Bilancio Sociale FIGC, Abete: Fatti passi in avanti

Una fotografia dello stato di salute del calcio italiano, che attraverso l’analisi delle attività svolte dalla Figc e dalle sue componenti illustra tutti i numeri e i momenti salienti… del 2012, ma anche alcune delle iniziative più significative del 2013, dall’incontro con Papa Francesco in occasione dell’amichevole di agosto con l’Argentina al recente allenamento della Nazionale a Quarto, sul campo della squadra sottratta al controllo della Camorra e affidata ad un’associazione antiracket. E’ stato presentato questa mattina a Roma, presso la Sala Polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Bilancio Sociale Figc 2013, seconda edizione del documento realizzato con il contributo della UEFA e redatto in collaborazione con PricewaterhouseCoopers che analizza l’attività, l’identità e la mission della Federcalcio, il suo ruolo nel sistema sportivo, ma anche nel tessuto sociale del Paese. “E’ il bilancio di tutto il mondo del calcio – ha spiegato il direttore generale della Figc Antonello Valentini – e quest’anno all’interno troverete anche il resoconto di quanto è stato fatto dalle nostre componenti. Questo documento vuole essere la testimonianza dell’impegno civile e sociale in cui crediamo. Grazie a tutti gli uffici federali, che con la loro collaborazione determinante hanno reso questa seconda edizione più completa, ricca e documentata della precedente”. Non mancano le note positive, dall’aumento del numero dei tesserati (1milione e 359 mila nel 2011/2012 rispetto al milione e 342 mila del 2010/2011), al calo costante degli episodi di violenza negli stadi (si è passati dai 148 incontri con incidenti su 2289 partite nel 2005/2006 ai 60 incontri con incidenti su 2246 gare del 2011/2012). Nel Bilancio trovano spazio anche tutti i numeri che hanno accompagnato gli Azzurri in occasione dei Campionati Europei di Polonia e Ucraina e i dati relativi a tutte le componenti, dall’Associazione Italiana Arbitri alle Leghe (Serie A, B, Lega Pro e LND), con un occhio di riguardo allo sviluppo del Settore Giovanile. Grande attenzione inoltre al tema della responsabilità sociale, dall’impegno nella lotta al razzismo alle campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, la mortalità infantile, l’emergenza dopo il violento terremoto che ha colpito l’Emilia Romagna, la tutela degli animali e tanto altro ancora. Iniziative che hanno visto gli Azzurri di Prandelli sempre in prima fila, con gli allenamenti a Medolla e Quarto, la visita ai campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau, fino all’impegno al fianco dei ragazzi di Special Olympics. “Bisogna dire bravi alla Figc – ha dichiarato il presidente del Coni Giovanni Malagò – perché questo impegno, nel pubblicare ogni anno il bilancio sociale, fa onore alla Federazione. Una cosa di cui c’è da essere orgogliosi, per questo esigo che anche il Coni faccia il suo Bilancio Sociale. E’ un nostro dovere. Vista la morbosa e maniacale curiosità mediatica che ruota attorno al calcio, l’idea di avere una volontà di precisione, trasparenza e impegno è il miglior biglietto da visita per la governance della Figc. Questo prodotto negli anni sarà sempre più di qualità”. Il presidente federale Abete ha ringraziato il Coni e ha voluto ricordare l’impegno nel mondo del calcio dell’ex capo della Polizia Antonio Manganelli e di due grandi dirigenti sportivi come Mario Valitutti e Lorenzo Righetti, quest’ultimo scomparso proprio ieri all’età di 83 anni: “Il Bilancio Sociale – ha spiegato il numero uno della Federcalcio – ha assunto quest’anno una dimensione più organica, facendo un piccolo ma significativo passo avanti. E’ un percorso che non ha mai fine, le cose da fare sono tantissime e le nostre forze sono limitate, ma la direzione è quella giusta. La dimensione del nostro calcio deve essere positiva e noi, nel nostro piccolo, abbiamo sempre cercato di essere presenti nelle zone dove ci sono state difficoltà, da Rizziconi a Medolla, fino all’ultimo allenamento della Nazionale sul campo di Quarto”. Un impegno nel sociale, quello della Federazione e degli Azzurri, caldeggiato da Don Luigi Ciotti: “Ci siamo conosciuti quando ho proposto alla Nazionale di venirsi ad allenare a Rizziconi e avete accettato venendo a giocare in quel campetto. Grazie a quel gesto è stato possibile costruire un percorso nuovo e 250 ragazzi hanno potuto finalmente frequentare la scuola calcio. Ho letto attentamente il Bilancio Sociale e ho notato come molti progetti abbiano una valenza culturale ed educativa”.


