1

Le nuove frontiere Web dell’ufficio stampa

Con Internet le media relations diventano un potente strumento di dialogo con gli stakeholders, alla portata di grandi e piccole aziende, a patto di ripensare profondamente ruoli e strumenti professionali dei comunicatori

Un recente studio della Cardiff University, ha rivelato che l’80% degli articoli dei principali quotidiani inglesi è costruito su materiale e informazioni forniti da uffici e società di Pubbliche relazioni. Solo il 12% è realizzato su informazioni raccolte direttamente dai giornalisti. Non si tratta, beninteso, di un fenomeno esclusivamente britannico. Ricerche simili, in Italia, danno risultati comparabili. Una conferma della grande importanza e del ruolo strategico che hanno le PR e, in particolare, gli uffici stampa, nella comunicazione delle aziende verso il proprio pubblico di riferimento: se un’azienda, un’organizzazione, vuole comunicare con i propri stakeholder lo può e deve fare, efficacemente, attraverso i mass media, grazie agli uffici stampa. L’avvento del Web sta però cambiando velocemente le carte in tavola. I giornali vivono un’emorragia di copie vendute ormai inarrestabile, la televisione generalista perde, seppur più lentamente, spettatori. Il Web cresce, viceversa, con tassi superiori all’11% annuo (in Italia, dati Audipress) e incarna, sempre più prepotentemente, il ruolo di mass media del futuro. Cosa significa questa rivoluzione per le media relations? Ha senso parlare di ufficio stampa sul Web? Sino a non molto tempo fa, infatti, un addetto stampa si doveva interfacciare solo con i giornalisti della carta stampata, della televisione e della radio. Le regole erano chiare e ben codificate: il comunicato, la conferenza stampa, la telefonata, il rapporto preferenziale con quel dato giornalista. Oggi e ancor più domani le cose non saranno più così. Ci sono e ci saranno sempre più i quotidiani online, i siti, i social network, i blog, un universo digitale popolato di nuovi media, nuove figure di giornalisti e “giornalismi”, ma anche un universo disintermediato, in cui le notizie nascono e si diffondono in maniera profondamente diversa e in cui tutti, ma proprio tutti, possono produrre informazione. Sarà la fine degli uffici stampa? L’estinzione dei comunicatori? Le aziende dovranno trovare nuovi strumenti per parlare con il proprio pubblico? Tutt’altro.
Media relations online, una grande opportunità per tutti
L’avvento del Web rappresenta una grandissima opportunità per le media relations e le rende uno strumento ancor più potente e incisivo, a patto, però, di riprogettare da capo tutta l’attività di ufficio stampa in funzione digitale. Innanzitutto, la Rete permette alle media relations di raggiungere con grande efficacia e incisività direttamente i pubblici di riferimento e gli stakeholder. Inoltre il Web ha posto termine all’esclusiva delle media relations riservata al ristretto novero delle grandi organizzazioni. E’ al tramonto la stagione dei potenti uffici stampa delle grandi aziende che, solo essi, riuscivano a dettare l’agenda dei media, mentre, per le piccole e medie aziende, riuscire a far pubblicare una notizia era una fatica improba. Le media relations online sono uno strumento prezioso, efficace e potente per qualsiasi organizzazione, piccola o grande che sia. E sono anche uno strumento “difensivo” irrinunciabile, proprio perché il Web è sì una grande opportunità ma è anche una insidiosa “piazza virtuale” in grado di decretare il successo o l’insuccesso di un prodotto oppure di distruggere la reputazione di un’azienda. Il Web, infatti, mette in comunicazione diretta, istantanea e senza mediazione intere comunità di utenti che tendono a raggrupparsi intorno a valori, interessi, idee, sensibilità e bisogni condivisi. All’interno di queste comunità agiscono quotidiani online, siti specializzati, blog, forum, singoli utenti che, per l’autorevolezza che si sono conquistati, sono il riferimento informativo per queste comunità e sono in grado d’influenzarle. Così, quello che pubblicherà un grande quotidiano online sarà una notizia per la sua comunità di lettori, così come un quotidiano locale online lo sarà per la sua comunità territoriale e un sito dedicato alla borsa, per gli investitori. Ma