La via cinese alla Csr

Diffusione dei bilanci sociali, fondi di investimento sostenibili, aziende e autorità impegnate nello sviluppo della responsabilità d’impresa: le sorprese dell’incontro con gli industriali del paese organizzato dal Csr Manager Network
Nonostante il rallentamento degli ultimi trimestri, l’economia cinese resta tra quelle che crescono più velocemente al mondo. Ma come affrontano le aziende cinesi i temi della responsabilità sociale d’impresa? Quale attenzione dedicano a questi temi le autorità di governo, le associazioni imprenditoriali, gli enti locali? Ed esiste un approccio responsabile agli investimenti?
L’incontro – a porte chiuse – che si è svolto ieri a Milano, organizzato dal Csr Manager Network e dedicato proprio a un focus sulla corporate social responsibility in Cina ha svelato un quadro per molti versi inaspettato, grazie alla presenza di diversi interlocutori arrivati dalla Cina a confrontarsi con l’esperienza italiana. A cominciare da Jiang Xin, vice segretario generale della China Federation of Industrial Economics, la più importante federazione di associazioni industriali cinese; nata nel 1988 per promuovere la modernizzazione dell’industria, la Cfie riunisce oggi 180 associazioni industriali, 105 grandi imprese e 38 federazioni locali di industrie.
L’attenzione alla Csr da parte delle imprese cinesi e delle autorità, ha spiegato Jiang Xin, è altissima. La responsabilità è considerata un motore importante dello sviluppo, e nello stesso tempo si sta sviluppando una finanza sostenibile, con fondi di investimento specializzati.
Dal punto di vista della comunicazione delle tematiche Csr, per esempio, nel 2011 sono state 898 le imprese cinesi che hanno redatto un bilancio di sostenibilità, il 18% in più rispetto all’anno precedente. E già quest’anno il numero dovrebbe crescere ulteriormente, fino a 1200 report.
Tra il 2010 e il 2011 sono nati tre nuovi fondi di investimento responsabili e, secondo un’indagine della Cina Securities Association, 23 società di gestione di fondi su 59 stanno lavorando alla realizzazione di investimenti Sri nei prossimi tre anni.
A spingere verso lo sviluppo della Csr sono in primo luogo le autorità di governo. Nel 12° Piano quinquennale, il riferimento alla sostenibilità è importante: la tutela e il miglioramento della vita delle persone, la costruzione di una società capace di risparmiare energia e tutelare l’ambiente sono indicati tra i principi guida ai quali deve ispirarsi lo sviluppo economico. E un altro documento programmatico, il Piano per la trasformazione industriale e l’aggiornamento industriale (2011-2015) cita “il positivo progresso della responsabilità sociale da parte delle imprese industriali “, come uno degli obiettivi di sviluppo. Direttive per lo sviluppo della Csr sono state elaborate dalla Commissione per le attività statali del Consiglio di Stato, dal ministero del Commercio, dalla Commissione per la vigilanza bancaria, e dai ministeri degli Affari civili, delle Risorse umane e dell’Ambiente.
E altrettanto numerosi sono gli interventi a livello di province e città, a cominciare da Shanghai.
Quanto alle industrie, oltre ai miglioramenti nella struttura industriale e nella produzione, vanno messi in conto i risparmi di energia (meno 3,49% nel 2011) e acqua (meno 8,9%) nei processi produttivi; gli sforzi per realizzare ambienti di lavoro migliori, sistemi di salvaguardia sociale e progetti speciali di assistenza.
L’impegno si riflette anche nelle attività delle associazioni di imprese. La stessa China Federation of Industrial Economics, insieme con altre dieci associazioni di categoria (tra cui carbone, macchine, ferro e acciaio, petrolchimica, industria leggera, tessile, materiali da costruzione, metalli non ferrosi, minerali) ha pubblicato le “Linee guida per la responsabilità sociale delle imprese industriali e le associazioni industriali cinesi”, e un “Manuale Operativo” per le loro relazioni in materia di Csr.
Ma di quale responsabilità sociale parliamo quando parliamo della Cina? Il paese sembra impegnato a trovare una sua strada alla Csr, capace di fondere le esperienze internazionali con le caratteristiche locali. Jiang Xin ha parlato di “un concetto di responsabilità sociale delle imprese con caratteristiche cinesi”, nel quale rientrano l’approccio scientifico dello sviluppo, l’ideale di una società armoniosa socialista, la trasformazione dello sviluppo economico, e una nuova strada per l’industrializzazione”.
Le stesse linee guida internazionali, per esempio quelle del Global Compact, sono considerate con attenzione, ma i cinesi sembrano di fatto preferire gli standard locali, una “via cinese alla Csr”.
Ma non si può dimenticare, parlando della Cina, la straordinaria vastità di quel paese. Il progresso della Csr in Cina è innegabile, ma se si tiene conto delle enormi dimensioni dell’economia cinese, dei numeri della sua industria, molto è ancora da fare, ha ammesso Jiang Xin. Resta da vedere se la rapidità con cui la Cina mostra di saper crescere, cambiare e svilupparsi, le consentirà di recuperare terreno, e magari superare le economie occidentali.