IL LUSSO A SCUOLA DI CINEMA…E DI CSR

Intervista a Marcello Foti, Direttore Generale del Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, sulla partnership con il colosso del lusso Louis Vuitton
Direttore, in due parole, storia e missione della vostra prestigiosa struttura.
La Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia (1) è certamente la più importante istituzione pubblica italiana d’insegnamento, ricerca e sperimentazione nel campo della cinematografia. L’idea di realizzare una scuola nazionale di cinematografia in Italia è del regista Alessandro Blasetti e risale al 1930, ma si concretizzò nel 1935 grazie all’intraprendente iniziativa di Luigi Freddi e all’entusiasmo di alcuni studiosi e registi come Luigi Chiarini, Umberto Barbaro, Francesco Pasinetti e Alessandro Blasetti, che fu anche il primo docente del corso di regia. Fra le nostre finalità c’è lo sviluppo dell’arte e della tecnica cinematografica e audiovisiva a livello d’eccellenza, attraverso la Scuola Nazionale di Cinema, che costituisce un incubatore culturale dove confluiscono produttori, registi, fotografi, sceneggiatori, scenografi, attori, montatori, musicisti e tecnici del suono, oltre a esperti della cinematografia digitale, studenti e studiosi di tutto il mondo, e la Cineteca Nazionale, che conserva il patrimonio filmico italiano e si occupa della conservazione, incremento e restauro delle opere. Infine il nostro Centro Sperimentale di Cinematografia, che è tra le più antiche istituzioni d’alta formazione e ricerca nel campo della cultura cinematografica, nonché certamente la più celebre all’estero.
Una delle principali finalità del Centro Sperimentale di Cinematografia (CSC) è anche la sperimentazione di linguaggi innovativi connessi al mondo del cinema…
Si, perché se è vero che cinematografia ormai ha più 100 anni, negli ultimi 20 anni essa è stata oggetto di un ammodernamento dei linguaggi, basti pensare al digitale e al 3D, e questo si riflette anche fortemente sulla struttura dei nostri programmi didattici e sul modo che abbiamo di comunicare la nostra mission.
 
La celebre casa di moda francese Luis Vuitton (2) è recentemente diventata vostra partner, con un interessante progetto di Responsabilità Sociale d’Impresa che è anche un ambizioso progetto di comunicazione. Anche la moda può essere sperimentazione di nuovi linguaggi in ambito cinematografico?
Il matrimonio “moda-cinema” esiste da sempre, attraverso la moda il cinema spesso ha raccontato la nostra società, molto spesso attori e attrici hanno avuto la funzione di veri e propri testimonial per l’affermazione di nuove tendenze anche e soprattutto nel campo della moda: abbigliamento, gioielli, accessori, stili. Il cinema è sempre stata la vetrina d’eccellenza per il lancio di nuove tendenze, e anche in questo senso va inteso questo accordo. Tuttavia in questo caso non siamo d’innanzi ad una banale tentativo di valorizzazione dei prodotti Luis Vuitton: una delle cose che mi ha colpito sin dall’inizio è stato un atteggiamento molto “schivo” da parte loro riguardo all’aspetto puramente promozionale. La maison Vuitton si è avvicinata al Centro Sperimentale di Cinematografia per riaffermare la qualità dell’alta artigianalità: sicuramente è una delle case di moda più famose al mondo, che fa dell’eccellenza un valore fondante del marchio, e con quest’operazione ha voluto legarsi a una delle scuole di cinema più antiche del mondo proprio per testimoniare quanto sia importante in qualsiasi ambito della cultura – ma anche in ambito commerciale – l’alto livello dell’artigianalità.
Come si articola la collaborazione tra Vuitton e la SNC?
Siamo partiti nel 2012, in base a un accordo triennale 2012/2014, e l’intesa prevede di sviluppare tre laboratori di alta artigianalità. Il primo a partire è stato quello legato al costume, diretto dal maestro Piero Tosi e incentrato sull’ esaltazione del costume dal 1860, un’epoca in cui la moda ha avuto un’importanza assai rilevante nel nostro paese, successivamente enfatizzata dal cinema in molte occasioni. E’ stato realizzato un lavoro meraviglioso: abbiamo già una documentazione fotografica che attesta la qualità semplicemente eccelsa di questo lavoro, stiamo confezionando anche un video-documentario, e insieme a Vuitton troveremo anche il modo per pubblicizzare al meglio tutte la fasi di questo lavoro.
 
Esiste un filo rosso che lega la moda al cinema, un codice di valori in comune?
Assolutamente, anche se la massificazione della moda e la creazione di tendenze artificiali, dettate solo dal mercato e non dal gusto, ha contribuito a far perdere quei valori. L’alta sartorialità era una cifra importante fino ai primi decenni del secolo scorso, i nostri nonni ancora si facevano gli abiti “buoni” su misura dal sarto. Con questa partnership abbiamo cercato di recuperare proprio questi valori, che sono anche dei modi di essere dell’impresa, insiti nel DNA di Vuitton, e non sono soltanto dei valori legati alla moda del momento. Quando il presidente della maison Vuitton ci diceva che nella loro azienda è presente ormai solo un unico soggetto che porta il cognome di Vuitton, il quale però si occupa di una parte fondamentale del loro lavoro, e cioè della selezione dei materiali, scelti uno per uno, dei bottoni, dei chiodi per realizzare i bauli… ebbene, quest’atteggiamento potrebbe apparire come eccessivamente meticoloso, ma è invece secondo me la chiave di lettura del successo straordinario di questa grande azienda. Mettere assieme la Scuola di Cinema più famosa in Italia, una delle più famose al mondo, e un’azienda come Vuitton, credo che in questo senso sia stata una scelta vincente.
Non una semplice sponsorship in denaro, quindi, ma un progetto complesso e ambizioso.
Abbiamo realizzato questa intesa triennale a sostegno della giovane cinematografia italiana, e Vuitton ha scelto la nostra scuola dopo averne passate in rassegna diverse in tutta Europa, con l’obiettivo principale di sostenere i giovani. L’anno prossimo sceglieremo insieme un altro tema, molto probabilmente legato alla scenografia, sempre temi che sono vicini alle istanze della Maison. Inoltre Vuitton ha voluto anche costituire due borse di studio triennali, da destinare agli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, particolarmente capaci e meritevoli nei due settori del costume e della scenografia. Direi che per la complessità del progetto possiamo senz’altro parlare di partnership, più che di semplice sponsorship.
 
