Drogati di Internet? Ecco come disintossicarsi

Iconsumatori compulsivi di media digitali sono come gli affamati che finiscono ad abbuffarsi in un fast food? Come Slow Food è nato per promuovere un’alimentazione sana e sostenibile, così Slow Communication nasce per promuovere una dieta mediatica equilibrata per tutti.
Avete presente la storia di Tony Schwartz, consulente di fama internazionale, che un giorno, non tanto tempo fa, ha sentito la necessità di una disconnessione digitale totale? Ne è uscito, dopo qualche crisi di astinenza, convinto di quanto sia essenziale imporsi delle pause quotidiane dalla Rete. Ecco, il Movimento Slow Communication nasce nella primavera del 2012 proprio con l’obiettivo di “riportare a terra” la nostra abbuffata virtuale, promuovendo una sana cultura digitale attraverso eventi pubblici, borse di studio in collaborazione con le Università e iniziative di solidarietà internazionale.
Ne parliamo con il fondatore, Andrea Ferrazzi, giornalista e consulente di comunicazione, che mercoledì 29 maggio presenta l’iniziativa a Roma  nell’ambito degli “Stati Generali per la Comunicazione Politica” presso l’Università Luiss.
Per i nativi digitali, la Rete è come il pane. C’è davvero bisogno di fare attenzione?
Assolutamente sì. Pensiamoci: sino a non molti decenni fa il pane era un problema, nel senso che la sua presenza sulle tavole non era scontata e, quindi, non finiva nella spazzatura. Io ricordo i miei nonni: si infuriavano quando vedevano il pane buttato via, loro che avevano conosciuto la fame durante la guerra. Chi è nato nel benessere non dà importanza a questi aspetti: cosa vuoi che sia un pezzo di pane che non vale niente? E’, per così dire, una questione culturale. Analogamente i nativi digitali – soprattutto loro, ma non solo loro – danno per scontata la presenza delle nuove tecnologie nella loro vita, quindi l’accettano acriticamente, senza interrogarsi su un loro corretto utilizzo. Non si accorgono di assomigliare spesso a degli zombie messaggianti, per dirla con le parole di Jonathan Franzen. Pensano di avere centinaia di amici e non si accorgono che, in questo modo, anche l’amicizia è diventata un prodotto e non è più un valore. Stanno insieme, ma sono spesso soli. Racconto un aneddoto. Ogni mattina, alle sei e trenta, mentre vado a prendere il treno in auto, incontro una ragazzina e ogni giorno la vedo china sul suo cellulare, che piova o ci sia il sole, che sia estate o inverno. E mi chiedo: si renderà conto del mondo che c’è lì fuori dallo schermo del suo telefono?
Quali sono i sintomi di un’indigestione mediatica?
Se i social media e le mail sono l’ultimo pensiero della sera e il primo del mattino, è già un sintomo emblematico. Ma il punto vero è quello che dicevo prima: dare per scontata la presenza delle nuove tecnologie nella nostra vita, quando si pensa che sia normale essere sempre connessi, quando non si dà più alcuna rilevanza alla qualità delle informazioni assunte. Chi frequentava i fast food pensava solo a riempire un buco nello stomaco e, così, ogni piatto andava bene. Poco importa se era un concentrato insapore di calorie. Lo stesso vale per i consumatori compulsivi di media digitali. Per contrastare l’ignoranza alimentare è nato Slow Food, ecco Slow Communication si propone proprio di promuovere una nuova cultura digitale.
Qual è il pericolo maggiore?
Accettare supinamente che la tecnologia condizioni la nostra vita, dimenticando che è a nostro servizio. Dobbiamo maturare la consapevolezza che abbiamo bisogno di momenti di disconnessione, anche per rimanere soli con noi stessi, per riflettere senza distrazioni e interruzioni, anche per annoiarci. A volte mi chiedo se i bambini di oggi sapranno ancora riconoscere l’odore dell’erba appena tagliata che a me evoca i ricordi dei giochi all’aria aperta. Nostalgia? Forse sì, ma mi chiedo che infanzia sia quella trascorsa negli spazi virtuali…
E quali sono, allora, gli ingredienti di una dieta equilibrata?

