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Prende il via la sesta edizione del Green Social Festival

Il Green Social Festival parla di ecologia ed educazione ambientale, di green economy, di risparmio energetico, di mobilità sostenibile, di educazione a nuovi e corretti stili di vita, ma anche di responsabilità e legalità. Il Festival rivolge la propria attenzione principale al mondo della scuola, realizzando – insieme a professori, autorità scolastiche ed esperti provenienti dal mondo accademico, dell’impresa, delle associazioni e delle istituzioni – il progetto formativo.
A scuola di futuro”.
Il programma è particolarmente ricco e articolato. Si discuterà di legalità e difesa del territorio – tema di grande attualità dopo la recente operazione contro l’ndrangheta – con Pier Camillo Davigo, Giuseppe Ayala, Vito Zincani. Dalla collaborazione tra le scuole di musica di Laureana Borello (Rc) e della Fondazione Andreoli di Mirandola, nascono tre inediti Concerti per la legalità, (Mirandola, Finale Emilia, Casalecchio di Reno) che impegneranno un’orchestra formata da un centinaio di ragazzi delle due scuole.
Per la parte più strettamente ambientale il Festival ospiterà, tra gli altri, gli interventi di Norbert Lantschner, Vincenzo Balzani, Leonardo Setti, Marco Mucciarelli, Carlo Cacciamani, Piero Capodieci.
Il 2015 è l’anno dell’Expo e i temi che saranno al centro della grande rassegna milanese, saranno anticipati al Green: si parlerà di Salute vien mangiando e di lotta allo spreco alimentare. Su questi argomenti segnaliamo gli interventi della giornalista Paola Maugeri, della nutrizionista Sara Farnetti, dello chef Alessandro Circiello, del giornalista Antonio Galdo, del presidente del Banco alimentare dell’Emilia Romagna Giovanni De Santis. Il Festival collabora con Libera, Politicamente Scorretto e con Città della Scienza di Napoli.
Il Festival si svolgerà con iniziative in numerosi centri della regione e coinvolgerà circa 10.000 studenti delle scuole medie di I e II grado.
La fiducia nei ragazzi, la divulgazione al pubblico di temi chiave per il futuro delle comunità e la partnership con aziende e istituzioni acquistano, in questo particolare momento storico, un valore ancora ancor più significativo.




REPUTATION MANAGEMENT: QUESTO SCONOSCIUTO…?

In una delle sue celebri “lezioni americane”, “Exactitude”, l’indimenticabile Italo Calvino – nella top ten degli autori italiani del ‘900 – si concentra sulla “forza della parola” e – per contro – sulla crescente banalizzazione del linguaggio nei tempi moderni. Le parole sono come un abito, che dà forma ai nostri pensieri e ci permette di decidere come desideriamo essere percepiti all’esterno, dal pubblico con il quale inevitabilmente entriamo quotidianamente in contatto.
 
Tutti possiamo intuire che peso abbia oggi – spesso purtroppo trascurato – il preziosissimo asset intangibile della “reputazione”, che è concretamente in grado di condizionare i comportamenti di acquisto – dei prodotti, ma anche dei servizi – da parte dei Clienti. Non accompagnare i progetti di marketing con una genuina iniezione di consapevolezza circa la necessità di gestire il proprio perimetro reputazionale, è ciò che di meno profittevole per il suo business possa fare un’azienda, un istituzione, un libero professionista.
 
I Clienti oggi si sentono sempre più liberi di manifestare la propria opinione o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di “essere parte dell’equazione globale”. Molte organizzazioni per contro si ostinano a tenerli fuori dalle proprie dinamiche di decisione. Quando si comprenderà che keyword come “fiducia”, “reputazione” e “rispetto” sono ormai parte integrante della catena del valore…?
L’Observer – periodico britannico di grande fama – pubblicava recentemente una foto da una protesta popolare, uno striscione esposto dai cittadini in piazza, con scritto: «Siamo tutti social network». Questo è incredibilmente vero, perché grazie al web le interconnessioni quotidiane tra persone hanno raggiunto livelli non più ignorabili. Ma quante aziende ancor oggi dispongono di un piano realmente funzionale per gestire la propria presenza sui Digital media e sui Social network…? E quante – aspetto ancora più strategico – hanno elaborato un progetto articolato in grado di traghettarle dal “modo in cui sono percepiti ora” al modo in cui desiderano essere potenzialmente percepiti dai propri Clienti?
 
