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Ecco le skyfarm, fattorie del futuro

Edifici nelle grandi città con allevamenti di bestiame e coltivazioni biologiche. La nuova frontiera dell’allevamento. Un’idea innovativa, in linea con i principi dello “zero waste” (rifiuti zero), che permetterebbe di utilizzare al massimo le risorse, riutilizzando anche gli scarti.

Si tratta degli skyfarming, ovvero torri agricole con piccolo impatto ambientale per la produzione di cibo a basso costo. Nati da una provocatoria proposta di Dickson Despommier, docente di Salute pubblica e microbiologia alla Columbia University, i vertical farming prevedono allevamenti di bestiame in palazzi di trenta piani. Per esempio suini al settimo, polli all’ottavo, ovini al nono, mentre i piani alti dedicati alle coltivazioni di legumi, vigne, ortaggi e una vasta varietà di ortaggi che ha bisogno di tanta acqua per attecchire. L’acqua usata per irrigare i raccolti ai piani superiori scenderebbe lentamente verso il basso per irrigare anche grano, frutta e verdura. Una parte dei rifiuti, poi, potrebbe essere utilizzata come mangime per gli animali dei piani più bassi. Le rimanenze, invece, finirebbero nei sotterranei come scarti organici, dove verranno trasformati, tramite fornaci fotovoltaiche, in “bio palline” di combustibile biocompresso che, producendo energia, finirebbe per generare l’elettricità utilizzata per alimentare l’edificio. In questo modo, attraverso un efficiente processo di riciclaggio, i rifiuti verrebbero ridotti al minimo, col recupero del vapore acqueo emesso da piante ed animali. Tale vapore potrebbe essere trasformato in acqua pura da imbottigliare e rivendere al dettaglio nei ristoranti e nei supermercati situati al piano terra o nel seminterrato dell’edificio. Un metodo rivoluzionario per fornire alle varie città un mezzo che garantisca l’approvvigionamento di cibi coltivati con metodi organici. Una risposta ai problemi ambientali sempre più sentiti ai giorni nostri. Per il momento questi edifici sono stati realizzati solo in piccole comunità in Arizona e in California, ma in molti ritengono che questa nuova proposta possa svilupparsi a macchia d’olio in tutti gli Stati Uniti, trascinata dalla crisi dei mutui. In America infatti l’instabile situazione immobiliare ha portato al proliferarsi di una serie di edifici vuoti. Oggi, un pò come negli anni ottanta, interi isolati sono disabitati ed abbondano di palazzi che potrebbero essere riconvertiti in aziende agricole a carattere urbano. Gli esperti sostengono che nella sola città di New York ne potrebbero sorgere in poco tempo più di quindici, ognuno in grado di produrre cibo a sufficienza per soddisfare oltre settantacinquemila persone. Con centosessanta skyfarm si potrebbe addirittura sfamare l’intera popolazione della “Grande Mela”. L’idea di un palazzo simile nella metropoli a stelle e strisce non è peregrina: Scott Stringer, presidente del consiglio di quartiere di Manhattan, ha ordinato uno studio di fattibilità da presentare al sindaco Michael Bloomberg già entro febbraio. “Non disponiamo di molta terra coltivabile – ha commentato Stringer – ma a Manhattan il cielo non ha limiti”. Non solo New York, molte altre città come Toronto, Seattle e San Francisco, hanno già strizzato l’occhio alla costruzione di questi edifici. Las Vegas, il luogo per eccellenza in cui la creazione di simboli architettonici è arte, sta pianificando una skyfarm di trenta piani. In altre nazioni come Cina, Corea del Sud, Emirati Arabi, invece, dove la disponibilità di suolo coltivabile scarseggia per ovvie situazioni ambientali, molte città si sono affrettate a chiedere progetti di fattibilità. Molti sindaci sono disposti a sposare quest’opera di riconversione eco-sostenibile delle grandi metropoli e molti architetti famosi hanno già dato la propria disponibilità. Tra questi il francese Pierre Satroux, l’americano Chris Jacobs, l’australiano Oliver Foster, il canadese Gordon Graff ed il polacco Daniel Libeskind. I progetti presentati sono una sorta di ibridi architettonici che si ispirano ai giardini pendenti di Babilonia, alla Biosfera del deserto dell’Arizona con un tocco futuristico verso i videogiochi SimCity e Second Life.
Alcuni però si oppongono agli skyfarm. Secondo Jeffrey Kaufman, professore di Pianificazione urbana all’Università del Wisconsin a Madison, l’idea di Despommier è eccessiva. “Perché trenta piani? – si è domandato in una recente intervista – Sei basterebbero. Il concetto è interessante ma è estremizzato”. Armand Carbonell, direttore del Dipartimento di pianificazione urbana del Lincoln Institute of Land Policy, affronta invece il problema economico, bocciando il progetto. “Siamo sicuri – ha ironizzato Carbonell – che un pomodoro riuscirebbe a battere un banchiere per l’affitto di un grattacielo nella parte sud di Mahattan? Scommetto che il banchiere pagherebbe di più”. Senza contare che ad un costo nominale di duecento milioni di dollari l’impresa rischierebbe di essere terribilmente antieconomica.




