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Michele Ferrero: “Il segreto del successo? Pensare diverso dagli altri e non tradire il cliente”

Il colloquio con il patron: tutti facevano cioccolato solido, io lo feci cremoso. “Lavoro per le Valerie, le donne che decidono. Se non ti comprano loro sei finito”

Michele Ferrero, il papà della Nutella, l’uomo che ha portato una pasticceria di Alba a diventare una multinazionale del settore dolciario da oltre 8 miliardi di fatturato, è morto ieri a Montecarlo. Aveva 89 anni. Per oltre mezzo secolo ha seguito e indirizzato i consumi degli italiani con i suoi prodotti, dai Mon Chéri agli Ovetti Kinder. Legatissimo alla sua terra ha trasformato gli stabilimenti Ferrero in un modello anche sociale. Alla guida dell’impero di famiglia ci sarà adesso il figlio cinquantunenne Giovanni.  
«Il mio segreto? Fare sempre diverso dagli altri, avere fede, tenere duro e mettere ogni giorno al centro la Valeria». La Valeria? «La Valeria è la padrona di tutto, l’amministratore delegato, colei che può decidere del tuo successo o della tua fine, quella che devi rispettare, che non devi mai tradire ma capire fino in fondo». Lo guardo stupito e ripeto la domanda: «Mi scusi signor Michele, ma chi è la Valeria?». «La Valeria è la mamma che fa la spesa, la nonna, la zia, è il consumatore che decide cosa si compra ogni giorno. È lei che decide che Wal-Mart sia il più grande supermercato del mondo, che decreta il successo di un’idea e di un prodotto e se un giorno cambia idea e non viene più da te e non ti compra più, allora sei rovinato. Sei finito senza preavviso, perché non ti manda una lettera dell’avvocato per avvisare che taglia il contratto, semplicemente ha deciso di andare da un’altra parte, di non comprarti più».Michele Ferrero parla con voce allegra, squillante, gli piace tantissimo ricordare. Ha sempre gli occhiali da sole, fatica a sentire ma non interrompe mai gli altri, soprattutto la moglie. Non è mai andato in pensione e mai ci andrà finché avrà un soffio di vita. E fino all’ultimo non ha smesso di occuparsi dei suoi prodotti, della sua azienda, fedele alla sua regola di una vita, il rispetto dei consumatori: «La Valeria è sacra, devi studiarla a fondo, con attenzione e non improvvisare mai. Bisogna avere fiuto ma anche fare tante ricerche motivazionali».
Ho incontrato Michele Ferrero cinque anni fa, in una mattina d’agosto, nel suo stabilimento di Alba. Non parlava mai con i giornalisti e non si ricordano interviste o conferenze stampa, la riservatezza, con la fede religiosa e l’amore per la qualità sono state le cifre della sua esistenza. Mi aveva detto chiaramente che mi avrebbe parlato volentieri della sua vita e del suo lavoro ma a patto di non vederla pubblicata sul giornale la mattina dopo. Oggi penso che le parole del suo racconto siano il modo migliore per ricordarlo, per ricordare un genio del «fare» italiano.
Il genio e la modestia  
Esordisce con modestia, immagino che strizzi gli occhi sotto le lenti scure: «Quando dicono “Michele è un genio”, rispondo facendo finta di aver capito altro: “Sì è vero di secondo nome faccio Eugenio, la mia mamma mi chiamò Michele Eugenio”. Meglio fare così, altrimenti finirei per crederci e per montarmi la testa». Gli faccio l’elenco dei suoi prodotti, di tutto ciò che ha inventato, lui sta un po’ in silenzio poi mi risponde: «Quello che amo di più? Certo la Nutella, ma il Mon Chéri è il prodotto degli inizi, quello che mi emoziona ricordare. Era l’inizio degli Anni Cinquanta e andammo in Germania, perché avevo pensato che il mercato del cioccolato dovesse guardare a Nord, dove lo consumano tutto l’anno». Si ferma un attimo, come se si fosse distratto: «Pensi che ancora oggi noi ritiriamo tutto il nostro prodotto di cioccolato all’inizio dell’estate, per evitare che si sciolga, per evitare che la Valeria resti delusa e trovi qualcosa che non è all’altezza. Per evitare che ci associ con qualcosa di sciolto, di rovinato, con qualcosa che non vale la pena comprare. Per questo il trimestre estivo è il nostro periodo peggiore e per questo la missione che tanti anni fa ho dato ai miei figli miei figli è quella di colmare il vallo estivo, di inventare prodotti che diano alla nostra produzione e al nostro fatturato un’uniformità tutto l’anno».
Cioccolato e liquore  
«Ma dicevo della Germania: quando siamo arrivati era il dopoguerra, un Paese ancora pieno di macerie con i segni del conflitto, triste, depresso, in cui gli italiani erano visti malissimo. Ci consideravano traditori, malfattori e infidi, convincerli a comprare qualcosa da noi era una missione quasi impossibile. Cominciai ad andare dai distributori con l’idea di vendere cioccolatini in pezzo singolo, con dentro il liquore e la ciliegia. Mi dicevano che bisognava fare delle scatole, non degli incarti singoli, perché solo quelle si potevano mettere sugli scaffali dei negozi e quelle si vendevano. Io rispondevo che stavano mesi sugli scaffali e le persone le compravano solo per le grandi occasioni, per fare regali. Io invece pensavo a qualcosa che risollevasse il morale, che addolcisse ogni giorno la