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Una nuova reputazione per banche e controllori bancari

Intervento di Luca Poma al seminario “Una nuova reputazione per banche e controllori bancari”. GRUPPO FEDERICO CAFFE’ & ASSOTAG – FONDAZIONE BASSO.

ROMA, 26/04/2016


Vorrei iniziare il mio intervento parlando di viaggi. Di mete turistiche. Siamo tutti un po’ stressati: a chi non piace evadere dalla routine? Se vi recaste subito dopo la fine di questo incontro in un agenzia viaggi, vi sentireste proporre destinazioni come Maldive, o Fiji, o capitali del nord Europa. Per i più “coraggiosi”, magari in Oman, che nonostante le tensioni con il mondo musulmano va molto di moda…
Sicuramente ci scommetto, nessuno vi proporrebbe Detroit, l’ex capitale USA dell’automotive, un po’ in disarmo. Una città in crisi. Eppure come suggerisce il filosofo svizzero Alain de Botton in un recente articolo sul Financial Times, una gita a Detroit farebbe bene a molti. Magari sul West Oakman Boulevard. De Botton fa questa osservazione provocatoria: “se vi dicessi che per qualche ragione tra 700 anni la Tate Gallery non esisterà più, interesserebbe a qualcuno?”.
Quando hanno costruito il Colosseo, non si sono posti il problema di quando sarebbe crollato: dopo millenni. Sono i normali tempi della storia. Ma sul West Oakman Boulevard di Detroit 8 anni fa c’era vita, nonostante i problemi che da decenni affliggevano la città: c’erano coppie che arredavano la cameretta dei bambini, ridipingevano casa e pensavano al futuro. Oggi, lì, si compra all’asta una villetta con poco più di mille dollari. Una gita a Detroit farebbe bene a tutti, per ricordarci “quanto le cose cambiano in fretta” nel mondo di oggi.
Le cose cambiano in fretta. Tra i pochi che paiono non averlo capito, ci sono i principali protagonisti delle istituzioni di controllo finanziario. Cito dichiarazioni, uscite in recenti articoli sulla dialettica Roma/Bruxelles: I problemi italiani derivano soprattutto dal fatto che Bankitalia e Consob hanno permesso la vendita di troppi titoli ad alto rischio mascherato, e ciò, in questa misura, è successo soltanto in Italia. La Banca d’Italia non ha presentato a Bruxelles alcuna stima del reale valore economico dei crediti in sofferenza e quindi i tecnici UE hanno applicato il loro metodo standard, che impone una svalutazione massiccia”. Non voglio entrare nel merito delle dinamiche Roma/Bruxelles e dei torti e delle ragioni, ma a leggere questo, pare che la reputazione sia l’ultimo dei problemi dei nostri organismi di controllo finanziario…
E richiamo nuovamente anche l’intervista del DG Bankitalia già citata da chi mi ha preceduto: “Si poteva fare meglio; il mondo è cambiato; la comunicazione per chi fa il banchiere centrale è sempre difficoltosa; stiamo imparando”. Ricordiamo che le parole sono i vestiti dei nostri pensieri: cosa sta pensando quindi il Dott. Rossi?
“Stiamo imparando”: con calma, verrebbe da dire… Leggasi: c’è stato il terremoto, lo sapevamo, non ve l’abbiamo detto per “n” motivi, voi (voi!) avete perso tutto o parte del Vostro patrimonio. Ok, abbiate pazienza, la prossima volta forse – forse! – faremo meglio…
E per carità: che i mass-media non disturbino il manovratore…! Cito un altro vigolettato: “Uno degli indici più preoccupanti dell’accrescersi nel nostro Paese di una situazione di “regime” è costituito dall’aggravarsi del conformismo dell’informazione, con particolare riguardo all’informazione economica”. La frase è proprio del Prof. Federico Caffè, al cui nome è dedicato il gruppo di studio che ha contribuito a organizzare l’evento di oggi qui a Roma. Era la fine degli anni ’70.
Da allora non dev’essere cambiato poi molto, dal momento che ho incontrato serie difficoltà a rintracciare articoli recenti della stampa nazionale che ponessero nella giusta luce le vere carenze strutturali del sistema bancario italiano e degli organismi finanziari di controllo dal punto di vista della comunicazione, specie digitale, e del reputation management.
Si fa allarmismo, si “strilla”, ma sempre genericamente: la tal banca è in crisi, quell’altra è sottocapitalizzata, l’altro ha ‘annegato’ la crisi in una fusione. Ma mai che si facciano nomi e cognomi precisi e si individuino responsabilità circostanziate. E qui tante volte il peccato più che di commissione è di omissione, ma non è meno grave, perché come ci ricorda il Vangelo secondo Matteo “il giudizio finale avverrà tutto su peccati di omissione”.
E dire che già nella preistoria del web, nel 1997, il Comitato di Basilea sottolineava che “Il Rischio di reputazione deriva da disfunzioni operative, dal mancato rispetto delle leggi e dei regolamenti, come anche da altre fonti: il rischio reputazionale è particolarmente dannoso per le banche, poiché la natura della loro attività richiede il mantenimento della fiducia dei depositanti, creditori e del mercato generale”. Lo scrivevano 20 anni fa.
A tutti interessa la propria reputazione, cosa dicono gli altri di noi. Saltiamo subito sulla sedia se ci Googliamo e intravediamo qualche criticità, qualche recensione negativa. Il che – esaminando lo scenario delle banche italiane – equivale a dire che nostra moglie entra in casa, trovando la porta aperta, tutta la casa svuotata e sottosopra, e noi sereni sereni seduti sul divano a berci un bicchiere di vino leggendo il giornale… “Caro, ma cosa è successo!”. “Niente amore, sono passati i ladri”. Questo è l’atteggiamento sul tema della reputazione, largo circa. Ci si pone eventualmente il problema sempre “fuori tempo massimo”.
Ci infastidiamo, se parlano male di noi, quindi, ma dio ci scampi dal fare le poche essenziali cose che farebbero in modo che nessuno avesse motivi per parlar male di noi! Qual è il problema? Stimolare troppo la plasticità della nostra rete neurale ci affaticherebbe?
A proposito di reti neurali, nel 2008 pubblicai un breve saggio che incrociava temi come la logica aristotelica e la logica fuzzy. Oggi, a distanza di anni, vi dico che quell’analisi si può tranquillamente applicare anche al management della reputazione. Esistono un valore 0 e un valore 1, e non è che la reputazione di un Istituto bancario “esiste o non esiste”, o è buona o cattiva… questa sarebbe la logica Aristotelica. Invece tra zero e uno vi sono infiniti valori di verità. Infiniti-valori-di verità. Uno non è che o è vivo o è morto: dagli 0 ai 90 anni succedono delle cose…
