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Dieselgate: abbiate pietà di una povera tedesca

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Il Dieselgate  che ha travolto Volkswagen non è solo americano, ma mondiale. Una delle aziende leader dell’automotive e della ricerca per l’efficienza ha smaccatamente mentito. E ora la fiducia è al collasso.
“Pietà quanta se ne vuole, ma non lodate le cattive azioni: date loro il nome del male”. Scriveva così il grande Fédor Dostoevskij. Vero: tra russi e tedeschi a volte nella storia non è corso buon sangue, ma il celebre romanziere e pensatore russo, quando scrisse questa frase, non poteva certamente pensare alla Volkswagen, nata oltre 50 anni dopo la sua morte.

Dieselgate: cronaca di una crisi annunciata

Riepiloghiamo in pochissime righe lo tsunami che ha investito ieri la multinazionale automobilistica di Wolfsburg, scandalo da alcune ore “hot topic” ovunque sul web, meritevole della prima pagina di pressoché tutti i quotidiani del mondo.
Secondo l’agenzia Bloomberg, la prima a lanciare la notizia, l’Epa – l’ente americano per i controlli ambientali – avrebbe riscontrato “significative anomalie” nei dispositivi per i gas di scarico delle auto diesel commercializzate da Volkswagen negli Stati Uniti. La società tedesca avrebbe deliberatamente progettato le vetture in modo tale da “aggirare” le normative antinquinamento, per poi venderle più facilmente sul mercato nordamericano. Una procedura che, oltre a frodare i consumatori, potrebbe nuocere alla salute dei cittadini, aspetto al quale negli Stati Uniti tengono moltissimo. Volkswagen sarebbe dunque al centro di un’indagine penale sia per truffa ai danni dei consumatori che per violazione delle severe norme antismog.
Più nel dettaglio – siete seduti comodi? – la ditta tedesca avrebbe deliberatamente montato sulle auto uno “speciale software” installato appositamente nella centralina elettronica e in grado di “riconoscere” quando la vettura è sottoposta ai test ambientali e ai collaudi, e di attivare, solo in quel caso, i dispositivi più efficienti contro le emissioni nocive in atmosfera, “disattivandoli” poi subito dopo, per migliorare le performance dell’autovettura.
Questo ingegnoso quanto diabolico sistema farebbe sì che il motore vada poi a produrre durante il normale utilizzo fino a 40 volte la quantità di ossido di azoto inquinante registrata prudenzialmente nella fase di “test”, quando il software si inserisce.
Una storia talmente irrealistica nei suoi contorni, da essere degna della pubblicazione su un sito “antibufale” di fact-cheking: impossibile pensare a una tale deliberata stupidità da parte di un marchio leader mondiale dell’automotive.
Se non fosse – purtroppo – vera, come parrebbe confermato dallo stesso numero uno operativo dell’azienda, Martin Winterkorn, che ha parlato attraverso un comunicato ufficiale ammettendo di “guardare con grande attenzione alle accuse”. Si apre ufficialmente il “Dieselgate”: Volkswagen ha sospeso le vendite di nuovo e usato in tutti gli Stati Uniti, e nominato una commissione d’indagine, mettendosi a completa disposizione di Washington per chiarire il più rapidamente possibile l’accaduto. Seguono nel comunicato – invero assai difficile da reperire sui siti web ufficiali dell’azienda – le “scuse verso tutti i clienti e i consumatori” per quella che sta rapidamente prendendo i contorni della più sconcertante truffa su larga scala che si sia mai vista in un intero secolo di storia del mercato automobilistico.

