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Pirelli campione di Esg (per i tedeschi)

DEUTSCHE BOERSE ASSEGNA I RATING PER LA SOSTENIBILITÀ.
La società degli pneumatici ottiene quasi tutti i punteggi massimi. Bene anche le Generali e Terna, mentre sfigurano Exor e Parmalat. E c’è l’elenco completo di tutte le società che scambiano i titoli a Francoforte.

Pirelli è la società italiana quotata più avanti con i criteri Esg (environmental, social e governance), cioè sul fronte dell’ambiente, delle comunità e della governance. Come si fa a saperlo? Lo dice la Borsa tedesca, che assegna un rating (anzi tre) sulla base di questi criteri. E il gruppo degli pneumatici della Bicocca ottiene quasi tutti punteggi massimi: 99,6 per l’environmental, 99 per il social e 97,8 per la governance.
Deutsche Boerse assegna i rating a tutte alle società che rientrano nel paniere delle 1.800 aziende monitorate da Francoforte (sulla base delle ricerche di Sustainalytics e di Deutscher Verband der Finanzanalysten) , anche se come per Pirelli sono quotate a Piazza Affari. Tra le italiane vanno bene anche le Generali (97,3 – 77,5 – 89,4), Terna (87,3 – 100 – 99,1), mentre sfigurano Exor (3,4 – 31,3 – 7,1) e la controllata dei francesi Parmalat (6 – 22 – 1). Per vederle tutte, basta andare al link e mettere come impostare la selezione per «country».
La Sri, per i tedeschi, è una cosa seria. La sezione campeggia in homepage e la società mercato ha condotto un’indagine sulla trasparenza delle informazioni che riguardano la sostenibilità
dove si trovano gli strumenti di comunicazione per dare informazioni Esg. Perché questi tre aspetti, scrive la Borsa tedesca, «contano per una parte importante del valore delle società e giocano un ruolo sempre maggiore per i professionisti dell’investimento».




L'ETICA COME STRUMENTO DI PRESSIONE SULLE AZIENDE?

Intervista a Alessandra Viscovi, Direttore Generale del fondo di investimenti “Etica Sgr”

Direttore, Etica Sgr utilizza lo strumento dell’acquisto di azioni per “esercitare un controllo” sulle società partecipate, vigilare, esigere dei miglioramenti sotto il profilo dell’etica, e man mano “
stimolarle dall’interno” a diventare socialmente più responsabili. Una strategia che – andando al di la del primo impatto del vedere un banca etica come la Vostra compartecipare utili di società discusse sotto il profilo dell’impatto ambientale o degli standard etici – si sta rivelando invece assai intelligente e utile. Ci potrebbe il significato della parola “engagement” per Etica Sgr?

L’engagement rappresenta la forma più evoluta dell’investimento responsabile: presuppone un impegno costante e di lungo periodo da parte dell’investitore e una conoscenza approfondita della società partecipata. Il Soft engagement si sviluppa attraverso incontri periodici con le società di cui diventiamo azionisti, l’invio di comunicazioni su specifici temi o sulla politica di investimento responsabile dell’investitore e sulla condivisione di linee guida, relazioni o altro materiale di supporto. L’azionariato attivo (hard engagement) si realizza attraverso la partecipazione alle assemblee degli azionisti tramite l’esercizio del voto sui punti all’ordine del giorno, la lettura di interventi e la presentazione di mozioni finalizzate a ridurre l’impatto ambientale delle società delle quali siamo azionisti e migliorare concretamente i loro standard etici. Di fatto, è uno stimolo ad indirizzare le Società verso pratiche più attente alla sostenibilità.
Il Vostro intervento è costante od occasionale?
 
Assolutamente costante ed attento, perché ogni anno Etica Sgr partecipa alle assemblee delle aziende in cui investono i fondi del “Sistema Valori Responsabili” votando e intervenendo in modo coerente con quanto previsto nelle Linee Guida sull’Azionariato Attivo. Ma il contatto diretto con le imprese non si limita al momento assembleare: prosegue nel corso dell’anno in un’ottica relazionale di lungo periodo. Al fine di moltiplicare l’impatto positivo e condividere le migliori pratiche, molte delle iniziative di engagement sono svolte in collaborazione con network internazionali di investitori responsabili.

Qual è, a suo avviso, l’elemento cardine per costruire una finanza realmente responsabile?