Ebbene, sono proprio queste le cose delle quali nell’establishment finanziario nessuno si occupa: e dire che c’è una sensibilità, ci sono delle tecniche, il reputation management ormai è codificato, non dico che è una scienza, perché di assoluto della gestione delle imprese non c’è nulla, ma poco ci manca. Allora perché anche se tutti sanno cosa bisognerebbe fare oggi per non avere problemi di reputazione, e quindi di valore di borsa, nessuno lo fa, o pochi lo fanno…?
Proviamo a dare una risposta a questa importante domanda. In una mia recente intervista sull’Harvard Business Review – peraltro pubblicata grazie a una segnalazione di Toni Muzi Falconi, colgo l’occasione per ringraziarlo nuovamente – l’economista Stefano Zamagni ha dichiarato: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Beh, potrà dar fastidio a qualche manager, ma anche se non esistono gli assoluti io condivido la visione di Zamagni. “Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero – anche se qui, come Consigliere del Presidente di Ferrero, sono di parte – ha fondato la sua impresa, dice Zamagni, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppo pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”. Ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha ricordato Toni Muzi Falconi per certi analisti le banche hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS.
Cosa fare? Ma lo devo dire a voi, che rappresentate quasi tutti realtà strutturate e organizzazioni complesse? Eppure le cose da fare in prima battuta sarebbero davvero poche, essenziali, per certi versi non difficili da realizzare… qualunque buon reputation manager – e ce ne sono anche di ben più bravi di me – saprà indicarvi la strada. Forse facendovi pagare parcelle a 6 zeri, lo auguro a lui, chiunque sarà, perché è chiaro che più perdete tempo adesso, più si compromette lo scenario, e più dovrete pagare dopo per recuperare il vantaggio competitivo perduto.
Quindi lasciamo perdere cosa si potrebbe fare dal punto di vista tecnico, spendiamo invece due parole sul perché bisognerebbe smetterla di perdere tempo.
Ad esempio perché il Reputation Institute, che sicuramente tutti conoscete, ci dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da assets intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. Alla faccia del valore intangibile, della reputazione come asset “intangibile”… Permettemi la provocazione, a me pare assai tangibile: andatelo a dire a chi ci ha rimesso il proprio patrimonio personale in Volkswagen che la reputazione è un valore “intangibile”. Cosa c’è di più “tangibile” oggi come oggi della reputazione? La reputazione orienta tutti i comportamenti di acquisto, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity…
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora “con la diligenza del buon padre di famiglia”, per citare il codice Grandi del 1942; il manager che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finchè gli fa comodo, e incassa – è un manager traditore.
Ai traditori durante la guerra si sparava, pure girati di spalle, e se c’è qualcuno che pensa che l’importante sia solo fare profitto oggi, e la reputazione la vedremo un’altra volta, forse quella è la fine che merita, perché così facendo genera direttamente o indirettamente macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
Basta con la “deresponsabilizzazione” nel mondo del management e della finanza: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti… ebbene io non ci credo: ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, delle persone che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni, che non agiscono (anche) per il bene generale pur trovando una giusta contemperazione con i loro interessi particolari, ma che – non sapendo e non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone credetemi qualcuno prima o poi chiederà conto.
Bene. Niente punizioni corporali per questi comportamenti, c’è stata nel frattempo la Universal Declaration of Human Right, però a quel tipo di manager – permettete – perlomeno venga portato via tutto ciò che possiede. Tutto. Neanche la casetta al mare deve restargli: punirne uno per educarne cento. Idem quei signori degli organismi finanziari di vigilanza che non vigilano sulla reputazione delle banche – ovvero sull’etica dell’amministrazione, le due cose casomai fosse sfuggito sono direttamente correlate, non è che la reputazione si ottiene con campagne di marketing e pubbliche relazioni e basta! – e che quindi pregiudicano irrimediabilmente anche la reputazione dell’organismo di vigilanza che rappresentano, per ricollegarmi a quell’assurda e surreale dichiarazione del DG della Banca d’Italia.
Concludo con una riflessione nata da una frase che mi ha colpito, di un grande attore italiano, Toni Servillo, che la maggior parte delle persone hanno conosciuto per “La grande bellezza” o per altri titoli di cinema, ma che innanzitutto è – da sempre – un valente attore di teatro.
In una recente intervista Servillo dichiara: “Faccio fondamentalmente teatro perché il palcoscenico è il luogo dove verifico la tenuta della relazione con il mio mestiere, cercando di far coincidere me stesso con quello che faccio”. Curioso, direi: lui ha la passione per il suo lavoro, quindi esso coincide con quello che lui è nel profondo…
Ci si aspetterebbe da un attore un discorso sul Doppelganger, sul calarsi nella parte, in poche parole sull’artificiosità dell’essere attore. Invece Servillo riporta la nostra attenzione su ciò che c’è di più centrale nel discorso sulla reputazione: l’autenticità.
C’è un certo conformismo, mi pare, sul tema della reputazione: guardiamo guardinghi cosa fanno gli altri, e li imitiamo. Se lo fa quella banca che è una best-in-class (ma dove poi? Spesse volte solo sulla carta… quante organizzazioni pluripremiate per la CSR poi erano “due aziende in una”, una dedita a mietere premi, l’altra a truffare sulla rendicontazione…), ebbene, guardo cosa fanno gli altri e lo faccio anch’io.
In buona sostanza quello che si fa è di “guardare fuori”, invece di “guardarci dentro”, e finiamo – per citare Arthur Schopenhauer, per “Perdere tre quarti di noi stessi nello sforzo di essere come gli altri”.
Invece proprio dal guardarsi dentro dovrebbe ripartire un discorso sulla reputazione. Riscopriamo chi siamo; qual’era il sogno che ha animato l’imprenditore quando creò l’azienda per la quale lavoriamo; quale contributo concreto possiamo dare noi oggi per raggiungere quel sogno. Facciamo ciò che è meglio per la reputazione della nostra azienda, e così facendo valorizzeremo anche la nostra buona reputazione di manager.
Non è più complicato di così. Grazie.