Le ricadute economiche del Dieselgate

Ora il gruppo rischia una multa fino alla stratosferica cifra di 18 miliardi di dollari, tanto che le reazioni in borsa sono state immediate, con un calo del 20 per cento del valore del titolo solo nelle ultime 24 ore.
Immediate anche le richieste di dimissioni dell’amministratore delegato, perché Winterkorn, oltre ad essere il numero uno del board, ha anche la responsabilità diretta sulla ricerca, sviluppo e progettazione dell’intero gruppo tedesco. Le richieste non lasciano spazi di manovra: se sapeva, deve dimettersi; se non sapeva, vista la sua posizione, deve dimettersi lo stesso, poiché se è possibile prendere decisioni su dossier così “delicati” e rischiosi senza che lui ne sia al corrente, significa che l’azienda è totalmente fuori controllo. E il nome di un preciso responsabile – un gruppo di persone, evidentemente, non certo un singolo – dovrà emergere: progetti di questo genere non s’improvvisano “in solitaria”, e una risposta in questo senso Winterkorn la deve non solo all’Epa, ma a tutti i clienti Volkswagen, alla Germania nel suo complesso, istituzioni e politica inclusi, e – viste le dimensioni che ha assunto lo scandalo – al mondo intero.
Dieselgte è una crisi aziendale di dimensioni stupefacenti, che chiama in campo parole come “autenticità”, “fiducia da parte dei clienti finali”, “evidente pregiudizio alla business continuity”. Fiducia – non solo in un’azienda, ma in un sistema paese, quello tedesco, che ha da sempre fatto della rigidità dei processi di controllo la propria “cifra” – già recentemente messa a dura prova con il disastro aereo della Germanwings, con il pilota tedesco suicida chiuso da solo dentro la cabina di pilotaggio, manovra resa possibile grazie all’assoluta inadeguatezza delle procedure di sicurezza aeree in vigore in Germania.
Sui social network l’ironia sul dieselgate impazza, con frasi del tipo “Attendiamo con fiducia che da Wolfsburg comunichino ufficialmente che l’iniziativa – e in definitiva la colpa – è di qualche dirigente di origine italiana; che il board Volkswagen era del tutto all’oscuro di questa vergognosa manovra; e che la casa automobilistica ha una lunga tradizione di rispetto della salute, dell’ambiente, dei consumatori, di Biancaneve, dei sette nani e di numerosi personaggi di Tolkien”.
Al netto del “fuoco sulla croce rossa”, una cosa è certa: le modalità di gestione di questa crisi di reputazione, nelle prossime ore e nei prossimi giorni, determineranno la qualità della sopravvivenza di una delle più solide case automobilistiche del mondo, con buona pace della “solidità e affidabilità tedesca” tanto sbandierate in ogni possibile occasione da Frau Merkel. E in queste ore, gli analisti più critici hanno anche sollevato un altro dubbio. Se Volkswagen ha imbrogliato in America, non potrebbe averlo fatto anche altrove?
To be continued…
 
AGGIORNAMENTO AL 24/09/2015:
Le reazioni dei principali quotidiani tedeschi al Dieselgte (rassegna tratta da Internazionale.it):

“È difficile capire perché la Volkswagen, nonostante i chiari vantaggi dell’operazione, abbia corso l’immenso rischio di essere scoperta”, scrive Holger Appel in un editoriale in prima pagina della Frankfurter Allgemeine Zeitung. “Un altro enigma è capire perché a lungo l’azienda non abbia reagito. Già dal maggio del 2014 le autorità di controllo e la Volkswagen discutono della discrepanza tra i risultati dei test e le prestazioni dei motori nell’uso quotidiano”.

Questo scandalo solleva interrogativi le cui risposte devono far tremare i piani alti di Wolfsburg”, la sede della casa automobilistica, sostiene Grischa Brower-Rabinowitch di Handelsblatt, secondo la quale “ora il capo della Volkswagen ha due possibilità per gestire la crisi: deve chiarire o dimettersi”.

“Le auto della Volkswagen non sono mai state a buon mercato sotto la guida di un manager fanatico della qualità come Martin Winterkorn, ma in nessun altro posto un consumatore spendeva meglio i suoi soldi per una macchina”, recita l’editoriale – non firmato — del quotidiano conservatore “Die Welt”: “La Volkswagen era sinonimo di solidità. Era il fiore all’occhiello dell’ingegneria tedesca. Dallo scorso fine settimana questa immagine è rovinata”.

Il capo della casa automobilistica è sotto accusa perché non poteva non sapere della truffa, sostiene l’editorialista Ulrich Schäfer sulla Süddeutsche Zeitung: “Martin Winterkorn sa bene che il capo della Volkswagen non si interessa solo delle grandi linee e della strategia complessiva, ma dell’ultima vite e di ogni minimo dettaglio del motore”.