vita dei tedeschi: c’era il cioccolato, la ciliegia e c’era il liquore che scaldava in quell’epoca fredda e con scarsi riscaldamenti. Qualcosa che avesse una carta invogliante, elegante, lussuosa, di un rosso fiammante, che desse l’idea di una piccola festa ad un prezzo accessibile a tutti. Insistetti finché non trovai un uomo intelligente che si fece conquistare dalla mia idea. La Valeria tedesca aveva bisogno di essere confortata, di sentirsi bene ogni giorno, di potersi fare un piccolo regalo: poteva funzionare tra fidanzati, tra marito e moglie e non c’era bisogno di aspettare feste o ricorrenze. Poi in inverno feci mettere enormi cartelloni pubblicitari in ogni grande stazione della Germania, con un immenso mazzo di fiori che non sfioriva mai. Per Natale mi misi d’accordo con la Fiat e al centro delle dieci maggiori stazioni piazzai in bella mostra una topolino rossa che avrebbe premiato i vincitori di un concorso legato al Mon Chéri. Fu un successo travolgente e l’anno dopo facemmo le cose ancora più in grande e mettemmo in palio dei diamanti». Il suo racconto è pieno di entusiasmo, anche se è passato più di mezzo secolo, e di quel periodo ricorda l’entusiasmo insieme al freddo e alla fatica: «Pensi che la fabbrica era in una serie di bunker bombardati…».
Pasqua tutti i giorni  
Gli chiedo allora quale è stata l’intuizione che è sembrata più pazza ma che gli ha dato più soddisfazione: «È successo anni dopo, in Italia, quando pensai che l’uovo di cioccolato non poteva essere una cosa che si vendeva e si mangiava una volta all’anno, a Pasqua. Però ci voleva qualcosa di più piccolo, che si potesse comprare ogni giorno a poco prezzo, ma doveva ripetere quell’esperienza e allora ci voleva anche la sorpresa, ma in miniatura. Pensai alla Valeria mamma, che così poteva premiare il suo bambino perché aveva preso un bel voto a scuola, alla Valeria nonna che lo regalava per sentirsi dire: “Sei la più bella nonna del mondo” o alla Valeria zia che riusciva così a strappare al nipotino quel bacio e quell’abbraccio che faticavano sempre a conquistare. Ma così tanto cioccolato poteva preoccupare le mamme, allora pensai di rovesciare l’assunto tradizionale pubblicizzando che c’era “più latte e meno cacao”, quale miglior sensazione per una mamma di dare più latte al suo bambino? Così mi decisi e ordinai venti macchine per produrre ovetti, ma in azienda pensarono di aver capito male o che fossi diventato matto e non fecero partire l’ordine. Poi chiesero a mia moglie Maria Franca se la firma sull’ordine era davvero mia, lei confermò, ma per far partire la cosa dovetti intervenire di persona. Le obiezioni erano fortissime, dicevano che sarebbe stato un flop, che le uova si vendevano solo a Pasqua e allora io sbottai e dissi: “Da domani sarà Pasqua tutti i giorni”». Questo fu il 1968 di Michele Ferrero, la sua rivoluzione, quell’anno partì insieme all’ovetto la linea di prodotti per bambini che conosciamo come Kinder Ferrero.
Primo: innovare  
«Ecco cosa significa fare diverso da tutti gli altri. Tutti facevano il cioccolato solido e io l’ho fatto cremoso ed è nata la Nutella; tutti facevano le scatole di cioccolatini e noi cominciammo a venderli uno per uno, ma incartati da festa; tutti pensavano che noi italiani non potessimo pensare di andare in Germania a vendere cioccolato e oggi quello è il nostro primo mercato; tutti facevano l’uovo per Pasqua e io ho pensato che si potesse fare l’ovetto piccolo ma tutti i giorni; tutti volevano il cioccolato scuro e io ho detto che c’era più latte e meno cacao; tutti pensavano che il tè potesse essere solo quello con la bustina e caldo e io l’ho fatto freddo e senza bustina. L’Estathè per dieci anni non è esploso, ma io non mi sono scoraggiato, perché ero convinto che ci voleva tempo ma che l’intuizione era giusta e che la Valeria non sapeva ancora che era quello che aveva bisogno. Ma poi se ne è resa conto ed è stato un grande successo. Un unico rammarico: averlo lanciato solo in Italia, ma mi spaventavano con le indagini di mercato e non vollero portarlo in Francia e così oggi il mercato estero è già pieno di concorrenti. E poi ci inventammo uno scatolino morbido e leggerissimo che era una novità assoluta e la cannuccia…».
«Sa perché ho potuto fare tutto questo? Per il fatto di essere una famiglia e di non essere quotati in Borsa: questo ha permesso di crescere con serenità, di avere piani di lungo periodo, di saper aspettare e non farsi prendere dalla frenesia dei su e giù quotidiani». Parliamo ormai da più di due ore, nello stabilimento c’è un profumo fortissimo di caffè, mi spiega che stanno facendo i pocket coffee. Il tempo sta per finire ma vuole ricordarmi una cosa a cui tiene più di tutto, la sua fede religiosa: «Tutto quello che ho fatto lo devo alla Madonna, a Maria, mi sono sempre messo nelle sue mani e lei devo ringraziare. La prego ogni mattina e questo mi dà una grande forza».
La sua stretta di mano e la sua energia, in quel giorno d’estate nel pieno dei suoi 85 anni, erano forti e invidiabili. Ora stava per compierne novanta, ma era rimasto lucido e fedele alle sue regole e ai suoi principi.