  1. Controlli periodici. Valutare periodicamente il proprio grado di cyber-dipendenza rinunciando a collegarsi: se dopo poche ore le vostre buone intenzioni crollano, iniziate a preoccuparvi e a pensare a una cura adeguata, magari una vacanza slow.
  2. Ridurre le ore. Limitare l’utilizzo dei social network e di Facebook in particolare per evitare cyber-dipendenza. Se avvertite la necessità di assumere una massiccia dose quotidiana di social network l’unica terapia è cancellare il proprio profilo.
  3. Alzare lo sguardo. Non trasformarsi in «zombie messaggianti» (la definizione è dello scrittore Jonathan Franzen) che non staccano mai il proprio sguardo, e quindi il proprio cervello, dallo schermo di un cellulare o di un tablet.
  4. Prendere tempo. Smettere di controllare cellulari e tablet come ultima azione della sera e come prima del mattino: se c’è una nuova mail è molto probabile che possa essere letta anche dopo mezz’ora senza compromettere la vostra esistenza.
  5. Parlarsi a voce. Non affrontare, per quanto possibile, argomenti complessi o delicati nelle e-mail o con gli sms: dato che i fraintendimenti sono molto comuni, è preferibile un colloquio telefonico o meglio ancora a quattr’occhi.
  6. Tornare al libro. Alimentare l’abitudine a leggere articoli lunghi e possibilmente d’autore e i cari vecchi libri: per i nativi digitali c’è una preoccupante incapacità a comprendere, analizzare e rielaborare testi scritti.
  7. Meditare. Coltivare i propri momenti di solitudine che, come insegna Zygmunt Bauman, è quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e dare senso alla comunicazione.

 


Social network contro le malattie sociali?

Intervista a Enrico Coiera, Director Centre for Health Informatics, Australian Institute of Health Innovation, University of New South Wales, Sydney (Australia), autore di un recente editoriale sul tema, pubblicato dal British Medica Journal
In quali principali aree della sanità i social media hanno già dimostrato di essere utili?
Gli ambiti in cui il social web trova già applicazione con buoni risultati sono diversi: dalla misurazione della qualità e della sicurezza dell’assistenza sanitaria alle emergenze; dalla salute pubblica e promozione della salute al disease management.
E la ricerca clinica?
I social media stanno già iniziando a trasformare il modo con cui conduciamo la ricerca e ne trasferiamo i risultati alla pratica assistenziale. Possono aiutare a identificare le persone candidate ad essere arruolate nelle sperimentazioni cliniche così come – ed è un aspetto ancora più interessante – possono darci la possibilità di coinvolgere i cittadini come veri collaboratori del lavoro di ricerca. I grandi siti come Facebook e Twitter contribuiscono alla sorveglianza delle malattie, al punto che Twitter è ormai un canale prezioso per diffondere informazioni nel corso di pandemie e uno strumento di analisi in tempo reale della distribuzione e diffusione delle patologie.
Ritiene che i modelli secondo i quali il social web è usato dai clinici, dagli epidemiologi o dalle infermiere siano studiati in modo adeguato dalla comunità scientifica?
Non mi sembra; come spiego nella mia Analysis pubblicata recentemente sul BMJ, i modi con cui i professionisti sanitari usano il social web restano approfonditi in maniera superficiale. Attualmente, il focus in sanità è sull’uso dei social media come supporto della pratica clinica e per coinvolgere le persone malate. In realtà, un’opportunità molto più importante è quella che ci verrebbe dall’uso del social web per affrontare le malattie più costose, dannose e complesse dei nostri tempi.
Perché lei ritiene che possano avere, però, un ruolo ancora più importante?