“I danni sono immensi”,secondo Stefan Sauer del Frankfurter Rundschau. “Soprattutto quelli provocati alla salute attraverso le polveri sottili e i gas velenosi. Nelle città tedesche i valori di soglia di questi elementi sono regolarmente superati e in tutto questo i motori diesel hanno la loro parte. Secondo il Max-Planck-Institut, ogni anno in Germania le polveri sottili provocano la morte di 35mila persone. Un’impresa che per vendere di più manipola i valori di queste sostanze si comporta in modo criminale”.

“Scandalo è una parola troppo debole per descrivere quello che è successo alla Volkswagen e quello che significa per l’automobile tedesca, la sua immagine nel mondo, le sue prospettive di successo e, più in generale, per la fama dell’ingegneria tedesca”, scrive Christoph von Marschall per Der Tagesspiegel, secondo il quale “questa truffa danneggia il marchio Germania”.

Edit del 03/09/2019 h. 18.00:
A tre anni dallo scoppio dello scandalo “Dieselgate”, Volkswagen ha sicuramente reagito, e bene, con una efficace strategia di recovery sul lungo periodo, ben descritta in questo articolo de IlSole24Ore




Vw ammette l'inganno e sospende la vendita dei diesel negli Usa

Martin Winterkorn ammette che Volkswagen ha frodato sui test antinquinamento negli Usa: in un comunicato diffuso domenica, l’amministratore delegato del gruppo Volkswagen afferma che “le autorità hanno accertato delle manipolazioni da parte di Vw dei test sulle auto con motori diesel”. Un portavoce dell’azienda ha confermato a “Die Welt” che Vw ha ammesso le manipolazioni. “Il board della Volkswagen – prosegue Winterkorn nella nota – prende molto sul serio le violazioni accertate. Io sono personalmente profondamente dispiaciuto che abbiamo deluso la fiducia dei nostri clienti e del pubblico”. Il manager assicura che Vw “collabora con le autorità per chiarire la cosa completamente e il più presto possibile”. Vw ha anche affidato a una società esterna l’incarico di condurre un’inchiesta sul caso, e ha sospeso con effetto immediato la vendita dei modelli equipaggiati con il motore diesel 2 litri “incriminato”, che negli Usa sono Golf, Jetta, Passat, Maggiolino e Audi A3.
Visti i precedenti della concorrenza, è possibile che lo stesso manager (o qualcuno dei suoi sottoposti) sia costretto a chiedere scusa in pubblico di fronte al Congresso, come era accaduto a Mary Barra di Gm e Akio Toyoda della Toyota. La prima per il caso dei blocchetti di accensione difettosi, per il quale Gm è stata colpita di recente dal dipartimento della Giustizia con una multa da 900 milioni di dollari; Toyoda cinque anni fa, per lo scandalo dei veicoli che acceleravano improvvisamente senza che il conducente potesse frenarli.
Il caso Vw è scoppiato quando l’Epa, l’ente americano per la protezione dell’ambiente, ha scoperto che le vetture Volkswagen e Audi con motore diesel 2 litri (lo stesso che equipaggia moltissime auto del gruppo Vw vendute in Europa) emettono molti più ossidi di azoto in condizioni normali che non durante i test specifici. Dopo lunghe ricerche ed esperimenti, ha scoperto che responsabile è un software – installato appositamente nella centralina motore – che riconosce le condizioni di test e attiva solo in quel caso i dispositivi più efficienti contro le emissioni; questi ultimi sono invece disattivati durante la guida normale, e il motore produce quindi da 10 a 40 volte la quantità di ossidi di azoto dichiarata in base ai test. Volkswagen ha ammesso che i veicoli contenevano effettivamente il software incriminato.
Perché lo avrebbe fatto? Secondo gli esperti, i dspositivi che limitano le emissioni di azoto fanno consumare di più il motore, e quindi emettere più CO2; potrebbero inoltre limitarne le prestazioni, in particolare la coppia motrice che è uno dei punti di forza dei motori diesel rispetto a quelli a benzina. A questo punto lo scarso successo del motore diesel negli Usa, motore di cui le case tedesche e soprattutto Volkswagen si sono fatte paladine, è destinato a subire un duro colpo. Gli americani, come del resto i giapponesi, sono convinti da sempre che il diesel sia un motore intrinsecamente sporco e inadatto alle autovetture; il caso Vw non farà che rinconfermare questa loro opinione.
In base alla normativa dell’Epa, Vw rischia una multa complessiva colossale: fino a 18 miliardi di dollari; secondo un report diffuso ieri dalla Alliance Bernstein, la sanzione difficilmente arriverà al massimo previsto, anche perché potrebbe essere commisurata alle dimensioni della sola Vw negli Stati Uniti e non del gruppo nel suo insieme. Da un lato, il caso Volkswagen è grave poiché è accertata (e ammessa dall’azienda) la volontà di frodare i test; dall’altro, non vi sono prove di decessi dovuti all’eventuale inquinamento da ossidi azoto maggiore di quanto dichiarato. La sola multa potrebbe però facilmente superare gli 1,2 miliardi di dollari cha la Toyota pagò nel 2010; senza contare il costo dei richiami, i danni di immagine e le eventuali conseguenze penali. La stima del mercato sulle conseguenze finanziarie dello scandalo su Vw si potrà vedere oggi alla riapertura del titolo in Borsa.




