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Intervista a Alessandro IELO, Managing partner di VERTUS

D: Vertus: ci parli della missione, degli obiettivi di questa “insolita” società di consulenza

E’ nata nel 2009 a Milano, con l’obiettivo di supportare i processi di reindustrializzazione e di rilancio industriale. Siamo un team di circa 10 unità, compresi i partner esterni e due collaboratrici che lavorano in remoto sulle attività di back office commerciale. Il sottoscritto proviene da esperienze industriali e manageriali anche in campo internazionale: sono convinto che il manifatturiero sia il grande cuore pulsante di questo paese e che non debba venire “disperso”. Abbiamo nel tempo consolidato partnership operative in Francia, Germania e Cina e VERTUS è oggi coinvolta su progetti in tutto il territorio nazionale. Fondamentalmente interveniamo quando un’azienda – o la sua filiale sul territorio nazionale – chiude i battenti.
D: Di preciso, quale è il vostro “core business”?
Ci occupiamo di “reindustrializzazione”. L’evoluzione dell’impresa passa attraverso processi di cambiamento che in questi ultimi anni sono divenuti sempre più rapidi e con i quali bisogna imparare a convivere, i nostri servizi mirano a trasformare in opportunità di sviluppo i processi di razionalizzazione o di crisi industriale. Gli investimenti, ma soprattutto i disinvestimenti, sono parte del cambiamento: il disinvestimento è divenuto sempre più frequente, ma non deve spaventare, deve esser visto come una parte normale della vita di un business, una delle risposte alla crescente dinamica del mondo degli affari. Non – solo – un incidente di percorso, ma una sempre più normale conseguenza del business. E’ da mettere in conto, insomma. Si tratta di come come gestire quella delicata e molto particolare fase della vita di un azienda, minimizzando le ricadute negative per gli azionisti, ma anche per i dipendenti e per il territorio.
D: Quindi seguite anche le fasi più “dolorose” nell’evoluzione del business dei vostri clienti…
Ci piace pensare di operare nell’ambito delle politiche di welfare attivo, e in tal senso proponiamo una soluzione alternativa ai normali processi di chiusura comunemente messi in atto: la reindustrializzazione. L’attività consiste nel trovare nuovi soggetti industriali che subentrano in un sito oggetto di un piano di ridimensionamento con un proprio piano industriale innovativo, rilevando lo stabilimento – in acquisto o in affitto – e riassumendo le maestranze, garantendo così la continuità del lavoro in settori d’attività che possono essere anche molto diversi rispetto ai pregressi. La reindustrializzazione non intralcia l’iter di chiusura, al contrario l’azienda può ottenere significativi risparmi sui costi di incentivazione all’esodo, meno conflittualità sociale ed un’immagine di azienda attenta alla sostenibilità d’impresa. Inoltre, collaboriamo come partner delle Istituzioni e delle Amministrazioni Pubbliche sul territorio per la riconversione e la riqualificazione di aree dismesse attraverso la creazione e gestione di incubatori d’impresa e di parchi industriali, logistici e tecnologici.
D: il vostro compito quindi è di rendere per certi versi “socialmente sostenibile” una fase di delocalizzaizone o deindustrializzazione aziendale?
Esatto. Di norma le dismissioni che vengono affrontate convenzionalmente prevedono un incarico ad un HR manager per la messa in mobilità del personale, con conseguenti possibili scioperi e relativi costi di e un incarico ad un’agenzia immobiliare per la vendita del fabbricato, con conseguenti lungaggini. Al contrario, l’alternativa della reindustrializzazione di uno stabilimento, con il salvataggio del posto di lavoro di molte famiglie, non può che essere accolto positivamente da Istituzioni e sindacati, e per quanto riguarda il Gruppo cedente, questo ne esce non solo con tutti gli “onori” del caso, per essersi fatto carico concretamente di un possibile problema, ma anche raggiungendo l’obiettivo di ridimensionare lo stabilimento col minimo dei costi.