Corporate Social Responsability, il futuro dei brand è nella sostenibilità

Come fidelizzare i Millenials al proprio marchio? Investendo nel sociale e nell’economia sostenibile

Responsabilità sociale per il brand awareness: investirvi può significare attirare l’attenzione sul proprio brand dei cosiddetti Millenials, quella fascia di individui nati dagli anni Ottanta in poi che, in rapida crescita per la loro rpesenza sul mercato, hanno dimostrato di avere un’alta propensione alla spesa, ma scarsa fedeltà al marchio.
PROBLEMA FIDELIZZAZIONE. La maggiore attenzione alla Corporate Social Responsability potrebbe essere una via per generare una maggiore brand awareness, che vada a tradursi, di fatto, in una fidelizzazione del cliente e in un maggiore orientamento delle decisioni di aquisto del pubblico, in particolare quello di “nuova generazione”, che oramai è investito da una quantità sovrabbondante di messaggi, che non facilitano i tentativi delle aziende di spiccare tra la folla. Come emergere dunque nella quantità di brand in competizione? Investendo nella buona reputazione della propria azienda.
MILLENIALS? I PIÙ CONSAPEVOLI. Secondo il Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsibility and Sustainability 2015, I client sono particolarmente sensibili all’attenzione delle imprese per il sociale e la sostenibilità: in Italia, il 52% dei consumatori si dichiara disposto a spendere di più in prodotti di brand sostenibili. Il dato è in crescita rispetto al 2014, quando la percentuale si fermava al 45%; la media europea è del 51%. I più attenti sono, come detto, i Millenials: sono loro i soggetti più attenti alla sostenibilità dei brand (73% nbel 2015, +50% rispetto al 2014). Ancora di piàù sono coloro disposti ad abbandonare un marchio in favore di un altro più attento a questioni sociali (95%), magari informandosi in proposito sui social networks, le vie di informazione preferite dai 2/3 dei rappresentanti della nuova generazione.
INVESTIRE SULLA CSR. Le imprese non stanno certo a guardare: nel 2015, infatti, quelle attente alla sostenibilità hanno visto lievitare il proprio fatturato del 4% rispetto a quelle meno attive, che crescono mediamente di percentuali inferiori all’1%; il 65% delle vendite del largo consumo è coperto da azziende impegnate in cause ambientali e sociali. La Corporate Social Responsability , sdoganata dai grandi retailer, che per primi si sono occupati del benessere delle comunità nelle quali operavano, avrà ruolo centrale nelle scelte delle aziende nei prossimi anni. Oltre a diventare via di fidelizzazione per i clienti, infatti, godere della reputazione di datori di lavoro etici avrà ottime ripercussioni anche sulla capacità di attirare e trattenere i migliori talenti e di garantire così la rpopria compettitività sul mercato: l’82% dei Mllenials, infatti, considera l’impegno sociale di un’azienda uno tra i buoni motivi per accettare di lavorarvi.



È possibile prevedere dove colpirà l’Isis guardando la rete?

Guardando la mappa del consenso online verso l’Isis, i paesi cui prestare maggiore attenzione sono Gran Bretagna, Spagna e penisola balcanica. È lì, secondo Voices from the Blogs, che dovrebbero concentrasi gli sforzi di intelligence e le battaglie culturali

Alla luce dei recenti episodi di violenza legati al terrorismo jihadista, in Belgio come in Pakistan, la prima tentazione è quella di chiedersi se ci sia modo di sapere quale paese sarà (o non sarà) il prossimo. Fare previsioni non è mai semplice e quando si tratta di terrorismo tutto diventa ancor piùdelicato. Anche e soprattutto perché, in fatto di attentati, spesso si finisce per non formulare giudizi esatti nemmeno ex-post. Nel corso della storia non mancano infatti gli esempi di episodi frettolosamente etichettati come atti di terrorismo, né le vicende dai contorni troppo poco chiari, e ildirottamento di un aereo egiziano è solo l’ultimo di una lunga lista. Quello che i big data e la rete ci permettono di fare è di arricchire le informazioni che abbiamo a disposizione utilizzando nuove fonti di dati, sia per smontare alcune false credenze che troppo spesso circolano, sia per sviluppare unquadro sul futuro che forse ci aspetta.
Se avessimo dato ascolto alle discussioni in rete avremmo per esempio saputo, già in tempi non sospetti, che il Belgio era una zona calda per quanto riguarda il livello di sostegno all’Isis. Da una analisi relativa a oltre due milioni di post effettuata da Voices from the Blogs per il Guardian nella seconda metà del 2014, quando ancora c’erano solo contenuti segnali di aggressività dell’Isis nei confronti dell’Occidente (almeno sul territorio europeo), emergeva che la percentuale di commenti simpatetici nei confronti dello Stato islamico e delle sue attività scritti in arabo su Twitter e provenienti dal Belgio era decisamente superiore al resto dell’Europa. Con un sentiment positivo pari al 31%, la comunità araba online in Belgio appariva infatti al terzo posto a livello mondiale, subito dopo il Qatar e il Pakistan.