E' donna il manager della sostenibilità

E’ donna il manager della sostenibilità, ha un elevato livello di formazione, di stampo più economico e guadagna tra i 70 mila e gli 80 mila euro l’anno.A fare un punto della situazione della professione è il Csr manager network, l’associazione che riunisce i responsabili delle politiche di sostenibilità o Csr (Corporate social responsibility), in collaborazione con Altis (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica di Milano) e Isvi (Istituto per i valori d’impresa). L’indagine dunque rileva una prevalenza di donne tra i professionisti della Csr: su 116 gli iscritti 63 sono donne, più del 54%.
E’ donna anche la maggior parte dei collaboratori della Csr (62,5%) e il 34,4% ha un’età compresa trai 31 e 40 anni. Si tratta di professionisti che mostrano un curriculum studi molto elevato, con la maggior parte che ha conseguito una laurea specialistica (54,1%) o un master (29,7%). Dal punto di vista retributivo, la gestione degli aspetti sociali e ambientali all’interno di un’azienda è in linea con i ruoli manageriali delle più tradizionali funzioni aziendali: le retribuzioni annuali lorde e variabili dei professionisti della Csr paiono allineate.
I responsabili della sostenibilità raggiungono nel 45,9% dei casi il livello di dirigente e hanno retribuzioni annuali lorde che si attestano attorno ai 79mila euro, anche se in una quota significativa sono superiori ai 120mila euro (22,6%). beneficiano inoltre di una quota di retribuzione variabile legata agli obiettivi pari al 15,7%. Le responsabilità attribuite ai Csr manager portano alla gestione di un budget medio annuale di 192.720 euro e il coordinamento di un’unità organizzativa in media composta da 3,9 persone.




Michele Ferrero: “Il segreto del successo? Pensare diverso dagli altri e non tradire il cliente”

Michele Ferrero: “Il segreto del successo? Pensare diverso dagli altri e non tradire il cliente”

Il colloquio con il patron: tutti facevano cioccolato solido, io lo feci cremoso. “Lavoro per le Valerie, le donne che decidono. Se non ti comprano loro sei finito”

Michele Ferrero, il papà della Nutella, l’uomo che ha portato una pasticceria di Alba a diventare una multinazionale del settore dolciario da oltre 8 miliardi di fatturato, è morto ieri a Montecarlo. Aveva 89 anni. Per oltre mezzo secolo ha seguito e indirizzato i consumi degli italiani con i suoi prodotti, dai Mon Chéri agli Ovetti Kinder. Legatissimo alla sua terra ha trasformato gli stabilimenti Ferrero in un modello anche sociale. Alla guida dell’impero di famiglia ci sarà adesso il figlio cinquantunenne Giovanni.