D: Può farci qulalche numero, per rendere l’idea dei vantaggi di questo tipo di processo?
Per l’azienda cedente, c’è un ritorno di immagine positivo, e un risparmio sui costi complessivi di circa il 30%, oltre a tempi certi – e brevi – di conclusione dell’operazione. Per chi subentra, ci sono terreno e immobile già urbanizzati, impianti e attrezzature a condizioni molto vantaggiose, e tempi di avvio dell’operatività brevissimi. Per i dipendenti, mantenimento del posto di lavoro e formazione nella riqualificazione. Per i soggetti pubblici, mantenimento dell’occupazione sul territorio ed egualmente un ritorno di immagine positivo. Insomma, quando l’operazione riesce, tutti vincono.
D: Qualche dossier da voi gestito con successo?
Nel 2012 il Gruppo Kemet, seguendo un percorso di ristrutturazione su scala mondiale, ha accorpato tre stabilimenti italiani in un unico sito industriale. Tramite questo processo che prevedeva un esubero di oltre 100 lavoratori, Kemet ha optato per un percorso di reindustrializzazione, adottando il “modello Vertus” ed evitando così l’abituale iter di cassa integrazione e di mobilità, di trasferimento dei macchinari e di successiva vendita dello stabilimento. Vertus scegliendo l’azienda italiana Stampigroup che, grazie all’idea imprenditoriale del suo fondatore dr. Elvio Turchetto, ha prodotto opportunità di lavoro dove non c’erano e ha accorpato altre due aziende estere per formare un nuovo gruppo italiano di oltre 100 dipendenti, con base a Monghidoro. Nel 2013 il Gruppo Schneider Electric, sulla scorta di un processo di riorganizzazione su scala mondiale, ha avviato un oneroso piano di ridimensionamento delle proprie attività in Italia, in particolare ha deciso di cessare la produzione dello stabilimento di Rieti, da sempre fiore all’occhiello della produzione di interruttori di bassa tensione. Nello stabilimento lavoravano 180 unità. Oggi, dopo due anni di attività, quasi duemila aziende contattate, e molteplici progetti industriali visionati, una società italiana (Elexos), rileverà l’attività ed avvierà nuove produzioni salvaguardando una buona parte delle maestranze oggi rimaste in carico.
D: Operazioni in corso d’oggi, se può parlarne?
Oggi stiamo gestendo progetti con varie multinazionali e non – Merck, Carrier, Guala Closures, ILVA, Agrati etc – con oltre 700 dipendenti coinvolti e riteniamo di essere tra i maggiori esperti del settore.
D: Una professionalità assai specifica. Ma prevede sviluppi positivi anche “post-crisi”?
La nostra è un’attività che sicuramente ha avuto un buon sviluppo con i recenti anni di crisi, anche se, ritengo ci siano altri fattori da tenere in considerazione nel medio lungo periodo. Nonostante le nostre capacità nel manifatturiero, il sistema Italia si presenta ancora scarsamente attrattivo per gli investitori esteri. È di questi giorni un miglioramento nelle classifiche di “doing business” internazionali – in parte dovuto alle recenti introduzioni del Job Act – ma si tratta comunque di un posizionamento molto basso rispetto ai nostri vicini europei, e il gap da colmare è ancora ampio. I problemi sono i soliti di sempre: elevata tassazione, costo del lavoro elevato e poco flessibile (almeno per gli assunti pre-job act), sistema giudiziario inefficace, burocrazia, etc. Inoltre, c’è la necessità di razionalizzazione degli assetti produttivi – in particolare di consolidamento – che sono ancora largamente in atto: mi riferisco ai grandi gruppi internazionali, quindi mi aspetto nei prossimi anni ancora qualche tensione verso il ridimensionamento. Infine, le piccole e medie aziende italiane devono uscire da questa lunga crisi con assetti più forti, pertanto anche in questo caso immagino necessità crescenti di fusioni ed acquisizioni, con possibili ulteriori ricadute occupazionali. Concludo con un osservazione: il Job Act sposta inoltre il baricentro di spesa sulle politiche attive, in particolare sul ricollocamento, che ha molte affinità con l’attività di reindustrializzazione; oggi non ci sono leggi in tal senso in Italia, come invece in Francia, ma la direzione mi sembra quella giusta.