COMUNICAZIONE DI CRISI E CRISIS MANAGEMENT, STRUMENTI STRATEGICI DELLE RP

Siamo in crisi? Sì, grazie! Imparare a comunicare e gestire le crisi. Strategie e case history emblematiche per salvaguardare la business continuity e la reputazione. Sono questi i temi al centro del corso organizzato da Ferpi, in programma venerdì 26 febbraio a Milano, a cura di Luca Poma e Chiara Galgani, con la partecipazione di Fabio Caporizzi.

“Ci vogliono vent’anni per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla” affermava l’imprenditore ed economista statunitense Warren Buffett.
Il legame di fiducia reciproca tra i diversi soggetti economici è diventato oggi un requisito indispensabile per l’economia e per la sopravvivenza delle imprese: per operare nella società moderna un’azienda deve godere di un indiscusso consenso da parte di tutta la comunità. Fiducia che è possibile costruire nel tempo solo attraverso comportamenti e comunicazioni coerenti e senza macchie, e che viene seriamente minacciata quando un’azienda si trova coinvolta in una crisi reputazionale. La risposta che ciascuna organizzazione sarà in grado di dare e comunicare all’interno e all’esterno risulterà fondamentale per preservare il legame di fiducia con i suoi interlocutori chiave e stakeholders.
Nell’ultimo decennio grandi aziende, multinazionali, banche d’affari e altre organizzazioni sono cadute vittime della loro intrinseca arroganza, incapaci di strutturare anticorpi efficaci per far fronte a situazioni di crisi, “i responsabili delle imprese faticano ancora a comprendere come tutte le aziende corrano stabilmente il rischio di essere colpite da un boomerang, specie a causa delle rapidissime dinamiche del mondo digitale”.
Il crisis management è tuttavia un processo di medio-lungo periodo che comprende tutte le attività da porre in atto prima, durante e dopo un evento critico, per proteggere l’organizzazione dalle minacce o per ridurne l’impatto negativo. La comunicazione di crisi assume un significato fondamentale, ma – per semplificare le cose – non dovrebbe essere altro che l’estensione naturale della comunicazione di ogni giorno. “Come ci ricordava già molto tempo fa il Cluetrain Manifesto – afferma Poma -,‘i mercati sono diventati conversazioni e le aziende devono capire che i tempi dei monologhi sono finiti’. Le parole chiave del XXI secolo utili per creare valore per gli azionisti sono ‘autenticità’, ‘condivisione con gli stakeholder’ e ‘costruzione di reputazione’: questo include simulare scenari critici, con tranquillità, in tempo di pace, e simulare, e simulare ancora… finché l’organizzazione non è perfettamente pronta ad affrontare qualunque tipo di potenziale problema reputazionale”.
Poma spiega come “Non esista un vero e proprio ‘ABC’ di comportamento”, perché “La gestione di una crisi è ‘fluida’ per definizione, quindi non imbrigliabile in schemi completamente rigidi. Essa richiede una conoscenza dettagliata dei meccanismi tecnici di gestione, una profonda consapevolezza delle variabili in campo, sia ambientali sia umane, ma anche una buona dose di creatività e capacità d’improvvisazione. Come per la strategia militare, è una tecnica, non una scienza”. Se è consentito il paragone, si può immaginare un atleta che si allena seguendo un planning standard, ma a ogni competizione deve misurarsi con forze e variabili ambientali differenti.
