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Cittadini pronti a boicottare le aziende che non investono in responsabilità sociale

E’ QUANTO EMERSO DURANTE IL CONVEGNO “CSR: DA IMPEGNO SOCIALE A VANTAGGIO COMPETITIVO”. L’80% DELLE SOCIETÀ QUOTATE HA UN CSR MANAGER. DIMEZZATO IL DATO SULLA TOTALITÀ DEGLI OPERATORI

S ull’importanza delle iniziative di corporate social responsability nei confronti dei soggetti e dei territori coinvolti non possono esservi dubbi. Ma le ricadute non sono scontate quando si passa a considerare il ritorno degli investimenti in csr. Una questione non di scarso rilievo se si considera la prudenza con la quale si muovono le imprese in questo periodo quando si tratta di allocare quote importanti di budget, soprattutto in relazione a segmenti che non riguardano direttamente il core business aziendale. Alcune ricerche pubblicate di recente fanno chiarezza in merito, offrendo risultati sostanzialmente positivi, che promettono di spingere altri operatori ad adottare il tema della responsabilità sociale non come semplice strumento di comunicazione, ma come strategia focale nel modo di fare impresa. Secondo quanto emerso nel corso del convegno “Csr: da impegno sociale a vantaggio competitivo”, organizzato da Manageritalia, Fondazione e Università Alma Mater, Università di Cadice, Osservatorio andaluso della Csr e Dirse, il dibattito sui temi della csr ha portato a una diffusa consapevolezza tra i cittadini in merito a questo tema, che solo qualche anno fa non interessava che piccole fette di popolazione. Ormai si è arrivati al punto che il focus non è tanto sulle aziende che adottano questo approccio, ma su quelle che non lo fanno, e per questo motivo vengono boicottate. L’appuntamento è servito anche per fare chiarezza sul concetto di csr, che funziona davvero solo se non si limita a un’azione di vertice, ma coinvolge tutti i collaboratori dell’impresa con azioni concrete anche nel contesto aziendale. Come a dire che l’esempio all’interno conta più dei principi propagandati. L’importanza della responsabilità sociale d’impresa è evidente anche nel ruolo, sempre più di primo piano, di una figura dedicata: oggi ormai l’80% delle società quotate ha un Csr manager, anche se il dato si dimezza considerando la totalità degli operatori economici. Un’altra ricerca, questa volta condotta da Csr Manager Network, Assonime, Nedcommunity e Altis (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica del Sacro Cuore), rivela il crescente coinvolgimento dei consigli d’amministrazione nelle politiche di sostenibilità. Un atto di indirizzo fondamentale per poi diffondere le azioni dentro il tessuto aziendale e nei rapporti con il mondo esterno. La csr risulta molto presente nella visione valoriale e strategica delle grandi aziende quotate a Piazza Affari. Il 90% delle realtà presenti nell’indice Ftse Mib ha integrato i temi socio-ambientali nel codice etico e il 51% dei cda esamina e approva politiche aziendali in materia. La nota stonata è costituita dallo scarso allineamento tra impegni assunti formalmente e reale inclusione di tematiche socio-ambientali nel piano industriale (42% delle aziende). Un settore sul quale occorre ancora intervenire.




RESILIENZA, CAPITALE SOCIALE E ISSUE MANAGEMENT PER UNA COMUNICAZIONE RESPONSABILE

Una riflessione sulla comunicazione di crisi nata dai due terremoti che hanno colpito L’Aquila e l’Emilia, con il contributo di numerosi soci Ferpi. La lettura di Toni Muzi Falconi alla luce dei temi di resilienza, capitale sociale e issue management.