Brasile, la guerra tra Narcos si è spostata sui social

Nel paese sudamericano incalza il dibattito tra sicurezza e privacy, mentre le gang di Rio de Janeiro usano sempre più spesso WhatsApp e Facebook per la gestione del territorio nel traffico di droga


In attesa di capire se il Parlamento procederà con la richiesta di impeachment, con l’economia in caduta libera e il virus Zika che imperversa, la Presidente del Brasile Dilma Rousseff ha deciso indirettamente di complicarsi ulteriormente la vita mettendosi contro anche Mark Zuckerberg, uno degli uomini più ricchi e influenti al mondo. Nel giro di 24 ore, la polizia brasiliana, su mandato della magistratura ha arrestato e scarcerato il vice-presidente di Facebook America Latina, l’argentino Diego Jorge Dzodan, accusato di non voler fornire agli investigatori gli archivi di una chat su WhatsApp di un gruppo di narcotrafficanti  coinvolto in un traffico di stupefacenti tra vari Stati del Paese.
(Foto: stadio24.com)
I precedenti
Non è la prima volta che Mr. Facebook incappa nella giustizia brasiliana. Lo scorso 16 dicembre WhatsApp era stata bloccata per 11 ore in tutto il Brasile dopo che Facebook si era rifiutata più volte di fornire alla magistratura i dati di alcuni individui considerati coinvolti in un cartello criminale.
E pensare che 11 mesi fa Zuckerberg e la Rousseff durante il settimo summit delle Americhe a Panama avevano raggiunto un accordo per portare il progetto Internet.org anche in Brasile, incominciando da Heliopolis, una favela di São Paulo. Una decisione che nel Paese sudamericano si sta rivelando un boomerang.
Narcotrafficanti social
Quella che negli ultimi mesi era stata considerata come una vittoria dell’integrazione digitale, permettendo a migliaia di persone disagiate che vivono nelle favelas di potersi connettere gratuitamente ad alcuni servizi in Rete, si è trasformata nell’ennesima guerra a è, questa volta per il controllo dell’informazione via WhatsApp. Uno strumento di comunicazione sempre più usato dalle fazioni opposte di narcotrafficanti che si contendono il territorio per il commercio della droga. Ne sono dimostrazione le recenti inchieste giudiziarie che hanno creato tensioni tra la magistratura brasiliana e l’azienda di Palo Alto.
Narcotrafficanti armati in una strada di una favelas di Rio de Janeiro (Foto: Eduardo Pininga)
Si minacciano a vicenda con messaggi audio, fanno trattative creando dei gruppi, si scambiano foto per ostentare il proprio potere. Fucili, pistole, collane d’oro, messaggi in codice. Negli ultimi mesi, per ridurre gli arresti tra le opposte fazioni, un gruppo della gang è incaricato di fermare la popolazione per strada e controllare le loro chat per verificare se si nasconde qualche “informatore”. Se beccato, viene torturato e ucciso.
Tuttavia l’eccessivo utilizzo dei social media da parte dei gruppi criminali ha aiutato le forze dell’ordine a localizzarli. Così è andata per Celso Pimenta, detto Playboy, leader degli Amigos dos Amigos, e uno dei più ricercati narcotrafficanti di Rio de Janeiro, ucciso durante uno scontro a fuoco con il Bope, dopo che i militari avevano intercettato una sua conversazione con una gang rivale in cui chiedeva una tregua armata.
Le forze speciali del Bope occupano la favela di Mare (Foto: BrasilPost.com.br)
Le sparatorie live sulle bacheche di Facebook
Se WhatsApp è diventata la nuova forma di comunicazione del narcotraffico a Rio, Facebook si è trasformato in un mezzo usato dalle inermi comunità locali che vivono all’interno delle favelas e vittime degli scontri a fuoco tra polizia e trafficanti. Negli ultimi mesi sono state create numerose pagine per comunicare in tempo reale le zone dove stanno avvenendo sparatorie. “Scontro a fuoco nella zona di Timbau, attenzione ad uscire di casa” recita un post sulla bacheca di Maré Vive, una pagina con 26mila Like creata da alcuni abitanti della favelas di Maré, una delle comunità con alta concentrazione di narcotrafficanti a Rio de Janeiro.
In attesa che il Brasile trovi “il giusto equilibrio tra sicurezza e privacy”, come ha commentato l’avvocato Ronaldo Lemos, direttore dell’Instituto de Tecnologia e Sociedade di Rio alla Bbc, nelle favelas della capitale fluminense, prossima ad ospitare le Olimpiadi si è aperto un altro fronte: il controllo dell’informazione via WhatsApp.




