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Data center a basso consumo grazie alla fotonica: nasce il primo centro di ricerca italiano

Pisa è l’unica città italiana dove si potranno progettare e realizzare prototipi di circuiti integrati utilizzando la fotonica, una delle cinque tecnologie identificate dall’Unione Europea come strategiche per la nascita e per l’affermazione dell’internet del futuro, quello che probabilmente ci accompagnerà per tutto il XXI secolo. La Scuola Superiore Sant’Anna ha inaugurato il 31 ottobre, in occasione del convegno “Hi-Tech, Italy”, il centro per le reti fotoniche InPhoTec, un’infrastruttura di ricerca nel campo della fotonica integrata, strategica per i settori industriali ad alto tasso di innovazione tecnologica.
Si tratta della realizzazione di un progetto che ha previsto investimenti per un importo superiore a 8 milioni di euro (12 milioni il valore totale dell’intera operazione) con i quali la Scuola Superiore Sant’Anna ha finanziato la costruzione del nuovo laboratorio di 800 metri quadrati nell’area di San Cataldo, a due passi dal centro storico di Pisa, grazie anche al sostegno della Regione Toscana e al coordinamento della Provincia di Pisa. Accanto alla sede dell’Istituto TeCIP (Tecnologie della Comunicazione, dell’Informazione, della Percezione) della Scuola Superiore Sant’Anna, diretto da Giancarlo Prati, sono stati realizzati laboratori con atmosfera controllata e pulita – le sofisticate “camere bianche” – con macchinari per eseguire complessi processi con i quali realizzare circuiti e dispositivi fotonici integrati.
Il progetto non ha eguali in Italia e potrà convogliare in Toscana forti investimenti da aziende già interessate a tecnologie complesse per migliorare l’efficienza energetica dei sistemi per telecomunicazioni oltre che per ridurne le dimensioni, avviando un altro settore che rientra a pieno titolo nella “green economy”.
La fotonica integrata – sviluppata al centro per le reti fotoniche – è considerata una delle tecnologie chiave per sviluppare numerosi settori industriali ad alto valore aggiunto, in primo luogo le tecnologie informatiche, l’industria biomedicale, della difesa e quella aerospaziale. I circuiti integrati sviluppati a Pisa produrranno, propagheranno e manipoleranno segnali ottici e potranno essere impiegati in applicazioni dalla medicina alle telecomunicazioni, con effetti che tutti potranno verificare. Le infrastrutture di comunicazione in fibra ottica rientrano infatti nei principali settori che potranno trarre beneficio dall’introduzione delle nuove tecnologie fotoniche. Tra l’altro, non passerà molto tempo perché l’integrazione fotonica faccia il suo ingresso anche nel mercato “consumer”, dove molte periferiche dei pc potranno essere connesse attraverso un cavo ottico ad alta capacità che utilizza interfacce realizzate con la fotonica integrata.
L’interconnessione tra i cosiddetti “data centers”, i computer della rete Internet, l’accesso domestico alla rete e i collegamenti telefonici condividono un’infrastruttura di rete in fibra ottica interconnessa con estese reti regionali, nazionali e mondiali, dove il traffico aumenta in maniera costante da venti anni con un tasso di crescita che lo porta, addirittura, al suo raddoppio ogni 18 mesi al massimo. Questo sviluppo ha portato alla necessità di trasmettere grandissime quantità di dati nelle reti di fibra ottica che sono messe in campo in tutto il globo terrestre, incluse le reti sottomarine negli oceani e le reti di lunga distanza che attraversano i continenti e le grandi distanze geografiche. Per sopportare il vorticoso aumento di traffico e per sostenere lo sviluppo del “nuovo” internet è necessario contare su una infrastruttura di trasmissione particolarmente capace.
In particolare, a causa della grande quantità di traffico, i nodi di interconnessione devono essere realizzati con apparecchiature sempre più complesse, che occupano spazio, dissipano calore e consumano grandi quantità di energia elettrica. La fotonica integrata è una delle chiavi di volta: aumenterà l’efficienza energetica dei sistemi riducendone le dimensioni (si parla di “green communication”) attraverso nuovi elementi per l’elaborazione ottica dei segnali al posto della più dispendiosa, dal punto di vista energetico, elaborazione elettronica. Inoltre, molte nuove tecniche ottiche possono funzionare con velocità e capacità di banda elevate, precluse all’elaborazione elettronica, un particolare che le rende appetibili nella prospettiva della futura evoluzione delle reti con aumento della capacità di trasmissione.
All’inaugurazione del centro per le reti fotoniche, si collega la vicenda di un ricercatore, uno dei cosiddetti “cervelli” tornati in Italia, che ha preferito rientrare in Toscana per coordinare il centro di progettazione della fotonica su silicio: si tratta di Marco Romagnoli, considerato uno dei migliori ricercatori a livello mondiale nel campo della fotonica che, per vivere la nuova avventura, ha lasciato il suo incarico al MIT di Boston. Romagnoli è tra gli inventori del laser integrato sul silicio, dispositivo che ricercatori di tutto il mondo cercavano di realizzare e che invece è stato sviluppato dal team guidato da questo ricercatore che ha deciso di tornare a lavorare in Italia. Per prepararsi alla progettazione dei circuiti da realizzare il CNIT (Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Telecomunicazioni) aveva infatti già costituito il “Silicon Photonics Design Center” nel suo Laboratorio Nazionale di Reti Fotoniche, presso l’Istituto di Tecnologie della Comunicazione, dell’Informazione e della Percezione (TeCIP) della Scuola Superiore Sant’Anna per provvedere alla progettazione dei circuiti fotonici su silicio che saranno realizzati nell’infrastruttura tecnologica della Scuola Superiore Sant’Anna inagurata oggi, rafforzando anche la più che decennale collaborazione con il CNIT nel settore della fotonica, collaborazione che, di recente, ha portato al record di comunicazione con il supercanale da un terabit al secondo sulla fibra ottica.