Sostenibilita, Csr. Firenze, prima banca dati eco-design ha preso sede a Calenzano

Aperture ad hoc per le aziende con consulenti dedicati che forniranno informazioni tecniche sui vari materiali e sui produttori. Matrec, la prima banca dati di eco-design dedicata a materiali ambientalmente sostenibili che ha preso sede a Firenze, a Calenzano, presso la nuova sede del Corso di Laurea in Disegno Industriale dell’Università di Firenze, con il supporto del Polo di innovazione regionale Cento per gli Interni, inizia così la sua collaborazione con le imprese della Toscana. Il Centro Matrec sarà aperto ad aziende, consulenti e progettisti a partire dal mese di novembre, il martedì e il giovedì dalle 9.30 alle 18.30 all’interno del Laboratorio di Design per la sostenibilità del nuovo Corso di Laurea. Per informazioni ed appuntamenti il contatto telefonico diretto è 055/2757075. Il patrimonio di Matrec, con materiali ambientalmente sostenibili riciclati e naturali, che caratterizzeranno i progetti innovativi dei prossimi anni, è a disposizione di aziende, architetti, designer e studenti, a Calenzano, in via Pertini. Una panoramica mondiale di materiali per il design, l’edilizia, la moda e altro ancora tutti rigorosamente Eco e provenienti dalla banca dati Matrec (www.matrec.it), da 10 anni punto di riferimento per l’ecodesign e per la ricerca di materiali eco-innovativi. Plastica, carta, gomma, legno, juta, cotone, cocco, kenaf e molte altre tipologie di materiali, saranno a disponibili di tutti i progettisti per essere toccati e testati. Verranno inoltre organizzati una serie di incontri mirati per gruppi di tipologie produttive con la presentazione di una selezione dei materiali di maggiore interesse e casi applicativi o con le aziende produttrici di materiali innovativi. Ideato dall’architetto Marco Capellini, Matrec è stato aperto nel 2002 per aiutare la aziende a crescere nel contesto delle produzioni eco – sostenibili attraverso la conoscenza e l’uso di materiali ecologici e sostenibili. Dal 2002 Matrec è stato protagonista del design internazionale attento alla sostenibilità partecipando agli eventi mondiali più importanti, come il Salone del Mobile di Milano o altre mostre o eventi a Milano, Roma, Lisbona, Porto, Pechino, Shanghai, Buenos Aires, San Paolo e Rio de Janeiro. Il nuovo Centro Matrec nasce da un progetto di collaborazione con il Corso di Laurea in Disegno Industriale dell’Università di Firenze ed il Centro Sperimentale del Mobile, capofila di ”Cento”, il Polo regionale di Innovazione per gli interni, già promotori del progetto Green Home che ha visto il coinvolgimento di numerose aziende toscane. Il Centro Matrec toscano si inserisce inoltre nelle attività di Ecomovel, un progetto Med europeo finalizzato a mettere in rete e testare strumenti rivolti all’innovazione delle PMI del settore dell’arredo. L’apertura del centro Matrec rappresenta una grossa opportunità per sviluppare progetti eco-innovativi in sinergia tra mondo della ricerca e mondo delle imprese. Dallo scorso settembre Matrec è diventata piattaforma internazionale con l’obiettivo di essere il punto di riferimento della progettazione eco-sostenibile. Non a caso è in procinto di aprire un centro materiali anche a San Paolo del Brasile.