«Il mio segreto? Fare sempre diverso dagli altri, avere fede, tenere duro e mettere ogni giorno al centro la Valeria». La Valeria? «La Valeria è la padrona di tutto, l’amministratore delegato, colei che può decidere del tuo successo o della tua fine, quella che devi rispettare, che non devi mai tradire ma capire fino in fondo». Lo guardo stupito e ripeto la domanda: «Mi scusi signor Michele, ma chi è la Valeria?». «La Valeria è la mamma che fa la spesa, la nonna, la zia, è il consumatore che decide cosa si compra ogni giorno. È lei che decide che Wal-Mart sia il più grande supermercato del mondo, che decreta il successo di un’idea e di un prodotto e se un giorno cambia idea e non viene più da te e non ti compra più, allora sei rovinato. Sei finito senza preavviso, perché non ti manda una lettera dell’avvocato per avvisare che taglia il contratto, semplicemente ha deciso di andare da un’altra parte, di non comprarti più». Michele Ferrero parla con voce allegra, squillante, gli piace tantissimo ricordare. Ha sempre gli occhiali da sole, fatica a sentire ma non interrompe mai gli altri, soprattutto la moglie. Non è mai andato in pensione e mai ci andrà finché avrà un soffio di vita. E fino all’ultimo non ha smesso di occuparsi dei suoi prodotti, della sua azienda, fedele alla sua regola di una vita, il rispetto dei consumatori: «La Valeria è sacra, devi studiarla a fondo, con attenzione e non improvvisare mai. Bisogna avere fiuto ma anche fare tante ricerche motivazionali».

Ho incontrato Michele Ferrero cinque anni fa, in una mattina d’agosto, nel suo stabilimento di Alba. Non parlava mai con i giornalisti e non si ricordano interviste o conferenze stampa, la riservatezza, con la fede religiosa e l’amore per la qualità sono state le cifre della sua esistenza. Mi aveva detto chiaramente che mi avrebbe parlato volentieri della sua vita e del suo lavoro ma a patto di non vederla pubblicata sul giornale la mattina dopo. Oggi penso che le parole del suo racconto siano il modo migliore per ricordarlo, per ricordare un genio del «fare» italiano.

Il genio e la modestia

Esordisce con modestia, immagino che strizzi gli occhi sotto le lenti scure: «Quando dicono “Michele è un genio”, rispondo facendo finta di aver capito altro: “Sì è vero di secondo nome faccio Eugenio, la mia mamma mi chiamò Michele Eugenio”. Meglio fare così, altrimenti finirei per crederci e per montarmi la testa». Gli faccio l’elenco dei suoi prodotti, di tutto ciò che ha inventato, lui sta un po’ in silenzio poi mi risponde: «Quello che amo di più? Certo la Nutella, ma il Mon Chéri è il prodotto degli inizi, quello che mi emoziona ricordare. Era l’inizio degli Anni Cinquanta e andammo in Germania, perché avevo pensato che il mercato del cioccolato dovesse guardare a Nord, dove lo consumano tutto l’anno». Si ferma un attimo, come se si fosse distratto: «Pensi che ancora oggi noi ritiriamo tutto il nostro prodotto di cioccolato all’inizio dell’estate, per evitare che si sciolga, per evitare che la Valeria resti delusa e trovi qualcosa che non è all’altezza. Per evitare che ci associ con qualcosa di sciolto, di rovinato, con qualcosa che non vale la pena comprare. Per questo il trimestre estivo è il nostro periodo peggiore e per questo la missione che tanti anni fa ho dato ai miei figli miei figli è quella di colmare il vallo estivo, di inventare prodotti che diano alla nostra produzione e al nostro fatturato un’uniformità tutto l’anno».

Cioccolato e liquore

«Ma dicevo della Germania: quando siamo arrivati era il dopoguerra, un Paese ancora pieno di macerie con i segni del conflitto, triste, depresso, in cui gli italiani erano visti malissimo. Ci consideravano traditori, malfattori e infidi, convincerli a comprare qualcosa da noi era una missione quasi impossibile. Cominciai ad andare dai distributori con l’idea di vendere cioccolatini in pezzo singolo, con dentro il liquore e la ciliegia. Mi dicevano che bisognava fare delle scatole, non degli incarti singoli, perché solo quelle si potevano mettere sugli scaffali dei negozi e quelle si vendevano. Io rispondevo che stavano mesi sugli scaffali e le persone le compravano solo per le grandi occasioni, per fare regali. Io invece pensavo a qualcosa che risollevasse il morale, che addolcisse ogni giorno la vita dei tedeschi: c’era il cioccolato, la ciliegia e c’era il liquore che scaldava in quell’epoca fredda e con scarsi riscaldamenti. Qualcosa che avesse una carta invogliante, elegante, lussuosa, di un rosso fiammante, che desse l’idea di una piccola festa ad un prezzo accessibile a tutti. Insistetti finché non trovai un uomo intelligente che si fece conquistare dalla mia idea. La Valeria tedesca aveva bisogno di essere confortata, di sentirsi bene ogni giorno, di potersi fare un piccolo regalo: poteva funzionare tra fidanzati, tra marito e moglie e non c’era bisogno di aspettare feste o ricorrenze. Poi in inverno feci mettere enormi cartelloni pubblicitari in ogni grande stazione della Germania, con un immenso mazzo di fiori che non sfioriva mai. Per Natale mi misi d’accordo con la Fiat e al centro delle dieci maggiori stazioni piazzai in bella mostra una topolino rossa che avrebbe premiato i vincitori di un concorso legato al Mon Chéri. Fu un successo travolgente e l’anno dopo facemmo le cose ancora più in grande e mettemmo in palio dei diamanti». Il suo racconto è pieno di entusiasmo, anche se è passato più di mezzo secolo, e di quel periodo ricorda l’entusiasmo insieme al freddo e alla fatica: «Pensi che la fabbrica era in una serie di bunker bombardati…».