Oltre la CSR: l’impresa come laboratorio di social innovation

Tra le imprese che hanno già sviluppato azioni e processi maturi nel proprio percorso di responsabilità sociale si affaccia una nuova sfida, una sfida in grado di ridefinire il modello di creazione di valore mediante un’applicazione efficace e sostenibile di una nuova idea di prodotto, servizio, modello: trasformarsi in promotori, attori e protagonisti di pratiche di Social Innovation. La domanda è semplice: come può un’impresa dare risposta a bisogni sociali emergenti in modo innovativo, creando al contempo valore (non necessariamente economico) anche per se stessa? Come può un’impresa collocarsi come attore di sviluppo del contesto sociale in cui opera utilizzando il proprio business come leva per la creazione di nuove relazioni, collaborazioni e partnership e per proporre una risposta efficace (e redditiva) a istanze della collettività? Ovvero, l’impresa può, attraverso la propria value proposition,  essere promotrice di un’offerta innovativa che soddisfi una domanda proveniente dalla collettività?
Due premesse, due dati di fatto liberi da ogni interpretazione morale (e moralistica). La prima: lo stato sociale è in fase di contrazione, e anche il terzo settore, che in Italia è stato per anni efficace supplente di alcune carenze del welfare, non vive la sua epoca migliore. La seconda: la crisi (chiamiamola così, per brevità) sta sollevando nuovi bisogni sociali e rafforzando, consolidandoli, i vecchi.
Questo periodo storico ha le credenziali per collocarsi come fertile laboratorio di innovazione sociale. E le imprese responsabili non possono permettersi di non sedersi a questo tavolo, non possono permettersi che il know how di cui sono portatrici sia tagliato fuori. Anche perché proprio da questo tema passano le future sfide di un vantaggio competitivo (o meglio, di un vantaggio collaborativo) per le imprese stesse. Forse è giunto il momento di avviare, per le imprese, un tentativo di riduzione delle dicotomie che da sempre le caratterizzano (capitale e lavoro, ambiente e salute, economia ed ecologia) per abbattere un capitalismo che cade a pezzi e ricostruire un nuovo modello economico, sostenibile, ad un tempo economico e sociale.
E proprio in questa ultima affermazione passa operativamente il tentativo per le imprese di inserirsi in tale processo di innovazione: attraverso azioni ad un tempo economiche e sociali.
Passare da un’ottica di giving tipica di un certo modo di concepire la CSR, ad un’ottica di co progettazione, di condivisione delle azioni e dei fini tra mondo profit e rappresentanti dei bisogni sociali, in grado di conciliare le esigenze di attori estremamente diversi tra loro in quanto a profilo culturale, metodologico e valoriale. La complementarietà delle risorse dei partner offre l’opportunità di generare soluzioni win win, in cui entrambe le parti perseguono i propri obiettivi sfruttando i vantaggi della collaborazione e ragionando in termini di innovazione.
Come può un’impresa trasformare operativamente la propria strategia di CSR in una strategia di innovazione sociale? Gli approcci possono essere due: il primo è legato alla domanda.
L’impresa può farsi veicolo e amplificatore di idee imprenditoriali sostenibili coerenti con la propria catena del valore, per rafforzarla e arricchirla. Una nuova strategia di valore di un’impresa deve essere aperta all’ascolto e in grado di intercettare i promotori di un’innovazione sociale coerente con il business.  La completa e reale integrazione di processi e modelli sostenibili nell’attività dell’impresa ha un approccio sartoriale, naturalmente personalizzato alle peculiarità della missione. Si tratta di un rovesciamento dell’approccio di CSR che richiede un ripensamento del modo di lavorare delle direzioni aziendali, d’ora in avanti aperte a un’osmosi collaborativa con l’ambiente esterno. “This framework has the potential to reverse the typical role of CSR, currently viewed as a way to “give back” to communities that a business operates in. What happens when you reverse that model and place these investments at the front-end of your corporate innovation strategy? Can you drive both new opportunities and new behavior within your organization while achieving social impact?”, ha scritto recentemente Robert Fabricant sull’Harvard Business Review.