Vendere la sostenibilità: una strada in salita

Se le aziende sono sempre più attente alla sostenibilità, non altrettanto, molto spesso, lo sono i consumatori. E allora cosa possono fare i pubblicitari per “vendere” un sogno che è tale solo per pochissimi?
Da tempo i pubblicitari hanno abbandonato ogni tentativo di vendere i propri prodotti in base alle prestazioni funzionali: vendono invece sulla base dei sogni, dei miti – parlando dei nostri sentimenti, piuttosto che di fatti.
Nel mito creato dalla pubblicità, infatti, le auto non sono mezzi per spostarsi, lentamente tra mille altre auto, da un negozio, una scuola o da un ufficio all’altro: sono invece espressioni di identità personale che corrono nei passi di montagna deserti, che guizzano in paesaggi urbani cromati alla Bladerunner, che ci inseriscono allegramente al centro di una vita sociale meravigliosamente bella. Il cibo non è una fonte di alimentazione mangiato in bocconi affrettati: è una occasione per una felice vita familiare, o per un lussuoso momento gastronomico o per aiutarci a diventare magri.
Uno dei principali mezzi usati dalle agenzie pubblicitarie e di marketing per sondare le nostre esigenze mitologiche è la ricerca di mercato, in particolare il focus group archetipico. Si riunisce un numero di persone individuate dal mercato come ad esempio “giovani, maschi, professionisti, che vivono in contesti urbani” o “mamme di periferia con poco tempo a disposizione”, e li si espone alla nuova campagna, ai messaggi e alle immagini che si hanno in mente. Si invitano le reazioni, le domande, si misurano le risposte, si cercano altri aspetti del mito che potranno aumentare la possibilità del successo del prodotto. Del tipo: quanto deve essere largo il cielo mentre l’auto vola come un proiettile verso l’orizzonte?
Non ho mai fatto parte di un focus group per parlare di auto, ma ho condotto numerosi altri gruppi e sono del tutto certo che mentre il “giovane, maschio, professionista, che vive in contesti urbani” guardava l’elegante sagoma di design italiano muoversi come il mercurio verso un futuro luccicante, non si è chiesto: “Va bene, ma quanti grammi di CO2 emette per ogni chilometro percorso?”
Eppure ogni pubblicità di automobile ne parla con grande cura: a piè di pagina, con un font tipografico molto piccolo, certo, ma ne parla, poiché la normativa europea lo esige. E dal punto di vista ambientale, è sicuramente una buona cosa. Le auto emettono enorme quantità di CO2; i regulator non perdono un colpo; i produttori di auto sono sotto pressione per produrre macchine più efficienti e sono obbligati a dircelo. Ottimo.