Quali saranno a vostro avviso le ricadute positive di questa iniziativa?
Per entrambi è una straordinaria opportunità di comunicazione, una grande maison internazionale ha scelto una prestigiosa istituzione pubblica, e il vantaggio sarà evidentemente reciproco, come in ogni accordo che si rispetti. Inoltre questo progetto sarà un’opportunità straordinaria per i nostri ragazzi: chi lavora al laboratorio ha l’opportunità di dimostrare in concreto le proprie competenze e le qualifiche tecniche che ha acquisito in questi anni di studio. Poi la guida del maestro Piero Tosi è un altro elemento, un valore aggiunto importantissimo, non capita tutti i giorni di realizzare un laboratorio sotto la guida di un maestro così importante e così apprezzato in tutto il mondo, e questo rappresenta una ricaduta positiva per tutti i protagonisti del progetto. Poi ci sono anche effetti positivi in un certo senso collaterali: Vuitton ad esempio ha recentemente inaugurato una propria sede, molto bella, a piazza San Lorenzo in Lucina a Roma, e il Centro Sperimentale di Cinematografia attraverso la Cineteca Nazionale ha offerto un importante contributo culturale nella programmazione della piccola sala cinema interna, uno spazio di proiezione che loro hanno realizzato nell’ambito di questa nuova struttura. C’è anche un’altra valenza, quella frose immediatamente meno evidente ma a mio avviso più importante di tutte: quest’accordo dimostra come le grandi aziende – non solo della moda, ma di qualsiasi settore – possono costituire un supporto fondamentale e concreto per l’ulteriore crescita del grande cinema italiano.
(1)   link a www.snc.it
(2)   link a www.louisvuitton.it

 