Fracking, il Brasile fa marcia indietro e protegge le terre indigene della Vale do Juruá

Le terre indigene della Vale do Juruá, nell’Amazzonia brasiliana, sono state vendute per estrarre gas e petrolio. Ma un tribunale ha detto che bisogna proteggere gli abitanti dal fracking.

Il diritto alla terra dei popoli indigeni incontattati della Vale do Juruá, in Amazzonia, è stato riconosciuto. Il governo brasiliano aveva venduto all’asta alcune aree protette in prossimità di territori ancestrali per darle in mano a aziende di gas e petrolio per condurre attività come il fracking, o fratturazione idraulica. Ma a dicembre un tribunale ha deciso di revocare le licenze e ha ordinato la sospensione e la cancellazione delle attività di esplorazione e di estrazione. Il giudice ha sottolineato in particolare i rischi sociali e ambientali connessi a queste attività, quali i danni agli ecosistemi locali e alla vita quotidiana delle comunità.

 La svendita della Vale do Juruá

Senza avere consultato preventivamente le comunità indigene, il governo ha venduto all’asta un’area di più di 122mila chilometri quadrati che si estende in dodici stati brasiliani, tra cui le terre dello stato di Acre che ospitano tribù che vivono intenzionalmente isolate. La condanna del tribunale è arrivata dopo mesi di proteste da parte della Coalizão não fracking Brasil (Coesus), la coalizione brasiliana contro il fracking, movimento della società civile di migliaia di persone che si batte contro la fratturazione idraulica con l’obiettivo di sensibilizzare le persone sul suo impatto sugli ecosistemi, sulle comunità e sui diritti dei popoli indigeni. Durante l’asta dei terreni delle aree indigene negli stati di Acre e Paraná, organizzata  dalla National petroleum agency (Anp), l’organizzazione ha effettuato un’incursione in cui nove leader indigeni hanno condiviso le proprie esperienze davanti ai rappresentanti delle compagnie di petrolio e gas e alla stampa internazionale.

 Cos’è il fracking

Il fracking consiste nel perforare il terreno fino a raggiungere le rocce che contengono i giacimenti di gas naturale e successivamente iniettare un getto ad alta pressione di acqua mista a sabbia e altri prodotti chimici per provocare l’emersione in superficie del gas. Questa pratica ha un impatto enorme sull’ambiente, richiede un consumo consistente di acqua e rischia di contaminare il suolo e le falde acquifere circostanti. Difatti, l’80 per cento del liquido iniettato ritorna in superficie come acqua di riflusso. Inoltre, diversi scienziati teorizzano una correlazione tra il fracking e terremoti di bassa magnitudo.