Heat map del sostegno all’Isis online in Europa
(Sentiment a fine 2014; dati
Le Monde a ottobre 2015)
In questo senso la Rete, mostrandoci quali comunità arabe (in Occidente) esprimono maggior sostegno ai terroristi, può anche aiutarci a capire dove la soglia di attenzione andrebbe tenuta più alta. Guardando per esempio la heat map del sostegno online verso l’Isis e correlando tale sentiment, nei paesi del mondo occidentale (Europa, Nordamerica, ma anche Oceania e Giappone), con il dato sulleviolenze terroristiche effettuate dall’Isis (che trovate più in basso), possiamo osservare che, tra i paesi principali, Gran Bretagna e Spagna sono gli unici in cui l’Isis non abbia finora effettuato attacchi, nonostante in quelle zone il sentiment positivo sia superiore alla soglia di guardia (20%) e nonostante il fatto che entrambi i paesi erano già stati in passato vittime del terrorismo jihadista, seppur di diversa matrice da quello dell’Isis. Ma anche nell’area dei Balcani, dove il sentiment pro-Isis raggiunge livelli ancora più elevati, la situazione andrebbe forse ulteriormente monitorata. Insomma, dall’analisi dei big data il messaggio è chiaro: più alto il sentiment positivo, maggiori dovrebbero probabilmente essere gli sforzi dell’intelligence e le battaglie culturali (online e offline) per soffocare le risorse e togliere argomentazioni ai fiancheggiatori dell’Isis.
D’altra parte, la Rete è ricca di informazioni che potrebbero aiutarci anche ad evitare di formularegiudizi troppo avventati. Nella stessa analisi discussa più sopra emergevano infatti altri spunti degni di nota. Prima di tutto, per quanto elevato il livello di consenso potesse essere (o sembrare), le comunità arabe online esprimevano, a netta maggioranza, opinioni nettamente contrarie all’Isis: i giudizi negativi in Rete sfioravano complessivamente l’80%. Il dato, che è in linea anche con alcunisondaggi effettuati nei mesi successivi, è netto e non lascia spazio a fraintendimenti. Chi accusa dunque il mondo arabo di aperto sostegno all’Isis, da questo punto di vista, commette un errore, perché la volontà di condannare il terrorismo è evidente. Rimane, è vero, una area grigia minoritaria di sostegno all’Isis che, aspetto interessante, rimane sostanzialmente stabile (pur con le ovvie oscillazioni del caso) a livello complessivo durante sia la prima che, parzialmente, anche la seconda parte del 2015, e questo nonostante la crescente attenzione rivolta da parte delle istituzioni (e non: si pensi all’attività del gruppo di Anonymous a riguardo) verso i commenti online a favore dell’Isis.

Heat map del sostegno all’Isis online nel mondo
(Sentiment a fine 2014; dati Le Monde a ottobre 2015)

Anche la relazione tra Islam e terrorismo è da considerare più complessa di quanto appaia a prima vista. Se è vero che chi esprime sentiment positivo in Rete cita la difesa dell’Islam come la principale ragione per sostenere l’Isis, è altrettanto vero che un terzo dei commenti negativi (la maggioranza relativa) accusa l’Isis di strumentalizzare la religione islamica per interessi di potere. E proprio il composito mondo islamico è, al momento, la prima vittima dell’Isis. Alcuni dati riportati da Le Mondesottolineano come la maggioranza delle vittime dell’Isis sia di fede islamica piuttosto che cristiana, e gli attentati compiuti dallo Stato Islamico abbiano colpito più le moschee, rispetto a chiese e sinagoghe. Islamici di fede sciita e Imam sunniti che si sono opposti ad al-Baghdadi figurano infatti tra i principali bersagli della violenza dell’Isis.
Il terzo mito da smontare (o, per lo meno, da ripensare), riguarda invece coloro che parlano di due pesi e due misure. Se analizziamo la serie temporale del sentiment pro-Isis notiamo infatti un netto aumento dei giudizi negativi ogni qualvolta vengano colpite moschee o vengano uccisi Imam dissidenti. Al contrario, le decapitazioni di giornalisti occidentali non hanno inciso in modo sistematico sul sentiment, e questo vale anche per gli attentati avvenuti in occidente. Dopo i tragici fatti di Charlie Hebdo a Parigi, per esempio, il sentiment negativo è cresciuto, ma si è trattato di una reazione tanto immediata quanto effimera, che è poi scemata col passare delle settimane quando il livello di sostegno all’Isis è tornato sui suoi valori medi. Chi, come l’Imam di Catania, accusa gli occidentali di non piangere per gli islamici vittime dei jihadisti dovrebbe forse interrogarsi su quanto generalizzata sia questa assenza di empatia.




Ai giovani piace la responsabilità sociale d’impresa

Quattro persone su cinque ritengono che lo sviluppo della responsabilità sociale d’impresa, la cosiddetta Corporate Social Responsibility o CSR, possa avere un impatto significativo per la sostenibilità dell’economia europea. Dati che hanno un’immediata ricaduta sul mondo delle imprese: come, per esempio, l’inserimento in azienda del CSR manager, figura professionale presente nell’80% delle società quotate.
Inoltre un consumatore su due a livello mondiale è disposto a pagare un prezzo più alto per prodotti e servizi di aziende che si impegnano per il rispetto dell’ambiente e hanno un rapporto corretto e costruttivo verso la società.
Ma la vera novità è che i comportamenti etici e socialmente responsabili sono premiati soprattutto dai giovani: il 66% dei Millennials (i nati fra il 1980 e il 2000) è più propenso a investire in un’impresa nota per il suo programma di CSR, mentre solo il 48% degli over 35 è dello stesso avviso. E ben il 92% dei Millennials è più incline ad acquistare prodotti e servizi da una società etica. Per i giovani sostenibilità significa non solo salvaguardare le risorse del Pianeta ma creare prodotti e servizi innovativi che hanno ricadute positive sulla comunità.