Le relazioni pubbliche hanno un approccio sempre pragmatico: esaminare la situazione, identificare le criticità, elaborare una strategia, attuarla, migliorare la capacità dell’organizzazione di controllare l’area del proprio business ed esserne protagonista. Uno dei più grandi esperti italiani di relazioni pubbliche di tutti i tempi, Toni Muzi Falconi, in uno dei suoi numerosi e apprezzati interventi sul tema, descrive le RP come “una disciplina della comunicazione d’impresa che ha lo specifico compito di orientare opinioni, atteggiamenti, comportamenti e decisioni – anche di consumo – dei soggetti che possono ostacolare o agevolare il raggiungimento degli obiettivi di un’organizzazione”. Appunto: orientare anche il consumo, ovvero i comportamenti di acquisto. Migliore reputazione, aumento del giro d’affari. Non è più complesso di così.
 
In un mondo iper-connesso, i motori di ricerca come Google sono tra i gestori più importanti della reputazione, premiando o punendo i comportamenti con un sistema di posizionamento che influenza le future ricerche sull’organizzazione, e quindi anche la reputazione dei vostri prodotti/servizi. Il reputation management è una gamma di servizi ad alto valore aggiunto creati con lo scopo di misurare e gestire l’opinione pubblica; il “Reputation Management 2.0” implica anche la ricezione dei commenti in modo aperto e il coinvolgimento dei vari pubblici verso il miglioramento della percezione che pubblicamente hanno di Voi. Il pubblico è il Vostro potenziale alleato, quindi può aiutarvi a migliorare la vostra reputazione. La pubblicità trasparente del vostro indice reputazionale rappresenta un’apparente vulnerabilità, ma in realtà è un “termometro” che vi stimola a fare sempre meglio: scoprirete che essere “sotto osservazione” è molto salutare per le vostre performance.
 
Sempre più aziende stanno lavorando per creare ad esempio community di marca: la community di un marchio è di gran lunga la più ardua da creare, ma è anche potenzialmente lo strumento in grado di ricompensarvi di più. Creare una community significa offrire una piattaforma ai vostri pubblici dove possano discutere, condividere, imparare, incontrare persone dalle idee affini e – forse – aiutarvi a veicolare il vostro messaggio professionale. Far crescere una community vivace – come sosteneva un collega – dipende “dal suo reale valore per i membri, oltre che da un design attento, da pazienza, tolleranza e da un po’ di fortuna”. Ma se siete abili, la ricompensa consisterà in una schiera dei cosiddetti “evangelisti”, i più attivi sostenitori del vostro marchio aziendale, disponibili realmente a battersi per difenderlo. Non è affatto semplice creare community frequentate, ed è molto difficile farlo senza l’assistenza di professionisti delle Digital PR, ma è anche vero che esse una volta avviate, e alimentate con un’erogazione costante di contenuti interessanti, si autogestiscono in modo efficace.
 
Il termine “transmedia storytelling” – la costruzione di un universo narrativo coerente su vari media, e soprattutto di esperienze in grado di coinvolgere le persone e i Clienti – sta entrando prepotentemente nel vocabolario degli addetti ai lavori: non solo rappresenta il futuro – anzi, ormai il presente – del narrare storie create dalle aziende, ma esprime il potere della cultura contemporanea che tende a fondere l’esperienza delle aziende con quella dei fruitori, in una perfetta sintesi. Un processo per cui si generano nuove “trame” e si aprono nuovi mercati partendo dalla circolazione dei contenuti e delle idee che gli stessi Clienti finali creano attorno a un prodotto, un servizio o un marchio.
 