Nell’articolo sul BMJ ho tracciato un quadro della crescita delle riflessioni sui social network e ho descritto numerosi degli utilizzi che oggi vengono fatti del social web. Nell’articolo, cerco di descrivere come il nostro modo di conoscere questi strumenti potrebbe essere governato per trattare quelle che ho definito le “socially shapen diseases”, così da permettere di gestire in maniera migliore problemi sanitari quali l’obesità, la depressione, il diabete e le malattie cardiovascolari. Per queste malattie, che prendono forma socialmente, i social media potrebbero essere sfruttati per intervenire direttamente in una fase precoce del divenire della patologia, accelerando quella che qualcuno chiama la network medicine. Gli interventi in rete sono l’uso mirato dei social network per influenzare positivamente i comportamenti.
Secondo lei, la popolarità crescente del social web può essere messa in relazione con iniziative come la campagna AllTrials per la trasparenza dei dati della ricerca lanciata da Ben Goldacre o la petizione Open Data promossa dal BMJ?
Man mano che cresce la pressione per rendere pubblici i dati degli studi clinici, il modello sociale collaborativo su web è destinato a cambiare il modo attraverso il quale i ricercatori collaborano tra loro e con i cittadini. Oggi, chi fa ricerca raccoglie i dati, li analizza e pubblica i risultati ma i dati restano dietro le quinte accademiche o industriali. Nel modello sociale collaborativo, i dati della ricerca sono archiviati in banche dati aperte, probabilmente finanziate da denaro pubblico, alle quali anche altri possono accedere e analizzare nuovamente i dati o riesaminarli per dare risposta a domande diverse. La comunità può formulare quesiti di ricerca, suggerire analisi e interpretare i risultati.


Passo indietro di Ferrero: il World Nutella Day creato dai fan si farà

Dopo il frettoloso blocco, l’evento che da anni celebrava da anni il suo prodotto di maggior successo è stato autorizzato dall’azienda torinese (ma senza scuse alla promotrice Sara Russo)Si chiude il caso Ferrero contro Sara Rosso, che aveva cercato di organizzare un World Nutella Day. Dopo il social fail nei confronti di una fan della Nutella, ecco il comunicato dell’azienda italiana:
“Un positivo contatto diretto tra Ferrero e Sara Rosso, owner di una fan page non ufficiale di Nutella chiamata World Nutella Day, ha chiuso il caso. Ferrero desidera esprimere a Sara Rosso la sincera gratitudine per la sua passione per Nutella, gratitudine che estende a tutti i fan del World Nutella Day. Il caso è nato da una procedura di routine a difesa dei marchi, attivata in seguito ad alcuni usi impropri del marchio Nutella all’interno della fan page. Ferrero è lieta di annunciare che oggi, dopo aver contattato Sara Rosso ed aver trovato insieme le appropriate soluzioni, ha immediatamente interrotto ogni precedente azione. Ferrero si considera fortunata ad avere fan di Nutella così devoti e leali come Sara Rosso”.
Quella dello scorso 7 febbraio è stata la settima edizione del World Nutella Day, l’evento che celebra la famosa, imitata, ineguagliata crema alla nocciola, un marchio che tanto piace ai fan da essere tra i brand più di successo su Facebook, e raccogliendo – in Italia – quasi 3 milioni di Like, più di ogni altra pagina di prodotto. Tanto successo che dal 2007 la Nutella è celebrata anche in un appuntamento in grado di richiamare 40mila fan su Facebook e 7mila follower su Twitter. Un’iniziativa tanto di successo da aver attirato l’attenzione dell’azienda di Pino Torinese, che ha deciso di farla chiudere.
Lo scrive Sara Rosso, l’organizzatrice, sulla homepage del sito ufficiale dell’evento: “Il 25 maggio chiuderò il sito e tutti gli account sui social media (Facebook, Twitter), in conformità alla lettera che intima di chiudere e desistere ricevuta dai legali rappresentanti di Ferrero, SpA (che produce Nutella)”. Con il sito verranno oscurate anche le oltre 700 ricette che sono state inviate da blogger e appassionati, raccolte e pubblicate negli anni.