La Ragazza che conquista l’Europa

Fino a tre anni fa era solo un’utente molto attiva di Yelp, sito americano di recensioni collettive. Oggi Miriam Warren guida da Londra l’espansione in Europa della società, che fa affari segnalando pregi e difetti delle attività locali.
Se c’è un indirizzo, lo puoi trovare su Yelp.
C’è un’azienda californiana, la classica start up della Silicon Valley, nata in un garage per iniziativa di due giovani intraprendenti, che imbrocca l’idea giusta, capace di attrarre l’attenzione di centinaia di migliaia di persone su Internet. L’idea è quella di far recensire dagli utenti, sul sito, non solo alberghi e ristoranti, come fa ad esempio Tripadvisor, ma anche molte altre attività, dai negozi ai bar, dai parrucchieri alle estetiste, dai dottori agli avvocati; a tutte queste imprese viene data la possibilità di segnalare le proprie offerte, come fanno Groupon, Jumpin e gli altri siti di social shopping.
E c’è una ragazza californiana, con molto tempo libero a disposizione, che si mette a recensire centinaia di negozi e servizi dell’area di San Francisco; tutte recensioni ben scritte e documentate, che catturano l’interesse non solo degli altri utenti, ma anche dei manager della società. “Una così non dobbiamo lasciarcela sfuggire”, si dicono. Così la convocano nella loro sede – che nel frattempo non è più un garage, ma un grande palazzo di San Francisco – e le offrono un lavoro.
La società si chiama Yelp ed è stata fondata nel 2004 da Jeremy Stoppelman e Russel Simmons, due ingegneri informatici di PayPal. ‘Incubata’ da Mrl Ventures, nel giro di quattro anni cresce tanto da attirare l’attenzione di Google, che nel 2009 offre 500 milioni di dollari per comprarla. L’anno dopo Microsoft mette sul piatto 700 milioni. Finora però i due fondatori hanno resistito alle lusinghe e respinto le proposte d’acquisto. Ora puntano sulla quotazione in Borsa, convinti di poter crescere ancora con le proprie forze e con il sostegno del mercato. Il 17 novembre la società ha avviato la procedura presso la Sec (l’equivalente americano della nostra Consob) per l’offerta pubblica di acquisto. Tra gli advisor, Goldman Sachs, Citigroup, Jefferies & Company, Allen & Company e Oppenheimer, cioè alcuni dei nomi più noti della finanza e della consulenza americane. Nel frattempo Yelp ha raccolto giudizi lusinghieri, come quello di Steve Jobs: su YouTube c’è un video che mostra il mitico fondatore della Apple dichiarare: “Quando la gente vuole trovare un posto per mangiare, guarda su Yelp”.
La ragazza, invece, si chiama Miriam Warren. Ha partecipato alla sua prima start up a 14 anni, mentre frequentava le scuole superiori all’A-Tech (Advanced Technologies Academy) di Las Vegas. Laureatasi in antropologia al Mills College di Oakland (California), ha lavorato prima nell’executive search e poi in McKesson, multinazionale americana della salute. Nel 2007 entra in Yelp: è la prima community manager dell’area di Washington Dc, poi diventa responsabile dei team dei community manager, i giovani che mantengono vivo il dialogo tra i frequentatori del sito, della East Coast.