L’era della mera trasmissione unilaterale di contenuti – senza curarsi dell’impressione e delle idee del proprio pubblico – è ormai alla fine, cosa che risulta evidentissima se solo si osservano le dinamiche relazionali dei vari social-network: occorre lavorare su sistemi che prevedano un feedback istantaneo nonché strumenti di narrazione collettiva, perché gli utenti non solo vogliono poter “dire la loro” sulla storia narrata dal marchio, cosa che ormai viene data assolutamente per scontato, ma vogliono anche poter influenzare gli imprenditori; di fatto la “storia di successo” è solo quella che gli autori “abbandonano” dal punto di vista creativo come un guscio di noce nell’oceano della creatività del pubblico dei fruitori. Questo è un territorio nuovo, in cui produzione e consumo scambiano i propri ruoli e discutono le proprie ambizioni, mostrandosi specchio di un’era interconnessa, votata alla vera partecipazione. Oggi sono sempre più frequenti le situazioni di co-protagonismo tra aziende, Clienti finali e pubblico in generale. Federico Minoli, Amministratore delegato della storica marca di due ruote Ducati, ebbe a dichiarare: “Improvvisamente la domanda vera è: di chi è la marca? Noi siamo convinti che la marca sia dei Ducatisti”. Come è facile comprendere, un atteggiamento virtuoso come questo ha conseguenze sull’intera offerta di servizi.
 
Il Reputation management, poi, muove anche dalla considerazione che è funzionale prevedere scenari e prepararsi a fronteggiarli efficacemente, piuttosto che subirli e intervenire a posteriori per risolvere delle emergenze, e in tal caso le RP prendono le sembianze del Crisis-management e si servono delle tecniche proprie di quella disciplina. E questo è un altro filone di riflessione legato alla reputazione sistematicamente dimenticato: quello delle crisi reputazionali potenziali. Con l’avvento di tecnologie innovative e l’affermarsi della portata globale di Internet, l’impatto locale si fa globale: ad esempio, ciò che viene considerato localmente come un comportamento pregiudiziale per la reputazione può danneggiare un marchio su scala assai ampia. Il modo in cui le informazioni si propagano e in cui un evento pregiudizievole per la reputazione e per le vendite è “governato”, sono fattori spesso più rilevanti della crisi stessa. Eventi di per se poco significativi possono essere ingigantiti, e situazioni che nulla hanno a che fare con il professionista possono avere riflessi molto negativi sulle vendite, oppure eventi gravi e drammatici – ancorchè statisticamente poco frequenti – possono colpire e danneggiare la reputazione della Vostra azienda.
 
La corretta gestione preventiva delle crisi reputazionali, diventa quindi uno strumento fondamentale per evitare che la professionalità e la dedizione che un manager ha profuso per molti anni possano essere vanificate o messe in discussione a causa di una situazione reputazionale mal gestita. I riscontri in grado di confermare l’adagio popolare sulla “stipula” della polizza furto per l’abitazione solo dopo la prima “visita” da parte dei rapinatori, sono numerosissimi in Italia, paese purtroppo a “bassa sensibilità” sul tema della previsione delle crisi reputazionali. Peccato che quando il problema è deglafrato, sia quasi sempre troppo tardi per gestirlo con efficacia.
 
In definitiva: cerchiamo di utilizzare strumenti efficaci, misurabili e ad alto valore aggiunto per portare i nostri Clienti a passare dal concetto di leader di mercato a quello di leader d’opinione, unico fattore che può realmente fidelizzare un Cliente per la vita. In tutto ciò, anche l’off-line ha ovviamente un peso, il mondo non si ferma per fortuna al digitale.
 
In sintesi, le persone vogliono, giustamente, sentirsi uniche: facciamole sentire importanti. Perché lo sono: da esse, da ciò che pensano del vostro marchio e della Vostra attività professionale, dai giudizi che esprimono di persona agli amici e colleghi, e poi postano sui forum di discussione in internet, dipende buona parte del successo o insuccesso di qualunque prodotto o servizio, e queste variabili – in grado di influenzare tangibilmente e velocemente l’indice reputazionale di qualunque organizzazione economica – sono fondamentali.
 
Tutto questo vi suona spaventoso… oppure stimolante? Dipende da una sola cosa: volete ostacolare il fenomeno e restare indietro, oppure trarne vantaggio, e acquistare nuovi margini di vantaggio competitivo rispetto ai vostri concorrenti, aumentando le dimensioni del vostro business…?




