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Intervista al Dott. Pier Mario Biava

Intervista al Dott. Pier Mario Biava

Medico del lavoro, già Primario di Medicina del lavoro all’ospedale di Sesto San Giovanni e Docente alla Scuola di Specializzazione di Medicina del Lavoro di Trieste, Pier Mario Biav attualmente lavora presso l’Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico Multimedica di Milano. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e di alcuni libri: “L’aggressione nascosta – Limiti sanitari di esposizione ai rischi” edito da Feltrinelli, “Complessità e biologia” edito da Bruno Mondadori e “Il cancro e la ricerca del senso perduto” edito da Springer. È presidente onorario di Redonda Onlus (www.redonda.it) e della Fondazione per la Ricerca delle Terapie Biologiche del Cancro e vice presidente della Società Scientifica International Academy of Tumor Marker Oncology. Fa parte dei comitati scientifici di alcune riviste internazionali nel campo dell’oncologia e dell’epidemiologia

Come è nata la Sua pista di ricerca nell’area oncologica?

Sono un medico del lavoro, quindi neanche un oncologo tradizionale, ma da moltissimi  anni, fin dalla fine degli anni ’70, m’interesso di cancerogenesi ambientale, cioè dello studio di quegli elementi nell’ambiente che ci circonda che possono causare il cancro. Ero all’Università di Trieste, allora, e mi ero interessato in modo particolare di problemi relativi all’esposizione dell’amianto, che incrociava direttamente l’area del mio lavoro. Lì a Trieste non erano segnalati casi di malattia professionale di mesotelioma della pleura (un tipo di tumore causato dalle fibre di amianto disperse nell’aria) e a me la cosa sembrava strana: ho fatto una ricerca retrospettiva negli archivi degli Ospedali Riuniti e ho trovato ben centoventi casi di tumori non diagnosticati. Così Trieste è diventata una delle città con la più alta incidenza di mesoteliomi in Italia. Peraltro a Trieste queste ricerche hanno portato dopo alcuni anni a sospendere l’utilizzo dell’amianto sia nei cantieri navali che nel porto, quindi queste indagini hanno  avuto un impatto positivo molto importante a livello locale, perché mentre in Italia è andato avanti l’utilizzo dell’amianto ancora per anni, a Trieste l’hanno bloccato completamente molto prima.

Un successo notevole

Si, questo era già un successo, si sono impegnate le organizzazioni sindacali e in pratica hanno fatto un contratto con i cantieri navali di Trieste e Monfalcone e con il Porto di Trieste per non utilizzare più l’amianto. Da allora mi sono interessato di più, in modo approfondito, dei problemi legati alla cancerogenesi ambientale, e quello che mi aveva colpito erano i diversi effetti che si hanno a seguito della  somministrazione di cancerogeni  durante la gravidanza.

Cioè
l’esposizione a fattori di rischio durante la gravidanza?

Sì, andando a studiare la letteratura scientifica internazionale sugli effetti dei cancerogeni in gravidanza mi ero accorto che questi erano la causa di due effetti molto diversi: se si somministrano i  cancerogeni durante l’organogenesi, cioè nel periodo in cui si formano tutti gli organi e apparati dell’embrione, non si riesce mai a indurre tumori nella prole, si inducono solo malformazioni ma non tumori; poi invece, finita l’organogenesi, se si somministrano gli stessi identici fattori cancerogeni si inducono tumori nella prole. Allora la domanda era: perché in presenza degli stessi identici fattori cancerogeni prima io induco delle malformazioni e dopo induco dei veri e propri tumori? Questa domanda me ne generò naturalmente un’altra: che cosa succede durante l’organogenesi? Ebbene, in quel periodo di vita dell’embrione si differenziano tutti gli organi e tutti i tessuti, cioè da una cellula staminale embrionale totipotente attraverso vari stati di differenziazione si formano tutte le cellule del nostro organismo. Allora mi dissi: vuoi vedere che durante il processo in cui le staminali si differenziano esistono delle sostanze regolatrici che sono in grado di “correggere” il comportamento delle cellule tumorali? La pista di ricerca era assai intrigante, ed è facilissimo intuirne l’importanza: compreso il meccanismo di regolazione, si sarebbe fatto un enorme balzo avanti nella cura di certe forme di tumore…

Quindi
è partita da lì, l’intuizione era basata sulla differenziazione delle
staminali…

Da lì, esatto, questa è stata la storia di questa ricerca, è partita dalla medicina del lavoro, che è il mio campo, e dagli studi sulla carcerogenesi ambientale, e a un certo punto quando ho capito che quella strada poteva essere giusta, non l’ho più abbandonata. A quel punto, bisognava fare tutti gli esperimenti, erano gli inizi degli anni ‘80, stiamo parlando di tempi lontani. Il primo lavoro infatti l’ho poi pubblicato  nel 1988 su “Cancer Letter”, e già parlava in modo chiaro della possibilità di far ritornare i tumori ad un comportamento normale, cioè l’idea originaria è stata proprio sempre quella di “correggere il comportamento” delle cellule tumorali, pensando a queste malattie come malattie in parte reversibili. Questo concetto non era assolutamente accettato, all’epoca, e inoltre io venivo visto in modo anche abbastanza strano perché non ero un oncologo ortodosso

Immagino che anche questo abbia contribuito all’inizio ad una certa
diffidenza…

All’inizio è stato molto  difficile, sembrava una specie di  “eresia”, anche se com’è ovvio io non proponevo di curare in modo balzano i tumori, bensì inseguivo una ben precisa pista di ricerca scientifica assai seria, però il nuovo genera sempre diffidenza

Lei per contro l’ha percepita come una sfida?Si, un po’ come una sfida, mi sentivo dire “Interessante, ma questo medico ricercatore non ha le carte in regola, non è dei nostri”. All’inizio è stato molto, molto difficile. Però naturalmente da lì è partito tutto lo studio dei rapporti fra cellule staminali e cancro, e da lì è partito anche il rapporto con Guna, l’azienda leader in Italia nella ricerca sulle medicine non convenzionali, perché già da allora avevo chiaro che per correggere il comportamento di una cellula tumorale non bastava utilizzare una singola molecola come propone la medicina convenzionale, ma occorreva un network di molecole che potesse correggere il comportamento di queste cellule tumorali. Mi spiego: la mia intuizione, se così possiamo dire, era che le cellule tumorali erano nient’altro che cellule staminali mutate, bloccate in una fase di moltiplicazione compresa fra due stadi di differenziazione cellulare. A loro mancherebbe l’informazione per procedere nel  normale sviluppo e andare avanti nei processi differenziativi. Allora, se noi diamo a queste cellule tumorali le informazioni per procedere nel loro regolare sviluppo, vengono bypassate le mutazioni che sono all’origine della malignità e le cellule tornano a differenziarsi e si normalizzano.

Dottore, questa sarebbe niente meno che la cura per il cancro, si rende
conto?

Certo
che mi rendo conto, ma vorrei frenare gli entusiasmi: tutto ciò è vero per ora
solo per certi tipi di cellule, e siamo ancora a livello sperimentale. Tuttavia
gli esperimenti sono confortanti, gli esperimenti in vitro che abbiamo fatto
hanno dimostrato quanto ho detto. Abbiamo studiato otto linee di diversi tumori
umani e le abbiamo trattate con proteine prelevate da embrioni di Zebrafish, piccoli
pesci i cui embrioni sono usati come modelli di studio del differenziamento
cellulare. I modelli di studio sono quattro: la Drosophila
melanogaster
cioè il moscerino della frutta, il Caenorhabditis
elegans
cioè un verme nematode, lo Xenopus
Laevis
che è la rana, e il Brachydanio Rerio,
che è appunto lo Zebrafish. Fra tutti quello più vicino all’uomo da un punto di
vista evolutivo è il Brachydanio Rerio, lo Zebrafish, che ha circa il 95% di
proteine simili all’uomo. Quindi con i laboratori di ricerca di Guna, con la
Dottoressa Carluccio e con il Dottor Pizzoccaro, avevamo deciso già da allora
di studiare in modo preciso lo Zebrafish e loro avevano quindi allestito degli
acquari per la ricerca, allevavano questi pesci e io per gli esperimenti ne
utilizzavo gli embrioni prelevati in precisi momenti del differenziamento
cellulare, perché naturalmente bisognava conoscere quando le cellule staminali
si differenziavano.