La caratteristica che distingue Yelp dalle altre iniziative del genere è la capacità di creare una vera comunità di utenti intorno al sito, gente che si ritrova tutti i giorni on line per vedere cosa hanno scritto gli amici e mettere i propri commenti, ma che si incontra anche nella vita reale, organizza incontri, feste, giornate di shopping. È questa la vera forza di Yelp, che oggi può contare su oltre 22 milioni di recensioni: gli utenti scrivono, raccontano le loro esperienze e valutano negozi e servizi attribuendo loro delle stelle, come quelle degli hotel.
Dagli Stati Uniti Yelp è dilagata nel resto del mondo. Questo genere di attività, basato su una piattaforma informatica e sulla collaborazione degli utenti, sembra fatto apposta per espandersi a macchia d’olio, come del resto confermano tutti i social network, da Facebook in giù. Miriam Warren ora guida da Londra l’espansione della società nei Paesi europei. In Italia Yelp è partito in settembre e Miriam è venuta nel nostro Paese per il taglio del nastro. In quella occasione le abbiamo posto alcune domande sul suo lavoro e sul business di Yelp.
Prima – Quali sono le vostre fonti di ricavo?
Miriam Warren – Yelp fa soldi attraverso la pubblicità. La fonte principale di ricavi è la pubblicità locale. Gli imprenditori possono pagare a Yelp una commissione mensile per promuovere i loro beni e servizi. Otteniamo ricavi anche facendo pubblicità ai brand, tramite i banner che si vedono sul sito. Attualmente Yelp è a pagamento per gli operatori solo negli Stati Uniti; in Europa il business è ancora troppo giovane.
Prima – Quali sono stati i risultati nel 2010 e quali sono le previsioni per quest’anno?
M. Warren – Nel 2010 siamo partiti in quattro Paesi: Francia, Germania, Austria e Olanda. È stato un anno importante per Yelp in Europa, dal momento che queste nazioni rappresentano il nostro debutto in mercati diversi da quello anglosassone. La comunità degli ‘yelper’ a Parigi, Monaco, Vienna, Berlino e Amsterdam sta crescendo rapidamente e ci sono tutti i motivi per credere che questo trend continuerà anche nei prossimi mesi. Quest’anno siamo partiti in Spagna, a maggio, e siamo felici di aver debuttato in Italia a settembre. Inoltre continuiamo ad aggiungere città nelle nove nazioni in cui Yelp è già presente. In questo momento di crisi economica per noi è una sfida diventare ancora più competitivi, perché i consumatori ci pensano bene prima di fare qualsiasi acquisto; Yelp può dare una mano per cercare la qualità, l’affidabilità e il valore prima di spendere denaro. Il sito inoltre è un eccellente strumento per le imprese che vogliono segnalare le proprie offerte ai consumatori.
Prima – Aprirete una sede in Italia?
M. Warren –
Attualmente Yelp ha uffici a San Francisco, Scottsdale (Arizona) e New York. Abbiamo anche un piccolo ufficio marketing a Londra. Ma la maggioranza dei nostri addetti al marketing lavora da casa, via computer. I nostri community manager di Milano e Roma lavorano da Internet cafè, scuole, biblioteche, parcheggi e ogni altro luogo da cui si può accedere a Internet. Consideriamo i nostri community manager il volto e la voce di Yelp. Così diventano i nostri ambasciatori nelle varie città. Intendiamo diventare la più grande guida locale per il pubblico di Milano e Roma. Prima – Chi guida l’attività in Italia? M. Warren – Come negli altri Paesi europei, seguo direttamente io il business da Londra, anche come country manager per l’Italia. Prima – Avete qualche obiettivo particolare per il nostro Paese? M. Warren – Visto che i consigli locali sono molto utili anche per i turisti, ci aspettiamo che Yelp diventi una fantastica risorsa per il turismo italiano.