Pasqua tutti i giorni

Gli chiedo allora quale è stata l’intuizione che è sembrata più pazza ma che gli ha dato più soddisfazione: «È successo anni dopo, in Italia, quando pensai che l’uovo di cioccolato non poteva essere una cosa che si vendeva e si mangiava una volta all’anno, a Pasqua. Però ci voleva qualcosa di più piccolo, che si potesse comprare ogni giorno a poco prezzo, ma doveva ripetere quell’esperienza e allora ci voleva anche la sorpresa, ma in miniatura. Pensai alla Valeria mamma, che così poteva premiare il suo bambino perché aveva preso un bel voto a scuola, alla Valeria nonna che lo regalava per sentirsi dire: “Sei la più bella nonna del mondo” o alla Valeria zia che riusciva così a strappare al nipotino quel bacio e quell’abbraccio che faticavano sempre a conquistare. Ma così tanto cioccolato poteva preoccupare le mamme, allora pensai di rovesciare l’assunto tradizionale pubblicizzando che c’era “più latte e meno cacao”, quale miglior sensazione per una mamma di dare più latte al suo bambino? Così mi decisi e ordinai venti macchine per produrre ovetti, ma in azienda pensarono di aver capito male o che fossi diventato matto e non fecero partire l’ordine. Poi chiesero a mia moglie Maria Franca se la firma sull’ordine era davvero mia, lei confermò, ma per far partire la cosa dovetti intervenire di persona. Le obiezioni erano fortissime, dicevano che sarebbe stato un flop, che le uova si vendevano solo a Pasqua e allora io sbottai e dissi: “Da domani sarà Pasqua tutti i giorni”». Questo fu il 1968 di Michele Ferrero, la sua rivoluzione, quell’anno partì insieme all’ovetto la linea di prodotti per bambini che conosciamo come Kinder Ferrero.

Primo: innovare

«Ecco cosa significa fare diverso da tutti gli altri. Tutti facevano il cioccolato solido e io l’ho fatto cremoso ed è nata la Nutella; tutti facevano le scatole di cioccolatini e noi cominciammo a venderli uno per uno, ma incartati da festa; tutti pensavano che noi italiani non potessimo pensare di andare in Germania a vendere cioccolato e oggi quello è il nostro primo mercato; tutti facevano l’uovo per Pasqua e io ho pensato che si potesse fare l’ovetto piccolo ma tutti i giorni; tutti volevano il cioccolato scuro e io ho detto che c’era più latte e meno cacao; tutti pensavano che il tè potesse essere solo quello con la bustina e caldo e io l’ho fatto freddo e senza bustina. L’Estathè per dieci anni non è esploso, ma io non mi sono scoraggiato, perché ero convinto che ci voleva tempo ma che l’intuizione era giusta e che la Valeria non sapeva ancora che era quello che aveva bisogno. Ma poi se ne è resa conto ed è stato un grande successo. Un unico rammarico: averlo lanciato solo in Italia, ma mi spaventavano con le indagini di mercato e non vollero portarlo in Francia e così oggi il mercato estero è già pieno di concorrenti. E poi ci inventammo uno scatolino morbido e leggerissimo che era una novità assoluta e la cannuccia…».

«Sa perché ho potuto fare tutto questo? Per il fatto di essere una famiglia e di non essere quotati in Borsa: questo ha permesso di crescere con serenità, di avere piani di lungo periodo, di saper aspettare e non farsi prendere dalla frenesia dei su e giù quotidiani». Parliamo ormai da più di due ore, nello stabilimento c’è un profumo fortissimo di caffè, mi spiega che stanno facendo i pocket coffee. Il tempo sta per finire ma vuole ricordarmi una cosa a cui tiene più di tutto, la sua fede religiosa: «Tutto quello che ho fatto lo devo alla Madonna, a Maria, mi sono sempre messo nelle sue mani e lei devo ringraziare. La prego ogni mattina e questo mi dà una grande forza».

La sua stretta di mano e la sua energia, in quel giorno d’estate nel pieno dei suoi 85 anni, erano forti e invidiabili. Ora stava per compierne novanta, ma era rimasto lucido e fedele alle sue regole e ai suoi principi.




