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Antitrust, istruttoria su Instagram e influencer Asia Valente

Antitrust, istruttoria su Instagram e influencer Asia Valente

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha avviato un procedimento istruttorio nei confronti di Meta-Instagram e dell’influencer Asia Valente.

Lo si legge in una nota secondo cui in particolare, Meta avrebbe omesso di adottare misure idonee a impedire la pubblicazione su Instagram di messaggi potenzialmente ingannevoli.

Infatti Asia Valente pubblicherebbe sul canale social foto e video di ristoranti, di spa, di hotel e di altre strutture turistiche, con le quali si ritiene possa intrattenere rapporti commerciali, senza utilizzare alcuna dicitura che evidenzi la natura promozionale di questi contenuti.

Per l’Antitrust l’influencer Asia Valente, verso la quale è stata aperta una istruttoria assieme a Instagram-Meta per “messaggi potenzialmente ingannevoli” nei post, “vanterebbe una notevole popolarità basata su un numero consistente di follower, circa 2 milioni, la maggior parte dei quali sembrerebbe non autentica”. Lo si legge nella nota diffusa dall’Autorità.

Meta-Instagram, sottolinea l’Antitrust,” non fornirebbe adeguata informazione sull’esistenza e sulle modalità d’uso dello strumento per contrassegnare i contenuti brandizzati né controllerebbe l’effettivo e corretto utilizzo di tale strumento, soprattutto in relazione a contenuti promozionali pubblicati da utenti estremamente popolari, quali gli influencer. Infine, la società non svolgerebbe verifiche in merito all’autenticità delle interazioni sulla propria piattaforma in modo da evitare la raccolta artificiale di “mi piace” e di follower”.




Strategie ambidestre: modelli organizzativi per favorire l’innovazione

Strategie ambidestre: modelli organizzativi per favorire l’innovazione

Nell’era dell’innovazione e dell’evoluzione continua del mercato, l’importanza dell’”Open Innovation” (secondo il celeberrimo paradigma di Henry Chesbrough) è ormai un assioma consolidato e riconosciuto, e non solo dagli esperti del settore. L’apertura all’innovazione proveniente dall’esterno, tramite collaborazioni, partnership e acquisizioni, è diventata un fattore cruciale per il successo e la sopravvivenza di qualsiasi organizzazione.

Questa consapevolezza non deve far dimenticare però che, se è vero che l’esterno dell’organizzazione contamina l’interno e genera i presupposti dell’innovazione, senza un contesto interno pronto a riceverla, l’Open Innovation non ha speranza di successo. La cultura aziendale è il fondamento su cui si poggia l’innovazione. Le persone che lavorano in un’azienda sono le prime a poter generare idee innovative e ad applicarle al meglio nel loro contesto o, al contrario, a rifiutare le buone suggestioni che arrivano dall’esterno e rendere vano ogni tentativo di cambiamento.

Grazie al lavoro di consulenza focalizzato sulla “People Driven Innovation”, è possibile osservare come l’innovazione possa essere generata solo all’interno di un contesto culturale preparato, con il supporto di una leadership consapevole e l’adozione di processi strutturati per gestirla.

Per ragionare in termini reali di innovazione, ed evitare il rischio di interventi superficiali, vale la pena soffermarsi sulle contraddizioni intrinseche del concetto stesso di innovazione, per capire qual è il lavoro da fare per venire a capo di tali contraddizioni.

Navigare tra due mondi: le strategie ambidestre e il tessuto organizzativo

Innovare non è un’azione scontata per un’azienda. Nella maggior parte dei casi si tratta di un processo addirittura contraddittorio. Se da una parte ogni impresa deve cercare di massimizzare il proprio vantaggio competitivo, dall’altra, l’esigenza altrettanto urgente di innovare la distoglie dal primo compito, per esplorare nuovi campi su cui ampliare il business. Questi due obiettivi sono spesso in aperto conflitto.

La capacità di un’azienda di bilanciare lo sfruttamento del proprio vantaggio competitivo (exploitation) e l’esplorazione di nuovi campi per innovare (exploration) è detta “ambidestrismo organizzativo”. Le strategie ambidestre, capaci di superare la contraddizione tra presente e futuro, possono concretizzarsi operativamente in uno di questi 3 modelli:

Ambidestrismo strutturale

È, probabilmente, la modalità tradizionale per affrontare la contraddizione di cui abbiamo parlato. Essa prevede l’adozione di strutture organizzative distinte, dedicate rispettivamente all’exploitation e all’exploration (tipicamente produzione e R&D). In questo modo, l’azienda può concentrare le risorse e gli sforzi in modo separato per massimizzare i risultati in entrambe le dimensioni.