Prima – Quali sono i vostri punti di forza?
M. Warren – La profondità e l’ampio respiro dei contenuti. Yelp è uno strumento sociale di ricerca. Il sito cerca di incuriosire gli utenti mostrando tutte le attività più interessanti e insolite che ci sono nei dintorni. Ed è anche uno strumento per diffondere notizie su eventi e spettacoli. Nell’ultimo mese abbiamo avuto cinque milioni di accessi attraverso telefoni cellulari, e più di un terzo di tutte le ricerche sono fatte tramite apparecchi mobili. Quindi è uno strumento molto utile per prendere decisioni mentre si è in movimento.
Prima – Che differenza c’è tra Yelp e Tripadvisor, il noto sito di recensioni di hotel e ristoranti?
M. Warren – Yelp si occupa di tutte le attività locali, non solo di quelle turistiche. Circa il 25% dei 22 milioni di recensioni su Yelp riguardano ristoranti. Ma la maggioranza del sito è fatta di recensioni di tutt’altro genere: si parla di negozi, dentisti, dottori, palestre, eccetera. Yelp è veramente una guida locale per ogni esigenza della tua vita. Il nostro motto è: se ha un indirizzo, lo puoi trovare su Yelp.
Prima – A proposito di business, ho visto che oltre alle recensioni, Yelp propone anche delle offerte speciali, i daily deals, simili alle offerte di Jumpin, Groupon e Facebook: cosa sono esattamente e cosa rappresentano per Yelp?
M. Warren – Il mese scorso 63 milioni di persone hanno visitato Yelp per decidere dove spendere i loro soldi. Questo rende il sito un posto ideale per gli imprenditori che vogliono fare delle offerte speciali sui loro prodotti e servizi e farsi conoscere a nuovi potenziali clienti. Le imprese possono segnalare le offerte anche via e-mail. Incoraggiamo gli imprenditori a proporre offerte economicamente sostenibili nel medio e lungo termine. Il nostro rapporto con gli inserzionisti vuole essere di lunga durata.
Prima – Può raccontarci la sua storia? Come è arrivata a diventare una professionista delle recensioni?
M. Warren – Sono nata in Germania da madre tedesca e padre filippino e sono cresciuta a Las Vegas. Ho studiato antropologia in un’università della West Coast, discutendo una tesi sulla formazione dell’identità etnica nella mescolanza di razze filippino americane. Ho cominciato la mia carriera professionale come selezionatrice di personale in una società specializzata. Poi ho lavorato nel campo dell’executive search, esperienza che mi serve molto ora che debbo cercare talenti in tutta Europa. Infine ho lavorato in una multinazionale della sanità, la McKesson. Sono arrivata a Yelp quasi per caso. Ho cominciato a scrivere recensioni per Yelp a San Francisco e il sito è diventato rapidamente parte della mia vita, tanto che nel 2007 mi sono trasferita a Washington per diventare la prima community manager della capitale.
Prima – Ma perché ha cominciato a scrivere queste recensioni?
M. Warren – Gli amici mi chiedevano sempre consigli su dove portare la fidanzata a cena o dove comprare scarpe al prezzo più conveniente. Ho scritto più di mille recensioni e ho scoperto che anche alcune persone in Yelp si affidavano ai miei consigli. L’ho scoperto quando mi hanno chiamato per offrirmi un lavoro.