Ci sono delle regole base, non si deve mai “Cadere nella pratica abituale della sottostima della crisi: 9 volte su 10 gli imprenditori la negano, perché non hanno saputo cogliere i segnali di allarme precedenti, anche se deboli; scaricare la responsabilità; aggredire il proprio interlocutore, mostrando i muscoli, o affidandosi solo agli avvocati, che hanno strumenti obsoleti e spesso una scarsa formazione specifica”.
Di contro, un’impresa ha almeno tre cose da fare assolutamente. “Assumersi le proprie responsabilità: è confermato che le aziende che sanno chiedere scusa sono quelle che più rapidamente recuperano reputazione presso gli utenti-consumatori; a ciò va ovviamente aggiunta la capacità di applicare meccanismi correttivi e far comprendere agli stakeholder per quale motivo quel dato problema non si ripeterà mai più; soprattutto, ben prima che una crisi scoppi, fare una continua previsione di possibili scenari critici, con vere e proprie simulazioni per identificare eventuali aree vulnerabili, perchè la capacità di superare una crisi è direttamente proporzionale alla quantità e qualità di scenari elaborati preventivamente. Va creata un’attitudine che permette ai manager di avere più tonicità, per affrontare situazioni difficili. Ci vuole formazione per gestire una crisi ed è necessario stanziare un budget adeguato nei costi di impresa; infine, gestire il post crisi, perché questa non è mai finita quando sembra, rimane sempre una coda strisciante.
“In Italia sono ancora molte le aziende poco strutturate su questi aspetti, il nostro è un paese ‘a bassa sensibilità’ sul tema del crisi management, e si tende sempre – spesso goffamente – a cercare di rimediare al danno quando esso è già commesso, e questo comporta dei costi molto alti per l’impresa, oltre a pregiudicare l’indice reputazionale delle aziende, che – come sappiamo – è l’asset intangibile oggi come oggi più prezioso”
Secondo Chiara Galgani “È senz’altro vero che non esiste un ‘abc’ precostituito per la gestione delle crisi, ma una regola che vale sempre la pena tenere presente è quella di evitare di non comunicare, chiudendosi a riccio e sfuggendo al confronto diretto con i pubblici di riferimento, perchè i media si interesseranno comunque della crisi, e l’assenza di comunicazione si tradurrà semplicemente nel mancato governo dell’evento con amplificazione degli effetti negativi sulla reputazione aziendale.
Le case history che discuteremo con i partecipanti al corso Siamo in crisi? Sì, grazie! Come comunicare le crisi: strategie e case history per salvaguardare la business continuity e la reputazione, in programma venerdì 26 febbraio a Milano presso la sede della Federazione (via Lentasio, 7 – dalle 09.30 alle 17.30), dimostrano come la risposta attiva alla crisi, con creazione e gestione di un flusso continuo di informazioni, trasmissione di messaggi declinati e adattati per i diversi pubblici insieme a informazioni chiare e trasparenti sono uno sforzo necessario per trasformare la gestione della crisi in un’opportunità.
Se nel momento della crisi l’organizzazione si dimostra attendibile e oggettiva nei sui flussi di comunicazione, il processo di ‘gestione e degenza’ potrebbe notevolmente accorciarsi, lasciando più tempo e opportunità di costruire valore nella fase di riconsolidamento della propria immagine.
La comunicazione in caso di crisi deve essere proiettata sempre al futuro: le misure di change management e il ripensamento dei processi organizzativi aziendali vengono di conseguenza recepiti come sostanziali, e non solo come palliativi, offrendo così all’organizzazione l’opportunità di creare una nuova storia da comunicare”.
Data e sede:
Venerdì 26 febbraio 2016
ore 09.30/17.30
c/o FERPI
via Lentasio, 7
Milano
A cura di:

  • Chiara Galgani, Media Relation Manager di Banca Mps e Socia Ferpi
  • Luca Poma, Giornalista, Docente, Consulente in Reputation management e Socio Ferpi

Guest Speaker: 

  • Fabio Caporizzi, Amministratore Delegato di Burson-Marsteller e Presidente di Y&R Group

 
Obiettivi e Contenuti:
Analizzare la comunicazione in caso di crisi: gli elementi scatenanti e le relative modalità di azione, punti di forza e di debolezza su cui lavorare, strutturare una strategia efficace per salvaguardare la business-continuity e la reputazione.
Destinatari:
Consulenti professionisti di Crisis Management e comunicazione di crisi, uffici stampa, accademici, amministratori pubblici, istituzioni pubbliche, manager di grandi, piccole e medie aziende e tutti coloro che volessero scoprire e approfondire le tematiche legate a questa disciplina.
Iscrizioni/costi:

  • Per i Soci Ferpi in corso di qualificazione e nuovi iscritti: gratuito
  • Per i Soci Professionisti Ferpi già qualificati: 200 euro
  • Per i Frequentanti esterni non soci: 450 euro

Crediti per Soci Ferpi: 100
Per informazioni ed iscrizioni: casp@ferpi.it




Le bugie del Family day

Chi ha organizzato il Family day ha anche organizzato una campagna di comunicazione piena di falsità. Una campagna contro l’affermazione dei diritti umani e dell’uguaglianza. 
Due milioni di partecipanti è una menzogna detta da persone che mentono sapendo di mentire. Una cifra gettata a caso visto che al Circo Massimo – inclusi gli immediati dintorni – è possibile un’affluenza massima di 250mila persone.
I bambini vengono sempre ascoltati in caso di richiesta di adozione, è consuetudinario, è una routine consolidata per prassi e per giurisprudenza in tutta l’Unione europea. Non esiste una sola pratica di adozione di un bimbo o di un ragazzo nella quale esso non venga audito dai servizi sociali, esattamente come nelle cause di separazione. È così da anni, e questa quindi è un’ulteriore falsità di Manif pour tous. Chi mente, ipotizzando “adozioni forzate, con bambini trattati come oggetti”, distorce la realtà e passa automaticamente dalla parte del torto, perdendo il diritto ad essere ascoltato con la considerazione che altrimenti meriterebbe.
La questione non è tra diritti delle persone omosesessuali contrapposti ai diritti delle persone eterosessuali. La famiglia tradizionale merita totale e assoluto rispetto, perché senza famiglia tradizionalmente intesa, tesa alla procreazione, non esisterebbe più il pianeta, e vorrei che il mondo LGBT – giustamente arrabbiato, perché vessato e maltrattato da anni – questo non lo dimenticasse mai. Ma la famiglia tradizionale non perde proprio nulla dall’affermazione dei diritti delle persone con diverso orientamento sessuale: si possono varare incentivi per la famiglia tradizionale e nel contempo difendere i diritti di persone che non possono continuare ad essere considerati cittadini di serie B.
Si dia il caso che una coppia etero si “spezzi” e che il marito si dia alla macchia o non riconosca il bambino, cosa meno rara di ciò che si possa pensare; sia dia il caso che il coniuge rimanente, donna, si risistemi; ebbene, perché se il nuovo compagno di lei è uomo può adottare il bimbo, mentre se è donna – presumibilmente lesbica in questo caso – non può…? Questa è una discriminazione, una violazione del diritto costituzionale all’uguaglianza dei cittadini. È anche bene ricordare che tutti i bambini che le coppie gay vorrebbero adottare sono figli di famiglie tradizionali che li hanno abbandonati. Questo è un “dettaglio” che i membri di Manif pour tous e i loro alleati – nella loro foga omofobica – si dimenticano sempre.
Non esiste alcun “utero in affitto”. Un altra bugia del popolo del Family Day è questa: le politiche anti-omofobia legittimerebbero masturbazioni a quattro anni, amore gay a sei anni, gravidanze indesiderate a dodici anni, il tutto suggerito da linee guida dell’OMS. Ma scorrendo l’intero Progetto di Legge per le coppie di fatto non si trova mai alcun accenno alla cosiddetta pratica dell’utero in affitto (maternità surrogata) ne tanto meno alle altre pratiche che tanto allarmano i cattolico ultra-conservatori: la pratica dell’utero in affitto rimane vietata nel nostro paese.