Moda etica e sostenibile: le 6 buone notizie del 2013

Con il termine “Moda etica” si intende un modo di concepire produzione, vendita al dettaglio e acquisto un capo di abbigliamento o di un accessorio con una nuova attenzione per le condizioni di lavoro, il commercio equo, la produzione sostenibile, l’ambiente e il benessere degli animali.
Perché questo è necessario? L’industria dell’abbigliamento rappresenta una quota enorme del retail mondiale. Con la globalizzazione materiali e manodopera possono essere acquistati in diverse parti del mondo, dove i costi sono molto bassi. Inoltre, grazie all’industrializzazione, i tessuti possono essere prodotti in modo rapido, economico e in grandi quantità. Questi risparmi vengono passati al cliente, che accede a capi disponibili a prezzi sempre più bassi.
Ma c’è un costo non visibile sul cartellino del prezzo.
La moda etica, allora, si propone di affrontare i problemi che ruotano attorno al modo in cui l’industria della moda attualmente opera, come lo sfruttamento dei lavoratori, il danno ambientale,l’uso di sostanze chimiche pericolose, la produzione dei rifiuti e la crudeltà sugli animali.
Se l’obiettivo è quello di diffondere a un pubblico sempre più vasto questi principi, ecco 6 notizie che GreenBiz.it ha pubblicato nel 2013 che fanno ben sperare.
1) Crollo Rana Plaza. La moda etica può cambiare le cose, parola di People Tree
Il crollo del Rana Plaza Building, alla periferia di Dacca, in Bangladesh, che lo scorso 24 Aprile ha provocato la morte di oltre 900 persone, potrebbe essere un punto di svolta etico per il settore della moda.
Quella che attualmente risulta essere la più mortale catastrofe nella storia del settore abbigliamento,con le sue immagini raccapriccianti e i racconti angoscianti dei soccorritori, lascia sicuramente unamacchia indelebile sui marchi coinvolti, tra cui Benetton, che nessuna nuova collezione, testimonial o iniziativa potrà mai lavare via.
Quei corpi estratti privi id vita dalle macerie, di lavoratori e lavoratrici tessili che producevano abiti per rivenditori ben noti in tutto il mondo, cercando di portare a termine ordini quasi impossibili,hanno prepotentemente portato alla luce del sole tutte le problematiche che caratterizzano un settore che oggi non è nemmeno in grado di risalire la sua filiera e non sa dove sta producendo. E i segreti della moda sono stati scoperti da quelle stesse macerie che hanno, invece, seppelito, chi la produce.
Eppure, dei segnali positivi sembrano esserci, come dimostra la campagna lanciata questa settimana da People Tree, marchio inglese di moda etica ed eco-sostenibile molto attivo in campo umanitario: si chiama Rag Rage e nasce con l’obiettivo di esigere che i rivenditori sottoscrivano un piano di tre punti, tra cui un accordo in materia di sicurezza.
“People Tree è profondamente rattristata e indignata per il crollo della fabbrica di Dacca, che ha ucciso centinaia e ferito più di un migliaio di lavoratori tessili in Bangladesh. Crediamo che sia tempo sia per il settore della moda che per i consumatori di assumersi le proprie responsabilità. Abbiamo tutti un ruolo da svolgere nel garantire che lo sfruttamento e le condizioni di lavoro pericolose sopportate dai lavoratori tessili si fermino”scrive l’azienda, che nella sua petizione chiede di garantire la sicurezza per i lavoratori e risarcire le vittime del crollo dell’edificio.
2) Moda etica: un modello per la CSR nella supply chain. Il caso di Indegenous
Nessuno deve soffrire o morire per fare vestiti.Proprio al contrario, loro e le loro famiglie dovrebbero prosperare. Ecco come funziona la nostra supply chain. Ecco come può essere con gli altri. Non facciamola più difficile di quanto non sia. E non possiamo aspettare. Ci sono molte vite in gioco“. Così Leonard Scott, Co-fondatore e Ceo di Indigenous spiega il modo di lavorare della sua azienda, che da quasi due decenni, ha scelto la strada della moda etica, equa e biologica.
Con oltre 500 boutique e moltissimi cataloghi, Indigenous impiega 1.500 artigiane in alcune delle regioni più povere del Sud America, che partecipano alla sua supply chain. “Incidenti come quello che è avvenuto in Bangladesh semplicemente non sarebbe potuti accadere nella nostra catena di fornitura commenta Scott-. Noi esaminiamo indipendentemente i lavoratori semestralmente, richiedendo pratiche di lavoro partecipative e giuste, organizzando personalmente workshop e pagando prezzi che garantiscono sicurezza e prestazioni salariari eque e facile da raggiungere”.
Perchè farlo? Perchè, ad esempio, i dati raccolti in modo indipendente da Indigenous mostrano che il 75% di artigiani della sua catena non è più a rischio di povertà. Molti di loro stanno raggiungendo anche traguardi di sicurezza finanziaria e alcuni hanno avviato delle proprie botteghe artigiane. I luoghi di lavoro, ovviamente, sono sicuri e l’85% dei lavoratori afferma di stare meglio da quando partecipa alla supply chain.
IL MODELLO. Il modello di Indigenous dispone di tre elementi chiave. Il primo è il continuo monitoraggio della catena e la promozione dei diritti dei lavoratori, oltre che del loro impegno in tutti gli aspetti della politica e delle pratiche sul posto di lavoro. Per farlo l’azienda usa tecnologie innovative per rilevare direttamente i dati sui lavoratori, riguardo al loro benessere economico e sociale. Lo fa usando gli SMS. Questo permette che le opinioni vengano condivise in privato e in maniera del tutto confidenziale.
