Intervista sul Movimento Cinque Stelle

A seguito del recente articolo pubblicato sul Movimento, sono stato intervistato da Luisa Perugini  per SBS Radio… ecco la registrazione del servizio:


Gli stakeholder dimenticati nella piazza

Come ci ricorda un bell’articolo del più antico giornale domenicale del mondo, il britannico The Observer, le proteste brasiliane e quelle turche presentano notevoli analogie. Anche l’Ambasciatore Giulio Terzi, già Ministro degli Esteri, in una lucidissima analisi pubblicata sulla propria pagina Facebook – a onor del vero qualche giorno prima del giornale inglese – tendeva una sottile linea rossa tra le due piazze, quella alle porte dell’Ue e quella nella lontana America Latina: milioni di persone scese in piazza per un apparente pretesto – in Brasile l’aumento del costo dei biglietti dell’autobus, in Turchia l’abbattimento di alberi per costruire un centro commerciale – ma in realtà determinati – come sottolineava anche l’Economist – a far sentire la propria voce su temi ben più importanti: la corruzione dilagante, il costo della vita in crescita esponenziale, l’assottigliarsi delle garanzie sociali, la disoccupazione giovanile, lo sperpero di denaro pubblico, e – non ultimo – un eccessivo autoritarismo del Governo.
Nel passato, i movimenti di protesta erano connotati sostanzialmente da tre fattori chiave: un’istanza politica forte che includeva una richiesta di cambiamento rispetto a un modello dominante; un’organizzazione piramidale con in testa un leader riconosciuto dalla base e riconoscibile all’esterno; un’organizzazione permanente nel tempo, perlomeno fintanto che l’istanza di cambiamento non veniva recepita o in qualche modo “assorbita” dal centro del potere.
I movimenti di massa contemporanei – rileva Peter Beaumont, intelligente cronista degli esteri del gruppo The Guardian – presentano invece caratteristiche che a un’analisi più approfondita rivelano peculiarità ben differenti rispetto al passato, e che vorrei provare a codificare per praticità in cinque punti:
1) organigramma disintermediato. Non esiste in nessun caso un “leader” chiaramente identificabile, quanto invece una totale “polverizzazione” di leadership all’interno dei movimenti, con una “moltitudine di voci” a rappresentare le istanze della protesta;
2) attivazione delle masse mediante strumenti di “marketing conversazionale”. Sono i “buzz”, i passaparola, che determinano il movimento delle masse, non gli ordini delle gerarchie politiche e/o dell’opposizione. In queste dinamiche, i social media e gli strumenti di interazione 2.0 rivestono un ruolo fondamentale, disegnando però una medaglia a due faccie: rapido e libero assembramento, ma, per contro, “collegamenti deboli”, perché Twitter da solo non costruisce un’ideologia;
3) approccio “Glocal”. L’accezione che do a questo termine, ben noto agli addetti ai lavori, in questo caso afferisce alla capacità della protesta di condurre battaglie globali identificate però fortemente con specifici luoghi nello spazio locale, in uno sforzo di riscrittura della storia degli spazi pubblici in nome di un’attività di cittadinanza attiva: Piazza Tharir in Egitto, Zuccotti Park in Usa, Parco Gezi e Piazza Taskim in Turchia, etc.;
4) produzione orizzontale di istanze. Le proteste di piazza – oggi – sono produttive delle istanze che le animano, che sono frutto dell’elaborazione della folla stessa, mentre in passato le masse si riunivano per “ascoltare le proposte” dei leader della protesta ed eventualmente sostenerle con le proprie braccia e le proprie gambe. Come per il passaggio dal web 1.0, vetrina, al web 2.0, costruzione condivisa, anche in questo caso notiamo un ruolo assai più proattivo degli utenti che partecipano alla protesta;
5) orizzonte temporale limitato. I movimenti di protesta del passato erano strutturati non solo nello spazio – organigramma, uffici, addetti alle relazioni con i mass-media, etc. – ma anche nel tempo: “perduravano” fintanto che l’obiettivo non era raggiunto, eventualmente “cambiando pelle” durante il percorso. Attualmente, secondo Tati Hatuka, geografa urbana israeliana che studia le forme di protesta e le mobilitazioni di massa nel mondo occidentale, «il messaggio è l’evento stesso». Le manifestazioni di piazza non sono lo sbocco naturale di un percorso di protesta, che partendo da un’analisi dell’esistente propone poi un modello differente: ne costituiscono l’inizio. E dopo? Posto che la situazione com’è non è più accettabile, quali sono le soluzioni? È qui che può leggersi il limite di questo genere di esplosioni di disappunto: rischiano di restare fini a se stesse, e vengono quindi spesso sottovalutate dai Governi, i quali vedono come possibile soluzione il semplice “scorrere del tempo”, accompagnato a volte dalla repressione, e quindi il naturale riassorbimento della protesta con il ritorno dei manifestanti alle proprie case e alle proprie occupazioni giornaliere.
Questi i cinque punti che ci tenevo a enfatizzare. Altri colleghi potranno fare di meglio, con analisi più approfondite.
La “Marcia Mondiale per la Pace“, nata nel 2008 da una scommessa tra cittadini qualunque e sviluppata poi con oltre 300 eventi di piazza consecutivi in 98 nazioni del mondo, costituisce un buon modello – “non belligerante”, ma di proposta – che attivò milioni e milioni di persone, purtropponon adeguatamente e costruttivamente “intercettato”dalle leadership convenzionali, sempre troppo impegnate a gestire l’emergenza quotidiana e quindi incapaci di percepire i segnali deboli di crisi.
La vera sfida quindi è: chi coglierà oggi l’occasione per imparare a governare con efficacia questi movimenti di piazza? L’iniziale paura e diffidenza, da parte di governi e decisori, lascerà spazio alla volontà di una relazione sana con lo stakeholder “cittadini insoddisfatti”, così da trarre dal mutuo riconoscimento spunti utili per trasformare le istanze di protesta in idee creative per migliorare lo scenario sociale esistente?
I cittadini oggi si sentono – anche nei Paesi d’impronta non democratica – sempre più liberi di manifestare la propria opinione o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione globale”. I politici per contro si ostinano a tentare – invano, ormai è sotto gli occhi di tutti – di tenerli fuori dalle dinamiche di decisione. Questa carenza di autenticità – vera e propria distonia tra l’esistente e il percepito – quanto potrà durare ancora prima di produrre strappi insanabili? Quando i decisori comprenderanno che assets immateriali come “fiducia”, “reputazione” e “rispetto”sono ormai parte della catena del valore, per le aziende come per le amministrazioni pubbliche?
Sempre l’Observer pubblicava una foto dalla piazza Brasiliana, uno striscione esposto dai manifestanti con scritto: «Siamo tutti social network».
E’ vero, in ragione di quanto la tecnologia web non fa che agire da “accelleratore di processo” in una società sempre più fortemente interconnessa. L’interazione, la capacità e disponibilità di creare engagement sociale con gli stakeholder eaddivenire a un modello di costruzione condivisa di contenuti, a tutti i livelli, è a mio avviso la vera keyword che farà la differenza nel rapporto tra istituzioni e cittadini, in questo e nei decenni a venire.
 