Nel momento preciso…

Si, nel momento preciso, perché queste proteine non sono sempre attive come agenti di differenziazione durante tutto l’arco della vita embrionale, ma solo in precisi momenti. Abbiamo identificato il momento in cui questi fattori di differenziazione erano maggiormente presenti, scegliendo per esempio l’inizio della differenziazione delle cellule staminali da totipotenti a pluripotenti, cioè abbiamo scelto il periodo in cui l’embrione era allo stadio di medio-blastula-gastrula, ovvero il momento in cui dalla cellula staminale totipotente si formano tre cellule staminali pluripotenti che sono l’endoderma,  l’ectoderma e  il mesoderma. Questa era la prima fase, poi andando avanti negli studi abbiamo individuato altre fasi, e alla fine ci siamo resi conto che le fasi di differenziazione delle cellule staminali sono cinque, e anzi questo studio mi è servito anche per concepire un modello di differenziazione cellulare che interpreta in modo molto chiaro come avviene il fenomeno del differenziamento.

Questa
ricerca quindi rappresentò un’innovazione, anche già in questa fase iniziale,
dico bene?

Fu un trovare conferme, innovative per l’epoca, su cose che si sospettavano ma per le quali non vi era ancora una prova scientifica certa. In fondo la vita – pur nella sua complessità – per formarsi utilizza degli algoritmi molto semplici. Ci siamo resi conto che gli stadi di differenziazione come le dicevo sono cinque: da cellula staminale totipotente a pluripotenti, da plutipotenti a multipotenti, da multipotenti a oligopotenti, da oligopotenti a cellule in via di differenziazione definitiva, infine cellule completamente differenziate. Cinque stadi. Se noi pensiamo che per ogni stadio da una cellula progenitrice si formano tre cellule figlie, e  ripetiamo l’evento cinque volte, il numero di cellule completamente differenziate da che cosa è dato?  Da una potenza che ha per base 3 ed esponente 5: 3⁵, quindi sono duecentoquarantatre cellule somatiche, a cui, se noi aggiungiamo le cellule germinative, che sono nove tipi, cioè le cellule sessuali maschili e femminili che si differenziano  per  una via diversa rispetto alle cellule somatiche, il numero di cellule completamente differenziate sale a duecentocinquantadue. Su miliardi di cellule, sa quante sono le cellule del nostro organismo, come tipologia? Duecentocinquantadue, appunto. Quindi con una formula matematica tutto sommato molto semplice noi interpretiamo come si sviluppa la vita. Allora il problema vero per trovare una terapia efficace dei tumori è quello di regolare e differenziare le cellule staminali mutate prima dell’ultima differenziazione definitiva.

Tra
la quarta e la quinta differenziazione, quindi?

Tra la prima e la seconda, tra la seconda e la terza, eccetera, e in rapporto alla diversa malignità dei tumori noi dobbiamo utilizzare diversi fattori di regolazione, perché tra l’altro con questo modello noi abbiamo interpretato anche quante sono le malattie tumorali, cosa che è facile anche da capire: infatti, se i tumori sono tutte le cellule staminali alterate che non si sono differenziate, allora il numero di tumori è dato dalla formula 3 + 3² + 3³ + 3⁴, cioè 120 tipi di tumore, a cui se lei somma i tumori dell’ovaio e del testicolo più il coriocarcinoma, il teratocarcinoma e il carcinoma embrionario, arriviamo a centotrenta malattie diverse, e per queste 130 malattie diverse lei vede già come ognuna deve essere trattata, perché se lei si trova di fronte a una leucemia a cellule staminali multipotenti è ben diverso che se si trova di fronte ad una leucemia linfatica cronica dove le cellule sono quelle dell’ultimo stadio di differenziazione. Stadio diverso di differenziazione delle cellule staminali, uguale tipo diverso di tumore, uguale differente strategia terapeutica, sempre però basata sulla “riprogrammazione” delle staminali non differenziate.

Si
personalizza il trattamento, quindi, in modo ben più marcato che con le attuali
terapie d’urto indifferenziate…

Si personalizza il trattamento, esatto, molto più di quanto si fa adesso. Cioè, questa prospettiva di regolazione e di riprogrammazione delle cellule staminali tumorali permetterà di arrivare – perlomeno questo è il nostro auspicio – a delle terapie individualizzate del cancro. Ora, tutto questo discorso, che allora era fatto quasi esclusivamente solo da me ed era considerato in parte non credibile, negli ultimi cinque anni invece ha preso molto piede,  perché è stato dimostrato che la malignità dei tumori è legata alla presenza di cellule staminali tumorali. In pratica si è visto che alla base della malignità dei tumori, che resistono alla radio e alla chemioterapia e che dunque metastatizzano, c’è un gruppo di cellule, cosidette staminali tumorali, che è quello che riperpetua la malattia e non ne permette la guarigione definitiva. Si ha magari all’inizio delle terapie un miglioramento, ma poi si ricade nella malattia. Queste cellule staminali tumorali sono state trovate in quasi tutti i tumori. Man mano che si sta andando avanti con gli studi, stiamo comprendendo questo. Quindi il primo concetto da cui ero partito è cioè che le cellule tumorali fossero cellule staminali alterate, è stato acquisito.

È stato accettato dalla scienza più ortodossa?

(Biava)
Dopo tanti anni, finalmente si, Adesso l’obiettivo di molti ricercatori e’
quello di riuscire a riprogrammare non solo le cellule staminali normali, ma
anche quelle tumorali. Per questo una rivista importante, che si chiama “Current pharmaceutical biotechnology”, lei deve andare sul
sito Current pharmaceutical biotechnology, e
selezionare sul volume 12, numero 2 del febbraio 2011…

Ah, è recente, cosa dice?

Lì vede che c’è un numero speciale, di cui sono stato il guest editor e che si chiama “Reprogramming of normal and cancer stem cells”, dedicato alla riprogrammazione delle cellule staminali normali e tumorali. Ci sono quindici articoli, di cui tre scritti anche da me, gli altri da importanti ricercatori di fama internazionale, come il Direttore del Centro Tumori di Tokyo, molti Direttori di Istituti Oncologici delle Università italiane – Milano, Roma, Pisa, Varese – e da Centri di Ricerca Americani e Asiatici, indiani, indonesiani eccetera: sono  tutti articoli che dimostrano la possibilità di riprogrammare le cellule staminali normali e che fanno intravvedere la possibilità di riprogrammare le cellule staminali tumorali. Io lì ho scritto anche un’editoriale che introduce il numero, se lo leggete capite bene il senso, la portata di questo approccio innovativo al cancro: in quel numero della rivista vengono illustrate quali sono le prospettive future in questa direzione.

Che
era una domanda che volevamo porle, appunto. Il carattere innovativo di queste
ricerche, comunque direi che è già emerso da tutto quello che ha detto…

Assolutamente, è una visione differente dei tumori, ma nel contempo non balzana, cioè, è basata su ricerca scientifica, non su fantasie. Si ipotizza che i tumori possano essere riprogrammati, quindi l’approccio non è più quello distruttivo, non è più la ricerca di “pallottole intelligenti”, cioè delle singole molecole che possono bloccare il tumore, ma è l’approccio di una strada individualizzata, di una terapia individualizzata di riprogrammazione. In poche parole possiamo dire che la soluzione dei tumori e nei tumori stessi. Da questo punto di vista allora la medicina complementare e non convenzionale può offrire molto, perché chiaramente il paradigma scientifico va cambiato a questo punto: bisogna passare dal paradigma riduzionista a quello della complessità, in quanto quello che si è visto è che non sono importanti i singoli punti e le singole molecole, in quanto le singole molecole danno solo qualche “Bit” di informazione e invece nel caso della riprogrammazione noi dobbiamo puntare su un network, una rete informativa che riprogrammi e ripristini gli equilibri biologici che sono andati persi. Sono terapie specifiche, come abbiamo detto addirittura individualizzate, ma sono terapie che mirano al microambiente e alla rete d’informazione, che interessa l’intero organismo, non la singola molecola. Questo è già accennato nell’editoriale di “Current Pharmaceutical Biotachnology” dove per altro sono stati pubblicati articoli, in cui si è dimostrato che non vi è alcuna incompatibilità tra le chemioterapie e queste terapie di nuova generazione che stiamo studiando.