Quando i virus infettano la comunicazione

Vaccini, Ebola e prima ancora le pandemie influenzali. Le istituzioni continuano a fare fatica a comunicare l’incertezza e di fronte a un’emergenza oscillano tra le rassicurazioni a oltranza e l’allarme. Ma si sta cominciando a costruire una terza via, condivisa su scala europea

Il caso ha voluto che il giorno in cui la paura vaccini in Italia è rientrata si sia tenuta a Venezia la conferenza finale di un progetto europeo dedicato appunto a vaccini, epidemie e problemi di comunicazione. Già, perché alla fine tutto il caso FLUAD altro non è stato che un gigantesco errore di comunicazione, in cui sparute segnalazioni di finti effetti avversi del vaccino (in realtà semplici coincidenze in persone anziane e malate morte non per il vaccino ma dopo aver preso il vaccino) hanno scatenato la solita epidemia di titoloni tipo “iniezione letale” (“Il Tempo” di Roma). Le autorità, come spesso accade, nel tentativo di rassicurare hanno talvolta peggiorato la situazione, come quando il ministero della Salute ha dedicato il numero verde 1550 per Ebola ai vaccini creando involontariamente un bel cortocircuito.
Nella due giorni di conferenza del progetto TellMe (www.tellmeproject.eu), un progetto co-finanziato dall’Unione Europea per sviluppare nuovi protocolli comunicativi e comportamentali, basati su evidenze scientifiche, da applicare quando si verificano focolai di malattie infettive, rappresentanti delle massime organizzazioni sanitarie del mondo hanno dibattuto proprio di questi argomenti, rivelando prima di tutto che in fatto di cattiva (o strumentale) comunicazione tutto il mondo è paese.
Toby Merlin, dei CDC di Atlanta, per esempio, ha mostrato come i media americani si siano avventati sui malati di Ebola tornati negli States cercando in tutti i modi di mettere in difficoltà l’amministrazione Obama, usando per questo l’artiglieria pesante delle immagini. Come giustamente ha detto Merlin, «buona parte dell’informazione connotata emotivamente passa dalle immagini, e noi non ci possiamo più permettere di ignorare questo aspetto». Guardando le immagini e i filmati ala tv gli americani hanno pensato che Ebola si trasmettesse per via aerea (visto che gli operatori hanno i respiratori). Interessante anche come hanno fotografato il paziente nero affetto da Ebola: sempre in pose particolari (per esempio mentre si fa un selfie), non certo pensate per trasmettere un senso di compassione ed empatia. Bene ha fatto il presidente Obama a farsi ritrarre (un po’ rigido per la verità) mentre abbraccia l’infermiera malata. Ma è stata solo una goccia in un mare tempestoso di immagini truculente e maliziose, tese a dare un quadro iper drammatico di una malattia che – per quanto altamente letale – tanto in America quanto in Europa e in Africa – non rappresenta certo il grosso del carico di malattie di questi continenti. E bene ha fatto la regina Elisabetta a ricordare la malaria e altre piaghe oscurate da queste emergenze.
Problema principale della comunicazione del rischio è di «allineare la percezione di un certo rischio con la realtà di quel rischio» ha spiegato nella relazione introduttiva Karl Ekdhal, dell’European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) di Stoccolma. Talvolta, infatti un’erronea percezione di un “pericolo”, alimentata da pregiudizi o cattiva comunicazione, può fare più danni del pericolo stesso (i campi elettromagnetici). Altre volte, invece, si affrontano rischi ben reali senza la minima idea del danno che possono infliggere (il fumo).
Ebola non poteva ovviamente mancare nella discussione. Usi e costumi radicati, come i riti della sepoltura in Africa che prevedono di toccare i morti perché subito dopo il trapasso l’anima uscendo dal corpo infonde nuova vita a chi le sta vicino, diffondono l’epidemia. Ma certo la soluzione non è che medici occidentali vestiti da astronauti cerchino di convincere con argomentazioni razionali che è meglio evitare il contatto.
Ecco allora che alcuni relatori si sono soffermati sugli aspetti più emozionali e antropologici della comunicazione nelle epidemie (come lo storico della medicina Bernardino Fantini dell’Università di Ginevra), mentre Manfred Green dell’Università di Haifa, coordinatore del Progetto TellMe, ha presentato nuove linee guida su come comunicare alla popolazione soprattutto attraverso i social media, e agli operatori sanitari (medici e infermieri) che rimangono i principali alleati per una buona gestione in caso di epidemie. «Il problema principale della comunicazione quando un epidemia o addirittura una pandemia inizia, è che all’inizio sappiamo ben poco di essa e di come e quanto si diffonderà, mentre la popolazione vorrebbe sapere tutto e subito, senza incertezze», ha spiegato Simon Langdon, esperto inglese di comunicazione di Cedar Three. «Riempire quello spazio iniziale di grande incertezza è appunto il compito della “comunicazione di crisi”, e che ha regole ben definite, ma che in fondo possono essere riportate a una sola: saper ascoltare le paure delle persone, non rassicurarle ad oltranza ma riuscire a farle partecipare alla gestione dei rischi. Solo così si può costruire un clima di fiducia e di dialogo, una “comunicazione a due vie” con la popolazione, utile a non aggiunger agli inevitabili danni sanitari delle epidemie, ulteriori problemi conseguenti al prevalere di comportamenti irrazionali. In questo quadro, come ha ricordato verso la fine della conferenza Pier Luigi Lo Palco in forza all’ECDC di Stoccolma per la parte vaccini, «l’alleanza con i media sarebbe veramente strategica, visto il potere che hanno di condizionare i comportamenti delle persone e l’agenda stessa delle discussioni politiche». Ma serve che la comunicazione sanitaria sia fondata su evidenze scientifiche, una minima comprensione della statistica, non su fantasie, o ancora peggio volute strumentalizzazioni.