La lettera arriva a sorpresa, racconta Sara, soprattutto dopo anni di collaborazione con diversi dipendenti del gruppo Ferrero e di contatti con l’ufficio di pubbliche relazioni e i consulenti di brand strategy, volti a creare uno spirito di collaborazione nel celebrare il prodotto.  “Ho la speranza che questo non sia un addio alla Giornata Mondiale della Nutella: per il bene dei fan, spero di poter rivivere l’esperienza in futuro, anche in un’altra forma”.
Già quasi 200 commenti, sotto il post che annuncia la chiusura, praticamente un solo coro di disappunto dei fan: si va dall’incredulità per un’occasione di pubblicità gratuita gettata al vento – “Smettere? Dovrebbero pagarti” come anche “Conosco gente che ha conosciuto la Nutella solo grazie al World Nutella Day” – alla minaccia di cessare e desistere dai prodotti Ferrero. La migliore è un gioco di parole che in italiano rende poco, quindi eccola in originale: “Nutella… more nuts in company management than in every jar”. Si può tradurre così: “Più matti (nuts) nella gestione dell’azienda che noccioline (nuts) in ogni barattolo” (l’avevo detto che faceva più ridere in inglese).
In un’epoca di crescente importanza dei social network in cui le aziende cercano il dialogo e l’interazione con i fan, l’episodio fa riflettere sull’effettivo valore dell’ascolto della Rete. Che ne pensi?


McKinsey: «La Csr ha fallito»

È TEMPO DI RAGIONARE SULL’INTEGRATED ENGAGEMENT
Finita l’epoca della Csr. È tempo di passare all’external engagement integrato. A formulare tale impietoso giudizio sono gli esperti di McKinsey, in un report secondo cui l’approccio tradizionale alla Csr avrebbe fallito la sua mission.
La società di consulenza ritiene che occorra guardare a un “Integrated external engagement” (Iee) in grado di portare l’engagement direttamente all’interno del processo decisionale a ogni livello dell’impresa.
Si parte da una definizione di external engagement come l’insieme degli sforzi compiuti da un’azienda per gestire la sua relazione con il mondo esterno. Questa relazione può includere diverse attività: la filantropia, l’azione di lobby politica, la partecipazione a programmi della comunità locale, ma anche la politica di selezione del personale. «Attualmente – si legge nel report – la maggior parte delle imprese hanno declinato l’external engagement in tre modi: creando uno staff centrale dedicato alla Csr, lanciando iniziative di altro profilo ma relativamente poco dispendiose, e pubblicando la revisione annuale dei progressi».
L’approccio tradizionale ha avuto alcuni effetti positivi. Le imprese sono più propense a valutare attentamente l’ambiente esterno rispetto al passato, e il loro programmi di filantropia hanno fornito aiuto a molte persone. Ma, nel concreto, nella maggior parte dei casi la Csr così intesa è venuta meno al suo scopo principale che consiste nel costruire relazioni più forti con il mondo esterno. Gli stessi manager interpellati da McKinsey hanno riconosciuto che il loro approccio è stato di fatto inadeguato. In un’indagine recente condotta a livello mondiale dal colosso della consulenza su più di 3.500 manager, meno del 20% degli interpellati ha dichiarato di aver ottenuto successo nel cercare di influenzare la politica del Governo oppure l’esito di decisioni legislative.
Dove, dunque, stanno sbagliando le imprese e che cosa non funziona nell’approccio tradizionale alla Csr?