Tutti amano essere parte di una storia e i social media ce lo permettono

Le conversazioni tra aziende e consumatori stanno stravolgendo il modo di fare comunicazione: se i social media sono canali, i cambiamenti di linguaggio sono molto più ampi
Tutti amano essere parte di una storia. Non importa che ruolo dovranno giocare. Non tutti vogliono esserne i protagonisti, molti preferiscono osservare quello che succede intorno a loro. L’importante è evadere dalla routine quotidiana.
Un’altra cosa che le persone desiderano è poter toccare con mano quella storia. Non significa toccarne elementi fisici, ma esseretalmente coinvolti da sentire di poterla modificare, di essere cioè così coinvolti da diventarne parte fondamentale. Anche se magari non è così nella realtà dei fatti.
Le migliori storie sono quelle che lasciano le persone con l’impressione che quel primo contatto sia ancora in corso, anche dopo che si è esaurito. Essere memorabili è uno di quegli obiettivi che qualsiasi brand si propone, ma che si realizza raramente. Fino a pochi anni fa i modi per risultare memorabili erano più legati alla capacità di produrre vere e proprie storie – nel senso di film che raccontassero qualcosa – che alla possibilità di portare le persone dentro a quelle storie.
Oggi la situazione è cambiata radicalmente. Sono i social media ad aver aperto nuove opportunità? È la sempre maggior diffusione di smartphone e tablet ad aver permesso alle marche di raggiungere le persone ovunque e in qualsiasi momento? In parte sì: i social media hanno modificato profondamente il modo in cui i consumatori si informano, cercano informazioni, le condividono con i propri contatti e partecipano attivamente al successo/insuccesso di prodotti o attività legate alle marche stesse, ma non si tratta di Facebook, di Twitter, di Instagram o Google+. Si tratta di un approccio che prescinde dai canali e che ha dato sempre più consapevolezza alle persone di poter avere un ruolo importante. Non soltanto sulla carta.
I brand devono essere sempre più capaci di prendere parte alla vita dei propri consumatori, creando – appunto – esperienze memorabili e immergendo le persone in storie che abbiano un impatto sulle loro vite. Senza interrompere le loro attività.
Esistono decine di esempi di come stiano cambiando i termini della comunicazione, di come le marche si stanno trasformando sempre più in publisher e grandi storyteller. Il primo che viene in mente è Red Bull, capace di trasformare il suo business così tanto da passare da produttore di utili attraverso la vendita di soft drink, a vero e proprio broadcaster di contenuti, che può permettersi di creare un evento globale in cui un uomo si tuffa dalla stratosfera.
Red Bull Stratos
Pensiamo poi a Samsung, talmente convinta delle opportunità di interagire con le persone in mobilità da portare la relazione fuori dagli smartphone nelle mani dei propri consumatori e da stravolgere lo scenario in cui gli spostamenti si verificano: è così che il Terminal 5 di Londra Heathrow per due settimane è diventato il Terminal Samsung Galaxy S5.
Samsung Terminal Galaxy S5
Ma non cambiano soltanto i rapporti tra marche e persone. No, infatti sono anche le relazioni tra le marche stesse a cambiare forma: è sufficiente un tweet per vedere Oreo e Kit Kat darsi battaglia a suon di mosse di tris.

 

 

 

Altri esempi eclatanti, e decisamente noti, li ha regalati negli scorsi mesi Nokia (e Microsoft), con una serie di tweet che ricorderete (e se non li ricordate, potete rinfrescare la memoria qui):

 

 
E non si tratta solo di scambi di tweet, perché – appunto – i social media sono canali, ma i cambiamenti di linguaggio sono molto più ampi: è così che Microsoft ha invaso lo spazio di Samsung – il Terminal Samsung Galaxy S5, appunto – con degli astronauti, gli Space Cadets di Lumia in cerca di un passaggio per la Via Lattea.
Samsung vs Microsoft
Ci sono poi brand che fanno leva sui trend del momento per far sì che siano le persone stesse a raccontare i loro prodotti: è emblematico il caso di Lexus, che sull’onda della diffusione di Instagram, ha deciso di coinvolgere 200 tra i suoi follower per creare uno spot usando le fotocamere dei loro smartphone; o diAdidas che ha annunciato il lancio di un’applicazione che permetterà alle persone di personalizzare le proprie ZX Flux usando le proprie foto di Instagram. Insomma, l’evoluzione del concetto di Nike iD.