Cioè
possono essere complementari?

Possono essere complementari, questo è importante, perchè per un certo periodo bisognerà utilizzare tutti gli approcci integrati al cancro: come abbiamo visto le malattie tumorali sono complesse e difficili da trattare: sono malattie in cui è stato perso in parte o quasi completamente il programma del differenziamento cellulare. Integrare il programma mancante non è facile e dunque per un tempo abbastanza lungo occorrerà utilizzare tutti gli approcci integrati, utili a bloccare o a sconfiggere la malattia.

Qual’è
la prospettiva di medio periodo?

La prospettiva è quella di cambiare l’approccio  e quindi  di utilizzare un approccio complesso: quest’idea si sta già facendo strada nella comunità scientifica.

Quindi
proseguono le ricerche in questa direzione?

Sì, adesso anche gli ultimi studi vanno in questa direzione: si studiano sia le alterazioni genetiche, sia quelle epigenetiche del cancro, compresi i fattori del microambiente che possono favorirne l’attecchimento e/o la progressione o al contrario contrastarne lo sviluppo. In quest’ottica come può essere definita questa terapia basata sui fattori di differenziazione?  La potremmo definire “terapia epigenetica” del cancro. Che cos’è il codice epigenetico? E’ il codice che è in grado di programmare e regolare il codice genetico, che è un codice che di per sé non sa fare nulla se non viene programmato e informato. Al di sopra del DNA che costituisce il codice genetico, c’è un altro codice, che si definisce appunto “epigenetico”, che è costituito da tutta questa rete regolatoria molto complessa, che decide come far funzionare il codice genetico sottostante, un po’ come il software che controlla e programma l’hardware. Se io non programmo il computer il computer non sa fare niente di suo, e così il DNA: se lui non è programmato adeguatamente, non può dare origine alla vita. Nel codice epigenetico c’è il segreto del differenziamento cellulare, che da luogo alla vita.

Voi
lavorate su un codice superiore?

Epigenetico. Di fatto i fattori di differenziazione delle cellule staminali costituiscono il codice epigenetico. Perché le cellule staminali si differenziano? Perché questi fattori detereminano quali geni devono essere spenti, quali geni devono rimanere attivi, quale proteine devono essere sintetizzate.

Quindi
è lì che bisogna indagare?

È come il Direttore d’orchestra… La differenziazione delle cellule staminali consiste in una specifica e selettiva programmazione di queste cellule, per cui alla fine del differenziamento tutte le cellule del nostro corpo alla base hanno tutte lo stesso codice genetico, la differenza tra una cellula del cervello rispetto a una cellula del rene o del fegato è che i geni che sono rimasti attivi e che quindi vanno a sintetizzare le proteine sono selettivamente diversi nel cervello rispetto al rene e rispetto fegato, tutto qui. Il “disco rigido” è sempre uguale, il DNA non cambia, ma il programma di espressione genica quello si che è diverso, i fattori di differenziazione delle cellule staminali sono il programma che decide cosa deve stare spento e cosa deve stare acceso. Quindi nel tumore che cosa succede? Succede che una parte di questo programma, che ha “silenziato” i vari geni e ha fatto sì che una cellula diventasse per esempio una cellula del cervello, viene riattivato. Vengono riattivati quelli che si chiamano protoncogeni, ovvero geni embrionari silenziati durante il processo di differenziazione e a volte questi protoncogeni vengono mutati – e in questo caso vengono chiamati oncogeni – e inoltre vengono disattivati o mutati i geni oncorepressori: i geni riattivati producono fattori di crescita embrionari, che costringono la cellula ad una moltiplicazione indefinita, mentre la disattivazione degli oncorepressori impedisce che vi sia un freno a questa moltiplicazione. Allora, se noi lavoriamo sul programma che ha spento i protoncogeni e cerchiamo di attivare gli oncorepressori, allora noi spegniamo il processo di moltiplicazione indefinita. Gli studi che vengono fatti adesso, per lo meno quelli più avanzati, dimostrano che nei tumori ci sono moltissimi geni attivati ed alterati: con programmi matematici complessi, mettendo insieme la rete di geni alterata, si è riusciti a capire, per certi tipi di tumore, quali sono i  geni più importanti che determinano l’attivazione del processo nel suo complesso.

Si riesce quindi a capire come bisogna intervenire per “spegnere” i
geni che sono all’origine della malignità?

È corretto. Aggiungo che il cancro è una patologia che richiede un vero e proprio cambio di paradigma, è una malattia molto complessa, che non può più essere affrontata con le armi tradizionali, che vanno bene, ma solo nei casi nei quali la malattia non è dovuta alla presenza di cellule staminali tumorali. Negli altri casi va cambiato l’approccio: finché la medicina rimane agganciata a un paradigma riduzionista, non riusciremo a inquadrare la questione in una sintesi più generale: ci mancherà sempre la visione d’insieme. Lo sforzo che dobbiamo fare è lavorare per un cambio di paradigma.

Un quadro più ampio della malattia, e quindi delle possibili terapie oncologiche?

Si, perché se l’unica via è quella di continuare a combattere il cancro con “pallottole intelligenti”, si rischia di non sconfiggere definitivamente la malattia, perchè le cellule tumorali sono a loro volta cellule intelligenti che imparano a resistere agli attacchi, rendendo inattive le armi che andiamo di volta in volta ad utilizzare.

In
questo momento c’è disponibilità quanto meno al confronto da parte degli
specialisti più ortodossi su queste piste di ricerca innovative?

Certo, adesso mi è stato chiesto di  fare l’editor di un numero monografico per una rivista scientifica di medicina convenzionale molto importante. Quindi vuol dire che l’atteggiamento di molti oncologi tradizionali è cambiato, anche se ovviamente rimangono ancora molte sacche di resistenza da parte degli oncologi, soprattutto clinici.

Quindi è iniziata la fase vera dell’approfondimento, per trovare
riscontri definitivi…

Sì, oggi i ricercatori che fanno ricerca di base non mettono più in dubbio che la malignità dei tumori sia legata alla presenza di cellule staminali alterate, come da me ipotizzato tanti anni fa. La ricerca più avanzata oggi sta arrivando a identificare le vie metaboliche che sono comuni e condivise dalle cellule staminali normali e da quelle tumorali, in modo da capire poi le “correzioni specifiche” che vanno apportate. Io cerco di essere molto prudente e di stare attento a trasferire i risultati delle ricerche sperimentali a livello clinico. Vi sono però due studi clinici controllati nel caso di tumore primitivo del fegato, cioè nell’epatocarcinoma, che sono abbastanza significativi. C’è un trial clinico, durato quaranta mesi, su centosettantanove pazienti affetti da epatocarcinoma in fase intermedio-avanzata nei quali non erano più possibili terapie antitumorali tradizionali di consolidata efficacia: un trattamento basato sull’utilizzo dei fattori di differenziazione a bassi dosaggi ha dimostrato il 20% di regressioni, di cui 2,3% di regressione completa, e il 16% di non progressioni, con assenza di effetti collaterali avversi, ma comunque un notevole miglioramento del performance status e della qualità della vita. Soprattutto per questo 36% di pazienti che ha risposto al trattamento, da una speranza di vita di 6 od 8 mesi, si è passati ad una sopravvivenza per il 65% di essi di oltre 5 anni. Nel numero monografico già citato, che ha come titolo “Reprogramming of normal and cancer stem cells”, c’è poi un articolo redatto da Professori dell’Università di Milano e della Clinica Humanitas, che descrive i casi di regressione completa del tumore primitivo del fegato trattato con i fattori di differenziazione delle cellule staminali: i casi di regressione completa sono stati il 13,1%.

Lei ha la sensazione che la scienza sia a una svolta nella cura
integrata dei tumori?

Penso che questa sia una strada estremamente interessante, sarei tentato di dire la “strada giusta”, o  per lo meno, una delle strade giuste. Però la strada da percorrere è ancora lunga, perchè come già detto, ogni tipo di tumore richiede un trattamento specifico. Io oggi non posso dire che abbiamo in questo momento una cura generale per il cancro. Ho cercato di sottolineare questo concetto anche nel numero speciale della rivista che ho citato: infatti nell’editoriale parlo dell’utilizzo dei fattori di differenziazione staminali a livello clinico solo per il tumore primitivo del fegato, al quale per ora tale trattamento va limitato.