Occorre partire da una constatazione. I cittadini e i governi tendono ad avere aspettative più elevate nei confronti delle aziende rispetto al passato: non basta più ottemperare alle legge e adeguarsi agli standard previsti, ma occorre assicurarsi, per esempio, che tali parametri vengano rispettati anche lungo la supply chain. Ci si aspetta inoltre che le imprese più grandi siano in grado di spingersi ancora oltre contribuendo alla soluzioni di questioni economiche, sociali e ambientali per quanto non strettamente correlate al loro business. Nel contempo, le aspettative dei cittadini sono cresciute di pari passo con la loro capacità di mettere sotto esame le aziende. La comunicazioni sui media digitali permettono agli individui singoli e alle associazioni (tra cui anche le organizzazioni non governative) di tenere sotto osservazione l’operato delle imprese ed eventualmente sollevare contro tali azioni campagne in tempi rapidissimi, anche a livello mondiale, e a costo molto contenuto se non quasi zero. Per questo le aziende devono essere attrezzate per far fronte sia al crescere delle aspettative sia alla capacità di osservazione e di critica pubblica.
La gestione delle Csr “classica” non avrebbe portato alcun beneficio su questo fronte. Secondo gli esperti di Mckinsey l’approccio centralizzato al tema presenta infatti quattro difetti principali.
1) In primo luogo, le iniziative promosse dall’alto raramente ottengono il pieno supporto del business e tendono a sfociare in discussioni su chi paga e chi ottiene il beneficio. Senza una partecipazione attiva delle funzioni a più elevato assorbimento di capitale – tipicamente la produzione e il marketing – le ambizioni del team centrale deputato alla Csr sono difficili da realizzare.
2) Gli uffici preposti alla Csr, inoltre, possono facilmente perdere il contatto con la realtà dal momento che hanno visione spesso ristretta e distante degli stakeholder dell’azienda. I manager attivi direttamente sul campo invece hanno una migliore comprensione del contesto locale sia in termini di stakeholder sia in termini di bisogni della popolazione.
3) Spesso, poi, la Csr è stata utilizzata come un mezzo per proteggere la propria reputazione. L’external engagement invece dovrebbe rappresentare molto di più e tradursi nella capacità di attirare nuovi consumatori, di motivare i lavoratori e promuovere proposte nei confronti dei governi.
4) Ultimo punto debole dell’approccio tradizionale alla Csr è la durata media dei programmi, solitamente troppo brevi. Questo avviene perché solitamente la loro messa in atto è radicalmente separata dall’attività commerciale dell’azienda. La loro sopravvivenza deriva unicamente dalla discrezionalità e dalle inclinazioni del momento del management piuttosto che dal loro valore in quanto tale. Pertanto la loro sopravvivenza è estremamente vulnerabile al cambio del management e ad eventuali tagli di costi.
ASSUNTI CONDIVISIMcKinsey ricorda che già Michael E. Porter and Mark R. Kramer, tra i precursori negli studi sulla creazione di “valore condiviso”, hanno individuato le cause di un possibile fallimento in «un miscuglio di Csr poco coordinata e di attività filantropiche disconnesse dalla strategia dell’azienda tale da non generare alcun impatto sociale significativo o rafforzare la competitività dell’azienda nel lungo periodo».
Come risposta a tale questione, alcuni studiosi hanno proposto una nuova cornice per comprendere come il business possa gestire la relazione con il mondo esterno. Quasi tutte le impostazioni concettuali, incluse quella di Porter e Kramer sul “valore condiviso” e quella di Ian Davis sul “contratto sociale” partono dallo stesso assunto: le imprese devono profondamente integrare l’external engament nella loro strategia e nelle loro procedure.
«Perché, appunto, il successo di un’azienda – si legge nel report di McKinsey – dipende strettamente dalla relazione con il mondo esterno (che comprende non solo i clienti attuali e potenziali, lo staff interno, ma anche il legislatore e gli attivisti). Le decisioni prese a tutti i livelli dell’azienda, dal centro (a livello di cda) alla periferia (a livello di singolo punto vendita) vanno a impattare su tutte queste relazioni. Per essere veramente efficace il processo decisionale deve quindi tenere in debito conto di questi effetti. L’external engagement non può essere separato dall’attività quotidiane di business, ma deve esserne parte integrante«».