Il secondo elemento chiave è la trasparenza. Dalla provenienza delle sue fibre da agricoltura biologica allo stato degli artigiani e delle comunità artigiane, Indigenous condivide informazioni sulla sua catena in un modo che va oltre la semplice etichettatura: ci sono profili video dei lavoratori, workshop per artigiani e mappe della supply chain. E questi sono solo alcuni degli strumenti utilizzati.
Il terzo punto, assolutamente fondamentale, è il coinvolgimento dei consumatori nel valore del commercio equo e della moda biologica. Questo autunno, ad esempio, per ogni capo Indigenous ci sarà in etichetta un QR code, che consentirà di accedere all’applicazione “Fair Trace Tool”. Si tratta di un’app che permette al consumatore di conoscere virtualmente gli artigiani che hanno fatto l’indumento, per capire l’impatto sociale dei loro acquisti etici.
Indigenous è pronta a condividere tutto questo (le sue migliori prassi e gli strumenti di trasparenza della sua supply chain) con qualsiasi marchio di moda disposto a promettere che “nessuno soffrirà o morirà per fare i suoi vestiti”. Chi risponderà all’appello?
3) Moda etica: cresce la voglia di sostenibilità tra i grandi brand
Nel mondo della moda cresce la sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali: H&M, Nike, Zara sono solo alcuni dei marchi attivi a livello mondiale che hanno sottoscritto impegni precisi per rendere più etici i propri prodotti, ad esempio utilizzando materie prime sostenibili oppure mettendo al bando componenti chimiche potenzialmente nocive o, infine, promuovendo politiche aziendale fondate su compensi equi e sulla valorizzazione delle risorse umane.
recenti fatti di Dacca hanno drammaticamente riportato di attualità il tema dello sfruttamento della forza lavoro e, più in generale, lanecessità di un’industria tessile e dell’abbigliamento che sia sostenibile sotto tutti i punti di vista, ambientale e umano.
Oltre a pratiche virtuose come quella promossa da Indigenous, qualcosa sembra finalmente muoversi anche tra i grandi marchi. Per citare solo alcuni esempi, il gruppo H&M si è impegnato ufficialmente ad utilizzare solo cotone sostenibile, con l’obiettivo è di passare dall’attuale 11,4% al 100% entro il 2020, mentre Inditex Group, proprietario della catena di negozi Zara, ha fissato un piano di riduzione delle emissioni che prevede un taglio del 10% entro il 2015 e del 20% entro il 2020, prendendo come punto di riferimento il 2005.
C’è poi la Sustainable Apparel Coalition, un’organizzazione che raggruppa 80 brand di abbigliamento e calzature e che rappresenta oltre un terzo degli operatori mondiali del settore, e che è nata appositamente per dare risposta a temi quali il rispetto dell’ambiente e l’eticità dei cicli di produzione: l’obiettivo dichiarato è di “sviluppare un settore dell’abbigliamento che non crei danni ambientali inutili e abbia un impatto positivo sugli individui e sulle comunità associati alle proprie attività“.
La scorsa estate la Sustainable Apparel Coalition ha lanciato l’Higg Index, uno strumento per misurare la sostenibilità ambientale e l’impatto sociale di capi di abbigliamento e calzature, attraverso parametri quali l’uso dell’acqua, la produzione di rifiuti, il consumo di energia e l’utilizzo di componenti chimiche nel processo di produzione.
Se i produttori cominciano ad offrire qualche risposta, i consumatori sembrano essere ancora poco consapevoli: pur dicendosi a favore di una moda più etica, infatti, non sono disposti a pagare di più per averla. Una conferma di tale attitudine emerge dai dati raccolti dalla Cotton Incorporated, l’associazione dei produttori di cotone degli Stati Uniti, che ha svolto un’indagine tra i consumatori americani.
Il 57% dei consumatori sostiene che la “sostenibilità” di un prodotto influenza le proprie scelte di acquisto, ma solo il 23% ha l’abitudine di acquistare capi di abbigliamento certificati o comunque “sostenibili” per provenienza e produzione. Inoltre, solo il 26% dei consumatori americani si dice disposto a pagare di più per capi di abbigliamento etichettati come “sostenibili” o “environmentally friendly”.
Dall’indagine emerge comunque chiaramente che i consumatori tendono a privilegiare la qualità e che sono pronti a pagare di più per un capo di abbigliamento che considerano “migliore”: a questo proposito, la maggior parte degli intervistati ha dichiarato che “buona qualità” significa soprattutto “durevolezza” e quasi il 50% ha affermato che anche la sostenibilità di un prodotto sta nella sua capacità di durare più a lungo.
L’attuale momento di crisi economica tende ad accentuare questa tendenza: i consumatori comprano meno ma, quando lo fanno, scelgono prodotti di migliore qualità. Sta ai produttori adeguarsi alla situazione e cercare di volgerla a proprio vantaggio.
4) Fair Trace Tool: una tecnologia innovativa per promuovere sostenibilità e trasparenza nel settore della moda
Nessuno dovrebbe morire di lavoro, per realizzare i prodotti che acquistiamo e gli abiti che indossiamo, e nessuno dovrebbe lavorare in condizioni di sfruttamento o, peggio ancora, di schiavitù.
Da tali considerazioni di disarmante e stringente attualità (è di questa mattina la notizia dell’ennesimo incidente in una fabbrica tessile in Bangladesh), è nato Fair Trace Tool, uno strumento interattivo utilizzabile via cellulare e via computer che promuove trasparenza, sostenibilità ed equità nella catena di approvvigionamento nel settore della moda.
La tecnologia Fair Trace Tool – che nasce da un’idea di Scott Leonard e Matt Reynolds, diIndigenous Designs, in collaborazione con Worldways Social Marketing e alcuni brand, tra cui Alter Ego – connette l’acquirente finale dei diversi prodotti con gli artigiani, i contadini e i lavoratori che li hanno realizzati, facendo in modo che il primo possa conoscere la loro storia, l’impatto che i suoi acquisti hanno sulla loro vita e avere a disposizione dati aggiornati e affidabili sull’intera catena di approvvigionamento.