Quale messaggio vuole lanciare alla comunità scientifica, ai suoi
colleghi?

Il
messaggio più importante è che è necessario cambiare il paradigma scientifico,
inglobando la visione riduzionistica nel più efficace “paradigma della
complessità”. Quello che qui ho cercato di sottolineare è che il cancro
rappresenta una patologia complessa, che va affrontata con una visione nuova:
non ci si può più limitare allo studio dei meccanismi puntuali, cercando poi di
intervenire solo su quelli. Questa strada si è dimostrata capace di ottenere
risultati, certamente, però molto limitati, come dimostrano anche i più recenti
e moderni approcci basati sull’impiego delle cosiddette molecole biologiche,
quali gli anticorpi monoclonali o gli inibitori delle tirosino-chinasi. Molti
oncologi tradizionali cercano di dare il meglio, ma sono ancora fermi lì. La
ricerca biologica è andata per fortuna avanti, verso una visione più complessa
della vita e delle malattie ed è sperabile, che in un tempo non troppo lontano,
i risultati di queste ricerche possano essere trasferiti a livello clinico, a
beneficio di tutti.




Se il lusso nel XXI secolo può calpestare i diritti

Lettera aperta a Stefano Gabbana. “Voi sapete cos’è il lusso?”
In occasione della recente polemica sul mancato rispetto dei più elementari principi di responsabilità sociale d’impresa nella filiera del made in Italy del settore moda, e in particolare delle violenze a danni degli animali diventate prassi per il marchio d’alta gamma Moncler e per altre etichette di prestigio, Stefano Gabbana – stilista e co-fondatore della linea d’abbigliamento Dolce & Gabbana – s’interroga provocatoriamente sui suoi social domandando al pubblico: “Ma Voi sapete cos’è il lusso…?”.
Anche senza dover ricordare Aristotele – che nel VI libro dell’Etica Nicomachea ci ricorda che una vita dedita al guadagno e al perseguimento della ricchezza non può di per se portare alla felicità, dal momento che l’incessante perseguimento di un maggior lucro implica una classificazione del denaro come fine e non come mezzo – l’imprenditore moderno dotato di un minimo di intelligenza e lungimiranza non può puntare ad escludere l’introduzione di preoccupazioni di carattere etico nel suo business.
Situazioni come lo sfruttamento del lavoro minorile, l’aumento della povertà in molti paesi a causa delle politiche dissennate di alcune imprese transnazionali, e le crisi finanziarie recenti ancora in corso, chiamano prepotentemente in causa la capacità di ognuno di noi di “indagare qualitativamente il reale”, come Aristotele ci chiede di fare.
Il Premio Nobel Milton Friedman dichiarò negli anni ’80 che l’unica azione “socialmente responsabile” a carico di un’azienda sarebbe stata pagare le tasse. Il tempo ha mutato profondamente questo concetto, e oggi la globalizzazione ha generato nuove preoccupazioni e aspettative nei clienti, nelle comunità, nelle autorità pubbliche, come anche negli investitori: le aziende sono fortemente radicate e “connesse” con il territorio dove operano e con la società in generale, spesso molto più di quanto l’imprenditore stesso riesca a percepire. Come sia stato possibile per decenni considerare un’azienda, che è un organismo vivo, come totalmente avulsa dall’ambiente nel quale opera, resta un mistero. Questo, a imprenditori poco avveduti, può piacere o meno, ma ignorare questo fatto equivarrebbe a intestardirsi rifiutandosi di pagare gli stipendi ai dipendenti a fine mese “perché sono troppo esosi”.
Certo, prendere atto di ciò significa inevitabilmente assumersi responsabilità nuove, che in passato non erano proprie della normale vita aziendale. Ma – come sempre, da che mondo e mondo – le novità devono e possono essere “governate”, e da ciò che apparentemente appare come un nuovo problema possono nascere anche opportunità interessantissime.
Secondo un’indagine promossa dall’agenzia di PR internazionali Ketchum, che ha coinvolto 3.000 tra top manager, politici e leader d’opinione in 11 paesi, “i risultati aziendali non sono tutto”. Si sta sempre più velocemente sviluppando una sensibilità diversa verso le politiche aziendali da parte della cittadinanza, e alle aziende non viene più solo chiesto di “macinare utili” o di far bene il proprio lavoro. I vertici aziendali sono chiamati in causa su tematiche quali la riduzione della povertà, l’impegno sociale ed ambientale, la qualità della vita.
Ad esempio, il 77% degli italiani chiede alle aziende di “comunicare con maggiore trasparenza e onestà”, e di “contribuire all’incremento dell’economia locale”. La domanda di un approccio “etico” alle questioni d’impresa è quindi sempre più evidente. Le aziende oggi devono quindi decidersi a fare i conti con un mercato veramente “globale” – non solo in senso geografico, com’è noto da decenni – bensì in quanto “parte della rete neuronale” della società all’interno della quale operano. Per questo, la responsabilità sociale d’impresa ha da tempo superato l’approccio di tipo “filantropico” ed è diventata un elemento perfettamente integrato della strategia d’impresa.
Ma assolvere al proprio impegno in termini di responsabilità sociale non significa certo pubblicare un bilancio sociale, come – forse – fa anche la società di Stefano Gabbana: il tempo in cui bastava fare occasionalmente beneficenza e raccontarlo in qualche comunicato stampa, prima di un elegante rinfresco per i giornalisti, è definitivamente tramontato.
Cosa rispondere quindi alla domanda di Gabbana su “cos’è il lusso”? Nel XXI secolo, il lusso è dato dal possesso, non necessariamente dalla proprietà; è dato dal controllo del proprio tempo, e dalla possibilità di garantirsi spazi di indipendenza e di libertà; è dato dalla fortuna di poter vivere nell’agio, ma senza mancare di rispetto a chi di questo agio non può approfittare; è dato anche dalla consapevolezza serena di poter star bene – spiritualmente, ma anche materialmente, perché non vi è nulla di male in questo – senza incidere negativamente sull’equilibrio dell’ambiente che ci circonda e sulla sopravvivenza del pianeta. Il lusso non può certamente consistere nel mettere sul mercato un prodotto del valore di 30 euro rivendendolo a quasi 1000 euro, confezionandolo in un paese dove i diritti umani e sindacali non sono rispettati solo per massimizzare il proprio profitto, e ricavando piume da oche spiumate vive urlanti di dolore, ricucite senza anestesia, disinfettate con mercuriocromo solo per tenerle in vita. Questa, signor Gabbana, si chiama vergogna, stupidità e arroganza, non certo lusso. E l’imprenditore che non lo comprende è – tra l’altro – un imprenditore ben poco attento ai propri interessi.




Diventare sostenibili conviene?

