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LAMBORGHINI E L'AMBIENTE

La Casa del Toro ha ottenuto la certificazione CO2 neutrale grazie ad una serie di soluzioni “verdi”


Contrariamente a quello che si può immaginare analizzando la gamma delle supercar Lamborghini la Casa del Toro è una delle più attente all’ambiente. Il marchio emiliano ha infatti ottenuto nel 2015 la certificazione CO2 neutrale (prima azienda al mondo a raggiungere questo traguardo tramite il programma Carbon Neutrality di DNV GL: Det Norske Veritas Germanischer Lloyd, società specializzata nella classificazione, nella verifica e nei servizi per la gestione del rischi ambientali) e ha inaugurato oggi – alla presenza di Gian Luca Galletti (Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del Mare) – i nuovi impianti di trigenerazione e teleriscaldamento diSant’Agata Bolognese.

COS’È L’IMPIANTO DI TRIGENERAZIONE LAMBORGHINI?

Il nuovo impianto di trigenerazione Lamborghini si trova all’interno dello stabilimento di Sant’Agata Bolognese e permette di produrre energia elettrica, termica e frigorifera utilizzando gas naturale. Ha una potenza installata pari a 1,2 MW e consente di produrre ogni anno circa 9.800 MWh, una quota di energia che potrebbe soddisfare il fabbisogno annuale di tutte le abitazioni del comune emiliano. Il tutto con un risparmio di emissioni pari a circa 820 tonnellate all’anno di CO2, valore che salirà a 5.500 tonnellate quando si procederà con l’alimentazione a biogas, prevista entro il 2017.

COS’È L’IMPIANTO DI TELERISCALDAMENTO LAMBORGHINI?

L’impianto di teleriscaldamento Lamborghini – il primo mai realizzato da una Casa automobilistica italiana – consente la distribuzione di acqua calda, proveniente da una centrale di cogenerazione a biogassituata a circa sei chilometri dall’azienda, attraverso una rete di tubazioni interrate. Il tutto con un risparmio di emissioni pari a circa 1.800 tonnellate di CO2 ogni anno.

LAMBORGHINI E L’AMBIENTE: LE SOLUZIONI “VERDI”

Già in passato la Lamborghini ha mostrato di essere un’azienda molto attenta all’ambiente: nel 2010 ha realizzato un impianto fotovoltaico da 15.000 metri quadrati (tra i più grandi del settore industriale in Emilia Romagna, risparmio di quasi 1.000 tonnellate di CO2 all’anno) mentre risale al 2011 l’inaugurazione del Parco Lamborghini, dedicato all’iniziativa “Lamborghini per la biodiversità – Progetto di ricerca Foresta di Querce” (collegata ad uno studio sperimentale volto all’analisi delle relazioni tra le piante, la loro densità, il clima e la CO2 realizzato in collaborazione con il comune di Sant’Agata Bolognese e le Università di Bologna, Bolzano e Monaco di Baviera), che ha previsto la messa a dimora di oltre 10.000 giovani querce in un’area di circa sette ettari (70.000 m2).
Ma non è tutto. Nel 2012, infatti, è stato inaugurato il nuovo edificio dedicato allo sviluppo del prototipi e delle vetture pre serie: il primo industriale multipiano in Italia ad essere certificato in classe energetica A (così come il Centro Logistico del 2013 e il Training Center del 2014).

LAMBORGHINI E L’ECOLOGIA: LE CERTIFICAZIONI AMBIENTALI

Nel 2009 la Lamborghini è stata la prima (ed è ancora oggi l’unica) Casa automobilistica in Italia ad aver ottenuto la certificazione ambientale EMAS (regolamento ideato dall’Unione Europea per supportare le organizzazioni a valutare e migliorare la propria efficienza). Pochi mesi prima il brand di Sant’Agata aveva invece ottenuto la certificazione ISO 14001, soddisfacendo gli standard internazionali sulla gestione ambientale.
Risale invece al 2011 la “conquista” della certificazione ISO 50001, un primato tra i brand italiani specializzati nell’automotive.