In questo modo, il Fair Trace Tool contribuisce a diffondere informazioni spesso difficilmente reperibili e spinge il consumatore ad esigere sempre più chiarezza e trasparenza quando acquista un capo di abbigliamento, promuovendo di fatto lo sviluppo del commercio equo e solidale.
L’obiettivo è che ogni brand accetti di condividere informazioni sull’origine dei propri prodotti, incentivando le buone pratiche in materia di lavoro, e che il Fair Trace Tool possa trovare la più ampia diffusione possibile. E per far sì che questa nuova tecnologia possa essere fruibile anche da parte di brand socialmente responsabili ma che, al momento, non possono permettersela,Indigenous sta raccogliendo donazioni online attraverso il crowdfounding.
5) Moda etica: la prima azienda Fair Trade dell’Africa
Liberty & Justice è la prima fabbrica di abbigliamento certificata Fair Trade dell’Africa. E’ nata nel 2010 con l’obiettivo preciso di offrire una nuova possibilità lavorativa alle donne che avevano superato i 30 anni e che erano alla ricerca di un’occupazione, dopo aver perso il lavoro precedente.
La produzione riguarda abbigliamento e accessori che vengono destinati ai migliori marchi di abbigliamento in vendita negli Stati Uniti, tra i quali troviamo Haggar, Feed Projects e Prana. Gli stablimenti di produzione hanno sede in Liberia e in Ghana. Il 90% della forza lavoro è rappresentato da donne, che vengono pagate il 20% in più rispetto alla media.
Le operaie sono inoltre in possesso del49% delle azioni dell’impresa, mentre il restante 51% viene utilizzato per lo sviluppo della comunità locale. Ne risulta un’operazione di successo sia per le donne che per l’azienda stessa. Entrambe le fabbriche stanno crescendo e hanno l’obiettivo di accrescere il numero delle assunzioni, offrendo nuovi posti di lavoro alle donne. La fabbrica del Ghana raggiungerà un totale di 700 impiegate entro il 2014, mentre lo stablimento in Liberia punta a toccare quota 500.
Il successo dell’azienda si riflette sulbenessere della società. Per quanto riguarda la Liberia, soltanto il 40% dei bambini ha la possibilità di andare ascuola, ma ben il 98% di loro è rappresentato di figli delle donne che lavorano per Liberty & Justice, che vuole progredire in tal senso dal punto di vista della responsabilità sociale.
Liberty & Justice punta ad assumere donne di età compresa tra i 30 ai 50 anni ed oltre, una fascia che spesso viene ignorata, a discapito dell’esperienza accumulata nel corso delle mansioni lavorative precedenti. L’idea è nata da Chid Liberty, in collaborazione con Adam Butlein. I risultati raggiunti lasciano sperare che il progetto possa estendersi con la nascita di nuove manifatture Fair Trade in Africa, e non solo. Insieme hanno creato una forza lavoro femminilealtamente motivataproduttiva.
Il loro consiglio per l’espansione economica in Africa consiste nell’entrare a fare parte in modo positivo del tessuto sociale, incoraggiando l’impiego delle donne e di tutte le fasce più deboli. A parere di Chid Liberty, le opportunità di sviluppo per l’Africa sono già evidenti, non resterebbe che coglierle per sfruttare il potenziale dell’intero continente, favorendo la nascita di nuovi posti di lavoro e gli investimenti mirati alla sostenibilità sociale.
6) Moda sostenibile: Canepa dice no alle sostanze tossiche nei tessuti
Moda sostenibile. La prestigiosa azienda tessile italianaCanepa è il primo produttore al mondo a essersi impegnato volontariamente nello sviluppo di alternative all’utilizzo delle sostanze chimiche pericolose, raccogliendo l’appello di Greenpeace per una moda più pulita.
L’azienda comasca, produttrice di tessuti di pregio come seta e jacquard per le principali firme dell’alta moda e del prêt-à-porter italiane e del mondo, ha sottoscritto pubblicamente il Detox Commitment di Greenpeace. “Siamo orgogliosi di essere la prima impresa tessile al mondo a sottoscrivere il Detox Commitment – afferma Elisabetta Canepa -. Questo è il nostro contributo a una moda libera da sostanze tossiche che aiuterà i migliori brand dell’alta moda a produrre gli splendidi capi che sanno creare e che con i nostri tessuti avranno anche il pregio di non inquinare un bene prezioso come l’acqua“.
Ora Canepa richiederà all’80 per cento dei propri fornitori di rivelare, da Gennaio 2014, i quantitativi delle sostanze chimiche pericolose emesse, garantendo a coloro che vivono vicino alle fabbriche tessili il diritto a ricevere informazioni corrette sugli scarichi di sostanze pericolose nell’ambiente. L’azienda, inoltre, ha incluso nel suo impegno l’eliminazione della metacrilammide, una sostanza che presenta elevati rischi di tossicità su cui l’azienda ha lavorato nei mesi precedenti all’impegno.
“Dal lancio della nostra campagna Detox, i consumatori di tutto il mondo hanno fatto sentire la loro voce. A loro, per la prima volta nella storia della nostra campagna, si unisce un produttore” dichiara Chiara Campione, Project Leader di The Fashion Duel di Greenpeace.
E se un’azienda come Canepa, che lavora per tutti i più importanti marchi del lusso, può impegnarsi così seriamente “non hanno davvero più senso l’indecisione di Gucci e Armani, la lentezza di Versace, Ermenegildo Zegna e Ferragamo e la miope opposizione di Dolce e Gabbana, Prada, Chanel e Roberto Cavalli a ripulire le proprie filiere e i nostri vestiti dalle sostanze tossiche e dalla deforestazione”, conclude la Campione.
 