Non esiste alcuna “adozione gay”. Altra bufala del popolo del Family Gay: la cosiddetta “step-child adoption” Attualmente i figli delle coppie gay hanno solo il genitore naturale come genitore legittimo, l’altro è un estraneo. La stepchild, recependo anche sentenze della Cassazione, permette al nuovo compagno/a di un cittadino/a eventualmente divorziato/a che decida di rifarsi una vita con un compagno/a dello stesso sesso, di diventare a tutti gli effetti genitore, dando unità alla nuova famiglia. Le adozioni normalmente intese, invece, restano una prerogativa delle coppie eterosessuali.
Possiamo immaginare un mondo dove le parole “lesbica” e “omosessuale” non generino disgusto, alzata di sopracciglia, dubbi, riserve…? Chi lo fa è egodistonico e ha problemi seri a rapportarsi con persone con un orientamento sessuale diverso dal proprio. Anni fa ho avuto una relazione con una ragazza belga, Geraldine, deliziosissima, con la quale sono stato un anno e mezzo; poi si è felicemente sposata e ora ha tre splendidi bimbi, due suoi e uno dell’attuale marito, che l’ha scelta come compagna di vita dopo un suo precedente matrimonio, un altro esempio di famiglia “non tradizionale”, se vogliamo. Ebbene, all’epoca Lei – da eterosessuale – frequentava quasi solo locali e discoteche gay  perché diceva che si trovava meglio, si divertiva di più, c’era molta meno droga che nei locali etero, e nessuno la importunava. Sono scelte, ma posso garantire che mai e poi mai quella ragazza ha avuto parole di spregio o anche solo di presa di distanza da qualunque gay o lesbica, perché una persona “serenamente etero” non ha di questi problemi. Chi ha riserve o peggio schifo per il mondo omosessuale andrebbe curato.
Le prese di posizione di molti partecipanti al Family Gay sono l’anticamera della discriminazione. Basta vedere le interviste video realizzate al Circo Massimo: queste persone disprezzano gay e lesbiche, o nella migliore delle ipotesi provano per quel mondo una gelida indifferenza: è come quando ci si girava dall’altra parte, nel 1939, quando veniva discriminato un ebreo, dicendo: “non lo discrimino io, semplicemente non mi interessa la sua storia, la sua vita e la sua sorte”. Di li alla repressione, al “lasciar fare”, al girarsi dall’altra parte dopo un pestaggio, una violenza o una discriminazione, è un attimo.
A causa di chi ha manifestato al Circo Massimo la scuola italiana è indietro di 20 anni. L’Italia è l’unico paese in Europa dove nelle aule di studio non si parla apertamente e serenamente di diversità, di educazione sessuale, di formazione contro il razzismo omofobico, e ciò accade perché per alcuni adulti è “tabù”: alcuni genitori rivendicano il diritto di “parlarne loro a casa”, salvo poi parlarne ai propri figli in modo velatamente sprezzante, come un qualcosa dal quale stare lontani. Questi genitori hanno obiettivi problemi di relazione con ciò che è diverso da loro, e stanno chiedendo allo Stato il permesso di fare i razzisti nel chiuso delle loro mura domestiche: questo è inaccettabile, perché il rispetto dei diritti delle persone è un valore da tutelare oggettivamente, non è soggettivamente a disposizione solo di chi vuole applicarlo.
Non esiste un solo paese nell’intero mondo civilizzato che non abbia una legge per normare i diritti delle coppie di fatto, siano eterosessuali o omosessuali. E allora, sogno un mondo dove le mamme e i papà biologici possano godere di incentivi e sostegno e assistenza per fare ciò che di più bello al mondo si possa fare: accendere e far crescere una nuova vita. Sogno un mondo dove fin dalle scuole s’insegni cosa significa “diverso orientamento sessuale” con metodi e linguaggi adatti ai bambini – che, posso garantire, non si scandalizzano mai se le cose sono spiegate nel modo giusto – affinché non esista in loro razzismo quando crescono. Sogno un mondo dove un ragazzo gay non si suicidi perché vessato dai compagni di scuola. Sogno un mondo dove, se il bambino è d’accordo, non vi sia alcun problema a farlo crescere in una famiglia non tradizionale se quella è la migliore soluzione per lui in quel momento e dove la società che lo circonda non lo faccia sentire colpevole, diverso o sbagliato dal momento che quasi sempre il problema non è affatto del bambino, bensì è creato ad arte da chi lo circonda.
Un mondo del genere non è utopia, esiste già in molti paesi, è sufficiente un piccolo colpo di reni per vederlo realizzato anche in Italia. Quello che ho descritto non sarà un mondo perfetto – nessun mondo lo è – ma sarà un mondo più in armonia e con più amore di quello immaginato da chi pochi giorni fa ha manifestato per impedire una svolta di civiltà che il paese attende da decenni.