POLITICAL PEOPLE: il primo social network con identità certificate

“quando  troveremo il coraggio della responsabilità e ognuno farà di sè una piazza, sarà l’ora di farsi sentire senza urlare, di trasformare le idee in un’ideale.”
E’ questa una delle frasi presenti nel video che potrete vedere appena digiterete sulla vostra tastiera questa nuova combinazione di parole:POLITICAL PEOPLE.
Una piattaforma di social networking pensata per creare un luogo d’incontro , quasi un caffè politico.Un progetto che si estende in orizzontale e verticale, a livello nazionale, regionale, provinciale e comunale.  Rappresenta un nuovo format per la partecipazione cosciente e responsabile alla vita pubblica.
Appena aperto il suddetto sito, si può procedere al login ed esplorare questa fucina di informazioni e idee.
Avventuriamoci nella scoperta di questo social network attraverso delle domande poste ai suoi ideatori e fondatori.
Cos’è, precisamente, PoliticalPeople?

PoliticalPeople non è solo una piattaforma è una visione del mondo. Una visione non verticistica. Una piattaforma, concepita come social network, che ha come obiettivo quello di accorciare le distanze tra eletti ed elettori. Una azione di controllo sociale sull’operato di chi amministra la cosa pubblica, un sistema di co-working del cittadino che non supera ma valorizza il concetto di rappresentanza che sta alla base delle moderne democrazie mondiali. L’idea e la sua realizzazione sono il frutto di un confronto continuo tra due mondi: i nativi digitali, giovani abituati a pensare la rete come piano parallelo rispetto alla propria vita reale, e il mondo delle amministrazioni, della politica, di coloro che avvertono internet e la rete come una “spinosa” e rischiosa opportunità di confronto.
Perché le persone dovrebbero iscriversi al vs sito?