Tuttavia, un approccio di questo tipo presenta non poche criticità. Ad esempio, la separazione tra le strutture può generare tensioni interne e ostacolare la comunicazione e la collaborazione tra funzioni, possono nascere difficoltà nel coordinare il flusso di attività o nel definire le priorità.

Ambidestrismo sequenziale

Per superare alcuni limiti, sono stati sviluppati modelli alternativi di ambidestrismo, come quello sequenziale o quello contestuale. L’ambidestrismo sequenziale prevede l’adozione di strutture temporanee che consentono di esplorare e sperimentare (Hackathon, Task Force etc…), seguite da attività di implementazione e sfruttamento delle soluzioni identificate.

Ambidestrismo contestuale

Una risposta ancora più efficace arriva dall’ambidestrismo contestuale: in questo caso le strutture sono integrate e l’organizzazione è costretta ad affrontare contemporaneamente le esigenze di entrambe le dimensioni. Unico criterio per la realizzazione di un tale contesto: coltivare una cultura dell’innovazione che promuova l’autonomia di azione, la cooperazione e la capacità di gestire situazioni incerte.

Ambidestrismo contestuale: come favorire l’innovazione

L’ambidestrismo contestuale è un modello capillare, che si fonda sulla possibilità di abilitare tutte le persone dell’organizzazione ad innovare, promuovendo comportamenti ambidestri. Ovviamente, questo tipo di configurazione può nascere solo in presenza di alcuni specifici prerequisiti:

  • Cultura dell’innovazione: un mindset diffuso rivolto al miglioramento continuo di tutte le persone dell’organizzazione (Growth Mindset), che metta al riparo dall’inutile e controproducente ricerca dell’innovatore come genio solitario. Questa cultura può essere stimolata e coltivata attraverso workshop, formazione, programmi di sensibilizzazione e coinvolgimento dell’intera popolazione.
  • Leadership preparata: i leader devono essere in grado di comunicare una visione strategica e promuovere, allo stesso tempo, una cultura dell’apprendimento continuo e della sperimentazione. Ciascun manager dovrebbe agire come coach delle risorse e come mentore per le figure meno esperte. Sotto questo aspetto si può lavorare con iniziative di formazione specifica per i leader, aiutandoli a sviluppare competenze orientate all’innovazione.
  • Contesto organizzativo “contraddittorio”: è importante creare spazi di lavoro aperti che favoriscano l’interazione e l’informalità, adottare tecnologie di comunicazione interna (anche, a volte, ridondanti) e dedicare tempo all’innovazione.
  • Strumenti, metodologie e processi di gestione dell’innovazione: processi ben strutturati per la gestione delle fasi di esplorazione generativa e sperimentazione sono essenziali; si tratta di valutare le idee, selezionare le più promettenti e creare poi le condizioni per la loro implementazione. Per favorire questi processi si possono implementare ad esempio piattaforme digitali ad hoc, che permettono una gestione organizzata dell’innovazione.

Strategie ambidestre, è sempre una questione di cultura

In un mondo in cui l’innovazione è la chiave per il successo aziendale, diventa fondamentale coltivare una cultura dell’innovazione che parta dall’interno delle organizzazioni.

Non basta solo trovare da qualche parte un’idea geniale, bisogna anche saperla implementare. Sarebbe come venire a sapere dell’esistenza di un tesoro nascosto, senza avere la mappa per trovarlo: potreste trovarvi con una o molte idee brillanti, ma senza la giusta cultura interna, non avrete la possibilità di trasformarle in un successo.




ESG e reputazione di brand: come comunicare in modo efficace la sostenibilità d’azienda

ESG e reputazione di brand: come comunicare in modo efficace la sostenibilità d’azienda

Le conseguenze della crisi climatica e della globalizzazione a cui assistiamo ogni giorno hanno generato nei cittadini-consumatori una crescente consapevolezza e presa di responsabilità rispetto alle tematiche sociali. Non solo promesse e dichiarazione d’intenti: il pubblico chiede alle aziende di intervenire e di condividere tale impegno per potervi partecipare.

Molte imprese si astengono dall’esplicitare il loro supporto a cause sociali e di concentrare gli sforzi comunicativi sulle proposte commerciali. Quando si trattano temi così delicati, il rischio di commettere passi falsi è alto e contribuisce a preferire il non schierarsi rispetto alla possibilità di inciampare in qualche controversia indesiderata.