Responsabilità sociale di impresa al Salone della CSR e dell’innovazione sociale

Archiviata l’edizione 2015 con un importante successo di pubblico, 4mila visitatori nella due giorni milanese, oltre 110 organizzazioni partecipanti, 100mila visite al sito della manifestazione e 2.266 tweet con hashtag #CSRIS15 in una settimana, il Salone tornerà all’Università Bocconi il 4 e 5 ottobre 2016.

“Il tema scelto per la quarta edizione” dichiara Rossella Sobrero, del Gruppo Promotore del Salone “poggia su tre parole chiave: Cambiamento Coesione Competitività. La capacità di innovarsi è il requisito fondamentale per rispondere alle richieste di una società in rapida trasformazione. Ma è necessaria anche un’attenzione nuova alle relazioni: non c’è sviluppo senza collaborazione, contaminazione, comportamenti inclusivi. La competitività diventa quindi il risultato di un nuovo modo di fare impresa. Al Salone metteremo in luce alcune delle iniziative che tante organizzazioni stanno realizzando per affrontare meglio le sfide di un mercato sempre più complesso”.

L’edizione di quest’anno si caratterizza, oltre per la qualità degli appuntamenti in calendario, anche per una sempre maggiore interattività del pubblico con organizzazioni ed esperti. Fra le novità dell’edizione 2016 anche il volume dedicato al Salone: realizzato con la casa editrice EGEA conterrà le riflessioni del Comitato Scientifico (27 docenti che insegnano nelle maggiori Università italiane), gli approfondimenti di esperti internazionali sul futuro della sostenibilità, dialoghi e interviste con alcune delle organizzazioni che partecipano all’edizione 2016.
Da marzo a maggio saranno cinque le tappe di avvicinamento all’evento nazionale di Milano: le prime due saranno Genova il 18 marzo a Palazzo della Meridiana e Portogruaro (Venezia) il 22 marzo al Campus Universitario di Ca’ Foscari. Seguiranno Bologna, Università degli Studi, il 12 e 13 aprile; Salerno, Università degli Studi, il 27 aprile; e Roma, Università LUISS Guido Carli, il 12 maggio.
Il Salone della Responsabilità Sociale di Impresa e dell’innovazione sociale è promosso da Università Bocconi, Unioncamere, CSR Manager Network, Alleanza delle Cooperative Italiane, Fondazione Sodalitas, Koinètica. Il Salone è un evento sostenibile certificato ISO 20121. Un risultato reso possibile anche grazie alle certificazioni ambientali 100% energia pulita e 100% CO2 free (Multiutility) e alla compensazione delle emissioni del sito (ReteClima).




Il vero significato della responsabilità sociale d’impresa

Oltre la semplice filantropia, imprenditori e manager devono impegnarsi a fare delle proprie aziende soggetti attivi nell’interazione con la società. 

Intervista del Prof. Luca Poma al Prof. Stefano Zamagni, per la Harvard Business Review


Iniziamo con il chiarire un aspetto fondamentale. Cosa non è responsabilità sociale d’impresa, secondo Te?
Non è né mera legalità né la filantropia come la si intende, che è sempre esistita dai primordi dell’economia di mercato. La Toscana e l’Umbria ne sono state la culla, dove già a partire dal 1200 nacquero le prime or­ganizzazioni di tipo filantropico. Quello che hanno fatto gli americani è stato di recuperare questa idea tutta italiana per trasformarla e renderla più efficiente: l’espressione vera e propria del concetto di responsabilità sociale d’impresa, in inglese la Corporate Social Responsibility o CSR, nasce negli Stati Uniti nel 1953, quando un economista americano all’e­poca non particolarmente noto, Howard Bowen, scrisse che era giunto il momento per le imprese di farsi carico della responsabilità per ciò che le circondava. L’impresa socialmente responsabile è quindi quella che non si limita a redistribuire parte dei propri profitti, ma che si adopera con i mezzi a sua disposizione per far sì che l’ordine sociale di cui è parte attiva evolva, migliorando tra l’altro l’efficienza dell’organizzazione poli­tica e amministrativa, generando benessere per i cittadini e permettendo così a tanti nuovi soggetti di immettersi nel circuito del mercato.

Un ruolo anche “politico”, quindi?
Diciamo che parlare oggi di responsabilità sociale vuol dire porsi il problema del mutamento delle regole del gioco: l’impresa socialmente responsabile è quella che contribuisce a ciò operando, ad esempio, a stretto contatto con i soggetti politici, con altri colleghi imprenditori e così via. Perché se non cambiamo le regole del gioco, è chiaro che la mia azione filantropica sarà costantemente insufficiente rispetto all’obiettivo finale.