anche un piccolo sito specializzato in turismo in camper, per esempio, considerato autorevole dal proprio pubblico, influenzerà i propri lettori. Se dovesse pubblicare una cattiva recensione di un modello, quel mezzo verrebbe acquistato con maggiore difficoltà. Viceversa, un articolo positivo aiuterebbe decisamente l’azienda costruttrice. Sono questi i nuovi interlocutori degli uffici stampa del Web 2.0. Non solo, quindi, i grandi quotidiani online ma anche i siti specializzati, i blog, i forum che parlano direttamente ai clienti, acquisiti o potenziali, dell’azienda e a tutti gli stakeholder e da questi considerati autorevoli. E su Internet c’è tutto, basta pensare qualcosa e ci sarà un blog, un sito specializzato che se ne occupa, frequentati da quanti siano interessati all’argomento e che magari ne discutono in un forum o nei social network. Con questa logica è facile comprendere che ogni azienda, grazie al Web, sia in grado di parlare direttamente ai propri stakeholder. I quali però, è l’altra faccia della medaglia, parleranno di essa.
Tutela della reputazione e dialogo con gli stakeholders
E qui nasce il rischio, che rende ancor più necessario un’attività di media relations online. Sul Web tutto circola in tempo reale ed è immediatamente visibile a tutti. Questo significa che un commento o una notizia negativi, un problema segnalato da un cliente è immediatamente portato a conoscenza di tutti gli altri clienti. Tornando all’esempio della piccola ditta costruttrice di camper, se il sito informativo molto frequentato e seguito dai camperisti, dovesse pubblicare un giudizio negativo, credibile e ben circostanziato, sull’ultimo modello, tutti quelli che leggono quel sito, ovvero la comunità dei camperisti, ovvero la clientela, acquisita o potenziale di quell’azienda, lo vedrebbe immediatamente e ne resterebbe influenzata. I danni possibili sono evidenti e quindi un intervento immediato, per disinnescare o indebolire la notizia, è oltremodo necessario. L’ufficio stampa nell’era del web, quindi, non ha più solo l’obiettivo di cercare di garantire “ampia e positiva copertura media per la propria azienda” ma si trasforma in un potente strumento di dialogo con gli stakeholder e una altrettanto fondamentale difesa del più importante degli assett immateriali di un’azienda: la reputazione.
Nuovi strumenti e un po’ meno marketing
Ma perché possa assolvere a questi compiti è necessaria una “mutazione genetica” della figura del comunicatore. Le Online Media relations, che si parli di grandi o piccole aziende, devono essere in grado di comprendere le dinamiche profonde della Rete. Gestire la disintermediazione delle informazioni e conoscere le nuove dinamiche di lavoro dei giornalisti digitali e delle redazioni. Imparare a scrivere comunicati in forma ipertestuale e a interagire con i blogger, i social network e i forum. Avere ben chiara la “geografia” delle comunità dei loro stakeholder sulla Rete e i siti autorevoli. Monitorare questa parte del Web, per sapere sempre “chi pubblica cosa e quando” e intervenire immediatamente su contenuti negativi. Contemporaneamente sviluppare piani di comunicazione da veicolare nelle comunità degli stakeholder secondo la semantica e la sintassi del Web. Le online media relations sono quindi un approccio professionale al Web rivolto alla tutela e alla valorizzazione della reputazione di un’azienda, diverso da quelli marketing – oriented, così diffusi in questi ultimi periodi. Un approccio che riassume in sé, oltre alle vecchie tecniche di media relations reingegnerizzate in funzione digitale, anche altre, nate per il web, come il monitoraggio della reputazione, le attività SEO e la link popularity, il crisis management, per non parlare di tutte le tecniche di approccio e gestione dei social network. Tecniche diffuse e ben note ma che spesso sono utilizzate in maniera scoordinata e senza tener presente una legge fondamentale: influenzare i media online e i protagonisti autorevoli del web 2.0 (blogger, influencer, webmaster) permette di incidere direttamente sulla percezione che dell’azienda hanno gli stakeholder e rafforzarne e difenderne la reputazione. Una grandissima opportunità, alla portata delle piccole realtà imprenditoriali come dei grandi gruppi.