Alcuni esempi: Pepsi ha innovato il proprio modello di corporate giving, invitando innovatori a sottoporre idee in 6 categorie e finanziando fino a 32 idee al mese, anche rinunciando agli spazi pubblicitari acquistati in occasione del Super Bowl, Marks and Spencer ha strutturato un fondo di investimento (del valore di 50 milioni di sterline in 5 anni, destinati a 200 fornitori e 10.000 agricoltori) per promuovere innovazione sostenibile lungo tutta la catena di fornitura.
Il secondo approccio è legato all’offerta. Come e cosa può essere messo a disposizione dall’impresa, a costi marginali ridotti, per soddisfare un bisogno sociale in modo più efficace rispetto alle alternative esistenti? Il presupposto è semplice: l’azienda prospera se il territorio in cui opera prospera (e viceversa). L’intuizione dello Shared Value può essere d’aiuto: mappando la catena del valore di un’impresa (asset, processi, attività già in essere presso l’impresa) è possibile identificare le aree ad alta potenzialità di generazione di valore condiviso, utile all’azienda e al contesto in cui opera.  Si tratta di lasciarsi guidare dall’efficienza (utilizzando quindi tutti gli asset al massimo delle possibilità), di aprirsi ad una nuova cultura d’impresa, trasparente e collaborativa, in grado di trasformare l’impresa in interlocutore credibile in tema di innovazione sociale. Identificare e mettere a disposizione le proprie leve di valore (come il know how, l’infrastruttura, i sistemi di gestione) a partner in grado di soddisfare bisogni sociali, uscendo dalla logica bidirezionale della CSR (impresa vs. stakeholder) ed entrando in una logica multidirezionale (impresa, partner, stakeholder, società), reticolare. Il processo di ricerca e sviluppo di un’impresa è un utile esempio, per quanto semplificato: abbracciare nell’azienda una strategia di innovazione sociale, significa trasformare le attività R&D da attività tipicamente interne a processi aperti e informali, che attivano intelligenza collettiva ed economie collaborative. Nike ha trasformato la propria Direzione CSR in “Nike Sustainable Business and Innovation”, predisponendo un Innovation Lab che investe in tecnologie sostenibili di rottura, con un approccio open, per i settori in cui Nike stessa opera.  Un’ulteriore esempio ad alto potenziale è offerta dall’interazione strutturata e innovativa con i fornitori che compongono la supply chain, per rafforzare ad un tempo le attività di impresa, permettendo una crescita organica dei fornitori stessi, che a loro volta, incrementando la propria competitività e rilevanza sociale, possono farsi portatori di soluzioni innovative nei contesti di riferimento.
Si tratta di un cambiamento culturale forte, che poggia sulle spalle della responsabilità sociale, per uscire da una logica di protezione degli asset (operativi, reputazionali, etc.) ed entrare in un nuovo modello di vera creazione di valore. Si tratta di un cambiamento forse ineluttabile per le imprese che aspirano a mantenere una leadership nelle pratiche di sostenibilità come strumento di competitività: un nuovo punto di vista, un nuovo modo di osservare i bisogni, sociali ed economici, e di interpretare il ruolo dell’impresa, rileggendo la propria identità (ottimizzando tutti gli strumenti già a disposizione), per offrire risposte condivise e sostenibili.