QUANDO LA LIBERTÀ È UNA COLOMBA. GLASSATA.

L’Icaro di Henri Matisse non è un uomo, né un angelo: bozzetto goffo e nero che tenta di volare, è ritratto nell’attimo che precede la sua caduta, epilogo inevitabile nel mito pagano, dove non si fa cenno a quel punto rosso che l’artista gli ha dipinto al centro, là dove sta il cuore.
Una gigantografia del quadro campeggia in fondo al corridoio di un luogo che immaginiamo freddo e tetro, risuonante di imprecazioni e di chiavi dal metallo pesante. In realtà, i corridoi dei laboratori all’interno del carcere ‘Due Palazzi’ di Padova hanno i suoni caratteristici delle catene di montaggio delle biciclette che riforniscono alcune tra le aziende più importanti d’Italia; delle valigie Roncato che qui hanno una sede di assemblaggio; dei call center da cui i detenuti collaborano con l’Ospedale cittadino. Ma sono i profumi, quelli irresistibili a base di zucchero e di canditi, di uvetta e di moscato passito di Pantelleria, a stupirci e a conquistarci come può fare solo l’impossibile quando diviene realtà. I biscotti, i dolci e soprattutto i panettoni della Pasticceria Giotto dal carcere padovano sono ormai una celebrità premiata con i più importanti riconoscimenti del settore e commercializzata in tutto il mondo: presenti sulla tavola dei potenti del G8 nel 2009 e al pranzo di Natale del Presidente Napolitano, a Natale sono stati acquistati da Papa Francesco per collaboratori e autorità, così come faceva già Benedetto XVI. L’intuizione vincente di Officina Giotto, la cooperativa sociale che coordina i lavori all’interno del carcere, è semplice quanto rivoluzionaria: puntare non all’assistenzialismo ma alla qualità e all’eccellenza, per ottenere risultati all’altezza delle aspettative di mercato. Mirare alla persona, non al suo reato, e al lavoro, quello senza il quale ‘non c’è dignità’, come ha detto lo stesso Bergoglio, il Papa che ogni quindici giorni telefona ad alcuni detenuti in Argentina, mosso dalla riflessione: “Perché lui è caduto e non sono caduto io?”. La reclusione priva di rieducazione è un peso per i detenuti e per la società, un macigno di Sisifo che, scontata la pena, riporta l’ex detenuto al suo punto di partenza, ossia al reato, come testimoniano le statistiche sulla recidiva, e che si abbattono quasi completamente nel caso di detenuti inseriti in percorsi lavorativi. Modello da esportazione, la Pasticceria Giotto è stata progettata in un carcere minorile di Chicago, e alle sue attività si ispirano anche gli APAC, le carceri ‘dolci’ brasiliane senza armi né guardie, ad alto contenuto rieducativo. In tempo d’avvento, tra le mura del carcere di Padova si lavora affinché siano le colombe a prendere il volo in tutto il mondo in libertà: nel loro impasto non c’è solo la pasta madre e lo zucchero, c’è lo stupore dello chef che ha insegnato il mestiere e trasmesso la passione ai detenuti, e che dice “la cosa più bella è stata insegnare qualcosa a qualcuno che prima non aveva niente”; c’è l’ incredulità dei detenuti pasticcieri, di Andrea che dice “Io che ho fatto tanto male nella vita, mi sento rinato”, e di Martino, che ringrazia per aver ricevuto quella fiducia “che mi ha cambiato perché mi sono sentito di nuovo uomo”. “Perché dall’amore non si può fuggire” è la risposta di un pluriomicida ospite di un APAC in Brasile alla domanda “Sei già evaso 12 volte: perché non ci provi più? Da qui sarebbe più facile”. Attraverso la sua voce, la voce di uno degli ultimi, cogliamo le potenzialità di questo modello sociale che l’Italia promuove in America, e apprendiamo il senso più vero e profondo del messaggio racchiuso nell’incipit del salmo biblico: “Nel tuo grande amore cancella il mio peccato”.