Lastminute.com ha invece voluto coinvolgere tutte le persone che non riescono a non pubblicare una selfie ovunque vadano, creando una comunicazione basata proprio su questo: non immortalarti più mentre sei al bagno, ma scegli uno dei nostri hotel per creare qualcosa di più emozionante, grazie alla vista che questi alberghi ti mettono a disposizione.

  • Venezia

    NH Collection Palazzo Barocci

  • Barcellona

    Hotel Grand Marina (Foto: Yellow Cat)

  • Lisbona

    Bairro Alto Hotel

  • Berlino

    Rocco Forte Hotel de Rome (Foto: kohlmann.sascha)

  • Lago di Como

    Grand Hotel Cadenabbia

 

Un altro caso emblematico è quello dell’Hotel Rouge di Washington, che rivede il concetto secondo cui una persona dovrebbe desiderare prenotare una stanza d’albergo: non più dedicata soltanto a chi viaggia, ma a tutti quegli appassionati di telefilm che vogliono vivere un’esperienza di visione diversa dal solito, condividendola con i propri amici. Già, perché per 350 dollari è possibile prenotare una stanza predisposta per accogliere fino a 10 persone che potranno vedere la seconda stagione di Orange is the New Black su Netflix.

Una vera maratona di 13 ore, con tutti i comfort del caso inclusi: salendo a 500 dollari c’è anche il buffet e con 750 gli alcolici. Sono 75 dollari a testa per un’esperienza mai vista prima.
Insomma, come è evidente da tutti questi casi, esistono infinite opportunità, su moltissimi livelli, e che le marche stanno sempre più sfruttando per far sì che quello che raccontano siano storie capaci di coinvolgere le persone: in alcuni casi si tratta solo di utilizzare canali diversi da quelli usati in passato, in altri di far girare la comunicazione attorno a nuovi trend, e in altri di pensare a modalità di coinvolgimento del tutto nuove, ma che garantiscano l’effetto di un contatto che non si esaurisce nel momento in cui si è verificato, ma che rimane e permette (nelle intenzioni delle marche almeno) di creare una relazione vera e propria.
Perché se è vero che sono sempre di più le opportunità, è anche vero che è anche sempre maggiore la sovraesposizione a messaggi di ogni tipo per le persone, ed è fondamentaleguadagnare l’attenzione di chi ne ha sempre meno, offrendo qualcosa che abbia un valore.
Information Overload Paradox
Ma perché è così importante per le marche imparare a raccontare storie interessanti? Innanzitutto perché alle persone interessa molto di più quello che i propri contatti – o altre persone – hanno da dire, rispetto a quello che viene raccontato dai brand stessi. Quando un’azienda è in grado di creare qualcosa che venga raccontato, per conto suo, da altre persone, i consumatori sono molto più propensi ad ascoltare. E a fidarsi.
OREO - Patagonia
Una vera storia è tale se le persone si sentono coinvolte, immerse in qualcosa di reale, in qualcosa che avranno voglia di condividere. E da questo punto di vista i social media giocano un ruolo fondamentale, sia in termini di amplificazione dei messaggi, sia di opportunità per prendere parte alla vita delle persone in luoghi che stanno già frequentando.
Le marche di successo da questo punto di vista sono quelle che vanno oltre la descrizione dei propri prodotti, snocciolandone le caratteristiche, sono quelle che raccontano al mondo chi sono, chi si impegna tutti i giorni per fornire un servizio e che sanno creare relazioni con le persone (e tra le persone) generando un valore che si rifletta poi nelle loro vite.