Nespresso investe 400 mln di euro in una nuova strategia sostenibile

Nespresso, noto marchio Nestlè, ha annunciato le proprie Ambizioni di Sostenibilità 2020, presentando, in occasione del secondo incontro annuale del proprio Sustainability Advisory Board, una nuova strategia a protezione e tutela dell’ambiente.
Si tratta di The Positive Cup, un complesso di iniziative volte alla sostenibilità che prevede un investimento complessivo di 500 milioni di franchi svizzeri (oltre 400 milioni di euro) nei prossimi sei anni, con la costituzione di un nuovo Fondo per lo Sviluppo Sostenibile.
La strategia sostenibile presentata da Nespresso, che punta a migliorare le condizioni dei lavoratori della filiera del caffè e a promuovere la sostenibilità ambientale nell’approvvigionamento e nel consumo di questo prodotto, gode del sostegno di tutti i membri del Sustainability Advisory Board, tra cui Rainforest Alliance, Fairtrade Internationale l’Unione internazionale per la conservazione della natura, oltre al volto pubblicitario e ambasciatore del brand, l’attore americano George Clooney.
Il nostro approccio alla sostenibilità ha sempre voluto spingersi oltre la semplice minimizzazione degli impatti.” – ha commentato Jean-Marc Duvoisin, CEO di Nestlé Nespresso – “Lo sviluppo, insieme ai nostri partner, di programmi più innovativi, dimostra ancora una volta il nostro impegno verso la creazione di valore condiviso, e la volontà di generare impatti positivi per tutte le parti interessate dell’intera catena del valore. Questo investimento da 500 milioni di franchi svizzeri accresce significativamente il nostro impegno in tema di sostenibilità, volto a garantire il successo nel lungo periodo del nostro modello commerciale. Impegno che ci offre la possibilità di assicurarci l’1-2% della produzione mondiale di caffè in grado di soddisfare i nostri rigorosi standard di qualità e gusto attraverso il nostro Programma AAA Sustainable Quality.
Attraverso The Positive Cup, Nespresso mira a raggiungere, entro il 2020, tre obiettivi principali:utilizzare solo caffè proveniente da fonti sostenibili, investendo sui coltivatori nei Paesi in via di sviluppo e aiutandoli a rispettare elevati standard di qualità; gestire in modo sostenibile l’alluminio impiegato nel packaging, dalla materia prima al riciclo; ridurre del 10% l’impronta ecologica dell’azienda e renderla neutrale dal punto di vista delle emissioni di carbonio.
In particolare, la nuova strategia mira a consolidare il Programma AAA Sustainable Quality, il cui obiettivo è rendere trasparente, sostenibile e di maggiore qualità la filiera del caffè a partire dalla tutela degli agricoltori e dal miglioramento delle loro condizioni di lavoro. Il Programma verrà esteso a tre Paesi africani – Etiopia, Kenya e Sud-Sudan – con un investimento di 15 milioni di franchi svizzeri (oltre 13 milioni di euro).
Un impegno, questo, che ha riscosso la piena approvazione dell’ambasciatore del brand, George Clooney, da anni impegnato nel promuovere un maggior impegno internazionale nella risoluzione del conflitto in Darfur e a sostenere la popolazione sudanese.
Per aspirare a una pace e una prosperità di lunga durata nel Sud Sudan, parte della soluzione consisterà nel diversificare l’economia e le opportunità a vantaggio degli abitanti del Paese.” – ha commentato l’attore – “L’investimento di Nespresso e TechnoServe nel settore del caffè in Sud Sudan, nonostante il perdurare del conflitto, offre un reddito essenziale a centinaia di coltivatori e alle rispettive famiglie, che vivono nelle comunità in cui si coltiva il caffè. Si tratta anche di un investimento per un futuro di pace e di sviluppo economico del Sud Sudan, caratterizzato dalla creazione e dalla condivisione della ricchezza.”
Nespresso ha annunciato anche di aver raggiunto e superato gli obiettivi di sostenibilità del 2013, fissati nell’ormai lontano 2009: un buon punto di partenza per lavorare, nei prossimi sei anni, alla piena realizzazione delle Ambizioni di Sostenibilità 2020.




Greenwashing: la Coca Cola contro l’obesità. Il consumatore si fida davvero?