Alcatel-Lucent punta su sostenibilità e responsabilità

Il rapporto per il 2013 segnala non solo gli aspetti di “buona cittadinanza”, ma anche quelli sulla eticità del business e sul contributo allo sviluppo della “new economy” digitale per un mondo più interconnesso
In un mondo che cambia tanto in fretta, con nuove priorità che emergono, blocchi geo-politici-economici che si confrontano, quale dev’essere il contributo delle aziende ad uno sviluppo equilibrato e quindi duraturo nel tempo? Il rapporto annuale di Alcatel-Lucent sulla Sostenibilità segna un’evoluzione nella risposta a questa domanda. Nelle sue circa 200 pagine ricche di grafici e fitte tabelle sono presentati i temi affrontati, le risposte date, i successi ottenuti, quelli ancora da conquistare ma comunque già avvicinati. Si spazia dalle tematiche tipiche della CSR, la Corporate Social Responsibility, come la formazione, il lavoro femminile, le eque opportunità, il rispetto per le minoranze e le “diversità”, alle norme che regolano i rapporti con clienti e fornitori, fino all’impatto ambientale: acqua, rifiuti, consumi energetici.
Una vasta parte del rapporto è tuttavia dedicata anche al contributo che le tecnologie possono dare ad un mondo più interconnesso, più “inclusivo”, più attento consumatore delle risorse naturali. Si tratta di un vasto impegno che riflette un atteggiamento di fondo maturato negli anni, frutto di uno sforzo a tutto campo che è valso ad Alcatel-Lucent una serie di riconoscimenti internazionali, tra i quali il primato nel Dow Jones Sustainability Index del settore tecnologico, o la Gold Recognition per la valutazione CSR di Ecovadis.
Tra le eccellenze acquisite da Alcatel-Lucent figurano quelle nell’etica del business, con la promozione e il mantenimento su scala mondiale di una campagna “tolleranza zero” verso qualsiasi violazione di leggi e regole nei confronti di clienti e autorità: nessuna violazione è stata registrata, in nessuna parte del mondo, per tutto il 2013. Una vasta azione è stata anche condotta per assicurare il rispetto delle regole da parte di fornitori e subfornitori (cioè i fornitori dei fornitori). Solo per esaminare l’utilizzo eventuale di materiali originati da zone di conflitto sono stati “passati al setaccio” ben 350 fornitori in tutto il mondo. Parte di questo sforzo è anche la pubblicazione del primo Conflict Minerals Report nella storia dell’azienda.

Riciclaggio elettronico e impatto CO2

Uno sforzo particolare è stato condotto in materia ambientale, per assicurare il corretto uso di risorse che, come l’acqua, sono particolarmente critiche in alcune aree del mondo, oltre che per ridurre la quantità dei materiali di scarto. Nell’anno, il 97% dell’ “electronic waste”, ovvero i residui elettronici, è stato riciclato o riutilizzato, riducendo in questo modo di un terzo anche le emissioni di CO2 corrispondenti. Si tratta in questo caso di un notevole progresso verso l’obiettivo della riduzione del 50% delle emissioni di CO2 per il 2020. Il dettaglio di analisi al riguardo è elevatissimo, con stime per categoria e sottocategoria degli impieghi, dei progressi e della strada ancora da fare. Si scopre, per esempio, in questo modo che l’energia elettrica acquistata rappresenta l’1,2% del “carbon foot print”, contro il 10,0% dei prodotti e servizi acquistati, lo 0,2% dei viaggi di lavoro o dello 0,4% dei costi giornalieri del trasporto per recarsi al lavoro.
Il “grosso” delle emissioni, pari all’88,3%, riflette i prodotti venduti. Speciali “Green Team” analizzano la quantità di CO2 assorbita e prodotta dai vari siti, provvedendo anche a dare le informazioni utili al personale localmente coinvolto. E’ interessante notare come il 27% dell’energia elettrica mondialmente utilizzata provenga da fonti rinnovabili, mentre in paesi come Belgio, Austria e Svizzera il 100% dell’energia elettrica proviene da fonti idroelettriche.

Le risorse umane

Le risorse umane sono una delle priorità considerate nel rapporto, con la conseguenza di una vasta quantità di informazioni che viene messa pubblicamente a disposizione. Su oltre 62 mila persone, l’Asia-Pacifico una delle aree con i “numeri” maggiori, con 19 mila 800 addetti, accanto ai 13 mila del resto d’Europa, gli 8 mila 900 della Francia, i 15 mila 400 del Nord America. Interessante notare che nel 2013, il 10,2% dei dipendenti aveva meno di 30 anni, con variazioni però tra il 6% del Continente americano, l’8% dell’EMEA e il 23% dell’Asia-Pacifico. Di converso, solo il 3% dei dipendenti nell’Asia Pacifico aveva più di 50 anni contro il 23% dell’EMEA e il 36% delle Americhe. La quota “rosa” di dipendenti è pressoché analoga in tutto il mondo: circa il 21%, con i valori più bassi in EMEA (19%) e quelli più alti (23%) in Asia Pacifico e nelle Americhe.
Il rapporto analizza anche le condizioni ambientali, gli incidenti sul lavoro e le malattie professionali. Specifiche attività di informazione e formazione sono state condotte in tale ambito. Iniziative sono in corso inoltre per raggiungere specifici obiettivi, come il telelavoro – diffuso presso tutti i maggiori paesi in cui è presente l’azienda – come strumento per facilitare l’equilibrio attività professionale e famiglia, nonché il monitoraggio per assicurare ovunque parità di genere anche nella retribuzione dell’attività lavorativa.
Decine e decine di pagine di tabelle dettagliano le attività condotte, non solo dall’azienda ma anche da parte dei suoi fornitori, a tutela dei principi di dignità personale, del lavoro, libertà d’associazione e di espressione, politiche anti-discriminatorie, protezione dell’infanzia e contro il lavoro minorile.
Ulteriori spazi sono dedicati anche alle attività filantropiche, comprese quelle svolte dal personale di molti paesi, in alcuni casi anche con supporto diretto dell’azienda. Tali azioni sono state condotte nel 2013 con beneficio per decine di migliaia di componenti di comunità locali.