Ma i consumatori come percepiscono tale silenzio? La neutralità non premia. Anzi, rappresenta un vero e proprio fallimento con risvolti negativi ad ampio raggio. Inoltre, ignorare la comunicazione alla sostenibilità significa esclude a priori dalla propria strategia un nuovo, potente driver di scelta.

Il brand: un valore che veicola valori

Ora più che mai, il successo di un’impresa inizia con un brand e non con un prodotto.

A dirlo è Interbrand, società leader specializzata nel branding, che ogni anno stila un ranking delle prime 100 marche con il più alto valore di mercato a livello globale.

In breve, potremmo definire il brand come una serie di attributi, significati e valori sedimentati nella memoria delle persone e, allo stesso, il canale privilegiato di cui l’azienda dispone per rappresentare sé stessa. L’operato del brand non deve deludere le aspettative dei consumatori e, per non invalidare tutto il lavoro svolto, deve essere veicolato secondo una strategia ben studiata.

Non sorprende quindi trovare ai vertici del Best Global Brand realtà che hanno capito come, dove e quando sfruttare la propria marca per risolvere le esigenze degli individui in target, in un panorama di costante e rapido mutamento.

Il trionfo di aziende come Apple o Amazon si fonda su un percorso di analisi-strategia-operatività volto a creare e rafforzare nella mente del pubblico associazioni di marca benefiche per la propria reputazione e, in ultimo, profittevoli.

Dunque, in uno scenario di mercato frenetico e affollato, dove qualità dei prodotti e prezzo hanno sempre meno potere competitivo, per differenziarsi bisogna cambiare strategia. Rivelare e sostenere concretamente la propria adesione a cause sociali risponde a un bisogno emergente del pubblico: sentirsi agente attivo del cambiamento attraverso il brand. Da qui, la nascita del Brand Activism.

Brand Activism: esaudire le nuove aspettative del pubblico

Globalmente stiamo assistendo al collasso della fiducia nelle istituzioni tradizionali, ritenute incapaci di far fronte agli eventi e di alleggerire il senso di incertezza collettiva. Viceversa, la credibilità delle aziende sta registrando un’impennata che non sembra arrestarsi.

Qualsiasi sia la causa di tale inversione di rotta, le conseguenze per il marketing sono chiare: oggi ci si aspetta che le imprese siano agenti del cambiamento.

Un’attesa che, secondo l’ultima edizione dell’Edelman Trust Barometer, supera quella legata alla produzione di prodotti e servizi di qualità. Ad esempio, il 64% dei consumatori globali afferma che comprerebbe o boicotterebbe un brand sulla base del suo impegno sociale e politico. Così come il 74% degli investitori istituzionali rivedrebbe i propri investimenti su aziende che ignorano le linee guida ESG.

Prendere posizione non basta più

Prendere posizione nei confronti di problematiche ambientali, sociali o governative è una dichiarazione d’intenti nobile ma non è più sufficiente. Quel che conta è l’impegno concreto e autentico in attività a favore di tali questioni. La strada da percorrere è quindi quella del Brand Activism!

Questo modello di business presuppone che l’azienda sostenga una causa in linea con i valori dichiarati e, soprattutto, che agisca correlando o anteponendo il benessere collettivo agli suoi obiettivi economici.

Il Brand Activism rappresenta un vantaggio competitivo nella misura in cui le attività “prosociali” d’impresa rispondono alle aspettative dei suoi utenti, in modo stabile e coerente lungo tutti i touchpoint.

Solo dimostrando la trasparenza delle proprie azioni, il brand può allontanare possibili sospetti e accuse di Woke Washing, nonché puntare a stabilire relazioni funzionali e solide che fidelizzino il pubblico e lo rendano un Brand Advocate. L’influenza sulla reputazione e, di conseguenza, sulle vendite non può che essere positiva.

L’impresa si impegna a promuovere questo nuovo valore di brand, a farsi leader nel ridefinire una politica fondata su valori trasversali, a stringere partnership mirate e a digitalizzare la sua presenza sul mercato e le sue comunicazioni, con l’obiettivo di raggiungere un pubblico globale e di coinvolgerlo nella co-creazione di contenuti.

Il Brand Activism diviene quindi una strategia di comunicazione per orientare i cittadini-consumatori attraverso messaggi e campagne studiate ad hoc…ma chi ci dice che saranno efficaci?

È qui che interviene il Neuromarketing!