Quale descrizione più convincente del diffuso paradigma per cui la comunicazione-con è (quasi) sempre più efficace dellacomunicazione-a… di leggibile nell’appena uscito “Disastri Naturali: una comunicazione responsabile?” (Bologna University Press, 2016), quando Massimo Alesii si sofferma sulla diversità dei modelli che hanno caratterizzato il governo della comunicazione nei due terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia?
Diffusa “resilienza comunitaria” in quest’ultimo e “centralismo comunicativo” nel primo.
Nonostante il recente deperimento degli indicatori relativi al capitale sociale del territorio emiliano, emerge ben chiaro dal racconto di Alesii il diverso spessore di resilienza (“legameria sociale”, la chiama argutamente nel libro un partecipante a un focus dell’Università di Modena e Reggio Emilia). Una resilienza alimentata da reti sociali orizzontali, peer-to-peer, ove è la comunicazione a orientare la qualità delle relazioni e non il contrario, come nel caso dell’Abruzzo dove la comunicazione fu esercizio di potere (politico) e di persuasione (mediatica).
Né conosco rendicontazione più aggiornata e vivace sulla utilità della “prevenzione di crisi” e poi -quando la crisi scoppia- sulle modalità della sua comunicazione, argomentata in questo lavoro da Luca Poma, con la insolita e benvenuta aggiunta di una intrigante suggestione del piano di crisi come “antifurto”, a tutela delle relazioni con gli stakeholder, quasi “copertina’ di Linus”.
In più, dando per scontato che mai una crisi si presenta proprio come era stata prevista, Poma aggiunge anche che l’esercitazione costante è sempre e comunque essenziale perché arricchisce il valore della prevenzione, focalizzando l’attenzione più sul “quando” e sul “come”, che non sul “se” operare.
Considero poi di inusitato livello la essenziale e asciutta lucidità del testo di Sergio Vazzoler quando descrive valori, dinamiche e importanza della comunicazione ambientale per il rafforzamento della partecipazione sociale ai processi decisionali pubblici (è di questi giorni finalmente il primo ingresso ufficiale della Commissione Europea nella elaborazione di una politica di “debat public”).
Basterebbero questi elementi a consigliare la lettura di questa opera – in larga parte dovuta alla passione e la competenza diBiagio Oppi e Stefano Martello – non solo agli studenti universitari, ma a tutti i professionisti, consulenti e dipendenti; giovani, maturi, nuovi vecchi e anziani (come è l’autore di questa nota) che per vivere si occupano di relazioni tramite strumenti e canali di comunicazione. E sono ormai quasi 150 mila nel nostro Paese.
Ma questa opera non finisce qui: le ricche, curiose e stimolanti testimonianze di Fabio Montella e Monica Argilli; insieme all’inedita metodologia di analisi e riflessione prodotta dagli studiosi dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ne fanno una lettura davvero originale nel panorama piuttosto banale e ripetitivo della nostra pubblicistica.
Per parte mia, provo ad aggiungere, se possibile, qualche ulteriore valore al lavoro dei miei colleghi, ripercorrendo quel particolare filone delle relazioni pubbliche noto come “issue management”.
Un filone che, soprattutto nella sua accezione “organizzativa”, appare particolarmente adatta a consolidare e rafforzare l’impianto narrativo di questo bel lavoro, nel tentativo di offrire spunti e indicazioni operative a chi dovrà occuparsi delle inevitabili crisi prossime venture.
Nel 1976 lo statunitense Howard Chase – professionista assai vicino al Presidente Eisenhower, e uno dei sei fondatori della Public Relations Society of America – pubblicò un lavoro indicando con il nome di “issue management” una interpretazione della comunicazione d’impresa come ‘colla’ che tiene insieme l’organizzazione composta da network di relazioni.
Si tratta, ancora oggi, del livello più avanzato e maturo di integrazione delle relazioni pubbliche come costitutive della funzione di direzione.
In breve: qualsiasi organizzazione identifica, monitora e orienta – in funzione dei propri obiettivi, caratteristici e unici – le diverse dinamiche delle ‘variabili’ sociali e culturali e dei ‘fattori’ economici e tecnologici che ne influenzano il raggiungimento.
Gli “early adopters”, anche a causa della crescente regolazione pubblica cui venivano sottoposte nella seconda metà degli anni settanta, furono le grandi imprese del tabacco e dell’alcool, delle armi e della tecnologia.
In assoluto all’avanguardia fin dal 1976, la IBM, specialmente in Europa dove le regolazioni dei singoli mercati erano le più diversificate.
Fu allora, nel 1980, che un gruppo di brillanti giovani ex IBMers britannici (Ian Dauman, John Stopford, Geoffrey Morris e Dick Van Den Bergh) fondarono una società di consulenza strategica (Matrix limited) i cui primi clienti furono la Philip Morris e la Shell (!!).
Lo schema organizzativo, parallelo e contemporaneo a quello tradizionalmente gerarchico e verticale, è a matrice: massimo dieci ‘issue’ selezionate incrociando la loro importanza e urgenza. Per ciascuna issue una squadra coordinata da un issue manager e composta da un analyst, un advocate e un account, con ruoli intercambiabili in funzione delle singole competenze e abilità.
L’account segue con attenzione le dinamiche interne dell’organizzazione e come queste impattano sulla specifica issue; l’advocate è l’esperto della rappresentazione presso i regolatori e gli influenti; l’analyst è invece l’esperto della materia specifica; mentre l’issue manager formula la definizione e l’aggiornamento continuo di una policy per ciascuna tematica, assicurando la funzionalità del lavoro collettivo.
La squadra “scorrazza” su e giù e attraverso l’organizzazione formale, con tutte gli immaginabili conflitti ma anche arricchimenti culturali interni stimolatori di straordinari risultati sul campo.
In Italia, nel 1981, nacque la Intermatrix Italia, un srl con azionisti, insieme alla Casa Madre inglese: la Scr Associati (leader nelle relazioni pubbliche); Methodos (leader nella formazione manageriale); il consulente di direzione Mario Unnia; l’economista Antonio Martelli; i sociologi Enrico Finzi e Renato Mannheimer; e il ricercatore Gadi Schonheit. Insomma una gran bella squadra.
Fra i primissimi clienti, la Xerox Italia che, complice il capo della comunicazione Paolo Pasini, commissionò alla neonata società la stesura di un “manuale di issue management” che negli anni successivi ebbe ampia distribuzione soprattutto in ambienti confindustriali andando ad arricchire soprattutto la cultura manageriale del movimento dei giovani imprenditori.
Rimango convinto che l’issue management, nella sua formulazione culturale e organizzativa, rappresenti oggi la metodologia di direzione che meglio integra le logiche fuzzy e relazionali indotte dalle tecnologie prodotte dalla globalizzazione, la società a rete e le rivoluzioni del sistema dei media e del discorso pubblico.
Concludendo, ogni riflessione operativa intorno alla resilienza di un territorio in preparazione (o in presenza) di turbamenti materiali, economici, sociali e culturali costituisce grazie all’esperienza dell’issue management un forte valore aggiunto al capitale sociale di un territorio.