Perché non siamo un social network generalista. Non vogliamo esserlo. Siamo una fucina di idee, di opinioni, di segnalazioni che puntano a migliorare la gestione della cosa pubblica. I recenti eventi nel panorama italiano, ma anche esempi in giro per il mondo, hanno chiaramente evidenziato la potenza dei social network, la loro capacità di influire sul corso degli eventi. Lo sforzo che tentiamo di fare, l’idea che alimento PoliticalPeople è quella di passare dalla denuncia alla proposta, alla costruzione dei temi, all’attività di lobbing (in senso costruttivo) perché i temi che interessano ai cittadini possano arrivare sui tavoli che contano. Chi governa non sempre recepisce questi messaggi, riteniamo che uno strumento che sia insieme di controllo sull’operato, di proposta, di studio e di pungolo vada incontro alla richiesta di partecipazione.
Credete possa essere una idea vincente?
Il presupposto principale è la voglia di partecipazione che emerge dai recenti accadimenti, italiani ma non solo. Il sistema si autogoverna, non ci sono ingerenze esterne. Non ci sono filtri né algoritmi che possano pilotare consensi o temi. Una piazza virtuale in cui ciascuno dice la sua. La sfida però è quella di metterci la faccia. In più PoliticalPeople non rischia di essere inopportuno. Chi entra nella piattaforma e si registra decide di “partecipare” alla costruzione di un paese migliore. Di dire la sua. Non di “ammazzare il tempo o la noia” condividendo contenuti o immagini in maniera passiva e, spesso, talmente automatica da perderne completamente l’origine.
Cos’ha di più e di diverso rispetto a facebook e twitter, che rappresentano in assoluto i social network più utilizzati?
PoliticalPeople è un social network di settore. Partecipazione civile, passione politica, impegno sociale sono gli ingredienti di una scelta che l’utente decide di compiere iscrivendosi alla piattaforma in maniera gratuita. Unisce all’immediatezza dei tradizionali social network una serie di strumenti (segnalazioni, sondaggi, petizioni e tavoli di lavoro) che concretamente possono tradursi in momenti di confronto e arricchimento per amministratori e governanti. PoliticalPeople aspira ad essere meno dispersivo e, soprattutto, più attendibile sul piano delle informazioni che circolano.
E infine, i ragazzi, dicono..
L’obiettivo di PoliticalPeople è quello di superare l’equivoco dell’anonimato. Se una piattaforma deve essere di e-democracy il cittadino deve essere conscio, così come accade del mondo “analogico”, dei propri diritti e dei propri doveri. L’idea della certificazione, della firma digitale, come opzione per dare forza alle proprie opinioni all’interno della piattaforma mira a catapultare il mondo PoliticalPeople nei procedimenti amministrativi e di governo tarandoli sulle effettive necessità dei cittadini. La firma digitale obbligatoria per i politici mette al sicuro il cittadino con una interlocuzione certa e diretta. La firma facoltativa per i cittadini è una opportunità per rafforzare le opinioni espresse e le segnalazioni fatte.