Prendiamo come paradigma una grande azienda multinazionale auto­mobilistica, la quale – best in class nella CSR – a un certo punto dice bugie sulle emissioni nocive, e succede un disastro anche in Borsa. Cosa si è inceppato? Non era “CSR oriented”? Faceva finta? Cosa non ha funzionato?
La risposta è nella matrice etica che sostiene la respon­sabilità sociale dell’impresa, e tre sono le matrici domi­nanti. La prima è l’etica utilitaristica, sulla base della quale l’imprenditore ragiona così: ho scoperto che oggi essere socialmente responsabili conviene perché aumenta il capitale reputazionale della mia impresa e, in ogni caso, è il trend dominante; allora lo faccio anch’io, però sono pronto a modificare la strategia in qualunque momento se scoprissi che questo non è più conveniente. Il secondo approccio è invece quello dell’etica deontologica, ovvero l’etica del dovere. La re­sponsabilità sociale va fatta perché è un dovere civile, cioè fa parte della cosiddetta costituzione morale dei soggetti. Da notare che l’etica deontologica ha avuto nel filosofo tedesco Kant la sua massima espressione. Infine, c’è il terzo modello, l’etica delle virtù, nata in Grecia all’epoca di Aristotele e poi perfezionata nel corso dei secoli, la quale sostiene che bisogna agire sulla base del convincimento che il mio benessere deve andare di pari passo con il tuo. Allora capiamo subito che – per stare all’esempio Volkswagen – siamo dinnanzi a ciò che succede quando una impresa basa la CSR sul codice deontologista o peggio su quello utilitaristico. L’errore da parte della governance VW è stato quello di non capire che ciò è rischioso, perché nel momento in cui l’etica dimostra di non essere più conveniente sotto il profilo delle performance, la si ab­bandona, ed è esattamente ciò che è avvenuto nel loro caso. Quando hanno capito che si potevano fare extra profitti violando quello che loro stessi avevano dichia­rato nei loro documenti di rendicontazione sociale e nei codici deontologici, l’hanno fatto. Ora questo errore teorico sta facendo pagare loro un danno enorme nel concreto sia per gli andamenti del titolo in Borsa sia in termini di pregiudizio reputazionale.

Possiamo quindi arrivare a dire che se adesso VW pro­muovesse un’operazione di recovery reputazionale, pur efficientissima, ma senza modificare il proprio paradigma etico, tra 5 anni saremo punto a capo?
Certamente, e non solo, rimarrà sempre un margine di dubbio e di diffidenza sulle loro azioni. Tutti ab­biamo letto le dichiarazioni del CEO di Volkswagen, ma non convincono più, si tratta solo di dichiarazioni strumentali. Devo dire che – rispetto alle tre matrici che ho richiamato – gli italiani hanno mille difetti ma sono però molto più vicini a essa di tutti gli altri popoli. Il nostro imprenditore magari fa meno, dà un po’ meno, però quando dà, è perché è davvero convinto del fatto che deve stare bene lui assieme agli altri. Quando una persona di buon senso dice: “Io devo guardare all’in­tenzione e non solo il gesto, non solo al fatto che mi dai cento euro, ma voglio anche capire perché me li hai dati”, ebbene, viene sostanzialmente a dirmi: “Se io so che tu sei davvero un virtuoso, semplicemente di te mi posso fidare”. E la fiducia – come sappiamo – è un asset intangibile preziosissimo.

Facciamo del fanta-management. Domani squilla il telefono del tuo studio in Università e il nuovo CEO di Volkswagen la chiama come general advisor su questi temi, per dare un contributo a risolvere il problema. Tu cosa gli consiglieresti, ora, a problema già deflagrato?
Di fare il primo gesto importante, ovvero non tanto di ammettere l’errore – questo è evidente a tutti – bensì di spiegare esattamente qual è la ragione profonda che li ha indotti in errore. Questa sarebbe la prima “prova della verità”, che fino ad oggi non hanno fatto. Perché sono tedeschi, e questa è la matrice culturale tedesca: dovrebbero ammettere che il deontologismo – a cui loro si sono legati mani e piedi sin dall’inizio, e che ha come conseguenza il doverismo – è clamorosamente fallito.

Come un esercito…
Esatto, non per nulla in passato abbiamo avuto certi tipi di esperienze con i tedeschi: gente che dice “io devo obbedire per dovere”. È chiaro che loro probabilmente non ce la faranno mai a cambiare, perché dovrebbero sconfessare una lunga tradizione di pensiero, mentre sono ancora troppo “prussiani”. Se però facessero questo gesto, creerebbero uno shock nel loro Paese e passerebbero alla storia, perché avrebbero il corag­gio di dire: “Noi abbiamo fatto ciò che abbiamo fatto perché aderendo a quella matrice filosofica o culturale siamo stati indotti a commettere un errore di questo tipo, che non è un errore modesto…”. Tenuto conto del fatto che la governance della Volkswagen com­prende non soltanto gli azionisti privati ma anche lo Stato, l’Assia, che ha ben il 20% del gruppo, oltre ai sindacati… Allora la domanda è: è mai possibile che in un consiglio di amministrazione, in un consiglio di sorveglianza dove siedono i rappresentanti dei tre ver­tici, nessuno – perché chi ha scoperto l’inganno è stata una organizzazione non governativa americana – si sia accorto di nulla…?

Secondo te sapevano e sono stati zitti, oppure non sapevano e sono stati inadeguati?
Sapevano benissimo, come peraltro è stato dimostrato da chi ha denunciato il problema. E’ ovvio che i casi sono due: o questi membri del consiglio di ammini­strazione si disinteressavano ed erano completamente assenti, e questa è un’aggravante, oppure sapevano bene. La verità è che queste decisioni sono filtrate sia dal consiglio di sorveglianza che dal consiglio di am­ministrazione.

Anche i soci pubblici?
Certo. Tutti pensavano che la presenza del soggetto pubblico – e il 20% è una quota non banale – fosse una garanzia sufficiente per garantire il bene comune, ma non è stato così. Come mai il sindacato è stato zitto? Per difendere certi interessi… Ma allora vuol dire che tu difendi i tuoi lavoratori e non i lavoratori in gene­rale. Ecco perché un gesto di questo tipo, quello che ho appena suggerito, sarebbe l’unico realmente adeguato.