Comunicare la sostenibilità aziendale con il Neuromarketing

Se integrare pratiche ESG in azienda e sostenere cause sociali rappresenta la soluzione alla domanda del pubblico, come mai spesso le proposte sostenibili vengono ignorate dagli stessi richiedenti una volta lanciate sul mercato?

Le indagini rilevano come il prezzo di articoli e servizi eco-friendly e fairtrade, di solito superiore a quello delle alternative non-sostenibili, sia il principale disincentivo all’acquisto. Eppure non è così per tutti: diversi studi EEG mostrano come messaggi e prodotti green suscitino una particolare attivazione del lobo frontale solo in consumatori con una spiccata sensibilità ambientalista, tale da ridurre l’influenza negativa del prezzo sulle loro scelte.

Questa evidenza aiuta a indirizzare tempo e budget in direzioni più profittevoli attraverso la realizzazione di comunicazioni allineate ai destinatari in target.

I consumatori green saranno più facili da raggiungere e convincere dichiarando il proprio impegno sociale mentre se ci si rivolge ad un pubblico più generale sarà necessario giustificare il costo della propria offerta o adottare nuove leve d’acquisto.

Come garantire un Brand Activism di successo

L’indagine integrata di attivazione cerebrale e fisiologica può predire se il design di un prodotto e del suo pack, così come lo storytelling di uno spot adv o la navigazione su una pagina web elicitano la risposta emozionale desiderata, ottimali per la strategia di Brand Activism sviluppata.

Ad esempio, test condotti su stimoli green evidenziano come la loro promozione tragga i maggiori benefici dall’uso di descrizioni verbali rispetto a soluzioni puramente grafiche. Parole e testi selezionati danno concretezza all’offerta, contribuendo a suscitare emozioni più intense e funzionali alla causa, come coinvolgimento e frustrazione, così da favorire la conversione e l’aumento della fiducia nel brand.

Oppure, l’analisi del comportamento visivo può supportare la progettazione di contenuti aiutando a disporre e a combinare le informazioni ESG in modo strategico.

Tramite metodologia Eye Tracking l’azienda può aumentare la visibilità di un pack a scaffale o in un’e-commerce, affinché venga notato e riconosciuto immediatamente come proposta green da consumatori distratti o dai fidelizzati che desiderano trovare subito quel che cercano. Può far sì che gli elementi grafici e testuali di un’etichetta non si annullino a vicenda nella competizione per l’attenzione dell’osservatore, ma che la loro sequenza di visione sia ottimale agli obiettivi di vendita e della persona. Può, insieme all’EEG, stimare lo sforzo mentale richiesto per processare il design dell’offerta e il messaggio veicolato al fine di renderli di facile comprensione e più apprezzabili.

Creare e rafforzare i legami di fiducia

Dunque, il Neuromarketing è uno strumento in grado di valorizzare la strategia di Brand Activism sviluppata e di aiutare l’impresa a raggiungere i vantaggi competitivi associati. Direziona attività e risorse nella creazione di prodotti e messaggi gradevoli, fruibili e in linea con i valori dichiarati e con le aspettative del pubblico.

L’azienda può così comunicare la propria sostenibilità in modo efficace ed autentico, puntando a stringere e rafforzare legami di fiducia, ispirare il cambiamento e, infine, aumentare il proprio valore sul mercato.




L’Unione europea vieta a Meta l’uso dei dati personali per la pubblicità mirata: cosa succede ora?

L'Unione europea vieta a Meta l'uso dei dati personali per la pubblicità mirata: cosa succede ora?

L’Unione europea mina alla base il modello di business che ha reso Meta una delle aziende più ricche al mondo. Il primo novembre l‘European Data Protection Board – ente indipendente che si occupa di monitorare l’applicazione corretta del Grpr, la legge sulla privacy entrata in vigore nel 2018 – ha vietato al colosso fondato da Mark Zuckerberg l’utilizzo dei dati personali degli utenti raccolti su Facebook e Instagram per veicolare sulle piattaforme stesse pubblicità mirata. Cosa significa? Gli algoritmi dei due social – così come di tutti gli altri in realtà – sono programmati per memorizzare ogni azione che compiamo in bacheca. Ogni post, like, condivisione, ma anche ogni visualizzazione, click, il tempo speso a guardare ciascun contenuto, il modo in cui il nostro dito si muove sullo schermo: tutto ciò che facciamo mentre stiamo sui social viene analizzato e sfruttato non solo per capire i nostri comportamenti e i nostri interessi così da poter creare enormi indagini di mercato da vendere alle aziende, ma anche per costruire una quasi perfetta bacheca pubblicitaria targhettizzata sul singolo utente. Questa parte è quella che stona alle autorità dell’Unione europea ma è anche quella che rappresenta una buona parte degli introiti della società. 