Mondiali di calcio: brasiliani attenti alla CSR, ecco perché protestano

Tutti gli occhi sono puntati sul Brasile e sui mondiali di calcio 2014, ma anche sul contesto che li circonda, fatto di povertà, favelas, degrado e, come abbiamo visto, anche di un ambiente che spesso si fa sentire, basti pensare alle voragini che si sono aperte proprio accanto agli stadi, riportando alla mente le condizioni degli abitanti di quelle zone. Ma il Brasile, allo stesso tempo, è un’economia in espansione. Cosa ci si aspetta dalle aziende?
PROTESTE, SOCIAL MEDIA E CSR – Mentre si avvicinava la data del fischio d’inizio dei mondiali di calcio, in Brasile impazzavano le proteste, da quella dei lavoratori senza casa a quella che sperava di bloccare la manifestazione. I brasiliani sono scesi in piazza – prima che in campo – per rimarcare problemi legati a infrastrutture, tasse, corruzione.
E il 61% di loro, secondo percentuali diffuse recentemente (Pew Research Study), era contrario ai mondiali, convinto che avrebbero avuto un impatto del tutto negativo. Sullo sfondo, una propensione innata dei brasiliani a tenere in considerazione più di molti altri al mondo le azioni delle aziende, a criticarle e a controllare quali pratiche di csr mettono in atto.

CSR E ASPETTATIVE – Secondo il 2013 Cone Communications/Echo Global CSR Study, i brasiliani vogliono più di chiunque altro al mondo che le aziende agiscano in linea con i bisogni della società (50% vs 31% a livello mondiale). Non solo. Se un prodotto esprime posizioni su cause ambientali o sociali lo comprano con una certa costanza (79% vs 67% a livello mondiale) e non esitano a boicottare un brand se lo trovano ingannevole (69% vs 55% a livello mondiale).

A questo si aggiunge il fatto che i brasiliani, oltre ad avere quindi aspettative alte nei confronti delle aziende, si informano sugli impegni che queste prendono e – fondamentale in un’ottica di fidelizzazione, se ci poniamo dal punto di vista delle aziende – fanno passaparola e riferiscono agli amici quando si imbattono in una best practice.
I CANALI – Inutile dire che i social media sono il canale più immediato per parlare di prodotti e brand, così come di csr. Anzi, per i brasiliani i social media sono una vera e propria strada verso il cambiamento. L’85% di loro, non a caso, utilizza questi canali per interagire con le aziende su tematiche riguardanti proprio l’ambiente e il sociale.
Ci si è interrogati per spiegare questa tendenza, in parte è stata ricondotta agli anni Ottanta e al periodo di democratizzazione del Paese, un momento storico particolare in cui sono emerse le tematiche ambientali e le aziende sono state individuate come realtà da “controllare” sotto quel punto di vista. Semplicemente, secondo questa teoria, i social media sono la traduzione di quest’attenzione dei cittadini in epoca moderna, che nel caso dei mondiali di calcio si è trasformata in un tam tam continuo di proteste.
 




Le griffe non pubblicano il bilancio di sostenibilità

Secondo i risultati della sesta edizione dello studio Csr Online Awards Italy, delle aziende italiane valutate (le 100 maggiori società italiane comprese 20 non quotate), 30 non pubblicano un report di sostenibilità e 32 pur avendo un bilancio non pubblicano nella propria sezione di sostenibilità nemmeno le informazioni di base.
Tra le 80 società quotate considerate, il 38 percento non pubblica alcun bilancio di sostenibilità e tra queste rientrano alcuni nomi come Luxottica, Group Mediaset, Mediobanca, Prada e Tod’s. “Questo dimostra che anche grandi aziende italiane non sono pronte per rispondere alla nuova regolamentazione europea che prevede la pubblicazione di informazioni non finanziarie per le aziende oltre i 500 dipendenti”, spiega il management di Lundquist, società di consulenza specializzata nella comunicazione corporate online, che ha condotto la ricerca.
Le restanti imprese italiane valutate all’interno della ricerca tengono testa alle controparti europee in termini di approfondimento dei contenuti, mentre sono particolarmente deboli nell’utilizzo dei social media e nel coinvolgimento degli stakeholder sui temi chiave della sostenibilità.
La metodologia di valutazione si basa su 7 pilastri, definiti sulla base delle esigenze dei professionisti della Csr raccolte all’interno di un questionario. Quest’anno hanno partecipato 350 esperti da 44 Paesi diversi.