Il Ruolo delle Emozioni nei Contenuti Virali, tra Scienza e Mistero

I contenuti virali hanno uno straordinario potere nel mondo dei social media. Articoli o immagini praticamente a costo zero riescono ad avere una visibilità enorme raggiungendo milioni di persone.
Chiunque si occupi di marketing nel mondo oramai li considera il santo Graal, e molti studiosi cercano di capire quali sono le caratteristiche che rendono virali i contenuti e perché alcuni diventano più popolari di altri.
 Gli studi
Nell’articolo “cosa rende virali i contenuti online” pubblicato sul Journal of Marketing Research, Berger e Milkman hanno studiato il legame da un punto di vista emozionale tra utenti e contenuti e hanno scoperto che la popolarità di un contenuto è fortemente influenzata dal livello di eccitazione emotiva che riesce a generare.
Più alto è il livello della spinta emotiva generata, sia essa positiva o negativa, maggiore è la possibilità che il contenuto divenga virale.
Berger e Milkman hanno riscontrato che le emozioni positive come la gioia o il desiderio sessuale sono quelle che riescono ad avere un effetto migliore rispetto a quelle negative come rabbia o ansia.
Uno studio condotto da Fractl invece suggerisce che le emozioni positive non garantiscono un ottimo risultato o almeno non sono il solo ingrediente determinante.
Secondo Fractl la combinazione di emozioni positive e negative nello stesso contenuto rende più efficace il messaggio che il solo uso dell’una o dell’altra.
Lo stupore, la sorpresa, sia positive che negative, sono inoltre risultate al secondo posto in classifica per i contenuti virali.
L’efficacia di questo tipo di emozione sembra tuttavia variare in base all’età, ad esempio i Millennials cioè i ragazzi con età compresa tra i 18 e i 24 anni avvertono meno questo tipo di emozione.
Le ricerche di Fractl hanno evidenziato che le emozioni positive, in particolare gioia, interesse, fiducia, possono essere utili per ottenere un risultato immediato, ma l’effettolongtail è altrettanto rilevante quanto un picco di traffico istantaneo.
E per avere un effetto duraturo nel corso del tempo è importante la qualità del materiale che si offre al pubblico.
Toccare le giuste corde
Sollecitare una risposta emotiva è chiaramente la chiave per generare contenuti virali, ma non è sempre una cosa facile da realizzare.
Ci sono emozioni come la rabbia che sono più semplici da provocare, basta una foto o un articolo che va contro opinioni ormai consolidate e il gioco è fatto.
Per quanto funzionante non si tratta certo del metodo migliore e ovviamente ce ne sono altri.
Mark Hughes, nel suo libro Buzz Marketing, descrive l’utilizzo di sei tipologie di contenuti utili per ottenere l’interesse del pubblico grazie ad una risposta emotiva: tabù, originale, scandaloso, divertente, interessante, e misterioso.
I Contenuti tabù sono in genere etichettati come inaccettabili, impropri, profani o proibiti. Toccare questo tipo di corda è particolarmente efficace per innescare emozioni negative e un sentimento di sorpresa nell’utente.
A volte questo tipo di contenuto può provocare anche emozioni positive e ammirazione per l’implicito disprezzo delle regole e convenzioni sociali.
Altro fattore chiave per aumentare le possibilità che un contenuto resti virale è l’utilità pratica.
La creazione di materiale che ha un’evidente applicazione pratica per l’utente aumenta le probabilità che le persone prestino attenzione al messaggio e siano più invogliate a condividere il contenuto con altri utenti.
L’aspetto
Dunque un contenuto interessante che susciti le giuste emozioni è il primo fattore chiave per generare contenuti virali, ma non è l’unico.
Altri aspetti apparentemente secondari non vanno trascurati se non si vuole che i propri messaggi restino inefficaci.
Ad esempio non bisogna sottovalutare l’aspetto complessivo del contenuto pubblicato.
Il giusto posizionamento all’interno della pagina, la leggibilità del testo, il modo nel quale viene presentato sono elementi che hanno un’importanza enorme visto che gli utenti leggono realmente solo il 20% di una pagina web e di quella percentuale quello che rimane impresso è veramente poco.
Questo significa che i contenuti devono essere di facile scrematura e i messaggi che hanno il compito di suscitare interesse ben in evidenza, siano essi testuali o visivi.
Una volta conquistata l’attenzione dell’utente il contenuto deve anche fornire un invito a diffonderlo via internet, quella che in gergo viene definita la chiamata all’azione ( Call To Action ) che avviene attraverso pulsanti di condivisione social media.
Un recente studio di BrightEdge infatti dimostra che i contenuti con i tasti di condivisione hanno una probabilità sette volte maggiore di essere diffusi dagli utenti.
La Pazienza
Non c’è una formula magica che garantisca la diffusione di un contenuto in maniera virale, eNeetzan Zimmerman, considerato uno dei re dei contenuti virali lo sa fin troppo bene.
Durante il suo lavoro per Gawker, Zimmerman ha scritto più di 10 articoli al giorno, la maggior parte dei quali non è subito divenuto virale, cosa che però non ha impedito ai sui articoli di avere successo raggiungendo oltre 30 milioni di visite al mese.
In conclusione
Abbiamo visto quindi quanto l’emozione sia da considerarsi una componente chiave unita a elementi come età e sesso, ma anche che altri aspetti come la qualità e la forma in cui i nostri contenuti vengono presentati siano ingredienti determinanti per la viralità di un contenuto.
La popolarità degli articoli di Zimmerman inoltre ci dice che dobbiamo avere pazienza, il traffico immediato non è l’unico modo in cui un contenuto può divenire celebre.