Solo che, per quanto riguarda il consumo sostenibile, la storia praticamente finisce qui. Il consumo sostenibile oggi consiste quasi interamente in una “spinta da parte del fornitore” anziché di un “traino da domanda“. Dalla parte dei fornitori, una combinazione di obblighi normativi e di legge, la peer pressure tra le imprese e, lentamente, una cultura ambientale in via di sviluppo fanno sì che sempre più imprese prendano la questione sostenibilità sul serio.
Se si guarda sul lato consumatore invece, la storia è molto diversa. Il numero di persone che prendono seriamente la questione sostenibilità è rimasto ostinatamente basso in questi 20 anni.
Forse due o tre consumer su 100 cercano attivamente di minimizzare la propria impronta ambientale in modo coerente e trasversale. Per la maggior parte delle persone, invece, è troppo difficile, troppo ingarbugliato, troppo complicato date tutte le altre cose cui devono pensare.
E lo sanno anche i pubblicitari. Quindi – come rivela una recente ricerca di Brook Lyndhurst per il WWF – le catene come Waitrose e Marks & Spencer stanno facendo cose veramente buone, ma non presentano il quadro completo. Raccontano invece piccoli miti ambientali sul “pesce da fonti sostenibili” e sui cibi coltivati localmente. I produttori stessi lavorano con miti che i consumer possano digerire e in particolare lo fanno, come abbiamo scoperto nel nostro lavoro per il Department of Environment, Food and Rural Affairs (Defra) in merito alle percezioni dei consumatori sul benessere degli animali, con polli che fanno atletica e mucche che guadagnano stipendi.
I consumatori non ci capiscono molto: quasi nessuno calcola la propria impronta ambientale, figurarsi quale auto comprare in base a tale impronta, e si preferisce non pensare alle condizioni in cui vivono gli animali che arrivano tagliati e confezionati nei supermercati. I rivenditori e i produttori sanno che se mettessero i consumatori di fronte alle vere implicazioni delle scelte sostenibili, questi scapperebbero via!
E tutto ciò è indice di qualcosa di molto preoccupante. Le imprese prosperano quando producono qualcosa che qualcuno, da qualche parte, vuole. Vuoi sentirti libero, essere un vero individuo? Abbiamo la macchina/prodotto per capelli/scarpe che fanno per te. Guarda, lo dice la pubblicità!
Vendere quello che la gente non vuole è come spingere un masso su una strada in salita: ce la puoi fare se sei forte abbastanza, o se ti frustano abbastanza, ma è un lavoro duro e non ce la potrai fare in eterno.
In ultima analisi, per avere un’economia sostenibile i consumatori la devono volere davvero. E per vendergliela, ci servono dei miti. Vuoi un futuro sostenibile? Guarda: “il tempo per rilassarti con amici e parenti!”, “una vita lunga e sana”, “un lavoro interessante”, “la possibilità di dare un vero contributo!”. Scegli questi e otterrai quello!
Ma che tipi di prodotti e di servizi sono questi? Quali sono i miti che li faranno vendere? E il mondo del “business” riuscirà a capire come fornirli e allo stesso tempo fare contenti gli azionisti?