ALGORITMI

Una traccia redatta a quattro mani da Michele Mezza e Toni Muzi Falconi per l’avvio di una possibile riflessione sul tema degli “algoritmi” in Italia e nel mondo. In vista di due incontri sul tema a Roma e Milano.


Mezzo secolo di sociologia dei consumi ci ha insegnato (almeno questo!) che il solo insorgere dei desideri e delle necessità segnala qualche subalternità verso chi li soddisfa.
Ecco allora alcune domande chiave le cui risposte consentono di acquisire un minimo di consapevolezza intorno alla dialettica sociale indotta dal digitale: possiamo ritenere ‘oggettiva’ la struttura semantica dei colossi digitali sapendo che linguaggi, modalità di accesso, selezioni dei contenuti, sistemi di catalogazione sono tutti  elementi ignoti e  privi di opzioni alternative?  Chi “negozia” l’algoritmo? Con chi? Con quali valori e interessi ?
E poi, quella delega generale affidata alla potenza computazione che standardizza i problemi e indicizza le soluzioni, non conduce ad una omologazione della conoscenza?
Qualche giorno fa il rappresentante legale di Facebook ha inviato una lettera al presidente della commissione commercio del senato degli USA John Trune spiegando che le accuse di manipolazione semantica e cognitiva ai sistemi automatici che smistano sul suo social le informazioni si devono solo a “possibili ma isolate azioni di qualche singolo tecnico  che collabora ai progetti di ricerca di Facebook per colmare il gap fra quello che un algoritmo può fare oggi e quello che ci auguriamo potrà fare in futuro”.
Questo gap è oggi forse al centro di una competizione globale di più vasta portata che ci coinvolge tutti. L’anedottica è pressante. L’automatizzazione delle attività discrezionali, quando si intreccia alla potenza di profilazione e personalizzazione delle offerte, altera le relazioni sociali e le forme linguistiche di intere comunità, come spiegava recentemente un approfondimento della Harvard Business Review.

La posta in gioco

Si gioca una partita che forse sovverte la gerarchia uscita dalla rivoluzione industriale.
La smaterializzazione dei valori e del consumo, insieme alla materializzazione  della conoscenza grazie alla comunicazione, trasforma il semplice utente in una figura potenzialmente forte, proprio per la sua inedita capacità di attribuire senso comune e credito sociale al senso del racconto, al servizio o al prodotto. Sicuramente affida ad una nuova funzione, quella del service provider, il ruolo di predisporre e incanalare le nostre richieste più personali.
Del resto, se da un lato l’utente chiede sempre maggiore personalizzazione, dall’altro il distributore di servizi e contenuti si sostituisce ai mediatori tradizionali con una offerta in larga parte gratuita, in cambio di una passiva omologazione a quei sistemi intelligenti  per cui, a fronte di una velocizzazione del servizio,  ogni sistema editoriale, ogni data base, ogni  dizionario impone un allineamento a logiche, linguaggi e discipline indotte da procedure algoritmiche ignote all’utente.