 
Il dialogo con le aziende sicuramente è parte integrante del nostro approccio alla finanza responsabile: non cerchiamo lo “scontro”, vogliamo costruire relazioni, e sulla base di queste relazioni spiegare e far capire che possono esistere alti utili di esercizio anche rispettando l’etica e l’ambiente, anzi, che sul lungo periodo forse gli utili possono essere anche maggiori, se nel quadro di una gestione d’impresa socialmente responsabile. Noi crediamo che solo da una conoscenza approfondita e diretta delle aziende controllate si possa valutare efficacemente la reale sostenibilità del loro business e gli spazi di miglioramento. Siamo stati tra i primi a introdurre le pratiche dell’azionariato attivo in Italia, superando lo scetticismo iniziale della comunità finanziaria e ottenendo risultati concreti: quello che proponiamo alle imprese, come investitori responsabili, è infatti un approccio aziendale più lungimirante, che siamo convinti possa migliorare la sostenibilità economica di lungo periodo generando effetti positivi anche per tutti gli altri stakeholder



La rivoluzione digitale travolgerà le aziende farmaceutiche

Seppure in forte ritardo rispetto ad altri settori, da sempre più aperti al cambiamento, nel 2014 – finalmente – anche i dirigenti delle aziende farmaceutiche cominciano a dimostrare un deciso cambiamento del proprio sentiment nei confronti del digital. 

La rivoluzione digitale del settore farmaceutico non è una trovata del marketing, ma un processo in atto, supportato da un interessante studio: Impact of Digital Health on the Pharmaceutical Industry. Will Business Models be Reshaped by Digital Health?
La ricerca, basata sulle opinioni di oltre 50 dirigenti senior del pharma provenienti da tutto il mondo, mette in evidenza la dirompente carica di trasformazione della digitalizzazione.
Il dottor Thilo Kaltenbach, uno degli autori dello studio, ha dichiarato a eyeforpharma che: «Oggi la digitalizzazione rappresenta una nuova dinamica», mentre solo nel 2012 era ancora appannaggio esclusivo di pochi focus di alcuni product management particolarmente illuminati.
Lo studio, condotto nel 2013, ha rivelato un paradosso: l’industria farmaceutica si impegna in piani di crescita basati sull’innovazione tecnologica, ma senza considerare il digitale. Al momento del sondaggio, infatti, addirittura i due terzi delle aziende non avevano in atto alcuna strategia digitale.
Il dato più interessante è che, però, i dirigenti concordano che entro il 2020 il digitale avrà sviluppato nuovi interessanti segmenti di business nell’ambito del Pharma. Le aziende che sapranno cogliere l’occasione si ritroveranno un sensibile vantaggio nei confronti dei competitor di sempre.
Tra i vantaggi del digitale i più appetibile sono 3:
• aumentare la consapevolezza dei consumatori;
• stimolare il progresso tecnologico;
• ridurre i costi di assistenza.
In definitiva, tutti i partecipanti al sondaggio credono che il digitale rappresenterà un plus per l’intero settore sanitario. Il 27% degli intervistati ritiene che entro il 2020 l’impatto positivo sull’Healtcare sarà importante e addirittura il 73% dichiara che sarà determinante per il vantaggio competitivo delle proprie aziende.
Eppure – nel 2014 – il ritardo del Pharma appare, ancora, più ingiustificato se si pensa a quanto la tecnologia – evidente espressione della più attuale contemporaneità – sia indissolubilmente connessa al settore sanitario. Basteranno sei anni a colmare il gap? Finita la rivoluzione digitale il Gotha delle aziende farmaceutiche rimarrà inalterato?

Cosa ostacola il Multichannel
In primo luogo esistono ostacoli interni. Nella maggior parte delle aziende, infatti, i dirigenti hanno una formazione basata essenzialmente sulla vendita face-to-face, motivo per cui sono più disposti a puntare su canali tradizionale; mentre guardano ancora con sospetto il digitale, che al massimo è considerato come un sopporto alla strategia di marketing e non come uno strumento attualissimo e altamente modulabile.
Le aziende farmaceutiche, inoltre, temono che il multichannel possa farle incorrere in problemi di non conformità normativa. Per tale ragioni, quindi, diffidano di alcuni canali.
Lisa Druce, Senior Vice President di CircleScience, sostiene che: «L’ambiente esterno, ciò che appare sulla stampa, possa non essere particolarmente positivo». Tale paura, in pratica, non fa altro che incrementare la diffidenza già presente all’interno delle aziende farmaceutiche. «Penso – aggiunge la Druce – che ciò renda le aziende farmaceutiche più reticenti a intraprendere progetti multichannel su larga scala».
Infine, le metriche di misurazione del digital rappresentano un’ulteriore sfida per il multichannel.
I canali digitali non sono misurabili in termini di ROI (Return on Investment), tuttavia possono essere analizzati utilizzando molteplici parametri.
Il multichannel, in realtà, può essere misurato solo in base all’obiettivo finale del progetto. Per cui, ancora di più rispetto ai canali tradizionali, ogni campagna digitale deve essere valutata singolarmente, ma considerando che il raggiungimento di alcuni risultati sarà più evidente solo a lungo termine.

