signori degli organismi finanziari di vigilanza che non vigilano sulla reputazione delle banche – ovvero sull’etica dell’amministrazione, le due cose casomai fosse sfuggito sono direttamente correlate, non è che la reputazione si ottiene con campagne di marketing e pubbliche relazioni e basta! – e che quindi pregiudicano irrimediabilmente anche la reputazione dell’organismo di vigilanza che rappresentano, per ricollegarmi a quell’assurda e surreale dichiarazione del DG della Banca d’Italia.
Concludo con una riflessione nata da una frase che mi ha colpito, di un grande attore italiano, Toni Servillo, che la maggior parte delle persone hanno conosciuto per “La grande bellezza” o per altri titoli di cinema, ma che innanzitutto è – da sempre – un valente attore di teatro.
In una recente intervista Servillo dichiara: “Faccio fondamentalmente teatro perché il palcoscenico è il luogo dove verifico la tenuta della relazione con il mio mestiere, cercando di far coincidere me stesso con quello che faccio”. Curioso, direi: lui ha la passione per il suo lavoro, quindi esso coincide con quello che lui è nel profondo…
Ci si aspetterebbe da un attore un discorso sul Doppelganger, sul calarsi nella parte, in poche parole sull’artificiosità dell’essere attore. Invece Servillo riporta la nostra attenzione su ciò che c’è di più centrale nel discorso sulla reputazione: l’autenticità.
C’è un certo conformismo, mi pare, sul tema della reputazione: guardiamo guardinghi cosa fanno gli altri, e li imitiamo. Se lo fa quella banca che è una best-in-class (ma dove poi? Spesse volte solo sulla carta… quante organizzazioni pluripremiate per la CSR poi erano “due aziende in una”, una dedita a mietere premi, l’altra a truffare sulla rendicontazione…), ebbene, guardo cosa fanno gli altri e lo faccio anch’io.
In buona sostanza quello che si fa è di “guardare fuori”, invece di “guardarci dentro”, e finiamo – per citare Arthur Schopenhauer, per “Perdere tre quarti di noi stessi nello sforzo di essere come gli altri”.
Invece proprio dal guardarsi dentro dovrebbe ripartire un discorso sulla reputazione. Riscopriamo chi siamo; qual’era il sogno che ha animato l’imprenditore quando creò l’azienda per la quale lavoriamo; quale contributo concreto possiamo dare noi oggi per raggiungere quel sogno. Facciamo ciò che è meglio per la reputazione della nostra azienda, e così facendo valorizzeremo anche la nostra buona reputazione di manager.
Non è più complicato di così. Grazie.