I nostri tesoretti

In una economia sempre più intrecciata alla rete sembrerebbe prodursi un riequilibrio nel rapporto fra produttore e consumatore a favore di quest’ultimo.
Per esempio: la web reputation – per cui il giudizio e le esperienze di persone che conosciamo diventano trasmissibili e consultabili riducendo così l’imprevisto di una nostra scelta grazie ai giudizi di chi quella scelta l’ha già fatta.
Per esempio: il data mining – quel processo che mediante software sofisticati ma facilmente accessibili, ci permette di raccogliere grandi quantità di dati inerenti le nostre scelte  di consumo e quindi di ricostruire profili altamente aderenti alla nostra persona, arrivando così a decifrare anche le condizioni e le premesse per decisioni future.

Eppure

Nella tradizionale relazione produzione/consumo si sono introdotti nuovi soggetti e le nostre attività quotidiane sono sempre più scandite e mediate da entità quali il software e il server. E questo rende asimmetriche le relazioni e i legami sociali.

E noi?

Queste dinamiche ci vedono socialmente esposti su vari fronti.
Uno è il settore Pubblico. Man mano che le Amministrazioni Pubbliche procedono nella digitalizzazione dei  servizi e delle identità di cittadinanza, cresce troppo lentamente una diversa cultura del controllo e del confronto sulle soluzioni adottate. Quali sono le piattaforme scelte? In base a quali modelli comportamentali funzionano? Che garanzie di autonomia e di sovranità assicurano alla comunità? Insomma, usando i nuovi dispositivi chi acquista poteri? Lo stato, Il cittadino o il gestore del sistema tecnologico?
Un altro è il settore Privato. Come si configurano le transazioni digitali? Chi controlla i dati che rilasciamo? Chi misura il modo in cui questi dati producono ricchezza ulteriore?
Pare maturo negoziare forme di discussione con i network  per arrivare ad una esplicitazione concordata dei diritti, dei doveri e dei poteri del cittadino/utente consumatore capace di ‘pungolare’ (nudge) gli imperi tecnologici verso rapporti trasparenti di reciprocità: per esempio, tu usi gratuitamente i miei dati se però io posso usare gratuitamente la tua potenza di calcolo.
 




José Mujica: "Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una"

“Appartengo a una generazione che ha voluto cambiare il mondo, ma che ha commesso il terribile errore di non volere cambiare prima se stessa”.
José Mujica, l’80enne ex presidente dell’Uruguay che durante l’epoca della dittatura fu imprigionato per 15 anni in una cella di isolamento, ha una visione del mondo piuttosto chiara. Il lungo periodo in carcere gli ha permesso di pensare molto e, in occasione dell’inaugurazione del Congresso sulla Saggezza e sulla Conoscenza organizzato dalla stazione radio spagnola Cadena Ser a Cordova, ha illustrato alcuni cardini della propria concezione dell’esistenza.

In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ció che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere. Per questo, ciò che più mi offende oggi è la poca importanza che diamo al fatto di essere vivi.

Da quando, qualche mese fa, Mujica ha smesso di governare il proprio Paese, ha iniziato a viaggiare parecchio ed è diventato un punto di riferimento per diverse persone. Molti apprezzano le sue idee, il suo modo di essere semplice e il suo parlar chiaro.

Essere anziano è un vantaggio, perché da giovane uno può montarsi la testa con tutti questi elogi. Però non sono né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25 anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida telefonica a Seneca.

Il filosofo romano vissuto a Cordova è stato una costante nel discorso dell’80enne. “Seneca affermava che non è povero chi ha poco, ma chi desidera molto”. Mujica si è cosí concentrato sull’economia di mercato e su un sistema di crescita basato sul consumo.

Io lotto contro l’idea che la felicità stia nella capacità di comprare cose nuove. Non siamo venuti al mondo solo per lavorare e per comprare; siamo nati per vivere. La vita è un miracolo; la vita è un regalo. E ne abbiamo solo una.