I sei tipi di conversazioni su Twitter

Molte delle conversazioni su Twitter possono essere raggruppate in sei categorie ben precise, ecco quali sono e come appaiono se rappresentate come mappe
Per chi twitta abitualmente sono azioni a cui non si pensa neanche: un commento sarcastico sull’ultima bravata di qualche celebrità, una citazione live del discorso relatore di una conferenza o un retweet di una notizia dal profilo di un quotidiano. Eppure tutte queste conversazioni che avvengono continuamente su Twitter corrispondono a schemi ben precisi e ripetitivi. I ricercatori del Pew Research Center e della Social Media Research Foundation ne hanno individuati sei e li hanno rappresentati graficamente come mappe in un rapporto appena pubblicato online.
Ciascuna di queste sei categorie ha una struttura sociale diversa e una forma specifica (figura 1 e 2) – divisa, unificata, frammentata, aggregata, diretta verso l’esterno e diretta verso l’interno – determinata dalla nostra rete di followers e following e dal contenuto dei nostri cinguettii. Per individuare queste diverse strutture, i ricercatori hanno adoperato uno strumento open dianalisi dei social network, creato dalla Social Media Research Foundation e chiamato NODEXL, che esamina parole, url, hashtagusati da ogni partecipante alla conversazione, nonché la posizione di quest’ultimo nel network creatosi intorno ad essa. Per esempio NODEXL, stabilisce se si tratta di un “hub” (un utente che ha più legami degli altri i cui follower spesso ritwittano o ripetono quello che lui dicono), o magari di un “bridge” (un ponte, un utente che ha legami che attraversano i confini di un gruppo e permette il passaggio di informazioni verso e dall’esterno), o se invece di un “cinguettatore” isolato.
A partire dai dati, poi, i ricercatori hanno creato delle mappe esemplificative di ciascuna categoria. “Queste sei strutture osservate si rifanno solo ad account statunitensi e non sono comprensive di tutto il panorama presente su Twitter, che oltrettutto rappresenta solo il 18% degli internauti e il 14% della popolazione adulta”, spiegano i ricercatori. “Tuttavia sono archetipi in quanto si presentano con regolarità e non possono essere ulteriormente aggregati uno con l’altro”. “In futuro sarà possibile scoprirne altre, grazie all’aumento degli strumenti a disposizioni e dei ricercatori dedicati a questi studi; allora emergerà una fotografia più completa e dettagliata del paesaggio dei social network”. In attesa di quel momento ecco intanto queste prime sei:
Struttura divisa – Polarized Crowd

 
 
 
 
 
Si tratta di una conversazione fortemente polarizza tra due grandi e densi gruppi che hanno poche connessioni tra loro nonostante discutano dello stesso argomento. È tipica delle discussionipolitiche, per esempio, nella figura è rappresentata la mappa della discussione generata dallo State of The Union tenuto da Barack Obama nel 2013. I due grandi blocchi sono molto densi, ovvero ciascuno contiene molti utenti, e molti pochi contatti tra loro. Inoltre secondo il rapporto, gli appartenenti a uno specifico gruppo usano hashtag diversi rispetto all’altro gruppo e si rifanno ad altre fonti d’informazione. Mentre i liberali linkano molte fonti tradizionali di news, i conservatori fanno riferimento a un diverso e più specifico set di siti web .
Struttura unificata – Tight Crowd

 
 
 
 
 

O “folla raggruppata”. Queste discussioni avvengono tra utenti strettamente interconnessi tra loro, più pochi “isolati” e riguardano argomenti che interessano persone che condividono una professione, un hobby o che appartengono auna comunità specifica. Per esempio, l’immagine riguarda cinguettii contenenti l’hashtag #nptech (non profit technology) e a intervenire nella discussione sono persone che hanno un interesse diretto in quest’argomento. Secondo i ricercatori, queste strutture mostrano come, in questo tipo di comunità, la condivisione e il supporto reciproco possano essere facilitati dai social media.

Struttura frammentata – Brand Cluster

 
 
 
 
 

Sono conversazioni che sviluppano intorno a un brand (come Chevrolet, nella figura 5) o a un prodotto famoso o a qualchecelebrità e sono caratterizzate da un grande flusso di commenti da parte di utenti non connessi tra loro. Più grande è la popolazione che parla di un brand, meno probabile è che i partecipanti siano interconnessi, spiega il rapporto.

Struttura aggregata – Community cluster

 
 
 
 
 

Alcuni argomenti, per esempio eventi d’interesse globale come ilWorld Economic Forum (figura 6) possono sviluppare multipli piccoli gruppi di conversazione che si formano intorno a pochi hubs ognuno con la sua audience e le sue fonti d’informazione. Questo crea una mappa in cui ci sono molti gruppi di medie dimensioni e un discreto numero di membri isolati.

Struttura diretta verso l’interno – Broadcast network

 
 
 
 
 

È quel tipo di struttura che si forma quando molte persone riscrivono, ritwittano, citano, replicano a tweet di quotidiani, altri media, o personalità importanti. La Figura 7 mostra per esempio, la discussione lanciata dal profilo di Science Friday o SciFri, una popolare trasmissione radiofonica statunitense che va in onda ogni venerdì. La mappa mostra che in questo tipo di conversazione c’è un grande hub centrale e molti isolati twittatori non hanno legami tra loro. In alcuni casi, però, possono svilupparsi conversazioni all’interno di piccoli sottogruppi di persone.

Struttura diretta verso l’esterno – Support network

 
 
 
 
 
Si osserva in relazione a quelle conversazioni che si instaurano quando un cliente si lamenta di un prodotto su Twitter e il brand in questione cerca di risolvere la questione con un apposito account. Come nella struttura precedente si trova un solo hub di riferimento; tuttavia qui il brand risponde e interagisce con gli altri partecipanti alla conversazione creando la struttura diretta verso l’esterno. I partecipanti tuttavia però restano invece distaccati tra loro.
A cosa può servire sapere tutto questo? Secondo i ricercatori queste informazioni possono essere molto utili per tutte quelle istituzioni o imprese che vogliono studiare come si parla di loro in Rete, come un brand o un prodotto viene commentato o percepito, o che vogliono coinvolgere di più gli utenti dei social media o avviare discussioni di loro interesse.
Queste mappe possono arricchire la comprensione del comportamento delle persone su Twitter e in un modo che completa ed espande i tradizionali metodi di ricerca come sondaggi, focus group o analisi dei sentimenti online”, spiega Lee Raine, direttore del Pew Reasearch Center Internet Project a PBS. “Fornisce un’immagine che può essere considerata l’equivalente digitale di una fotografia area di grandi gruppi di persone, ma al tempo stesso ci permette di ascoltare le conversazioni che si svolgono all’interno di questi gruppi”.