Alex, da sconosciuto a celebrità grazie ad una foto su Twitter

Alex Lee, un bel ragazzo del Texas, commesso da Target, conquista in pochi giorni 625mila follower: un caso o un’operazione pianificata a tavolino?

Una settimana di ordinaria follia su Twitter, in America: dallo scorso weekend la foto (uno scatto rubato) di un sedicenne cassiere – ora noto in tutto il globo come #AlexFromTarget – è diventata virale, parecchio virale. Per nessuna ragione particolare, salvo che Internet è 1) incredibilmente privo di regolarità e 2) popolato da teenager che vanno matte per i ragazzi carini.

La vicenda

Questi i fatti: Alex Lee del Texas, impiegato nei supermercati della catena Usa Target, è diventato esageratamente popolare sui social network, nottetempo. Domenica scorsa, infatti, una utente ha pubblicato un’istantanea del bel ragazzo su Twitter mentre fa il proprio lavoro alla cassa del negozio (sta imbustando con indifferenza dei detersivi) ed ha accompagnato lo scatto con la didascalia «YOOOOOOOOOO». La Rete è impazzita. Famoso, suo malgrado Alex (@acl163) su Twitter si è così trovato diverse centinaia di migliaia di follower in più (fino a sabato scorso ne aveva 144, ora ne conta oltre 625mila). Insomma, il cassiere di Target (da tre mesi) è diventato una star, oltre che un meme, ed è finito su giornali, siti di news e tiggì di mezz’America. Ha raccontato la sua avventura nello show di Ellen DeGeneres, famosa comica e presentatrice, vera e propria fuoriclasse nell’intercettare gli umori e le stelle che nascono sul Web. Il ragazzo di Frisco, maglietta rossa, pantalone beige e capello arruffato, con una vaga somiglianza al giovane Justin Bieber, si è ritrovato all’improvviso in un enorme ottovolante emotivo: «Una collega di lavoro mi ha mostrato la foto; mi ha detto che ero famoso. Ho pensato: è un falso».