Richard Dickson di Mattel: il potere di un giocattolo come Barbie

Il presidente di Mattel racconta al Wired Next Fest come Barbie sia riuscita a rimanere un’icona per 70 anni, ascoltando il suo pubblico


Come resti sulla cresta dell’onda con un giocattolo degli anni ’60? Ce lo ha spiegato al Wired Next Fest 2016 Richard Dickson, presidente e Coo di Mattel.
Certi oggetti raggiungono col tempo lo status di “icone senza tempo”, ma la verità è che il tempo è uno dei fattori più importanti non solo per l’uomo, ma anche per i marchi, soprattutto quando ti chiami Mattel, sei nel giro da 70 anni e devi affrontare un periodo molto particolare per il mondo dei giocattoli.
Il tempo passa, ma più o meno i bambini hanno la propria giornata scandita sempre dai soliti ritmi: dormono un certo numero di ore, devono andare a scuola, fare eventuali attività sociali e così via. Tuttavia quella piccola porzione di tempo che possono dedicare al gioco, quei momenti che valgono oro per qualunque azienda del settore, sono stati completamente stravolti. Senza contare i centinaia di migliaia di giocattoli disponibili abbiamo i videogiochi, i social, la televisione, YouTube, i tablet, stimoli su stimoli che si accumulano e si contendono l’attenzione dei bambini e che allo stesso tempo devono convincere i genitori, come si può spiccare in questa giungla selvaggia?
Per spiegare la ricetta del successo, Dickson ha utilizzato Barbie,forse il marchio più famoso e longevo di Mattel. Prima di diventare un’icona pop degna di finire in un museo, Barbie è stata un giocattolo innovativo, uno dei primi a venire pubblicizzato in quella strana bestia che era la televisione nel 1964. Da quell’anno “Barbie non è mai rimasta ferma, ha iniziato a far parte di molte vite, interpretando lo spirito del tempo attraverso lo stile e la cultura del momento”.
Anche se le più vendute rimangono quelle che indossavano abiti da fiabia, abbiamo avuto la Barbie vestita come Jackie Kennedynegli anni ’60, la Barbie Malibu negli anni ’70 e una Barbie molto più in carriera nei ’90. In ogni epoca la bambola ha rappresentato uno strumento per far vivere alle bambine il ruolo e il mondo che volevano.
Ma col tempo questo potere è andato impoverendosi, pensiamoci bene, quante volte abbiamo visto la Barbie associata al concetto diragazza stupida, vuota, una bambola appunto, se non addirittura un’idea femminile assurdo e irraggiungibile che forzava le nuove generazioni a standard esagerati.
A questo punto Mattel è dovuta correre ai ripari, cercando di mantenere il senso di aspettativa e meraviglia. Per farlo ha dovuto capire ancora meglio che se vuoi vendere un giocattolo devi parlare a due tipi di pubblico: i bambini, che lo desiderano, e igenitori, che lo approvano.
Un lavoro di raffinamento del messaggio nato da ricerche di mercato e dall’intuizione di capire che un brand non deve solo riflettere la cultura del suo tempo, ma ispirarla, andando, se necessario, contro i propri valori tradizionali.
Una Barbie che vuole essere al passo coi tempi dev’essere diversa,inclusiva, ma anche individuale. Deve saper riflettere l’esigenza dei bambini di sentirsi rappresentati, deve aiutarli a scoprire la propria identità, sviluppando un’immagine di se stessi sana, apprezzando le mille diversità del mondo.
Per questo Barbie ora è disponibile molte più forme del viso, colori dei capelli, corporature, tratti facciali e tonalità della pelle. Per questo i suoi piedi non sono più modellati in modo che possa indossare solo scarpe col tacco. Il giocattolo ha vissuto un profondo ripensamento che ha cambiato il suo ruolo, da modello da imitare a sostegno alla propria personalità.

Inoltre Mattel ha anche lanciato il programma Shero, ovvero omaggiando alcune donne particolarmente forti ed eroiche con una bambola a loro dedicata. Per questo l’azienda ha avviato un profondo dialogo con le mamme di tutto il mondo, ascoltandole e informandole su come la figura di Barbie stava cambiando. Il risultato di questo profondo ripensamento è uno spot che è stato uno dei più visti del 2015 e ha fatto incetta di premi in ogni festival dedicato all’advertising.
Dunque quale può essere la ricetta di lunga vita per un giocattolo? – ha concluso Dickson – Diventare strumento di miglioramento, trovare uno scopo, aspirare a cambiare il mondo e mettere tutto ciò anche di fronte alla tradizione, se necessario”.