La Rewoolution di Reda: un ritorno al futuro della lana

Mentre diversi lanifici del biellese, in Piemonte, stavano fallendo, il gruppo Reda ha scelto la via della sostenibilità. Dopo la certificazione Emas, ottenuta per la prima volta nel 2004, nel 2010 l’azienda di Valle Mosso ha aggiunto alla produzione di tessuti per le grandi case di moda una vera e propria linea di abbigliamento sportivo tecnico in lana merino, lanciando il marchio Rewoolution. “Abbiamo sempre pensato alla questione di andare a valle”, racconta l’amministratore delegato di Reda Ercole Botto Poala. “In un momento in cui però il mercato degli abiti formali si sta restringendo, non volevamo entrare in concorrenza con i nostri clienti. Per questo abbiamo pensato ai capi tecnici per sport all’aria aperta, con l’intenzione di offrire prodotti in sintonia con chi li utilizza e con l’ambiente”. Non solo perché t-shirt e pantaloni sono 100% fatti di lana e completamente oil free, ma anche per l’intero processo di produzione: “Il nostro obiettivo è ridurre al minimo l’impatto ambientale”.
Dopo l’idea iniziale, nel lanificio Reda, nato nel 1865 e rilevato e rilanciato nel 1919 dalla famiglia Botto Poala, è iniziato un processo di studio e perfezionamento delle tecniche di filatura, per ottenere un tessuto adatto a tutti gli sport outdoor: sci e snowboard, golf, vela, trekking, climbing. “Abbiamo eliminato i limiti della lana di una volta e l’abbiamo resa più performante dei tessuti sintetici: adesso non punge più e addirittura al tatto non sembra neanche lana, perché è più sottile. Rispetto alle fibre sintetiche, la lana si asciuga prima, non prende cattivi odori, e ha un effetto di termoregolazione. Al contrario di quello che si pensa di solito, infatti, la lana è più utile in estate che in inverno: una t-shirt sintetica trattiene un calore pari a 8 gradi in più. Una t-shirt in merino è traspirante, ha un alto potere di assorbimento e protegge dai raggi UV-A e UV-B”.
La fase a più alto impatto ambientale è sicuramente quella del trasporto: la lana, infatti, è importata da Australia e Nuova Zelanda e poi lavorata nello stabilimento Reda nel biellese. Anche in questo ambito, però, l’azienda è impegnata per alleggerire la propria impronta ecologica: “In Nuova Zelanda abbiamo tre fattorie che allevano 30.000 pecore secondo i canoni di Zque, un programma basato su pratiche sostenibili, rispettose dell’ambiente e del benessere degli animali. Per il trasporto, cerchiamo di utilizzare le compagnie navali che ci garantiscono le minori emissioni possibili”. Un lavoro che in certi casi diventa quasi un percorso a ostacoli: “Tutto questo ha un costo, che il mercato per adesso non ripaga: più andiamo su prodotti di lusso e meno interesse c’è per l’impatto ambientale. Oltre a questo, non è sempre facile trovare fornitori attenti alla sostenibilità”.
Rewoolution è solo l’aspetto più visibile di un percorso verso la sostenibilità che Reda ha iniziato alla fine degli anni Novanta e a cui ha aggiunto nel 2004, unico lanificio al mondo, la certificazione Emas: “Il primo passo è stata nel 1998 la costruzione del nuovo stabilimento: già allora, quando ancora non si parlava di bioedilizia, sono stati presi una serie di accorgimenti che hanno reso la nostra sede adatta a tutte le misure di sostenibilità successive. L’edificio, per esempio, è esposto a Sud, e questo ha facilitato l’installazione dei pannelli solari sul tetto. La posizione delle macchine è stata cambiata per ridurre i costi di trasporto”. Sei anni dopo, è arrivata la prima certificazione, che prevede un controllo annuale ed interventi continui in chiave di sostenibilità, dalla formazione del personale all’installazione dell’impianto fotovoltaico, dalla riduzione dei consumi dell’acqua al recupero del calore, che “ha permesso di risparmiare, dal 2011 ad oggi, 2 tonnellate di CO2 e tagliare i consumi energetici del 2%”. Interventi che hanno richiesto investimenti consistenti, pari a 6 milioni di euro in quattro anni, parte della quota (il 10% del fatturato) destinata ogni anno da Reda a innovazione e tecnologia.
Oggi gli abiti tecnici Rewoolution sono commercializzati, oltre che nell’e-commerce on line, in diversi negozi italiani ed europei (in Francia, Germania, Austria, Belgio, Danimarca), ma anche in Groenlandia, a Taiwan e in Kuwait, dove per difendersi dal caldo ci si veste di lana.