Un anno di CSR: la top ten dei trend del 2013

L’anno sta per concludersi e, come da tradizione, è tempo di bilanci. Com’è stato il 2013 in termini di CSR? Quali eventi e quali tendenze hanno maggiormente influenzato l’atteggiamento delle aziende, spingendole ad una maggiore responsabilità sociale e ambientale?
Cone Communication, agenzia americana di marketing e pubbliche relazioni, ha cercato di rispondere a queste domande stilando la top ten dei trend che hanno più caratterizzato la corporate social responsability.
Ecco le dieci tendenze che si sono affermate nel corso del 2013 e che dovrebbero continuare a crescere anche nel 2014.
1) Più potere all’acquirente
Le nuove tecnologie rendono più facile reperire informazioni di qualsiasi genere. Nel corso del 2013, ad esempio, sono stati lanciati programmi e app che consentono al consumatore di conoscere provenienza, luci ed ombre di ciascun prodotto, offrendo a ciascuno di noi la possibilità di compiere scelte di acquisto responsabili e, eventualmente, di boicottare quelle marche che violano i principi che più ci stanno a cuore. Lamaggiore consapevolezza e intransigenza dei consumatori è la chiave per comprendere i progressi compiuti dalle aziende in termini di CSR negli ultimi anni.
2) Guerrilla marketing
Alcune aziende si sono distinte per aver utilizzato a fini sociali, e con successo, gli strumenti del guerrilla marketing, attraverso iniziative originali e di particolare impatto destinate ad aumentare la consapevolezza di utenti e consumatori su particolari problematiche. Un marchio alimentare americano, ad esempio, ha fatto sparire dai negozi oltre il 50% dei propri prodotti per mostrare ai consumatori cosa potrebbe accadere se continuasse l’attuale moria di api.
3) Più attenzione alla catena di approvvigionamento
Dopo il terribile incidente verificatosi in una fabbrica tessile del Bangladesh lo scorso aprile, l’attenzione generale si è concentrata sulle catene di approvvigionamento dei marchi più noti della moda e dell’abbigliamento, conducendo alcuni di questi ad assumere impegni concreti per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori.
4) Acquisti on-line e buone cause
Molti siti di e-commerce hanno risposto alla crescente domanda di impegno sociale prevedendo la possibilità di destinare ad una buona causa una piccola percentuale per ogni acquisto che viene finalizzato sulle loro piattaforme.
5) La svolta nel settore edilizio
In campo edilizio si sta abbandonando il cemento in favore di soluzioni alternative, più sostenibili e a basso impatto. La svolta dipende non solo da una accresciuta responsabilità degli operatori del settore, ma anche da un maggiore impegno dei committenti, sia brand che privati cittadini, che chiedono sempre più spesso la realizzazione di strutture efficienti e a basso impatto ambientale.
6) Alta moda, alto impegno
Anche le grandi griffe si stanno lasciando contagiare dalla tendenza ad essere più attente e responsabili: molte hanno aderito a campagne di sensibilizzazione su temi ambientali particolarmente urgenti, quali i cambiamenti climatici, altre si sono distinte per donazioni e attività caritative.
7) Uguaglianza di genere sul lavoro
Il tema della disparità di trattamento tra uomini e donne sul posto di lavoro non è emerso nel 2013, ma è sotto i riflettori da anni. Tuttavia, nel corso dell’anno che sta per chiudersi molte aziende hanno compiuto passi ulteriori sulla strada dell’uguaglianza di genere, sia in termini salariali che di opportunità di crescita professionale.
8) Meglio insieme!
Accade sempre più spesso che organizzazioni e brand molto lontani tra loro si uniscano perlanciare insieme campagne di solidarietà o iniziative collegate alla tutela dell’ambiente. A volte si tratta di collaborazioni occasionali, altre volte di partnership che, mano a mano, finiscono per consolidarsi.
9) Video virali
Le aziende hanno compreso l’importanza, il valore e l’incisività di un video ben fatto, che può raccontare una storia e veicolare un messaggio di responsabilità sociale e ambientale meglio di centinaia di parole. Inoltre, la possibilità di diventare virale e di diffondersi a macchia d’olio su siti di condivisione e social network fa del video un ottimo strumento per raggiungere il maggior numero possibile di persone.
10) Trasparenza nel settore alimentare
Tra le polemiche sugli OGM e lo scandalo della carne di cavallo venduta sotto mentite spoglie, il tema di una maggiore trasparenza nella catena di produzione e commercializzazione degli alimenti è stato di scottante attualità per tutto il 2013, conducendo molte aziende ad offrire ai consumatori un maggior numero di informazioni.


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