I social media sono alleati della Sostenibilità

Un “like” può avere effetti davvero inaspettati”. E’ quello che afferma la nuovissima ricerca di Cone Communications dal titolo “Digital Activism Study.” Analizzando i suoi dati scopriremo come il supporto a temi o cause sociali ed ambientali, passa e passerà sempre più attraverso i social network.
Non è certamente una novità affermare che i social media stanno cambiando ogni giorno di più il nostro modo di comunicare, interagire, discutere, lavorare. La ricerca  Cone Communications ci presenta un interessante approfondimento di questo tema ed  indaga come i social network abbiano un ruolo chiave anche nel coinvolgimento degli individui in cause sociali ed ambientali.
Passando all’analisi dei dati, scopriamo che circa il 64% degli americani sostiene di essere più incline a supportare cause legate all’ambiente o a tematiche sociali dopo aver dato il suo “like” o essere diventato follower on line di un’organizzazione. Inoltre i consumatori americani ritengono che le loro attività on line siano un ottimo mezzo per sostenere progetti o temi a cui tengono in modo particolare. Postare un articolo o twettare informazioni su temi ambientali o sociali sono attività che costituiscono efficaci forme di supporto e sostegno.
Secondo la ricerca, inoltre, l’avvento del digitale non sta cambiando solo il modo in cui  cause e progetti vengono supportate, ma anche i tempi ed i modi in gli americani offrono il loro supporto: tra coloro che hanno fatto una donazione negli ultimi 12 mesi, circa quattro persone su dieci l’hanno effettuata tramite canali digitali, mentre solo il 23% degli intervistati ha usato i canali più tradizionali (posta, assegni etc).
Non può sorprendere a questo punto che i dati della ricerca dimostrino anche che  le piattaforme social  siano i canali chiave per coinvolgere le persone su temi legati alla sostenibilità sociale ed ambientale. Gli americani usano principalmente Facebook (67%) come mezzo per conoscere e partecipare  ad iniziative “green”, in seconda posizione Youtube (32%) e, a seguire, Twitter (25%), Pinterest (19%) ed Instagram (16%).
Aldilà di ogni dato, quello che questa ricerca ci fa capire è che i canali digitali e social sono un potente strumento per diffondere la conoscenza di importati temi sociali ed ambientali  e per spingere rapidamente il pubblico a prendere posizione e ad agire. Le organizzazione e le aziende devono impegnarsi per trovare le giuste leve che convertono un “like” in sostegno concreto.