La Csr che rimbosca, Helvetia avvia il programma in Val Venosta

Il gruppo Helvetia Italia sostiene programma triennale a Coste di Lasa e Slingia

Un progetto triennale di rimboschimento in Val Venosta sostenuto dal gruppo Helvetia Italia, a tutela di due territori: Coste di Lasa e Slingia. Nome del progetto, “Bosco di Protezione”; obiettivo, rimboschimento di aree che, a causa della particolare situazione climatica e geologica, risultano maggiormente a rischio sicurezza. L’assenza del bosco infatti, aumenta progressivamente il pericolo di frane e smottamenti riducendo così la protezione di persone, case e strade.
Questo progetto rientra nelle azioni di Corporate Responsibility della casa madre svizzera, che include anche tutti gli altri Paesi europei nei quali è presente Helvetia, e ha già finanziato 11 interventi di riforestazione, mettendo a dimora complessivamente 110.000 alberi in diverse località in Svizzera, Austria e Germania.
Ora il progetto arriva in Italia. Dopo un attento studio di verifica dei territori da mettere in sicurezza, la scelta è caduta su due aree della Val Venosta: Coste di Lasa e Slingia.
Le coste della Val Venosta attorno al 1900 erano completamente prive di boschi fino ad una quota di 600 metri. Il territorio Coste di Lasa si erge su terreno che morfologicamente va dall’inclinato al ripido con esposizione meridionale in una quota compresa tra fra i 1000 e 1150 metri. La trasformazione dei boschi di pino nero su una superficie di circa 10 ettari avverrà con la messa a dimora di 10.00 alberelli di roverella, orniello, ciliegio, tiglio, acero, betulla.
I lariceti di protezione in Val Venosta si trovano in un manifesto stato di degrado. Sono stramaturi, carenti di rinnovazione e presentano una scarsa stabilità dei popolamenti e scarsa azione di protezione: queste sono le problematiche principali. Nel territorio di Slingia su una superficie di ca 18 ettari verranno piantati, ad una quota variabile tra i 1900 ed i 2200 m s.l.m., in totale 10.000 alberelli a sostegno e rinnovazione del lariceto di protezione molto rado. In diversi settori verranno piantate prevalentemente conifere sempreverdi come il pino cembro e l`abete rosso, e questo per aumentare la protezione dalle valanghe.




Se il brand è social prezzi e acquisti ci guadagnano

Le aziende e i marchi che investono sulla responsabilità sociale d’impresa vengono premiate dal consumatore e ottengono quindi un ritorno economico. E’ quanto rivela la ricerca di Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsibility and Sustainability, condotta mediante interviste a 30mila utenti internet di 60 Paesi, tra i quali l’Italia. Lanciata allo scopo di analizzare il comportamento dei consumatori verso i temi della responsabilità sociale, l’indagine svela che nell’ultimo anno i brand attivi sotto il profilo etico registrano vendite in crescita di oltre il 4% rispetto alle altre, che in media salgono di meno dell’1%.
Non solo: oggi arriva globalmente al 66% la quota di consumatori che dichiarano di essere disposti a pagare di più per un brand “responsabile” (un anno prima erano il 55% e nel 2013 il 50%). Gli italiani, in particolare, si allineano alla media europea: accetta un prezzo superiore sui prodotti sensibili al sociale il 52% dei consumatori di casa nostra, in crescita di addirittura venti punti rispetto alla rilevazione del 2013.
In Italia, poi, la freschezza e la presenza di ingredienti naturali/biologici risultano l’elemento più importante per identificare un prodotto socialmente responsabile (61%), seguiti dalla presenza di benefici salutistici (53%). Queste indicazioni trovano conferma nella continua crescita del comparto biologico in Italia (866 milioni di euro, +14% nell’ultimo anno), degli alimenti alleggeriti (senza glutine, 101 milioni di euro +31%; meno grassi, 25 milioni +10%) e dell’integrale (235 milioni +11%). La fiducia nel brand si ferma al 53%, contro il 62% a livello globale.
Per gli italiani poi i valori che ruotano attorno alla tutela ambientale prevalgono su quelli più prettamente sociali. Il 41% ha acquistato uno specifico prodotto perché l’azienda produttrice è nota per essere amica dell’ambiente e il 38% per la confezione a basso impatto ambientale. Il 33% invece ha scelto per l’impegno sociale dell’impresa produttrice e il 31% per l’impatto diretto sulla propria comunità. L’impegno etico ripaga anche in termini di messaggio pubblicitario: se il 17% ha acquistato per avere visto la pubblicità del prodotto, questa percentuale sale al 21% se la pubblicità riguardava l’impegno sociale/ambientale del produttore. «Il consumatore» è la conclusione dei ricercatori di Nielsen «richiede sempre più prodotti buoni: buoni per l’acquirente e buoni per la comunità e l’ambiente. Un trend in continua crescita che rappresenta un’opportunità in termini di maggior potenziale di fatturato e crescita sostenibile dell’azienda».