Nativi della csr

Nel lungo periodo saremo tutti passati a miglior vita. Ma anche se siamo qui il tempo di un battito di ciglia, non possiamo non interrogarci – specie per chi ha figli – su quello che sarà non solo domani ma anche dopo domani e poi ancora più avanti. Avere lo sguardo lungo, insomma, è quasi una necessità esistenziale.
Negli ultimi tempi una delle espressioni più belle che mi hanno spinto a riflettere sui tempi lunghi è questa: nativi della csr. L’ho letta per la prima volta in un bell’articolo. Non so se sia stata usata prima. Ma l’ho fatta subito mia.
Beh, per farla breve il concetto è questo. Siamo abituati a sentir parlare di nativi digitali, no? I giovani anzi i giovanissimi nati al tempo del web, dei social network, della banda larga e ultra-larga, degli smartphone e dell’always connected. Per loro la grande rete informatica, che mosse i primi passi decenni or sono e non proprio per scopi umanitari, è semplicemente un dato di realtà. Descrive il mondo che hanno intorno. Non è una conquista, o almeno non la vivono così. Non è un qualcosa di cui dire “ma come facevamo quando non c’era?”, perché ci sono nati dentro. Un po’ come la televisione per quelli della mia età. Il telefono per quelli di una generazione prima, credo. C’è, esiste. Punto.
E allora, che succede se si applica questo concetto alla csr? Succede che stanno arrivando sui luoghi di lavoro (quelli che un lavoro lo trovano, ovviamente) e sul mercato, nel senso di acquirenti capaci di essere decisori dei loro acquisti (su chi paga spesso è da vedere…), e ancor più arriveranno nei prossimi anni, delle vere e proprie batterie, legioni, insomma generazioni di ragazze e ragazzi che la csr semplicemente ce l’hanno nel sangue. Che la vedono e la vivono come un dato di realtà. Sono abituati cioè a guardare alle imprese, quelle in cui lavorano e quelle che producono i prodotti che acquistano, come a organizzazioni che non solo finalizzano la loro attività al conseguimento di un profitto, ma tengono conto – perché devono tenerne conto, non possono non farlo, non avrebbero posto in questa realtà – di variabili sociali e ambientali.
Per i nativi della csr dire impresa e dire sostenibilità è la stessa cosa: l’impresa dev’essere sostenibile. Sostenibile dev’essere il loro stile di vita, il modo di spostarsi, mangiare, vestire, buttare o meglio riciclare quello che usano tutti i giorni. E di immaginare il lavoro, naturalmente.
Ciò ha almeno due conseguenze importanti, nella prospettiva di questo blog.
Primo: è facile prevedere che molti di questi giovani sono o comunque presto potranno essere consumatori responsabili, critici, in una parola consum-attori.
Secondo: è ugualmente facile intuire che si aspetteranno, dalle aziende in cui andranno a lavorare, tutta una serie di attenzioni in senso sociale e ambientale: li possiamo chiamarelavor-attori? Massì, proviamoci. Perché per loro quelle non saranno attenzioni particolari, o dimostrazioni del fatto che alcune aziende sono più illuminate di altre: per loro sarà semplicemente un elemento di realtà. Non potrà che essere così, per loro.
E allora, sui tempi lunghi, mi vien da essere fiducioso (ammetto che non capita spesso, di questi tempi). Perché tutto questo seminare che si è fatto in anni e decenni sulla csr, sulla sostenibilità, sull’etica d’impresa e via discorrendo, beh, evidentemente sta cominciando adare frutti. Non perché cresce il numero di aziende che pubblicano il bilancio sociale o che controllano e cercano di ridurre le loro emissioni di Co2 o che migliorano i programmi di conciliazione vita-lavoro o chiedono alla supply chain di rispettare certi requisiti, che va sempre bene, intendiamoci. Ma perché le persone che ci sostituiranno man mano su questo pianeta saranno persone diverse da noi, semplicemente in quanto nate e cresciute in un mondo che è cambiato. Persone per le quali la csr in azienda sarà scontata, dovuta, un dato di fatto, di realtà. Non potrà non esserci.
Perché loro sono i nativi della csr, noi no. Facciamogli spazio.