Secondo gli analisti di McKinsey molti manager sono già pronti a condividere questo obiettivo, ma non sanno come conseguirlo in pratica.
Suggeriscono quindi di adottare principi cruciali.
a) Definire l’azienda attraverso il contributo che essa è in grado di dare alla società: questo non significa dover cambiare lo scopo dell’azienda bensì rendere più esplicito il come la realizzazione di tale scopo può a sua volta fornire benefici alla società.
b) Conoscere i propri stakeholder: l’azione, per quanto ovvia possa sembrare, richiede qualcosa di più rispetto a quanto comunemente fatto oggi. Significa conoscere i propri stakeholder nello stesso modo in cui si tende a conoscere i propri clienti.
c) Le aziende che hanno successo nell’integrare l’external engagement nel loro business lo vedono come un fattore per incrementare la profittabilità e per questo si impegnano nel creare capacità, definire i processi e misurare dei risultati. Anche sul fronte dell’external engagement, infatti, i risultati, alla pari di quelli di business, devono essere misurati e misurabili: occorre pertanto fissare obiettivi, valutare i progressi e collegare gli incentivi con i risultati ottenuti.


Brand che lottano a colpi di comunicazione sostenibile? Un’ottima notizia!

Da quando Coca-Cola ha lanciato la sua coraggiosa iniziativa anti-obesità, i dipendenti, sotto gli attacchi dei critici, si saranno sentiti come elefanti (o orsi bianchi) in un negozio di cristalli, ma in ultima analisi la mossa della società è stata decisiva. Coca-Cola ha guadagnato la posizione dominante non solo nel dibattito sull’obesità ma anche rispetto ai propri concorrenti. A me è sempre piaciuta la rivalità tra Pepsi e Coca-Cola. Non è questo il vero simbolo del capitalismo: le imprese che fanno di tutto per stare più avanti rispetto alla concorrenza? Che forniscono servizi e prodotti eccezionali e ora anche impegni per la sostenibilità a noi consumatori? Coca-Cola e Pepsi sono come due fratelli che cercano di essere al centro dell’attenzione, che cercano l’amore. Ma c’è qualcosa di importante da imparare dalle loro battaglie: la direzione in cui sta andando la comunicazione della sostenibilità.
Ripercorriamo velocemente gli eventi. Pepsi ha creato un putiferio al Super Bowl 2010, quando decise di non rinnovare la sua presenza pubblicitaria con Britney Spears, preferendo finanziare iniziative sociali con il Progetto Refresh. Appena un anno più tardi, verso la fine del 2011, Coca-Cola seguì l’esempio di Pepsi, con le lattine bianche a supporto degli orsi bianchi e della ricerca artica con la campagna Arctic Home.
Entrambi i casi sono esempi di marketing geniale. I consumatori non vogliono solo essere divertiti, vogliono che i brand si distinguano, che facciano la differenza per le persone e per il pianeta, e vogliono pensare di sostenere qualcosa di buono quando spendono i loro soldi. Coca-Cola non voleva che tale spazio fosse occupato solo da Pepsi. La concorrenza si è spostata dal campo tradizionale di battaglia per entrare nella dimensione della sostenibilità: quello che fai tu, lo so fare io e in modo più “verde”. Mentre Coca-Cola sta ampliando le attività a favore dell’Artico anche in altri mercati, purtroppo il Progetto Refresh di Pepsi è stato un po’ per volta abbandonato.