Ora i marchi si fanno il loro tiggì

Airbnb inaugura il bollettino delle buone notizie. Bormioli Rocco si racconta con le ricette.
News senza brand, il consumatore è immerso nelle loro storie

Non è solo sulle iniziative social che si gioca la partita della creatività e dell’audience tra i grandi marchi. Perché c’è chi, come il colosso online degli affitti tra privati AIRBNB, è arrivato a confezionarsi addirittura un telegiornale di buone notizie e diffonderlo su YouTube per creare intrattenimento intorno al brand.
La società dell’ospitalità in casa d’altri, che ha anche un magazine cartaceo, “Pineapple”, ha arruolato un ex mezzobusto della BBC, il giornalista Peter Sissons, organizzando uno studio simile a quello dei grandi notiziari, con il brand Airbnb visibile a inizio trasmissione, e poi ha lanciato una serie di programmi brevi  di 6 minuti e 30 secondi in tutto, dedicati a tre buone notizie raccontate con lo stile da tg di prima serata.
A orchestrare quello che – tradotto in italiano – è il “bollettino quotidiano della gentilezza”, è stata TBWA/Chiat/Day, l’agenzia online che si definisce una “disruption company”, di rottura, insomma. E la trasmissione, che viaggia nel solco della campagna di Airbnb “Is mankind” (“è l’umanità”), apre un canale di comunicazione alternativo per il sito che vuole sottolineare la normalità di viaggiare ni casa altrui e la gentilezza del mondo. “L’idea della news è molto nuova, qui il consumatore è immerso nel contenuto”, spiega Margherita Pagani, professore associato di digital marketing alla Emilton Business School (Francia) e alla Bocconi di Milano. “Penso alla differenza con il classico engagement, di tipo social: questo è un coinvolgimento di tipo ‘personale’ che va dritto al punto non per fare pubblicità ma incollare lo spettatore al racconto”:
Il Daily kindness bulettin”vuole raccontare argomenti felici, che non fanno notizia”, dice il conduttore a inizio trasmissione. E la frase non potrebbe essere più azzeccata viste le poche migliaia di like contro gli oltre 2 milioni di contatti della campagna del marchio Is Mankind. Ma la novità è che tra le storie a lieto fine del tiggì, il marchio Airbnb resta in disparte, un po’ come gli sponsor dei telefilm o delle partite di calcio a inizio trasmissione: “in questo modo diventa ancora più parte del racconto, diventa ancora più familiare”, aggiunge Pagani. “Gli studi effettuati fino ad oggi nel progetto di ricerca sulla Brand Love di Bocconi mostrano la tendenza delle aziende ad essere social, ma anche a definire contatti diretti. Qui l’azienda fa leva sulle notizie felici anche se poi l’ambito è molto più ampio, perché il business riguarda l’ospitalità. Il massimo è combinare i due aspetti: social e personal”.
Che per i marchi sia fondamentale lavorare intorno ai “pilastri” valoriali oltre che sul prodotto lo sottolinea anche Alberto Guglianda, ceo di TG Adv che per l’italiana Bormioli Rocco ha chiamato, fra gli altri, un’ex comparsa di un tiggì, seppure satirico, come Maddalena Corvaglia. L’idea è di raccontare ricette e promuovere esperienze intorno al best seller, ovvero i vasetti per le conserve. Quattro stagioni, protagonisti di un progetto di riposizionamento che coinvolge 11 testate digitali, celebrità e blogger, in collaborazione con l’agenzia Personal Media.
“Per noi si tratta di un evento  nell’evento, visti anche i touch point a Expo Milano”, spiega il capo di Tg Adv. “Quello digitale è un ambiente che permette di lavorare sulla quotidianità. In questo progetto le caratteristiche intrinseche del brand si sposano con quelle del personaggio. Nel caso della Corvaglia, ad esempio, trattasi di una donna che ha poco tempo, mamma, e che non è una cuoca esperta”. Su ButtaLaPasta.it e Youtube i video raccontano tutto questo insieme ai prodotti e alle ricette: dalla marmellata artigianale, all’aperitivo in casa, fino alla colazione della domenica in famiglia.
L’iniziativa di Airbnb? “Anche qui si vuole sottolineare un topic principale, la felicità”, commenta Gugliada. “In se non è un vero Tg, ma si raccontano le notizie attraverso un pilastro del brand. Più che un format per un nuovo posizionamento, l’obiettivo è di far parlare di se. Nel mondo dell’ospitalità stanno arrivando tanti competitor. Il marchio esce dal concetto funzionale per entrare in quello relazionale”:
Se il tg Airbnb arriverà in Italia è presto per dirlo. La società, che ha nella Penisola il suo terzo mercato ed è celebre per l’immediatezza delle risposte alle prenotazioni, non ha rilasciato dichiarazioni in merito.




NEGOZIO LEGGERO: LA SPESA CHE NON PESA

Si arriva muniti del proprio barattolo del caffè o del vuoto del detersivo per i piatti da Negozio Leggero. Se ve lo siete dimenticati però, c’è sempre la possibilità di acquistare a pochi centesimi un contenitore, che poi ovviamente riutilizzerete le volte successive. Da Negozio Leggero non troverete né scatole di cartone né involucri di plastica dai colori ammalianti e dalla forma accattivante.