Le aziende, anche le più ben intenzionate, si chiedono sovente se essere sostenibili sia per loro, oltre che un impegno etico anche un vantaggio competitivo. Si pongono, infatti, il problema di quali costi debbano affrontare per la sostenibilità, a fronte di quali vantaggi, e se il bilancio complessivo possa essere considerato per l’azienda positivo, in pareggio o almeno con un costo sopportabile.
Sviluppando il tema dell’eventuale convenienza per le imprese della sostenibilità, terrò conto degli ampi studi e delle riflessioni strutturate dal prof. Leonardo Becchetti, presidente del Comitato Scientifico di NeXt.
Nel perseguire la sostenibilità, le aziende debbono tener conto di tre aspetti, di seguito sinteticamente accennati.
La sostenibilità economica, è indispensabile per salvaguardare investimenti, innovazione e occupazione, e chiede all’impresa di essere profittevole generando un valore aggiunto complessivo, evitando però di “fare risultato” esternalizzando i costi.
Perseguire la sostenibilità sociale richiede all’azienda un impegno molto ampio ed articolato, che affronti molti temi, tra cui l’equità ed il rispetto nei comportamenti aziendali; l’empowerment dei collaboratori e dei fornitori; l’accessibilità alle informazioni per i dipendenti, i collaboratori e i clienti; il rispetto delle diversità culturali; la partecipazione e il coinvolgimento di tutti i portatori d’interesse; l’equità nella catena di fornitura; la stabilità istituzionale che consenta un dialogo costruttivo con tutti gli interlocutori.
La sostenibilità ambientale, superando la classica definizione data dal rapporto Bruntland nel 1987[1], viene sintetizzata da Gianfranco Bologna come l’imparare a vivere, in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici dell’unico pianeta che abitiamo, la Terra[2]. Per l’impresa comporta, dunque, un impegno concreto di riduzione delle emissioni per cercare di evitare i cambiamenti climatici; il risparmio ed il riutilizzo delle risorse chiudendo il ciclo senza rifiuti; l’attenzione al proprio impatto, consapevole di utilizzare sovente un capitale naturale lentamente rigenerabile, per favorire il ripristino dei sistemi ecologici e la tutela della biodiversità. L’urgenza e la gravità degli effetti del comportamento umano su questo nostro unico pianeta impongono alle aziende una forte responsabilità.
Per ogni impresa la sostenibilità comporta impegni diversi, perché si declina specificamente secondo l’attività svolta ed i processi produttivi e le risorse utilizzate.
La sostenibilità viene spesso confusa dalle aziende con la filantropia, una via più comoda perché non comporta cambiamenti del business, che intende proseguire as usual. Per dare una risposta seria alle tre sostenibilità, all’azienda si richiede di assumersi un impegno reale e sincero di solidarietà responsabile, inserendo la sostenibilità ambientale e sociale all’interno delle strategie d’impresa attraverso la definizione di precisi obiettivi generali da perseguire con eguale impegno.
L’azienda sostenibile è peraltro innovativa, e traccia una strada che le altre aziende del settore dovranno poi seguire per non perdere quote di mercato, se saranno spinte dalla pressione dei clienti, dei cittadini e dell’azione pubblica.
Per divenire veramente sostenibile l’azienda deve realizzare un profondo cambiamento di focus: dice Becchetti[3] che, nell’azienda sostenibile, l’obiettivo della massimizzazione della ricchezza dell’azionista viene sostituito con la soddisfazione degli interessi di una più vasta platea di stakeholders, tra cui ovviamente anche gli azionisti.
Il dilemma concreto dell’imprenditore che vorrebbe essere sostenibile, perché desideroso di creare ricchezza, occupazione e innovazione senza ledere l’ambiente e pesare sul tessuto sociale, risiede nel quesito: “La mia impresa se si comporta in modo sostenibile diviene più, o invece meno, competitiva?” “Quale prezzo la mia impresa dovrà pagare e quali vantaggi avrà?” Che, nello specifico, si traduce in: “come imprenditore positivamente orientato verso la sostenibilità, tutta la sostenibilità, posso permettermi un comportamento responsabile verso l’ambiente e la società, senza mettere a rischio la sopravvivenza della mia impresa?”
Certamente la scelta della sostenibilità comporta per l’impresa aumenti di costo: la sostenibilità non è un free lunch. Gran parte delle scelte orientate alla sostenibilità comportano trasferimenti di reddito dall’azienda a diversi stakeholders come i lavoratori, i subfornitori e la comunità locale.
L’unica eccezione è che un sicuro risparmio deriva all’impresa sostenibile dai limiti al salario dei manager.
Vi è però una buona notizia: perseguire un percorso di sostenibilità implica, secondo gli studi e le analisi di diversi economisti, cinque tipologie di benefici potenziali, che sta all’impresa comprendere adeguatamente, valutare e saper cogliere.
La prima tipologia di benefici ha a che fare con un significativo effetto dell’impegno aziendale per la sostenibilità sulla produttività. La letteratura dell’efficiency wage[4]; ha riscontrato una relazione positiva tra i benefici non solo monetari e la produttività dei lavoratori, capovolgendo a volte il nesso tra salario e produttività. Fin dagli studi di Elton Mayo, è emerso che l’attenzione alle condizioni di lavoro e il coinvolgimento e la responsabilizzazione delle persone, hanno generato una sorprendente crescita di produttività.
Gli studi sulle motivazioni intrinseche di Deci e Ryan[5], mostrano come i fattori che incidono sulla job satisfaction e quindi sulla produttività, sono sostanzialmente tre: la soddisfazione per l’importanza degli obiettivi della propria attività, la consapevolezza dei risultati effettivamente conseguiti e la qualità delle relazioni in azienda, ossia del clima nell’ambiente di lavoro.
Emerge quindi l’importanza dei “meccanismi asimmetrici di scambio di doni”[6]; una politica aziendale che aumenti l’adesione dei lavoratori agli obiettivi aziendali, può motivare il loro impegno produttivo rendendolo più efficace, e nello stesso tempo dare alla persona soddisfazione sul lavoro, il che è molto importante, considerata l’entità del tempo di vita impegnato sul lavoro.
Ed infatti Edmans documenta che negli Stati Uniti le imprese eccellenti in termini di soddisfazione dei lavoratori mostrano costantemente, dal 1984 al 2005, rispetto ai concorrenti, un rendimento anormale al netto della correzione dei fattori di rischio standard, superiore al 4%[7].
Dunque i maggiori costi potrebbero avere a fronte significativi vantaggi competitivi per l’azienda.
La seconda tipologia di benefici di una politica responsabile dell’impresa verso l’ambiente e la socialità risiede nel sostegno dei consumatori responsabili.
In Italia il 40% della popolazione ha acquistato un prodotto equo solidale almeno una volta all’anno, e il 20% lo acquista frequentemente (Demos & Pi / Coop, 2004). Inoltre in Italia il 30% dei cittadini è disposto a pagare qualcosa di più per le caratteristiche sociali e ambientali di un prodotto (IREF). Ma quasi tutti, ossia il 90% dei cittadini, ritengono che le imprese debbano farsi carico della responsabilità sociale e ambientale delle proprie scelte. E questa opinione si tradurrà probabilmente, nel caso di latitanza del sistema produttivo, in ulteriori vincoli nel prossimo futuro.
In UK (Bird and Hughes, 1997) il 23% è di consumatori etici e il 56% di semi etici. Il 18% è disposto a pagare di più per le caratteristiche sostenibili di un prodotto.
La disponibilità complessiva a preferire prodotti di aziende sostenibili varia dal 40 % (se la differenza prezzo è del 10%) a 70% (senza differenziale prezzo).
Questo potenziale beneficio consente all’azienda di costruire segmenti dedicati per i prodotti sostenibili, con barriere verso i concorrenti e dunque di perseguire una strategia di differenziazione fondata sul riconoscimento del valore ambientale e sociale dell’acquisto. Solitamente questi nuovi segmenti sono costituiti da consumatori più sensibili, più affluenti, ma soprattutto in costante crescita anche in questi anni di crisi economica, che vengono sottratti al più grande mercato.
La terza tipologia di benefici per un’azienda sostenibile consiste nella riduzione dei conflitti.
Infatti, la percezione da parte degli interlocutori di trovarsi di fronte un’azienda disposa ad un dialogo serio, aiuta a minimizzare i conflitti (o a ottimizzare le sinergie) con gli stakeholders, siano essi consumatori, comunità locale o subfornitori[8].
Ogni anno le imprese americane quotate in borsa spendono complessivamente molti milioni di dollari per controversie legali con gli stakeholders. Per questo motivo, l’etica risk è uno dei filoni approfonditi nei corsi di risk management delle principali imprese multinazionali, e sempre più cresce la consapevolezza che un dialogo autentico, sostenuto da comportamenti coerenti, sia premiante per la stabilità e lo sviluppo a lungo termine dell’impresa.
La riduzione del rischio rende l’azienda complessivamente più solida sul lungo termine e meno soggetta ad eventi imprevisti, e costituisce dunque un’indubbia garanzia per gli azionisti “cassettisti” sulla tutela del loro investimento. La conseguenza è che tali aziende possono contare generalmente, a parità di condizioni, di un migliore accesso al capitale.
La quarta tipologia di benefici potenziali per l’impresa consiste nel miglioramento della reputazione dell’azienda.
La scelta di sostenibilità sociale e ambientale è, infatti, un segnale importante agli stakeholder sulla reputazione dell’impresa e sulla qualità sociale ed ambientale dei suoi prodotti, in un contesto di informazione asimmetrica in cui i cittadini consumatori e risparmiatori sanno poco sulle caratteristiche dei prodotti, sui processi produttivi dell’azienda, sulle materie prime utilizzate, sul clima aziendale e sull’impatto sociale e sul territorio.
Su un campione di 184 eventi, i product recall generano rendimenti anormali meno negativi (+3%) per imprese con social rating più elevato (Minor, 2009). Un esempio del valore della reputazione in un momento di grave difficoltà aziendale lo troviamo nella gestione del richiamo, da parte della Toyota, di milioni di vetture per un malfunzionamento del sistema frenante, senza danni permanenti di mercato ma, anzi, con il rafforzamento dell’immagine dell’azienda come attenta alla sicurezza dei suoi clienti. Ad un’azienda sostenibile e seriamente impegnata un errore si perdona.
Becchetti e Ciciretti hanno dimostrano, su un campione di 2.603 imprese quotate, che un punto in più del KLD (rating sulla sostenibilità sociale d’impresa) corrisponde a rendimenti anormali positivi e significativi[9].
Del resto “Senza fiducia l’individuo non potrebbe neanche alzarsi dal letto ogni mattina. Verrebbe assalito da una paura indeterminata e da un panico paralizzante” [10]; ed infatti “abitiamo in un clima di fiducia come abitiamo un’atmosfera e ci rendiamo conto della fiducia così come ci rendiamo conto dell’aria che respiriamo, soltanto quando è scarsa o inquinata”[11].
In conclusione, in un mondo di asimmetrie informative, contratti incompleti e comunque mai del tutto esaurienti, lentezza della giustizia civile, la fiducia è il vero conduttore delle relazioni economiche ed un importantissimo strumento di lavoro dell’imprenditore e del manager.
Del resto pensiamo a quanta fiducia riponiamo nella nostra banca che, in qualche modo, ci ha convinto e ci continua a convincere ad affidargli i nostri soldi. Il capitale sociale, fatto di credibilità e di fiducia, è il fondamento invisibile dell’economia.
La quinta tipologia di benefici per l’azienda consiste nello stimolo all’innovazione e alla proattività.
Ricercando la sostenibilità ambientale e sociale, le aziende testano e sperimentano nuovi percorsi che possono portare ad una leadership tecnologica e di innovazione nel settore (es. soluzioni per l’efficienza energetica, veicoli ibridi della Toyota, nuovi processori di STMicroelectronics, clima organizzativo della Olivetti di Adriano).
Inoltre la sostenibilità anticipa la prossima e sicura maggiore severità della regolamentazione ambientale e sociale; le imprese che volontariamente riducono il loro impatto ambientale e sono più attente alla dimensione sociale, si trovano molto avvantaggiate quando i nuovi vincoli di contesto impattano sul settore, perché loro operano già, per scelta, oltre tali nuovi vincoli .
Perseguire un percorso di sostenibilità anticipa e contribuisce anche la crescita di sensibilità dei consumatori (incrementando le barriere che difendono le strategie aziendali di differenziazione), e previene la pressione da parte di un mercato sempre più attento ed esigente; fidelizza inoltre i clienti mostrando loro come l’azienda sia da una parte innovativa e dall’altra attenta alle loro sensibilità.
Una riflessione attenta su questi cinque potenziali benefici, potrebbero convincere il nostro imprenditore che un percorso di sostenibilità va considerato e perseguito con impegno.
Ma come effettuare una valutazione complessiva tra costi indubbi e vantaggi, anche questi ormai evidenti, per un impresa che li sappia cogliere?
I risultati empirici più recenti mostrano come percorsi di sostenibilità generino nelle imprese un trasferimento di valore dagli azionisti agli stakeholders: la produttività delle imprese sostenibili (al netto di tutti i fattori concomitanti, del ciclo economico, delle caratteristiche delle imprese), secondo molte ricerche, è maggiore, ma il loro ROE (redditività del capitale) è più basso[12].
Dalle ricerche empiriche risulta, peraltro, che le imprese poco attente alla sostenibilità sociale e ambientale, rischiano di più e operano in un clima più conflittuale, con maggiori problemi con gli stakeholders.
Le imprese responsabili, spesso, mostrano risultati positivi su capacità competitiva, fatturato e valore aggiunto per addetto, ma non sulla ricchezza degli azionisti. Questi, peraltro, salvaguardano di più il proprio capitale, perché l’impresa, pur non più redditizia, è più competitiva e con minori rischi strategici e dunque più solida sul lungo termine. Barattano dunque futuro dell’azienda (e non dimentichiamo della nostra società) contro redditività a breve termine.
Il rapporto tra costi della sostenibilità e performance delle aziende responsabili non è necessariamente né positivo né negativo, e questa è già una buona notizia.
La conclusione – per un attore sociale come NeXt Nuova economia per tutti che vuole promuovere un’accelerazione della crescita di responsabilità sociale ed ambientale nel sistema produttivo – è che bisogna far crescere la sensibilità dei cittadini ed in loro la consapevolezza che con i loro acquisiti orientano e possono contribuire a modificare profondamente le strategie dell’impresa, informandoli e offrendo loro strumenti di scambio di opinioni e di pressione dal basso sulle aziende. Infatti, i cittadini possono contribuire ad accelerare la transizione, generando, con il loro comportamento quotidiano, la convenienze di un comportamento responsabile delle imprese, utilizzando l’arma potente di spostare quote di mercato verso le imprese sostenibili.
D’altra parte, occorre offrire spazi indipendenti e credibili per valorizzare le imprese che perseguono seriamente un percorso di sostenibilità. Inoltre, occorre accompagnare le imprese che lo vogliono nel ripensamento dei propri obiettivi con l’inserimento di obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale all’interno della loro strategia.
La sostenibilità non è mai acquisita, non è un traguardo che si raggiunge una volta per sempre, ma è un percorso e una attenzione permanente ad un miglioramento continuo, che richiede impegno ed un atteggiamento onesto e coerente, aperto al confronto e al dialogo con gli stakeholders. E’ difficile una vera sostenibilità senza uno spirito ed un atteggiamento profondo, ossia senza valori che pongano l’uomo e l’ambiente al centro della vita e dell’attività produttiva.
 