La CSR è morta, viva la CSR. Riflessioni sul caso MPS

C’era una volta una banca considerata da analisti e esperti del settore tra le buone pratiche in termini di responsabilità sociale d’impresa. Una banca che, sul suo sito web, dichiara[va] che “i temi di sviluppo sostenibile maggiormente rilevanti per il business e per gli stakeholder sono integrati nei processi aziendali”. 
Una banca sinonimo di territorialità, in osmosi con il tessuto economico locale, volano di cultura e tradizione ai livelli più alti. Una banca dotata di tutti o quasi gli strumenti tipici in grado di dare concretezza ad una strategia di responsabilità sociale: un bilancio di sostenibilità completo e redatto secondo tutte le linee guida di riferimento, dotato del massimo livello di assurance (A+), un processo di stakeholder engagement realizzato in modo sistematico, l’adesione ai principi e ai consessi internazionali di più alto livello (Global Compact e Equator Principles, per esempio), il dialogo costante e strutturato con le associazioni dei consumatori concretizzato attraverso uno tra i più interessanti ed efficaci progetti a livello nazionale, un sistema di rating ESG (Ambiente, Società, Governance) dei fondi/sicav in offerta presso la rete, una porzione di offerta a forte contenuto di sostenibilità, una policy per la cessazione dell’operatività residuale nel settore degli armamenti, l’inclusione di principi legati al rispetto dei diritti umani nel Codice Etico e nella “Politica sulla sostenibilità nella catena degli approvvigionamenti”, un impegno globale per la lotta al riciclaggio e al terrorismo e soprattutto, una serie infinita di erogazioni liberali, sponsorizzazioni e donazioni per soggetti profit e non profit della città e più in generale del Paese, un’immissione di capitali in grado di far fiorire arte, cultura, sport, eventi, sostegno alle persone svantaggiate.  Insomma, c’era una volta una best practice di CSR nel settore finanziario italiano ed europeo.
C’era una volta. Perché quella best practice è da alcune settimane nell’occhio del ciclone. Le accuse ad alcuni rappresentanti degli ex vertici aziendali sono pesanti. Partono da presunte irregolarità nel processo di acquisizione di un’altra banca, passano per operazioni su titoli tossici, toccano ipotesi di corruzione, falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza. A ciò si aggiungono ulteriori ombre da chiarire, a partire dal ruolo giocato dall’interferenza politica nella gestione dell’omonima fondazione, che partecipa al 37,5% all’assetto azionario dell’azienda.
E dunque la domanda è: come è possibile che un’azienda dotata di processi di CSR così sviluppati, a presidio del capitale reputazionale e del valore per gli stakeholder, possa essere travolta da uno scandalo fondamentalmente di carattere “(dis)etico”? E per estensione: la CSR, classicamente intesa (e i professionisti che la governano) ha ancora un senso all’interno delle aziende o rappresenta solo il braccio buono del capitalismo, la spugnetta che lucida i comportamenti opachi?
A queste domande non siamo riusciti, qui ad Avanzi, a rispondere senza innescare una dialettica tutta interna, di cui riportiamo di seguito una sintesi. I punti di vista non sono opposti, ma esprimono sensibilità diverse.
Giovanni Pizzochero – Due riflessioni: una strategia di CSR ha senso solo se è preceduta da un’analisi approfondita di materialità in grado di definire significatività e interesse delle azioni implementate dall’impresa per i portatori di interesse. Una strategia di CSR deve essere ancorata ad un’analisi delle reali esigenze delle stakeholder, affinché l’organizzazione produca valore per essi su tematiche di reale importanza, in grado di generare valore come risposta ad un bisogno rilevabile. Astraendo, ma non troppo, dal caso Montepaschi: il compito di una banca è quello di erogare credito. La “vera” CSR pertanto deve essere connessa al processo core, alle sue declinazioni, alle sue modalità. A che serve una banca che non eroga credito a determinate categorie di popolazione, che non vigila sui propri processi di compliance, che mette a rischio il risparmio dei suoi clienti, ma stampa la propria modulistica su carta riciclata? A che serve una banca che finanzia il settore delle armi o altri settori controversi, ma elargisce donazioni a supporto di ONP impegnate in territori di guerra?
Il secondo spunto: la generazione di valore per l’impresa e per gli stakeholder deve avvenire attraverso un unico atto economico. La CSR ha senso se include un principio di contemporaneità rispetto al business. La CSR ha senso se è integrata al business, se è essa stessa business. Da fare Corporate Social Responsiility, ad essere una Socially Responsible Corporate. L’azione dell’organizzazione deve essere ad un tempo in grado di essere sostenibile per l’impresa e per la società. La teoria dei due tempi (prima faccio profitto “costi quel che costi” e poi lo redistribuisco) è vecchia ed evidentemente controproducente. A meno che non si voglia correre il rischio di ritrovarsi di fronte ad una banca (o ad una qualsiasi azienda) con una legittimità sociale solida acquistata a suon di beneficienza, spazzata via dal colpo di vento dell’inadempienza ai principi più elementari.