La decisione dell’European Data Protection Board viene da una precedente questione nata in Norvegia, dove il 14 agosto le autorità per la privacy hanno già sanzionato Meta per un milione di Corone (circa 850mila euro) per non chiedere agli utenti un adeguato consenso a sfruttare i loro dati personali per la pubblicità mirata. Non basta: secondo l’Edpb ciò che anno osservato nel Paese Scandinavo deve essere ampliato all’intera Unione europea. E la decisione presa viene descritta come «urgente» e «vincolante». Entro due settimane verranno adottate misure definitive nei confronti di Meta per imporre il divieto in tutto lo spazio economico europeo: a notificare la società ci penserà la Commissione per la Protezione dei Dati irlandese (Meta, in Europea, ha sede in Irlanda) e il divieto diventerà effettivo una settimana dopo. 

Dall’altra parte Meta non è rimasta in silenzio. Ha fatto notare alle autorità europee quanto si sia impegnata a cooperare e ribatte che la decisione «ignora in modo ingiustificato l’attento e robusto processo di regolamentazione». Si riferiscono in particolare all’annuncio del lancio di un abbonamento a pagamento per Instagram e Facebook. Per 9,99 euro al mese (su Pc) o 12,99 euro al mese (su smartphone) gli utenti potranno avere accesso alle piattaforme senza annunci pubblicitari personalizzati. Nell’annuncio era specificato che la decisione è stata presa proprio «per conformarsi alle normative europee in evoluzione». Dalla Norvegia, nella persona di Tobias Judin, a capo dell’autorità per la protezione dei dati, ribattono però che la proposta non incontra gli standard europei. Il consenso per l’utilizzo dei dati deve essere dato liberamente, e non è giusto mettere gli utenti davanti alla scelta di cedere i propri dati o pagare una «sanzione» per non averli dati nella forma di un abbonamento.




Sostenibilità e governance, aziende italiane al top in Europa

Sostenibilità e governance, aziende italiane al top in Europa

La sostenibilità risulta sempre più integrata nella governance aziendale delle aziende italiane. In un numero crescente di imprese, infatti, è stato istituito un comitato con deleghe specifiche in temi di sostenibilità all’interno dei Consigli di Amministrazione. Non solo. Risulta in crescita anche il peso dei fattori ESG negli schemi di remunerazione. Per contro, spesso risultano ancora scarse le competenze nei temi di sostenibilità all’interno dei board aziendali. Sono questi alcuni dei principali indicatori dell’osservatorio Governance della sostenibilità condotto da Altis e Csr Manager Network, che mette a confronto le aziende quotate nel listino Ftse-Mib Italia con quelle quotate nei listini paragonabili di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna.

Entrando nel dettaglio dei dati dell’osservatorio emerge che 35 aziende italiane su 40, ovvero l’87,5% del totale, integrano la sostenibilità nelle strutture di governance avendo assegnato un comitato ad hoc all’interno del Cda. Per fare un confronto, in Francia tale percentuale raggiunge il 72,5%, nel Regno Unito il 65%, in Spagna il 40%, in Germania solo il 13,3%. Un altro indicatore interessante che emerge dall’osservatorio è che le imprese italiane concedono spazio crescente all’ESG negli schemi di remunerazione dei vertici aziendali. Nello specifico, oggi 25 aziende italiane su 40 ovvero il 62,5% adotta questo genere di politica, era il 40% nel 2017, un dato che ci pone al secondo posto in Europa dietro alla Francia con l’87,5%. Discorso diverso, invece, riguardo l’incidenza degli indicatori di sostenibilità sulla remunerazione che risulta in media del 15% per gli esecutivi e del 17% per gli Amministratori Delegati.

Anche con riferimento alle competenze in temi ESG all’interno dei CdA, le aziende italiane mostrano performance in crescita: circa il 57% di esse ha un consigliere su sei con competenze specifiche. Fondamentali in questo senso sono stati i programmi aziendali specifici sui temi ESG a cui hanno partecipato in media il 76% dei consigli di amministrazione. In aggiunta, per il 43,3% delle aziende italiane sono considerate importanti le esperienze professionali legate alla sostenibilità accumulate negli anni, per il 30% delle aziende la formazione e le competenze tecnico-scientifiche. Infine, in 9 aziende italiane su 10, ovvero nel 93,3% dei casi, è presente un manager della sostenibilità che svolge, principalmente, attività di stakeholder management.