Bibliografia

Akerlof G., Efficiency Wage Models of the Labor Market, Cambridge University Press,1986.
Baier A., Postures of the Mind: Essays on Mind and Morals, Minnesota archive editions, Minnesota 1986.
Becchetti L., Il mercato siamo noi, Mondadori Bruno, Roma 2012.
Becchetti L. Ciciretti, R., Corporate Social Responsibility And Stock Market Performance, CEIS-SSRN Working Paper. 79, 2006.
Becchetti L., Di Giacomo S., Short term value strategies: a comparative analysis in the US and EU markets, Research in Banking and Finance, 2005.
Bologna G., Sostenibilità in pillole. Per imparare a vivere su un solo pianeta, Edizioni Ambiente, Roma 2013.
Deci E. L., Ryan R. M., Intrinsic Motivation and Self – determination in Human Behavior, Plenum Press, New York 1985.
Edmans A., Does the Stock Market Fully Value Intangibles? Employee Satisfaction and
Equity Prices, Wharton School, University of Pennsylvania working paper, 2008.
Freeman E., Alexander M., Stakeholder management and CSR: questions and answers. In: UmweltWirtschaftsForum, Springer Verlag, Bd. 21, Nr. 1, 2013.
Luhmann N., La fiducia, Il Mulino, Bologna 2002.
Shapiro, C., Stiglitz, J., Equilibrium unemployment as a worker discipline device, American Economic Review, 1984.
 