Come mostra l’esempio di cui sopra (solo uno dei tanti che possono essere citati), la CSR così come è stata interpretata da molti sino ad oggi mostra molte debolezze. E’ necessario aprire un dibattito, in questa fase storica, sul futuro della disciplina: ridefinire i confini della materia, osare per superare e correggere buona parte delle anomalie relative alle interpretazioni della responsabilità sociale. Creare valore economico in modalità tali da generare contemporaneamente valore per l’azienda ma anche per gli stakeholder e per i territori di riferimento. E non è solo un fatto aziendale: è soprattutto un fatto culturale che risponde ad un unico refrain, sentito mille volte, applicato raramente: integrare l’etica nel business, identificando nuove forme di economia (sociale). E quando si parla di valori etici, si parla di ricambi generazionali in quanto legati a modelli culturali. L’attuale modello di CSR non funziona in sé, o sono i suoi interpreti ad esprimerlo nel modo sbagliato?
Estremizzando, se le aziende sapranno davvero integrare nella propria cultura, nella propria missione, nei propri processi di governo questa nuova sostenibilità in grado di paragonare (o anteporre) il valore sociale al valore economico, a cosa servirà parlare ancora di CSR? A che serviranno le funzioni aziendali di CSR? A che serviranno i consulenti di CSR? A niente, perché saremo di fronte ad un nuovo modello economico, l’unica via per uscire dalla crisi.
Davide Dal Maso – La mia analisi vuole essere realistica, non ideologica. La CSR non è la soluzione ai mali del mondo – e su questo siamo tutti d’accordo. È un approccio che un’organizzazione adotta per governare se stessa. Ma questo non significa che assumerne lo spirito e utilizzarne gli strumenti, di per sé, la renda perfetta. Darsi un codice etico non vuol dire che tutte le regole in esso previste siano immediatamente e completamente rispettate. Il rispetto delle norme dipende [non solo, ma in gran parte] dall’allineamento tra il loro contenuto e il sentire dei destinatari – che in una grande azienda sono tanti e tutti portatori di una diversa cultura e di una specifica visione etica. I codici, quindi, hanno anche un obiettivo aspirazionale: dicono come devono andare le cose, ma anche come dovrebbero andare, pur sapendo che ci potrebbero essere dei fallimenti. La Costituzione della nostra Repubblica è piena di riferimenti a obiettivi irrealizzati, che tuttavia esprimono una tensione verso il miglioramento, che non va considerata né ingenua né inutile.
Tutto questo significa forse che gli scandali e gli abusi vanno accettati come un fatto ineluttabile? Ovviamente no. Però dobbiamo riconoscere la possibilità che occorrano. La possiamo ridurre, ma non eliminare. Ma è proprio per questo che, nonostante tutto, codici, politiche e pratiche di CSR sono importanti: perché richiamano continuamente l’azienda verso i principi che essa stessa ha dichiarato di voler rispettare. In altre parole, uno può anche non mantenere una promessa; ma, se non fa alcuna promessa, non ci si può nemmeno richiamare agli impegni che ha preso.
Non posso sapere, ovviamente, se i vertici di Montepaschi abbiano commesso dei reati; spetterà ad altri stabilirlo. Ma certamente hanno tradito la fiducia delle loro controparti. Dei dipendenti del gruppo, in primo luogo, dei clienti, di tutti quelli che si erano affidati loro. Anzi, arrivo a dire che è l’azienda, intesa come comunità di persone e di interessi, ad essere stata tradita. Montepaschi (e, con essa, tutte le imprese danneggiate dai propri stessi amministratori) è la vittima dell’irresponsabilità di alcuni, che hanno distrutto il senso di responsabilità di molti. Le buone pratiche di CSR di Montepaschi non erano “finte”; i rating ESG tanto positivi non erano regalati; le cose buone fatte, non poche, restano. Su questo lavoro Montepaschi dovrà ricostruirsi. Se dovesse cedere alla tentazione di smantellare i progetti e le pratiche di CSR, sotto la spinta dei tagli ai costi, allora sì dovremmo preoccuparci: dovremmo riconoscere ragione ai detrattori, a tutti quelli che sostengono che la CSR è solo fumo negli occhi, è pura comunicazione, è un abbellimento che, alla prima difficoltà, viene messo da parte. Io sono convinto, invece, che in Montepaschi si sia cercato di realizzare davvero un percorso serio di responsabilità sociale e che i risultati degli investimenti del passato, se non saranno dilapidati da scelte emergenziali, se si continuerà a coltivarli, arriveranno.


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