Perché Lego non vuole vendere i suoi mattoncini all’artista cinese Ai Weiwei

Quanta pubblicità si è fatta la Campbell grazie a Andy Warhol e alle sue serigrafie con i barattoli di zuppa di pomodoro? E quanta se ne potrebbe fare la Lego se uno dei più grandi artisti contemporanei del mondo gli chiedesse una valanga di mattoncini per realizzare la sua prossima opera d’arte? Un’infinità. Eppure proprio l’azienda danese di costruzioni per bambini ha rifiutato ad Ai Weiwei la fornitura richiesta dall’artista cinese per completare l’installazione che dovrebbe esporre alla National Gallery of Victoria, in Australia. La ragione? Lego non vuole che i mattoncini più famosi del mondo vengano utilizzati per realizzare «un’opera politica». 
A denunciare il gran rifiuto dell’azienda è stato lo stesso artista su Instagram qualche giorno fa, ricevendo di tutta risposta numerose offerte di mattoncini da parte di privati, anche grazie all’hashtag #legosforweiwei. Da Berlino, dove al momento si trova, Ai Weiwei ha potuto annunciare il trionfale raggiungimento del numero di pezzi necessario. Quindi il progetto sarà completato. Si tratta di una serie di ritratti di attivisti australiani realizzati proprio con i mattoncini Lego per la mostra “Andy Warhol/Ai Weiwei” in programma a Melbourne. «Ero praticamente spacciato», ha detto l’artista in una conferenza stampa, «anche perché si trattava di un lavoro piuttosto importante, ma internet è un po’ come una chiesa moderna, uno confessa al prete i suoi problemi e la comunità se ne fa carico e trova anche la soluzione».

Polemica a parte, però, non convince del tutto la risposta fornita dall’azienda danese. Stando a quanto dichiarato dal portavoce della Lego, infatti, «il gruppo si astiene dal prendere parte attivamente o appoggiare l’uso del marchio Lego in progetti o contesti legati all’agenda politica». Posto che Lego può scegliere liberamente di sostenere o meno Ai Weiwei (tanto più che nessuno vieta all’artista di comprare quello che gli serve in un qualsiasi negozio), quello che l’azienda non dice è che affiancare il proprio marchio al nome dell’artista più odiato dal regime di Pechino sarebbe una mossa azzardata, visti gli interessi del gruppo in Cina.
Ai Weiwei ha collegato il no dell’azienda alla sua richiesta al fatto che il presidente Xi Jinping ha annunciato durante il suo viaggio in Gran Bretagna cheLego aprirà presto un parco di divertimenti Legoland a Shanghai. Ma basta questo per decidere di fare una figuraccia a livello mondiale? Forse.
Più probabile, invece, è che sia sufficiente il fatto che Lego abbia scelto proprio la Cina per costruire una mega-fabbrica dove spostare parte della produzione in Asia. Lo stabilimento, in cui dovrebbero lavorare circa duemila operai, è in costruzione dal 2014 e dovrebbe essere operativo dal 2017. Stando a quanto dichiarato dall’azienda sul suo sito ufficiale, la fabbrica di Jiaxing rappresenterebbe un punto fondamentale «per portare la produzione vicino a uno dei nostri mercati principali». Insomma, la Lego ha tutto l’interesse a non far infuriare il vecchio Dragone cinese.