[1]Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo in grado di garantire il soddisfacimento dei bisogni attuali senza compromettere la possibilità delle generazioni future di far fronte ai loro bisogni” Commissione Brundtland, 1987.
[2] Bologna G., Sostenibilità in pillole. Per imparare a vivere su un solo pianeta, Edizioni Ambiente, Roma 2013.
[3] Becchetti L., Il mercato siamo noi, Mondadori Bruno, Roma 2012.
[4] Shapiro, C., Stiglitz, J., Equilibrium unemployment as a worker discipline device, American Economic Review, 1984.
[5] Deci E. L., Ryan R. M., Intrinsic Motivation and Self – determination in Human Behavior, Plenum Press, New York 1985.
[6] Akerlof G., Efficiency Wage Models of the Labor Market, Cambridge University Press,1986.
[7] Edmans A., Does the Stock Market Fully Value Intangibles? Employee Satisfaction and Equity Prices, Wharton School, University of Pennsylvania working paper, 2008.
[8] Freeman E., Alexander M., Stakeholder management and CSR: questions and answers. In: UmweltWirtschaftsForum, Springer Verlag, Bd. 21, Nr. 1, 2013.
[9] Becchetti L. Ciciretti, R., Corporate Social Responsibility And Stock Market Performance, CEIS-SSRN Working Paper. 79, 2006.
[10] Luhmann N., La fiducia, Il Mulino, Bologna 2002.
[11] Baier A., Postures of the Mind: Essays on Mind and Morals, Minnesota archive editions, Minnesota 1986.
[12] Becchetti L., Di Giacomo S., Short term value strategies: a comparative analysis in the US and EU markets, Research in Banking and Finance, 2005.

 




Manifesto per una Nuova economia per tutti

L’alleanza dei consum-attori per una Nuova economia per tutti ha l’obiettivo di aiutare società civile, attori economici e istituzioni a gettare le basi per un cambiamento negli obiettivi dell’attuale economia, per creare le condizioni per un benessere economicamente, socialmente ed ecologicamente sostenibile, poiché siamo ben lungi dal soddisfare i nostri bisogni primari e ben lontani da una “felicità sostenibile”.
Occorre quindi ripensare il nostro sistema economico arricchendolo degli ingredienti necessari a rispondere ai bisogni di tutti e far fiorire le nostre esistenze, valorizzando la dimensione etica e sociale del nostro agire affinché si possano conciliare interesse personale e benessere altrui.
Fattori chiave di questo processo sono corresponsabilità, giustizia sociale, solidarietà, gratuità, fiducia, condivisione e realizzazione personale.
Nell’attuale contesto economico, caratterizzato da una capacità produttiva che consentirebbe in caso di equa distribuzione delle risorse di far vivere degnamente un ampio numero di persone, emergono alcune grandi questioni la cui soluzione richiede strategie congiunte:
1)      la presenza di centinaia di milioni di persone che soffrono la fame e di miliardi di individui che vivono sotto la soglia di povertà;
2)      il deterioramento ambientale e un dissennato utilizzo dei beni comuni (acqua, aria, territorio, biodiversità, …) che, se nel futuro prossimo sembra minacciare l’umanità tutta e l’intero pianeta, oggi danneggiano in misura maggiore le popolazioni più povere;
3)      la diffusione tra la popolazione dei paesi più ricchi del dramma della “povertà di senso” e della difficoltà di dare un significato alla propria vita, segnalato dalle dinamiche degli indicatori di vita sociale e relazionale e dal consumo crescente di farmaci antidepressivi;
4)      la propagazione di un clima di lavoro e di comportamenti di mercato a competitività esasperata, che tendono a trasformare ogni attività in pratiche di mercato scorrette ed azioni di green washing, piuttosto che strategie e comportamenti responsabili verso l’ambiente ed il sociale.
Nel mondo contemporaneo l’azione della rappresentanza politica nazionale e dei movimenti sindacali, tradizionali difensori delle istanze della società civile, è stata progressivamente indebolita dalla concorrenza tra territori e dai processi di delocalizzazione, rendendo auspicabile e necessario un salto di qualità nella partecipazione dei cittadini e facendo emergere un nuovo spazio per una forza finora poco visibile: quella dei consumatori e dei risparmiatori socialmente responsabili.
Poiché il successo degli attori di mercato dipende dalle scelte dei singoli consumatori e risparmiatori, occorre rendere questi ultimi consapevoli di disporre di una formidabile e potente forma di partecipazione e di indirizzo alla vita economica. Attraverso i propri acquisti e risparmi i cittadini possono orientare e vagliare scelte produttive, compiendo, di fatto, un atto lungimirante di razionalità. Quando nelle scelte di consumo e risparmio si valutano non solo la qualità e il prezzo dei prodotti, ma anche il valore sociale in essi contenuto e l’impatto ambientale dell’impresa che li produce, si tutela il proprio interesse nel medio e lungo periodo.
La consapevolezza dei cittadini globali nei confronti dell’importanza e delle potenzialità del ‘votare’ politiche commerciali scegliendone i prodotti è cresciuta notevolmente nel corso degli ultimi anni.
Imprese pioniere virtuose si sono progressivamente affermate grazie alla disponibilità dei consumatori e dei risparmiatori a pagare per i valori sociali ed ambientali incorporati nei prodotti; altre imprese, cogliendone l’importanza anche strategica, tendono oggi sempre di più a promuovere e a pubblicizzare il loro impegno sui temi del sociale e dell’ambiente. Ma l’asimmetria informativa non consente sovente di distinguere chi vuole solo apparire sostenibile da chi effettivamente lo è.
Le organizzazioni internazionali incentivano questi processi aiutando i produttori a creare valore, mentre università e gruppi di ricerca analizzano i fenomeni in atto, interpretando i cambiamenti e fornendo competenze per gestirli.
Questo processo virtuoso di sensibilizzazione e azione si scontra ancora con due grandi ostacoli:
I)                   Il singolo consumatore responsabile, pur cosciente del valore del suo atto, rischia di essere scoraggiato e di non percepire le potenzialità di cambiamento globale se non è consapevole che la sua scelta è interconnessa con quella di altri attori.
II)                Molti cittadini desiderosi di consumare e vivere responsabilmente sono ostacolati dell’asimmetria informativa. Il valore sociale ed ambientale di un prodotto non è caratteristica direttamente verificabile nell’atto dell’acquisto o della scelta di risparmio. Ciò rende evidente il bisogno di enti terzi reputati che possano effettuare valutazioni indipendenti e di organizzazioni che veicolino e pubblicizzino informazioni e giudizi di rating.
Per rispondere a tali esigenze di coordinamento e informazione e sprigionare l’energia necessaria allo sviluppo di una nuova economia per tutti, appaiono oggi maturi i tempi per promuovere una grande alleanza organizzata dei consumatori e dei risparmiatori responsabili, i consum-attori. I candidati naturali a formarla sono quelle organizzazioni dei lavoratori e quelle reti della società civile da sempre impegnate nel promuovere i valori della sostenibilità. Importante è anche il ruolo di quei luoghi di formazione e gruppi di ricerca che forniscono gli strumenti per capire e veicolare i cambiamenti in atto. Ad essi si aggiungono naturalmente tutti i cittadini sensibili, gli imprenditori e le associazioni imprenditoriali lungimiranti.
La società civile ha dunque un ruolo perché portatrice di bisogni, di conoscenze e di esperienze che se messe a fattore comune permettono, insieme alle organizzazioni dei consumatori sensibili, una mobilitazione di un gran numero di cittadini desiderosi di giustizia e di futuro.
Il nostro impegno farà riferimento alle politiche, alle elaborazioni culturali ed ai documenti elaborati dall’Unione Europea.
Per conseguire efficacemente gli obiettivi del presente documento molte associazioni e soggetti della società civile hanno creato una Associazione di promozione sociale denominata NeXt Nuova economia per tutti, per svolgere un ruolo di soggetto promotore e di integrazione delle diverse competenze dei partner in tema di ricerca, valutazione ambientale e sociale, divulgazione e mobilitazione dei cittadini, operando per:
a)      promuovere e diffondere nel tessuto economico una nuova logica/cultura della sostenibilità;
b)      favorire l’adozione di strategie di sostenibilità socio-ambientale da parte delle aziende;
c)      valorizzare il comportamento delle imprese che intraprendono un percorso coerente verso la sostenibilità sociale ed ambientale;
d)     sensibilizzare, attivare e sostenere i cittadini verso il consumo e il risparmio responsabile sulla base dei flussi informativi disponibili in relazione alla sostenibilità aziendale;
e)      creare un accesso agevole, rapido e facilmente comprensibile alle informazioni sulla sostenibilità;
f)       sviluppare campagne mirate, momenti di elaborazione e di mobilitazione dei cittadini.
 