L’impegno per lo sviluppo digitale sostenibile

Nuove tecnologie e processi di produzione sono adottati per ridurre l’impatto ambientale nei prodotti: minori pesi e ingombri, imballaggi, migliore resa operativa, più elevata riciclabilità a fine vita sono tra gli aspetti presi in considerazione. Nello stesso tempo, la progettazione e lo sviluppo delle nuove generazioni di prodotti e di sistemi per le reti mira a minimizzare i consumi e il “carbon foot print” durante il ciclo di vita del prodotto. Una serie di nuovi prodotti, dai router ad alte prestazioni agli apparati per l’accesso, ai sistemi radio, concorrono a ridurre i consumi energetici per gli apparati una volta messi in campo, ricorrendo anche in misura crescente ad energie rinnovabili (tra cui fotovoltaico, eolico). Uno sforzo particolare viene svolto attraverso la ricerca dei Bell Labs, la punta di diamante della R&S di Alcatel-Lucent nel mondo. I Bell Labs sono stati inoltre i promotori del consorzio Green Touch, che oggi comprende 48 tra aziende, istituti di ricerca, università, con l’obiettivo di raggiungere una drastica riduzione dei consumi elettrici. Nel 2013, Green Touch, in cui Alcatel-Lucent svolge ancor oggi un ruolo chiave, ha emesso il Green Meter Research Study che valuta il potenziale di riduzione dei consumi energetici nelle reti di comunicazione nella misura del 90% ora del 2020.
Aiutare il mondo a consumare meno energia è un obiettivo fondamentale per Alcatel-Lucent, ma il Rapporto di Sostenibilità va ancora oltre, esaminando i progressi tecnologici che l’azienda sta trasferendo ai propri clienti, per raggiungere l’obiettivo di reti più efficienti, con minori consumi di energia, in grado di accompagnare lo sviluppo di nuovi servizi e di ridurre, anche nelle zone periferiche del mondo, le aree di “esclusione digitale”.

Loiola: un impegno a vasto raggio che passa anche per l’Italia

“Il rapporto sulla sostenibilità mostra come non solo sia possibile ma sia anche necessario unire aspetti diversi, anche fortemente differenziati, per garantire lo sviluppo del mondo in cui operiamo e quello della nostra stessa azienda in un mercato iper-competitivo. In Italia, viviamo quest’impegno a vari livelli: come organizzazione di rilevanti dimensioni, come soggetto che fa ricerca e innovazione, come produttore e, non ultimo, come fornitore di importanti operatori che, a loro volta, raggiungono decine di milioni di utenti”, dice Roberto Loiola, presidente e amministratore delegato di Alcatel-Lucent Italia. “Dalla compliance e le policy a garanzia dell’etica nel business, che coinvolge anche i nostri fornitori, all’atteggiamento responsabile verso tutti gli stakeholder, a cominciare dai lavoratori, anche in momenti in cui decisioni complesse vanno prese proprio per garantire lo sviluppo futuro, ci sentiamo fortemente motivati nella nostra attività di tutti i giorni”.
“ Siamo tuttavia fortemente impegnati anche a promuovere lo sviluppo equilibrato del nostro settore e quindi la crescita sostenibile dei nostri clienti, anche con tecnologie che qui nascono o sono integrate in un’offerta più complessa”, sottolinea Loiola. “I nostri laboratori di Vimercate hanno sviluppato e sviluppano le tecnologie delle reti di trasmissione più veloci e più efficienti dal punto di vista energetico, siano esse ottiche o radio. I nostri impianti di Trieste hanno un ruolo importante nella realizzazione di generazioni di prodotti che stanno connettendo il mondo intero. Con i nostri clienti discutiamo come rendere più efficienti le loro reti. Anche il nostro più recente investimento, la nuova sede aziendale di Vimercate, che sarà presto in funzione, è stata realizzata con criteri d’avanguardia per migliorare l’ambiente di lavoro, favorire l’interazione, ridurre i consumi. Questa sensibilità è ormai parte del nostro modo d’essere e di lavorare per progettare il domani.”