La soluzione
Per facilitare l’ingresso di modelli multichannel all’interno del settore farmaceutico, le aziende dovrebbero recrutare digital specialist, in modo da portare all’interno un know-how più attuale.
Dallo studio di eyeforpharma emerge con chiarezza che sia proprio la mancanza di personale qualificato ad ostacolare maggiormente il successo del MCM.
Solo la conoscenza delle nuove piattaforme, infatti, potrà riuscire a rimuovere i limiti tecnici e ad instaurare una nuova mentalità di squadra fondata sulla condivisione di informazioni e insegnamenti estesi a tutta l’azienda.
Prima di progettare una campagna di comunicazione, le aziende farmaceutiche dovrebbero analizzare – in primis – l’aggiornamento delle loro piattaforme tecniche e, immediatamente dopo, capire quali sono le esigenze specifiche e, soprattutto, gli obiettivi da raggiungere.
ll Multichannel Marketing rappresenta una risorsa essenziale solo se tutti i canali coinvolti sono adeguati agli obiettivi che si vogliono raggiungere. In alcuni casi, quindi, sarà funzionale modificare i secondi sulla base dei dati e di puntare sulla formazione in chiave digital di tutta la squadra.




LAMBORGHINI E L'AMBIENTE

La Casa del Toro ha ottenuto la certificazione CO2 neutrale grazie ad una serie di soluzioni “verdi”


Contrariamente a quello che si può immaginare analizzando la gamma delle supercar Lamborghini la Casa del Toro è una delle più attente all’ambiente. Il marchio emiliano ha infatti ottenuto nel 2015 la certificazione CO2 neutrale (prima azienda al mondo a raggiungere questo traguardo tramite il programma Carbon Neutrality di DNV GL: Det Norske Veritas Germanischer Lloyd, società specializzata nella classificazione, nella verifica e nei servizi per la gestione del rischi ambientali) e ha inaugurato oggi – alla presenza di Gian Luca Galletti (Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del Mare) – i nuovi impianti di trigenerazione e teleriscaldamento diSant’Agata Bolognese.

COS’È L’IMPIANTO DI TRIGENERAZIONE LAMBORGHINI?

Il nuovo impianto di trigenerazione Lamborghini si trova all’interno dello stabilimento di Sant’Agata Bolognese e permette di produrre energia elettrica, termica e frigorifera utilizzando gas naturale. Ha una potenza installata pari a 1,2 MW e consente di produrre ogni anno circa 9.800 MWh, una quota di energia che potrebbe soddisfare il fabbisogno annuale di tutte le abitazioni del comune emiliano. Il tutto con un risparmio di emissioni pari a circa 820 tonnellate all’anno di CO2, valore che salirà a 5.500 tonnellate quando si procederà con l’alimentazione a biogas, prevista entro il 2017.

COS’È L’IMPIANTO DI TELERISCALDAMENTO LAMBORGHINI?

L’impianto di teleriscaldamento Lamborghini – il primo mai realizzato da una Casa automobilistica italiana – consente la distribuzione di acqua calda, proveniente da una centrale di cogenerazione a biogassituata a circa sei chilometri dall’azienda, attraverso una rete di tubazioni interrate. Il tutto con un risparmio di emissioni pari a circa 1.800 tonnellate di CO2 ogni anno.

LAMBORGHINI E L’AMBIENTE: LE SOLUZIONI “VERDI”

Già in passato la Lamborghini ha mostrato di essere un’azienda molto attenta all’ambiente: nel 2010 ha realizzato un impianto fotovoltaico da 15.000 metri quadrati (tra i più grandi del settore industriale in Emilia Romagna, risparmio di quasi 1.000 tonnellate di CO2 all’anno) mentre risale al 2011 l’inaugurazione del Parco Lamborghini, dedicato all’iniziativa “Lamborghini per la biodiversità – Progetto di ricerca Foresta di Querce” (collegata ad uno studio sperimentale volto all’analisi delle relazioni tra le piante, la loro densità, il clima e la CO2 realizzato in collaborazione con il comune di Sant’Agata Bolognese e le Università di Bologna, Bolzano e Monaco di Baviera), che ha previsto la messa a dimora di oltre 10.000 giovani querce in un’area di circa sette ettari (70.000 m2).
Ma non è tutto. Nel 2012, infatti, è stato inaugurato il nuovo edificio dedicato allo sviluppo del prototipi e delle vetture pre serie: il primo industriale multipiano in Italia ad essere certificato in classe energetica A (così come il Centro Logistico del 2013 e il Training Center del 2014).