Pavan Sukhdev, Banchiere Buono

Ha preso un’aspettativa dal suo lavoro di manager alla Deutsche Bank in India per dedicarsi a una missione ambizione: salvare il mondo cambiando i bilanci contabili delle aziende
Prendiamo questo piccolo registratore argentato. Dovremmo sapere cosa c’è al suo interno per capire perchè il cambiamento climatico ci sta sfuggendo di mano. In una calda giornata piovosa Pavan Suidulev è seduto in un’anonima saletta di Bloomsbury, a Londra. Tiene il mio registratore a cassette tra le mani come se fosse la mela di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre. L’ex banchiere spiega che questo apparecchio è come quasi tutti gli altri prodotti tecnologici: da nessuna parte c’è scritto quali sono stati i costi della sua fabbricazione. Chi lo compra non può sapete se la sua produzione ha causato danni all’ambiente attraverso lo sfruttamento delle materie prime, del suolo o delle risorse idriche, se ha causato l’emissione di gas serra, nè quali saranno le conseguenze del suo smaltimento. Il valore della natura non compare nei bilanci delle aziende. Secondo Suk Istlev non si può andare avanti cosi. Un altro aspetto problematico del mio registratore, osserva Sukhdev girandolo in modo che lo sportello per le cassette sia rivolto verso di me, è che deve essere eliminato e sostituito poco dopo essere stato lanciato sul mercato, nonostante continui a funzionare perfettamente. Il mio registratore funziona con le cassette, che ormai quasi nessuno produce più. Quando si acquista un oggetto non si può sapere quanto durerà. Le aziende hanno successo se gli apparecchi che producono diventano presto inutili: devono sembrare subito obsoleti, in modo che si passa cominciare a produrne e a venderne di nuovi. “Io continuo a usare il mio vecchio Blackberry come segno della mia libertà di consumatore. Non voglio essere costretto ad acquistarne uno nuovo solo perchè a quello vecchio manca qualcosa”. ll nostro sistema economico non deve semplicemente cambiare, dice Sukhdev. Deve anche farlo in fretta: entro il 2020. fino ad allora l’Europa ha intenzione di migliorare la sua efficienza energetica, aumentare la quota di fonti di energia rinnovabili del 20 percento e ridurre le emissioni di anidride carbonica di un altro 20 per cento. La proposta dell’ex manager è quella di incorporare l’idea di bene comune nei bilanci aziendali. La società, su cui fino a oggi sono stati scaricati i costi di produzione, dovrà essere sempre al corrente di quello che le imprese distruggono nel corso della loro crescita. Sukhdev parla a raffica e con precisione ed è difficile prendere appunti a mano. Devo usare il mio vecchio registratore. In questo momento Pavan Sukhdev ricopre, agli occhi di molti, il ruolo assunto quattro anni fa da Nicholas Stern, l’ex funzionario della Banca mondiale che in un rapporto per il governo britannico ha definito il cambiamento climatico un fallimento catastrofico del mercato. Sukhdev è deciso a non perdere tempo, ma la sua non è una posa ,è una convinzione profonda. Ha fretta, è vero, ma senza cedere alla frenesia o a un eccesso di moralismo. L’impeto della indignazione è dovuto al fatto che quasi tutte le imprese continuano a inseguire il profitto come se vivessimo ancora nel1920, cioè attraverso intense attività di lobby, vaste campagne pubblicitarie e l’impiego aggressivo di capitali esteri. Sukhdev cita The corporation, il libro di Joel Bakan. Le aziende hanno perso la bussola morale e inseguono senza sosta il potere e i profitti, scaricando sulla società tutte le conseguenze delle loro azioni. Per cominciare a gesti re l’economia in modo da non sperperare le risorse naturali mancano gli stima i. Ma ora bisogna crearli: una priorità assoluta”.
Ottimista ostinato
Sukhdev si è preso un periodo di aspettativa dal suo lavoro ai vertici della sede indiana della Deutsche Bank e dal 2008 ha assunto la direzione del progetto di ricerca The economics of ecosystems and biodiversity (Teeb), su incarico della Commissione europea e del la Germania e, in un secondo momento, delle Nazioni Unite. L’obiettivo del progetto è calcolare il valore delle risorse naturali. Fino a marzo del 2ott Sukhdev ha diretto la Green economy initiative dell’Onu, ha fondato l’impresa Gist, che offre consulenze su temi ambientali ai governi e alla Commissione europea, e ha accettato una borsa dell’università di Yale per scrivere Corporation 2020, un libro sulla necessaria rivoluzione culturale nella contabilità aziendale. Il Programma di Sukhdev è questo: se il nemico numero uno è il “business as usual”, allora le principali alleate nella sua battaglia devono essere le nuove aziende, sopratutto quelle che praticano una forma di responsabilità ambientale. Jochen  Zeitz,  l’ex presidente del consiglio d’amministrazione della Puma, è un buon esempio:è stato il primo dirigente a calcolare i costi ambientali della produzione a livello globale e li ha messi a disposizione dell’opinione pubblica. L’azienda brasiliana Natura, che produce cosmetici, e l’ indiana Infosys sono altri casi esemplari citati da Sukhdev, il quale è convinto che sia in atto un cambiamento di valori nelle aziende. Un mondo diverso è possibile, osserva Sukhdev, perchè alcuni protagonisti hanno capito che l’economia non può continuare a crescere in questo modo. Secondo lui il punto centrale non è la contrapposizione tra crescita e post-crescita. Sukhdev si spazientisce solo a sentirne parlare. I poveri di tutto il mondo non possono contare neanche su un sistema previdenziale di base. Le due cose devono andare di pari passo: “Bisogna creare condizioni generali che permettano la diffusione di una cultura imprenditoriale capace di aumentare sia il benessere dell’umanità sia l’equità sociale, allo stesso tempo riducendo i rischi ambientali”. Alcuni potrebbero infastidirsi di fronte all’ennesimo economista secondo cui le aziende risolveranno il problema spontaneamente. Sono amiche sentiamo parlare di questi obiettivi e di queste aspirazioni ma non è cambiato niente nei consumi energetici mondiali. E infatti anche Sukhdev è d’accordo sul fatto che non basta puntare sulla volontà delle aziende. Le sovvenzioni controproducenti vanno abolite, la proprietà pubblica dei beni comuni non deve essere più considerata un fallimento del mercato e gli investirne n ti statali devono concentrarsi su infrastrutture ecologicamente sostenibili. Le risorse devono essere tassate alla fonte, non al momento dell’utilizzo. In un primo momento la perdita di posti di lavoro sarà inevitabile, ma il  programma di Sukhdev prevede un’inversione di tendenza nel medio periodo. Ma chi detiene davvero il potere? Di fronte a questa domanda l’ex dirigente si anima. Spiega che ha lavorato nel mondo delle ong e che non è entrato in po litica a causa della corruzione. Invece è convinto che la sua attuale posizione gli permetterà di ottenere dei risultati. Nella cassetta degli attrezzi che usa per esercitare pressioni politiche, Pavan  Sukhdev ha trovato anche uno strumento nuovo in cui confida molto: la contabilità internazionale. Il suo compito è creare delle alleanze con organismi come l’International accounting standards board. Inoltre, entrerà anche a far parte del comitato di gestione della Global reporting initiative. Esiste già una vasta gamma di metodi di valutazione contabile,dice Sukhdev, adesso bisogna consolidarli, trasformarli in standard internazionali. Quindi i bilanci contabili salveranno il mondo? “Si, è quello che spero”. Sukhdev  è convinto che le parole di una persona con venticinque anni di esperienza nella gestione degli istituti bancari non possono cade re nel vuoto. “Chi si presenta con il biglietto da visita di un banchiere riconosciuto è ascoltato dai potenti di tutto il mondo”. Sukhdev è cresciuto in India, in un ambiente dove poteva scegliere quattro strade per la sua cartiera: l’avvocatura, la medicina, il settore bancario e l’ingegneria. Di sicuro il finto di nascere in una famiglia ricca non ha guastato, aggiunge guardando dritto davanti a se. Mi spiega che da quando si è separato dalla moglie e da quando le figlie si sono trasferite a New York, lui vive con i suoi parenti in India. Sukhdev racconta di suo padre, un agente d i polizia, che ripeteva spesso che fare bene il proprio mestiere è già un riconoscimento sufficiente. Sukhdev fa una breve pausa. “Mi sarebbe piaciuto anche diventare guardia forestale. Ma chi presta ascolto a un guardaboschi?”.