La Harvard Business School ha pubblicato qualche tempo fa una ricerca durata 18 anni, paragonando 90 aziende che facevano CSR integrata realmente nei propri processi di governance e 90 aziende che non la facevano: il risultato è una differenza del 25% nel rendimento di Borsa. Quindi neanche gli imprenditori ormai hanno più la scusa di dire “non so”, “non ho ca­pito”. Perché allora tutti questi ritardi?
Tre i motivi. Il primo è che nel mondo delle imprese nell’ultimo quarto di secolo si è assistito a un processo di crescente managerializzazione, e il manager – an­che se dico una cosa che a qualcuno darà fastidio – è una specie molto raffinata di “mercenario”. Nel Me­dioevo i mercenari combattevano per chi pagava me­glio. Ebbene, se qualcuno fa a un manager un’offerta vantaggiosa, questi abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppi pochi manager, quindi negli ultimi decenni si sono fatti inve­stimenti nelle Business School. Perché a un manager la CSR interessa poco? Perché il vantaggio competitivo che la CSR conferisce è un vantaggio di medio-lungo termine. E’ chiaro che lo short-termism porta a una sottovalutazione: chi pratica la CSR guadagna in repu­tazione e ha quel 20% in più di utili, ma a me manager questo non interessa, io intanto ho il mio contratto, è già definito ex ante, ho già il golden parachute, e quindi vado avanti…

Questo è vero anche per Volkswagen.
Esatto. Invece l’Italia non è così; c’è una peculiarità italiana, perché gli imprenditori ci sono e governano le loro aziende. La seconda ragione è legata al fatto che per mettere in pratica la CSR ci vuole una competenza specifica, mentre per fare donazioni di tipo filantropico basta mettere mano al portafoglio e firmare un asse­gno. Inoltre la CSR ha degli effetti sull’organizzazione interna del lavoro, non soltanto sull’immagine esterna: quindi manca il coraggio – da parte degli imprenditori, in questo caso – di mettersi in gioco. La terza ragione, infine, ha a che vedere con la dominanza che ha an­cora il modello così detto ford-taylorista, un modello di tipo gerarchico con struttura di tipo piramidale. Da almeno 30 anni a questa parte è iniziato un distacco dal modello tayloristico verso quello post tayloristico, il “toyotismo” è un esempio di post taylorismo. Però di fatto oggi, per le ragioni di pigrizia e di lentezza del processo di transizione, la gran parte delle imprese ha ancora una struttura mentale di tipo tayloristico. Nella struttura tayloristica è ovvio che la CSR ha difficoltà enormi ad entrare, perché è chi sta al vertice della pi­ramide che pensa, decide e comanda, mentre la CSR presuppone una sorte di orizzontalità, di circolarità, devi avere l’umiltà di ascoltare e di dialogare con i tuoi pubblici, capire che tipo di azienda vogliono. Aggiungo un’appendice: c’è anche un ritardo culturale dovuto al fatto che si fa fatica a comprendere che rendere parteci­pativo il processo decisionale migliora le performance. Molti lo interpretano appunto in chiave “offensiva”. 

Come non era, per citare un esempio noto ai più, per Olivetti…
Si, è un esempio molto citato, ma è bene ricordarlo. Quando nel ’55 Olivetti creò la sua squadra, vi mise a capo un ingegnere che un giorno andò da Adriano e gli disse: “Devi licenziare Natale Capellaro”, che era un operaio, aveva fatto la quinta elementare o giù di lì, ed era del leccese, del Sud. Olivetti gli chiese: “Ma perché?”. E quell’ingegnere rispose: “Perché ho visto che ruba, porta via dei pezzi, la sera”. Olivetti, se fosse stato un taylorista, avrebbe detto: il mio ingegnere capo mi dà l’evidenza, quindi licenzio in tronco il di­pendente. Invece no, chiamò Capellaro e gli chiese: “Perché si dice questo di te?” E lui rispose che era vero, e che lo faceva perché l’ingegnere capo era un imbecille che stava sbagliando i piani di produzione. “Io gliel’ho detto e lui mi ha risposto: taci tu che sei un terrone semi analfabeta, vuoi insegnare a me che sono ingegnere?” Quindi Capellaro si portava i pezzi a casa perché aveva trasformato la sua cantina in un piccolo laboratorio dove stava costruendo delle cose per dimostrare all’azienda che aveva ragione, e per fare meglio…mi spiego? Olivetti allora chiamò l’ingegnere capo e lo licenziò in tronco, dicendogli: “Io ti licenzio non perché hai sbagliato il piano di lavoro, tutti pos­sono sbagliare, ma in primo luogo perché hai offeso la dignità di una persona, e in secondo luogo perché non sei stato capace di raccogliere l’intuizione e l’idea creatrice di Capellaro, solo perché lo consideravi infe­riore a te”. Cacciò via l’ingegnere tra lo sgomento di alcuni e – qui si vide l’imprenditore illuminato – mise a capo della squadra proprio Capellaro. Dopo due anni viene fuori che quel prodotto ha reso una montagna di profitti alla Olivetti. Poi Olivetti fece conferire dal Poli­tecnico di Bari la laurea honoris causa in ingegneria a Capellaro. Questo è l’esempio che ci fa capire meglio ciò che intendevo dire… 

L’assenza di doverismo?
Si. Perché Capellaro faceva ciò che faceva, faticando e rischiando? Non perché era obbligato da qualcuno, o perché si sentiva obbligato lui stesso, bensì perché lì dentro si percepiva l’etica delle virtù, perché Olivetti era una persona che testimoniava con la propria vita l’ade­sione all’etica delle virtù, e lo dimostrava nel concreto. E Capellaro pensava: “Voglio cooperare con la mia azienda perché la mia azienda produce bene, fa le cose per bene”. La sua motivazione interiore era in linea con quella dell’azienda. Ma se avesse saputo che l’azienda faceva certe cose solo per interessi di parte, o per pura speculazione, non avrebbe mai fatto ciò che fece. 