Il Jeans di gap ha il risvolto etico

Da San Francisco a Milano per fare business, ma non “ad ogni costo”. La multinazionale americana dell’abbigliamento Gap guidata dal designer Patrick Robinson ha aperto il suo primo maxistore in Italia (a Milano, in corso Vittorio Emanuele), accolta da una folla di fashion victim che ha atteso in coda l’inaugurazione. E lo fa, come nelle altre 170 boutique aperte in tutta Europa, portando oltre alle linee di uno stile molto “US”, anche una forte filosofia di prodotto improntata alla sostenibilità. «La nostra attenzione etica e di rispetto per l’ambiente è la stessa in tutto il mondo», ha detto Stephen Sunnucks, presidente per l’Europa e per lo sviluppo internazionale di Gap. Anche in Italia, dunque, Gap applicherà il “clean water program”,il programma “verde” per la produzione di jeans brevettato dall’azienda. Mache impatto possono avere i jeans sull’ambiente? «La risposta sta nel processo di fabbricazione», spiegano i responsabili della Social responsibility del brand californiano. Per fare un jeans ci vogliono detersivi, coloranti e acqua, «se l’acqua usata per il lavaggio non è debitamente trattata può inquinare fiumi e corsi d’acqua e danneggiare le comunità locali». Per questo da tempo Gap è membro del “Gruppo per l’acqua sostenibile” di Bsr, un’associazione di aziende del settore impegnate a gestire in modo ambientamene corretto le acque usate nella lavorazione tessile. Negli anni90 il gruppo ha stabilito delle linee guida sull’uso di prodotti tossici, come rame e mercurio, negli stabilimenti e nelle lavanderie. A partire dal 2004 una società indipendente di consulenza ambientale, la CH2M, monitora i fornitori di jeans. «Gap è una delle aziende che, negli ultimi vent’anni, ha più prestato attenzione a questi temi; è una compagnia che da sempre si è strutturata per dialogare con la società civile», conferma Deborah Lucchetti, presidente di Fair, la cooperativa che coordina per l’Italia la campagna “Clean clothes”. Di recente il Forum internazionale di “Abiti puliti” si è riunito in Turchia, a Gonen, una località distrutta dalla produzione di jeans. «Lì ci sono molti stabilimenti che realizzano i denim vintage», spiega Lucchetti. «Per schiarire i tessuti è impiegata la tecnica del sand blasting; si usano pistole ad aria compressa che sparano sabbia sui pantaloni, e così facendo si emette silicio. E negli stabilimenti tessili la silicosi ha già fatto più vittime che nelle miniere». Come Gap, altri marchi internazionali si sono mostrati sensibili al tema: «H&M e Levi’s hanno annunciato la totale cessazione del send blasting» continua la Lucchetti. «In Italia si sono mostrati sensibili Gucci e Versace, mentre l’iniziativa non ha suscitato l’interesse di Dolce&Gabbana»
 


Csr, ecco il piano d'azione italiano

I ministeri del Lavoro e dello Sviluppo Economico hanno pubblicato il Piano Nazionale Csr 2012-2014, inviato alla Commissione europea. Frutto di una consultazione pubblica, per gli esperti è “una guida utile alle imprese per aumentarne la competitività”
E’ online dal 7 marzo sul sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali  il Piano Nazionale della Responsabilità sociale d’impresa 2012-2014, che i due ministeri competenti (oltre al Lavoro, c’è anche il ministero dello Sviluppo Economico) hanno già inviato alla Commissione europea.
Il Piano, che nei mesi scorsi è stato sottoposto a una consultazione pubblica a cura della Direzione Generale del Terzo Settore e delle Politiche Sociali, illustra le azioni e i progetti volti alla realizzazione della “Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-2014 in materia di responsabilità sociale delle imprese”, in linea con la ricerca di un modello alternativo di sviluppo e di uscita dalla crisi economica.
Inserita nelle politiche europee con il Libro verde del 2001, attualmente la Strategia rinnovata della UE in materia di Responsabilità sociale delle imprese (RSI) prosegue con le indicazioni in materia di RSI contenute in Europa 2020 con l’obiettivo di creare le condizioni favorevoli per una crescita sostenibile, un comportamento responsabile delle imprese e per la crescita dell’occupazione durevole nel medio e lungo termine. L’Italia è il primo tra gli Stati membri a consegnare alla Commissione europea il proprio Piano di azione.
“Si tratta di un documento di continuità rispetto al passato, che però rafforza l’orientamento strategico alla csr”, commenta Clodia Vurro, docente di management e csr all’università Bocconi di Milano. “Nel testo si sottolinea cioè che la responsabilità sociale d’impresa rappresenta una strategia vincente per le imprese, che contribuisce al loro successo e ne rafforza la reputazione di fronte agli stakeholders. Una delle novità del documento è rappresentata poi da un primo delinearsi di un sistema di incentivi”, continua Vurro, “che dovrebbero essere varati per premiare le aziende più virtuose in questo ambito; uno degli aspetti più interessanti è quello finanziario, dove si ipotizzano accessi facilitati al credito per le imprese con la csr più consolidata. Si tratta di un valido aiuto, insomma, di una guida utile per tutte le imprese, all’interno della quale poi ciascuna dovrà trovare lapropria strada alla responsabilità sociale”.
Il documento completo è scaricabile a questo link.


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