Mistero

Martedì, una società statunitense di marketing digitale, tale Breakr, ha affermato di essere responsabile del fenomeno virale, creato per dimostrare «come sia possibile servirsi degli adolescenti per creare dal nulla un eroe virtuale». Un falso dunque? Lui smentisce («non ne sapevo nulla») e così ha fatto anche Target («siamo rimasti sorpresi, non conosciamo questa società»). Per Time «non sapremo mai se #AlexFromTarget è reale, uno stratagemma pubblicitario o probabilmente entrambe le cose». Nelle ultime ore se ne sono occupati (con continui aggiornamenti) anche il Washington Post, Cnet, il Guardian, la Cnn. «La cosa peggiore su Internet di questa settimana», riassume Businessweek. È un mondo che gli over 30 (quelli immuni ai vari One Direction o Five Seconds of Summer) proprio non riescono a capire. Di chi è la colpa. Di chi è il merito? Chi ci guadagna? Una risposta chiara pare difficile. Il fatto certo: Alex – volente o nolente – è diventato una stella di Internet e a possederlo, ora, è proprio Internet.

Alex, star del web suo malgrado: dopo i follower, le minacce

Intimidazioni, paura di uscire di casa, troll: il lato oscuro del successo di #Alex from the Target dopo il suo exploit sul web

Alex Christopher LeBeouf, il sedicenne americano conosciuto come #AlexFromTarget – per quello scatto su Twitter che lo scorso 2 novembre l’ha reso un fenomeno virale di portata impressionante ora deve combattere con le conseguenze del successo: minacce di morte, agorafobia, troll. Alex ennesima vittima della rete?

Odissea

Era bastata una foto rubata e postata su Internet a far diventare un anonimo ragazzino di Frisco, in Texas, cassiere in una catena di supermercati, un mirabolante meme online. L’origine del successo non è ancora stata chiarita. Tuttavia, Alex, famoso non lo voleva diventare e ora, suo malgrado, deve fare i conti con l’inaspettata popolarità. A dieci giorni da quel tweet che ha scombussolato la Rete (e la vita dell’adolescente), il New York Times ha incontrato il ragazzo nella sua cameretta e raccontato il seguito di #AlexFromTarget. «Non sono più uscito di casa» dice il giovane. «Ho paura ad andare in mezzo alla gente».

Genitori preoccupati

Il ragazzo, infatti, è stato inseguito in strada dalle fan e a scuola dai coetanei che vogliono solo scattarsi un selfie con lui (per poi postarlo online). Ma non basta. Il sedicenne, che nel frattempo conta 735mila follower su Twitter, spiega di aver ricevuto diverse minacce di morte attraverso i social e i messaggi privati. «Alex from target, ti troverò e ti ucciderò» dice uno. È perseguitato da dozzine di troll e cyberbulli. Il papà ha spiegato che persino i dati personali della sua famiglia, quali i numeri di previdenza sociale, i conti bancari e i tabulati telefonici, sono trapelati online. Da giorni il telefono di casa non smette più di squillare. Non solo giornalisti, ma anche tanti sbandati. «La nostra preoccupazione è fare in modo che nostro figlio sia al sicuro», ha sottolineato il padre Eric Fooks. Alex e la sua famiglia confidano nel fatto che tutto passi nel giro di qualche tempo, che la Rete si dimentichi pian piano di #AlexFromTarget. Sarà così. In attesa che arrivi il prossimo – inevitabile – «fenomeno virale».