Le bibite gassate non sono troppo amiche della salute, questo lo sappiamo bene. Ecco perché la mossa dellaCoca Cola, che è scesa in campo con chi lotta contro l’obesità e promuove stili di vita responsabili , profuma particolarmente di greenwashing.
PARK LIVESCoca Cola Zero Park Lives: si chiama così l’iniziativa della multinazionale, che si è snodata negli scorsi mesi nel Regno Unito e nei suoi parchi, dove le famiglie sono state invitate a prendere parte a partite di calcio, baseball, ping pong, o a balli di gruppo. Al centro di tutto, insomma, lo sport e l’attività fisica. Ma anche il logo dell’azienda.
IL MESSAGGIO – Alle spalle, il messaggio è quello ben noto, sfruttato da moltissime aziende: sensibilizzare sui benefici derivanti dal praticare regolarmente attività fisica per contrastare i rischi di obesità, che si sviluppano soprattutto in fasce deboli come infanzia e adolescenza.

GREENWASHING? – Campagne come questa sono veri e propri boomerang. Ormai il consumatore è più attento, va ben oltre l’apparenza e si pone domande, spesso poi rendendole pubbliche e rivolgendole alle aziende sui social network. Come può una multinazionale del genere farsi portavoce della lotta contro la cattiva alimentazione? E’, infatti, un tentativo di essere associata a stili di vita salutari e non, ad esempio, al cibo spazzatura e ai danni che genera, obesità in primis. Peccato che questo non corrisponda ancora ad un cambiamento nelle ricetta del prodotto, ad esempio ad uno sforzo per limitare la quantità di zuccheri.


LA SCIENZA CONTRO LA COCA COLA – La polemica nel Regno Unito si è scatenata subito, supportata peraltro da studi scientifici. Una lattina di Coca Cola contiene 139 calorie, che si smaltiscono con mezz’ora di camminata. “La Coca Cola non è parte della soluzione, è parte del problema”, dice infatti il medico inglese Margaret McCartney.
FURBI O INGENUI? – La stessa McCartney parla però di “pubblicità intelligente” da parte dell’azienda. Non siamo d’accordo. Non è vero che con questa campagna la Coca Cola diventa campionessa di Csr o paladina dell’alimentazione salutare. Anzi, agli occhi dei consumatori – anche di quelli che amano il prodotto e non riescono a farne a meno – è palese che l’azienda tenti di passare dalla parte dei buoni.
Sappiamo tutti che gli effetti di queste bevande non sono certo positivi, sappiamo tutti che l’attività fisica va praticata regolarmente e sappiamo tutti che l’obesità va a nozze con prodotti simili. Nessuna trovata geniale, dunque. Anzi, crediamo di dover giudicare questa mossa un puro tentativo di risollevare le proprie sorti, un tentativo però poco virtuoso.




8 miti da sfatare sugli investimenti responsabili e sostenibili

Gli investimenti responsabili e sostenibili, i cosiddetti SRI, sono passati, negli ultimi anni, dall’essere un fenomeno marginale, quasi trascurabile, ad acquisire una rilevanza via via maggiore. Tuttavia, esistono ancora resistenze e perplessità da parte degli investitori, spesso motivate dalla scarsa conoscenza di questa categoria di prodotti finanziari, oltre che da convinzioni erronee e luoghi comuni.
Richard Essex, consulente finanziario dall’esperienza ventennale e autore del saggio Invest, Feel Good and Make a Difference, spiega perché non bisogna avere paura di investire in modo sostenibile, sfatando 8 miti tradizionalmente associati all’investimento socialmente responsabile.
Eccoli:

1. Il mio denaro non farà la differenza

Ogni nuovo investimento responsabile fa la differenza, in quanto consente di far crescere il fenomeno: ad esempio, investendo nelle rinnovabili si offre una preziosa linfa all’intero settore, contribuendo a consolidarlo e portandolo ad imporsi all’attenzione di altri investitori, in modo da attrarre nuovi capitali e crescere ulteriormente.
2. L’investimento socialmente responsabile non determina un ritorno
L’investimento in fondi e iniziative sostenibili non è “a perdere”: al contrario, le aziende che rispettano determinati parametri sociali e ambientali non solo non sono meno floride delle altre ma hanno anche maggiori chance di crescere, sul lungo periodo, e di premiare i propri azionisti.
3. Il mercato non è sufficientemente maturo
Questa affermazione poteva valere qualche anno fa, ma oggi viene smentita dai fatti: l’investitore che sceglie di puntare sulla green economy si trova a poter scegliere tra numerose e variegate opzioni di investimento sostenibile, dalle tecnologie pulite alle rinnovabili, segno tangibile di un mercato in ascesa, sufficientemente ampio da poter soddisfare richieste diverse.
4. Non vedo in cosa sto investendo
A differenza di altri prodotti finanziari, i fondi di investimento sostenibile sono caratterizzati, per loro stessa natura, da una assoluta trasparenza: l’investitore deve sapere sin dall’inizio per quale iniziativa sta impegnando il proprio capitale e trovare risposte adeguate a qualsiasi domanda o perplessità.
5. Non mi fido dei modi in cui i miei investiment sono gestiti
Dopo gli eventi del 2008, gli investitori sono diventati sospettosi e hanno perso fiducia. Tuttavia, come per il punto precedente, la natura stessa di un investimento sostenibile e responsabile, il cui obiettivo non si limita al profitto, impone un’assoluta trasparenza: i gestori di fondi sostenibili ne sono consapevoli e generalmente portano avanti tutte le ricerche e gli approfondimenti necessari per garantire la bontà dell’investimento e costruire con l’investitore un rapporto di fiducia.
6. L’investimento socialmente responsabile non consente un’ampia distribuzione dei rischi
Quando si pianifica un portfolio di investimenti, il rischio va considerato sull’intero complesso delle azioni e non sui singoli casi. Per questo, è importante che il portfolio sia ben bilanciato e il rischio ben distribuito. Se in passato gli investimenti sostenibilie e responsabili offrivano una diversificazione esigua, oggi, con la crescita del mercato, permettono di investire in aziende e progetti molto distanti tra loro, con peculiarità proprie. Anche il rischio, pertanto, può essere distribuito e bilanciato in modo ottimale.
7. Ho paura di buttarmi al 100% in questo tipo di investimento
È rarissimo che un investitore concentri tutto il proprio capitale in fondi di investimento responsabili, anche perché questo tipo di mercato, pur essendo ampio, non riesce ancora a rispondere a tutte le esigenze di investimento. Pertanto, nessuno deve sentirsi in colpa se investe in modo sostenibile solo una parte del proprio capitale. L’importante è far crescere il settore, in modo da attrarre più capitali.
8. Vorrei lasciare un’impronta positiva con i miei investimenti, ma da solo mi sento impotente
Nel mondo degli investimenti reponsabili, non si è soli, ma parte di un movimento in crescita, che negli ultimi 20 anni ha mano a mano acquisito forza e consapevolezza. Per questo, ogni contributo, per quanto piccolo e, apparentemente, insignificante, è un tassello fondamentale.




Oxfam Behind the Brands: una nuova idea di Corporate Social Responsibility

L’iniziativa di Oxfam chiama le multinazionali del food a una corporate social responsibility proattiva e produttiva di risultati

Il concetto di Corporate Social Responsibility (CSR) nacque nel 1984, con la “teoria degli stakeholder” del filosofo e docente americano Robert Edward Freeman. Egli sosteneva che l’azione delle imprese dovesse rappresentare differenti “portatori di interessi”, compresi soggetti esterni all’azienda ma in interazione con la stessa (consumatori, ambiente e società in generale).
Negli ultimi trent’anni l’idea di CSR è progressivamente mutata, così come l’approccio delle aziende alla stessa. Nel passato, infatti, queste si limitavano a un impegno, generico e più o meno rigoroso, al rispetto dell’ambiente fisico e sociale nel quale operavano.
Oggi, invece, una corretta politica di CSR richiede un approccio proattivo, nel quale le aziende devono impegnarsi fattivamente nel miglioramento delle condizioni delle realtà in cui sono presenti e attive.
La loro azione in questo senso è continuamente monitorata da organizzazioni no-profit edenti istituzionali preposti a questo fine. Questi analizzano, giudicano e comunicano all’opinione pubblica le iniziative e i risultati raggiunti dalle imprese, spesso attraverso classifiche, comparazioni e quantificazioni tangibili di quanto prodotto in termini di beneficio sociale.
L’organizzazione non governativa (ONG) Oxfam, network internazionale che riunisce 17 differenti realtà nazionali, ha lanciato nel 2013 l’iniziativa Behind the Brands – scopri il marchio, che si occupa di controllare l’azione delle 10 più grandi multinazionali del food, giudicandola su parametri specificamente definiti e redigendo una classifica, periodicamente aggiornata, sulla base dei risultati conseguiti.
I temi su cui è valutato l’impatto sociale dell’azione economica di queste imprese sono 7:

  1. Trasparenzadei processi aziendali;
  2. Trattamento delledonne che lavorano nella filiera produttiva;
  3. Diritti deibraccianti agricoli all’interno dell’intera filiera produttiva;
  4. Trattamentoeconomico e commerciale dei piccoli produttori agricoli;
  5. Terra, intesa come diritti d’accesso alla terra e uso sostenibile del suolo;
  6. Acqua, intesa come diritti e accesso alle risorse idriche e uso sostenibile delle stesse;
  7. Cambiamento Climatico, sia in materia di riduzione delle emissioni di gas serra che di aiuto agli agricoltori nell’adattamento ai cambiamenti climatici.

Gli indicatori sulla base dei quali le imprese sono valutate su ciascun tema sono raggruppati in 4 categorie:

  1. Consapevolezzadell’azienda riguardo a uno specifico tema e realizzazione di progetti ad esso relativi;
  2. Conoscenza,intesa come misurazione, valutazione e segnalazione, da parte dell’azienda, di questioni e fatti chiave sul tema nelle sue filiere di produzione;
  3. Impegno attivo dell’aziendanell’affrontare le questioni chiave relative a questo tema nelle sue filiere di produzione;
  4. Gestione della filiera, intesa come azione diretta da parte dell’impresa sui propri fornitori per spingerli a rispettare le norme pertinenti al tema di riferimento.

Ciò che è più interessante, nell’approccio al pubblico di Oxfam, è la call to action che viene realizzata attraverso la campagna Agisci ora. Accedendo all’omonima sezione del sito e compilando un apposito form è possibile richiedere a una multinazionale di impegnarsi direttamente in una causa sociale.
In questo momento, ad esempio, viene richiesto a Coca Cola e Pepsi di porre fine agli espropri di terra per coltivare piantagioni di zucchero.
Un altro elemento che differenzia Oxfam è la facile consultabilità per il pubblico dei risultati della sua attività. In una sezione della piattaforma dedicata behindthebrands.org è infatti possibile inserire, in maniera intuitiva e interattiva, il propriobrand preferito e, risalendo automaticamente alla multinazionale proprietaria, leggere le “prestazioni sociali” della stessa e la sua conseguente posizione in classifica.
Adottando una prospettiva di consultazione e approfondimento inversa, è anche possibile, sullo stesso sito, partire dal tema di maggiore interesse per l’utente e valutare gli impegni e i risultati delle diverse multinazionali a riguardo.
Oxfam offre infine anche diversi contenuti e approfondimenti facilmente fruibili, anche dai non addetti ai lavori, che arricchiscono la sua azione dandole un senso e una concretezza maggiori.
Nell’ultima pagella di marzo 2015 Unilever, con un punteggio del 71%, ha superato Nestlé(69%), salendo così al primo posto della classifica. Le differenze prestazionali tra differenti multinazionali rimangono considerevoli, come si può notare dal misero 30% della britannicaABF.
Contemporaneamente, anche l’impegno e i risultati ottenuti nell’ambito dei diversi temi hanno pesi notevolmente differenti. Il trattamento delle donne lavoratrici e il rapporto con i piccoli produttori agricoli appaiono infatti come le note più dolenti della rilevazione di Oxfam, sui quali è quindi auspicabile un impegno maggiormente produttivo di risultati tangibili.
 
E’ chiaro quindi come l’azione sociale delle imprese debba ormai necessariamente interfacciarsi e collaborare con realtà come Oxfam, universalmente riconosciute come competenti, imparziali e quindi attendibili.
La credibilità e l’immagine di un’azienda, soprattutto se multinazionale, dipendono sempre di più dal rapporto che questa riesce a stabilire con il tessuto sociale, culturale, economico e ambientale con il quale questa è portata a relazionarsi.
Oggi, tuttavia, un’opinione pubblica sempre più informata, istruita ed esigente, anche grazie all’azione di realtà come Oxfam, non si accontenta più di semplici impegni generici.
Le multinazionali sono quindi obbligate a darsi degli obiettivi specifici e misurabili in ambito di CSR e, soprattutto, a rispettarli.
Solo in questo modo, infatti, esse potranno creare e mantenere una relazione di fiducia con i propri consumatori, proponendosi come attori economici credibili e attrattivi per la domanda finale.