Ti chiedo un parere su un caso di studio, quello di Guna, una PMI italiana che ha introdotto un bilancio integrato che invece di essere fatto dal management a fine anno, come rendicontazione ex post, è costruito da tutti gli stakeholder settimana dopo settimana: le ONG scrivono la propria, i dipendenti la propria e via discorrendo. Il bilancio integrato è online 365 giorni all’anno, costantemente aggiornato, senza “lifting” di fine anno. Cosa ne pensi?
E’ semplicemente geniale, ed è esattamente ciò verso cui dovremmo andare. Aggiungo che molte imprese purtroppo non sanno ancora cos’è il bilancio integrato, e quindi si limitano a interpretare il bilancio sociale come una mera descrizione narrativa ex post di quello che hanno fatto, redigendo quello che al massimo è una “relazione”. Un bilancio non deve solo raccontare quello che è stato fatto, ma deve misurare l’impatto di quello che è stato fatto, e questo è il punto. Spesso non si è in grado di distinguere la valutazione in base all’outcome, e si guarda solo l’output: io organizzo un corso di formazione e impiego certi input che hanno determinati costi; l’output è di 100 giovani in cerca di lavoro che hanno seguito il corso di formazione, e nel rendiconto io dico che 100 hanno partecipato, ma qual è l’outcome? Quanti hanno poi trovato lavoro? Il vero bilancio integrato è quello che riesce ad arrivare a valu­tare l’impatto sociale dei progetti dell’azienda. 

Ti chiedo di essere politicamente scorretto e di dirmi: cosa non ti piace, ti dà più fastidio, condividi di meno nel mondo della CSR, lato imprese.
La letteratura sulla CSR fino ad oggi è in grado di ri­empire intere biblioteche ed è valsa a far penetrare nella testa di tutti – non solo delle imprese, ma anche dei cit­tadini – l’idea dell’utilità della responsabilità sociale per l’intera società. Ormai è difficile trovare un’azienda che parlando di responsabilità sociale d’impresa sorrida, com’era fino agli anni ’70 in America, quando Milton Friedman spiegava che l’unica cosa da fare era massi­mizzare i profitti ad ogni costo. Ma dopo aver perfezio­nato le tecniche, ci si è un po’ fermati: abbiamo interi volumi che ti dicono che il bilancio sociale va fatto in un certo modo, altri che la mettono in modo del tutto diverso. Si parla molto delle tecniche, ma se noi pren­diamo questi bilanci in carta patinata e con bellissime fotografie ci rendiamo conto che ormai è diventata una sorta di moda. È questo è pericoloso, perché noi sappiamo che le mode hanno vita breve. Io allora sarei per rilanciare il dibattito pubblico su questo tema, par­tendo soprattutto dalla considerazione che oggi le im­prese, perlomeno quelle medie e medio-grandi, stanno sempre più diventando “attori politici”, in senso alto. Cioè l’impresa non è solo un attore economico, bensì ha a che fare con la polis, la città-stato greca dove vi­veva la comunità. Quando – agli imprenditori, più che ai manager – si spiega tutto ciò, loro capiscono e rimangono abbacinati, perché quando si dice a un impren­ditore “guarda che tu sei un soggetto, un attore anche politico, e devi e puoi farti carico secondo le tue possi­bilità del bene comune della comunità”, lui va al set­timo cielo, perché questo gli fa recuperare il suo sogno iniziale. Spesso si dice che gli imprenditori sono tirchi, ma non è vero; quando sono abbottonati o bloccati è solo perché non viene loro offerta una vera prospettiva. Certo che se l’imprenditore viene svillaneggiato dal sin­daco di turno e viene deriso dal sindacato, alla fine si richiude come un riccio, come nella tana di Kafka; ma se invece lo si rende davvero partecipe del bene comune della sua comunità, reagisce, e il bello è che torna a di­vertirsi davvero. 

Un messaggio finale sulla CSR indirizzato ai giovani?
Di non pensare che quanto hanno ricevuto o letto, con riferimento al passato, possa essere replicato conti­nuando sempre allo stesso modo in futuro. Un giovane deve convincersi che il progresso è contraddistinto da “salti”, quelli che nel gergo dell’economia industriale si chiamano le “disruptive innovations”, perché quando un giovane è cosciente di questo, si mette in moto, si attiva, vede la possibilità di cambiare le cose. Se invece a un giovane diamo l’idea che più o meno tutto andrà sempre come nel passato, che non cambierà nulla e che l’unica cosa che può accadere è una mera “ripulitura” o un miglioramento marginale, il giovane si affloscia e perde in potenza. A un giovane bisogna dare un motivo di speranza. Per questo vorrei concludere con le parole di un poeta inglese, John Dryden, quando diceva: “Chi cerca perle, deve tuffarsi in profondità”. 

Stefano Zamagni è un economista e un teorico della CSR, Professore ordinario di Economia all’U­niversità di Bologna e di International Political Economy alla Johns Hopkins University. 

Luca Poma è scrittore, e Professore di reputation management all’Università LUMSA di Roma e specialista in Crisis communication. “Pu­blic Affairs Awards” per l’eccellenza nella comunicazione, è stato Consigliere per le strategie digitali del Ministro degli Esteri e membro del team per le policy di comuni­cazione strategica del Ministero della Difesa. Il suo blog è Creatoridifuturo.it. Ha lavorato a progetti di comuni­cazione in 23 Paesi, e a gennaio 2016 è uscito il suo de­cimo libro, per Franco Angeli, dal titolo “Il sex-appeal dei corpi digitali”  www.corpidigitali.it . Si ringrazia Daniele Tigli per la collaborazione alla realiz­zazione dell’intervista.