LAMBORGHINI E L’ECOLOGIA: LE CERTIFICAZIONI AMBIENTALI

Nel 2009 la Lamborghini è stata la prima (ed è ancora oggi l’unica) Casa automobilistica in Italia ad aver ottenuto la certificazione ambientale EMAS (regolamento ideato dall’Unione Europea per supportare le organizzazioni a valutare e migliorare la propria efficienza). Pochi mesi prima il brand di Sant’Agata aveva invece ottenuto la certificazione ISO 14001, soddisfacendo gli standard internazionali sulla gestione ambientale.
Risale invece al 2011 la “conquista” della certificazione ISO 50001, un primato tra i brand italiani specializzati nell’automotive.




Nativi della csr

Nel lungo periodo saremo tutti passati a miglior vita. Ma anche se siamo qui il tempo di un battito di ciglia, non possiamo non interrogarci – specie per chi ha figli – su quello che sarà non solo domani ma anche dopo domani e poi ancora più avanti. Avere lo sguardo lungo, insomma, è quasi una necessità esistenziale.
Negli ultimi tempi una delle espressioni più belle che mi hanno spinto a riflettere sui tempi lunghi è questa: nativi della csr. L’ho letta per la prima volta in un bell’articolo. Non so se sia stata usata prima. Ma l’ho fatta subito mia.
Beh, per farla breve il concetto è questo. Siamo abituati a sentir parlare di nativi digitali, no? I giovani anzi i giovanissimi nati al tempo del web, dei social network, della banda larga e ultra-larga, degli smartphone e dell’always connected. Per loro la grande rete informatica, che mosse i primi passi decenni or sono e non proprio per scopi umanitari, è semplicemente un dato di realtà. Descrive il mondo che hanno intorno. Non è una conquista, o almeno non la vivono così. Non è un qualcosa di cui dire “ma come facevamo quando non c’era?”, perché ci sono nati dentro. Un po’ come la televisione per quelli della mia età. Il telefono per quelli di una generazione prima, credo. C’è, esiste. Punto.
E allora, che succede se si applica questo concetto alla csr? Succede che stanno arrivando sui luoghi di lavoro (quelli che un lavoro lo trovano, ovviamente) e sul mercato, nel senso di acquirenti capaci di essere decisori dei loro acquisti (su chi paga spesso è da vedere…), e ancor più arriveranno nei prossimi anni, delle vere e proprie batterie, legioni, insomma generazioni di ragazze e ragazzi che la csr semplicemente ce l’hanno nel sangue. Che la vedono e la vivono come un dato di realtà. Sono abituati cioè a guardare alle imprese, quelle in cui lavorano e quelle che producono i prodotti che acquistano, come a organizzazioni che non solo finalizzano la loro attività al conseguimento di un profitto, ma tengono conto – perché devono tenerne conto, non possono non farlo, non avrebbero posto in questa realtà – di variabili sociali e ambientali.
Per i nativi della csr dire impresa e dire sostenibilità è la stessa cosa: l’impresa dev’essere sostenibile. Sostenibile dev’essere il loro stile di vita, il modo di spostarsi, mangiare, vestire, buttare o meglio riciclare quello che usano tutti i giorni. E di immaginare il lavoro, naturalmente.
Ciò ha almeno due conseguenze importanti, nella prospettiva di questo blog.
Primo: è facile prevedere che molti di questi giovani sono o comunque presto potranno essere consumatori responsabili, critici, in una parola consum-attori.
Secondo: è ugualmente facile intuire che si aspetteranno, dalle aziende in cui andranno a lavorare, tutta una serie di attenzioni in senso sociale e ambientale: li possiamo chiamarelavor-attori? Massì, proviamoci. Perché per loro quelle non saranno attenzioni particolari, o dimostrazioni del fatto che alcune aziende sono più illuminate di altre: per loro sarà semplicemente un elemento di realtà. Non potrà che essere così, per loro.
E allora, sui tempi lunghi, mi vien da essere fiducioso (ammetto che non capita spesso, di questi tempi). Perché tutto questo seminare che si è fatto in anni e decenni sulla csr, sulla sostenibilità, sull’etica d’impresa e via discorrendo, beh, evidentemente sta cominciando adare frutti. Non perché cresce il numero di aziende che pubblicano il bilancio sociale o che controllano e cercano di ridurre le loro emissioni di Co2 o che migliorano i programmi di conciliazione vita-lavoro o chiedono alla supply chain di rispettare certi requisiti, che va sempre bene, intendiamoci. Ma perché le persone che ci sostituiranno man mano su questo pianeta saranno persone diverse da noi, semplicemente in quanto nate e cresciute in un mondo che è cambiato. Persone per le quali la csr in azienda sarà scontata, dovuta, un dato di fatto, di realtà. Non potrà non esserci.
Perché loro sono i nativi della csr, noi no. Facciamogli spazio.