Come dice il nome, Negozio Leggero, prevede di farvi tornare a casa con tutto ciò di cui avete bisogno per preparare ottime cene, per pulire la casa e per curare il corpo, senza appesantirvi dell’inutile imballaggio che, appena finito di consumare il prodotto, rimane lì, inerte, ad accumularsi insieme al resto della spazzatura.

Da Negozio Leggero la pasta, così come i legumi, è sfusa, contenuta all’interno di profonde vaschette circolari e acquistabile a peso. Il caffè viene macinato sul posto. I detersivi per la casa vengono erogati alla spina da piccole taniche, mentre i cosmetici sono ridotti a capsule da reinserire dentro le proprie mini trousse. Tutto è a vista, ogni prodotto con i propri colori e forme.

Qualche nonna – la mia è tra quelle! – non ci troverà nulla di strano in questa modalità di vendita e di consumo: fino a cinquant’anni fa così si acquistava in qualsivoglia drogheria. Molte di quelle nonne tornano ora entusiaste, ma insieme con loro non mancano le giovani madri, piuttosto che gli universitari che abitano nel quartiere.
Siamo a Torino, in una zona popolare del centro. Sono pochi i mini-market ancora attivi. Apre i battenti qui Negozio Leggero, in via Napione 37. Non soltanto una nuova attività commerciale, ma un modo per riattivare il concetto di negozio di prossimità, attraverso la diffusione di una nuova (specie per i più giovani) filosofia di consumo.
L’idea nasce circa un anno fa all’interno dell’ente di ricerca scientifica e ambientale Ecologos, impegnato da tempo a promuovere progetti in grado di sostenere comportamenti responsabili, il cui approccio può essere sintetizzato nel tentativo di non cercare di trovare soluzioni in coda al problema ma analizzare il processo che lo genera e risolverlo alla fonte. Quando il problema da affrontare è la riduzione dei rifiuti da imballaggio, la vendita sfusa può essere un’ottima soluzione, perché eliminando l’inutile confezione con cui si porta a casa il contenuto, possiamo risparmiare l’energia, l’acqua e le emissioni di CO2 che servono per produrlo.
Su queste basi, sono nati il progetto “Detersivi self-service” – al momento presente in Piemonte, Lazio e Umbria in alcuni supermercati della grande distribuzione – “Fontana leggera” – che prevede un’erogazione di acqua frizzante dalle fontanelle comunali – e, infine, Negozio Leggero, per la cui realizzazione Ecologos collabora con la cooperativa Rinova.
Negozio Leggero rappresenta un momento di verifica dell’effettivo cambiamento di mentalità da parte della gente. Il supermercato, luogo di passaggio e di grande affluenza, è un ambiente difficile dove capire l’incidenza di un progetto su un dato comportamento, mentre il negozio di prossimità, dedicato a promuovere esclusivamente un dato tipo di acquisto è maggiormente esposto al giudizio e alla sensibilità delle persone”. A raccontarci i retroscena del progetto è Lidia Signori, ricercatrice presso Ecologos. Ci conferma il successo dell’iniziativa e senza celare una meritata soddisfazione ci parla anche dell’idea di trasformare questo primo negozio sperimentale in un franchising da diffondere in tutta Italia. Un business che porta con sé una visione: “Per noi Negozio leggero è innanzitutto un progetto culturale che intende promuovere un modo di consumare diverso, più consapevole e responsabile. Qui i prodotti vengono selezionati sulla base di produzioni a km 0, senza prescindere da varietà e scelta, e desideriamo che le persone presenti in negozio siano preparate sui prodotti che vengono venduti, sappiano raccontarne la provenienza e le caratteristiche, stimolando anche la curiosità e l’attenzione di chi si ferma per comprare. Ci piace che il negozio non sia fai-da-te ma che il fatto di essere serviti sia anche occasione per saperne di più“.
Un negozio che oltre alla conoscenza del prodotto non dimentica neanche la questione prezzo. Dove la qualità dell’offerta infatti è pari, se non superiore, a qualsiasi altro mini-market o bio-shop, il salto dell’imballaggio nella filiera produttiva garantisce anche un risparmio economico non marginale per chiunque scelga Negozio leggero. Si va dal 30 al 50% di spesa in meno.
Negozio, leggero per le braccia ma anche per le tasche, dunque.