Ma ciò che rende ancora più interessante l’ingresso di Coca-Cola nella questione anti-obesità è l’uso dellacomunicazione della sostenibilità come strumento strategico: d’interesse del top management, e non un semplice fuoco di paglia commerciale tinto di verde. La campagna anti-obesità non è semplicemente rivolta ai consumatori; dice ai tantissimi stakeholder di Coca-Cola che l’azienda ha una strategia per combattere l’obesità. E’ un’abile mossa tattica, soprattutto dopo le recenti azioni delle autorità come Michael Bloomberg, il sindaco di New York, che ha imposto un divieto sulle maxi bibite zuccherate. Costituisce anche una strategia proattiva contro certi lobbisti come il Center for Science in the Public Interest che ha lanciato di recente il video The Real Bears (gli orsi veri), descritto da USA Today come “il video che Coca-Cola non vuole che tu veda”, facendolo diventare ancora più popolare e portando a oltre due milioni il numero di visualizzazione.
Una campagna di questo tipo gioca anche a favore degli investitori. Le agenzie di rating della sostenibilità stanno facendo la voce grossa tanto che l’obesità è stata indicata come uno dei due principali rischi finanziari di Coca-Cola (l’altro è l’acqua!). Da semplice vernice di marketing verde, la comunicazione della sostenibilità si sposta nelle casseforti delle banche, riflettendo l’apprezzamento degli investitori per le imprese che affrontano la maggiore sfida commerciale del 21esimo secolo: la sostenibilità. La posta in gioco è enorme. A dispetto dei critici, Coca-Cola è riuscita a sviluppare un approccio che ha convinto i suoi molti stakeholder, e a mostrare di aver formulato una strategia in grado di fare la differenza. Nei mesi e negli anni a venire si vedrà se Coca-Cola continuerà a dominare il dibattito. Prevediamo già una nuova battaglia tra i due giganti della cola, con prodotti che hanno lo stesso gusto ma meno calorie. Comunque vada, ormai Coca-Cola ha fatto il primo passo e non si può più tornare indietro.
Dal punto di vista dei consumatori, questa è una mossa audace, ma abile. Quando Coca-Cola ammette che le proprie bibite altamente zuccherate contribuiscono al problema dell’obesità è come dire che il Re è nudo! Quello che ha detto Coca-Cola è ovvio, ma adesso che affronta i suoi demoni può dedicarsi alla costruzione di un legame di vera fiducia con i consumatori. E Pepsi? L’AD Indra Nooyi non sarà felice della scelta difficile che ora deve affrontare. Coca-Cola ha alzato l’asticella in termini di ciò che ci si aspetta dall’industria delle bibite non alcoliche (e forse anche da altri settori) e i consumatori vorranno delle risposte precise. Siamo forse alla vigilia di una rivoluzione nel mondo delle bibite?
Coca-Cola non è l’unica società alle prese con simili sfide strategiche che minacciano le fondamenta del proprio modello d’impresa che si basa sulla vendita di bibite poco salutari e piene di zucchero. Anche McDonald’s e altre imprese nel settore del fast food, con offerte ad alto contenuto di grassi, sale e zucchero, sono sotto la lente del pubblico.
Dunque: quali sono i peggiori nemici nel vostro settore? Quali sono i temi che riuscite a gestire in modo attivo, anziché aspettare che i consumatori cambino atteggiamento (perché lo faranno, credetemi)? Alcune imprese hanno cercato di uccidere il grande nemico che stava in agguato, come ad esempio BP, che ha fatto finta di affrontare la sfida con il claim “Beyond Petroleum“, un tentativo che non è stato altro che un’iniziativa di marketing.
E qui ci sta una lezione importante. La comunicazione è capace di creare la visione e il dialogo indispensabile con gli azionisti, e di assumere un ruolo di primo piano, ma le azioni devono essere già operative o in posizione strategica, e devono essere trasparenti. Se la si gestisce bene, quella che sembrava una minaccia può essere trasformata in opportunità. E’ sempre meglio far fronte alla sfida e confrontare i veri nemici (soprattutto quelli interni) piuttosto che mettere la testa nella sabbia. A lungo andare si conquisterà il rispetto e il sostegno delle persone. Coinvolgete gli stakeholder e collaborate con loro per risolvere la questione: a quel punto i peggiori nemici potrebbero diventare i migliori amici…


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