Quando il profitto non è tutto

Responsabilità sociale e imprese virtuose impegnate a favore della collettività
Da non confondere con la mera filantropia, laResponsabilità sociale (Corporate social responsibility – Csr) impegna le imprese, su base volontaria, in una serie di pratiche di natura etica e sociale da integrare nelle strategie aziendali, e da realizzare a favore dei dipendenti, del territorio nel quale operano e più in generale degli stakeholder (portatori di interesse). Azioni che vengono poi comunicate attraverso la redazione di documenti come ilBilancio Sociale e il Bilancio di Sostenibilità.
Benché il fenomeno si sia diffuso in Italia solo negli ultimi 15 anni, lo spirito della Csr trova un riscontro, già agli inizi del  ‘900, in Camillo Olivetti, e più tardi nel figlio Adriano, che nella fabbrica di Ivrea diedero forma a un articolato sistema di servizi sociali a favore dei dipendenti che ha anticipato il moderno ‘welfare state’. Oggi il concetto si è ampliato e coinvolge più ambiti. Tra questi, l’ambiente, la sostenibilità, la solidarietà, la formazione,l’arte e della cultura.
Una delle esperienze attuali più eclatanti di responsabilità sociale d’impresa ha preso forma per volere di Brunello Cucinelli, industriale del cashmere, che nel 1985 ha acquistato un borgo trecentesco sulla cima di un colle in Umbria, Solomeo è il suo nome, diventato dopo un meticoloso intervento di recupero il fulcro delle attività produttive. Nella rocca medioevale, ad esempio, sono stati collocati gli uffici e i laboratori; l’antica casa del fattore ospita la mensa aziendale che propone il meglio della cucina umbra, mentre attraverso il recupero del teatro, dell’anfiteatro e del ‘giardino dei filosofi’ è stato creato il Foro delle arti. Cucinelli, convinto che il profitto non basti se non è accompagnato dal raggiungimento del bene collettivo, ha dato così vita a una realtà imprenditoriale di ‘capitalismo etico’ che ha tra gli obiettivi primari il miglioramento della vita di chi lavora.
Pur senza toccare le vette raggiunte da Cucinelli, altri casi si possono citare:  Edison ha avviato una serie di iniziative come, tra le altre, ‘Edison green movie’, primo protocollo europeo per un cinema sostenibile; ed ‘Edison change the music’, primo progetto musicale a emissioni zero. La maison fiorentina Gucci si è invece impegnata a ridurre l’impronta ambientale nei processi produttivi, mentre persino una piccola realtà come Borgo San Felice, hotel cinque stelle nel Chianti senese, ha dato vita al programma socio-assistenzialeImpariamo nel borgo’ a sostegno dei ragazzi in difficoltà e con storie difficili alle spalle, aiutandoli a progettare il loro futuro.
Nonostante la crisi, le aziende hanno continuato in questi anni a investire in responsabilità sociale, pur limando un po’ i budget e con qualche variazione rispetto agli ambiti d’intervento.  Secondo il VI Rapporto dell’Osservatorio Socialis, nel 2013, l’investimento medio, calcolato sulla base di 292 aziende campione, destinato a iniziative sociali è stato di 158mila euro, in diminuzione rispetto al 2011 quando l’importo era pari a 210mila euro, ma con una previsione di crescita a 169mila euro nel 2014. Sempre secondo il rapporto, tra le motivazioni che inducono un’impresa a varare politiche di responsabilità sociale c’è al primo posto il ‘miglioramento dell’immagine aziendale’ (47%); seguita dalla capacità di ‘attirare nuovi clienti’ e di ‘migliorare il clima interno’ (con il 27% ciascuna). Le ricadute derivanti dalle iniziative di Csr  si sono inoltre concretizzate in un ‘miglioramento del clima interno e in un aumento del coinvolgimento dei dipendenti’ per il 46% delle imprese interpellate, in un ‘miglioramento dell’immagine dell’azienda nei confronti degli stakeholder’ per il 36% e in un ‘consolidamento della reputazione per affrontare eventuali crisi di comunicazione’ per il 26%.
Come detto, si è invece registrato qualche cambiamento sul fronte degli ambiti di intervento. “Attualmente c’è una grande interesse verso le tematiche ambientali. Che significa anche risparmiare da un punto di vista economico”, spiega Rossella Sobrero, presidente diKoinètica, società attiva dagli albori della Csr nella comunicazione e nello sviluppo della responsabilità d’impresa, “mentre sono diminuiti i contributi al Terzo settore. Chi infatti promuove oggi iniziative filantropiche o di charity tende spesso a collaborare su progetti congiunti. Ci sono poi imprese che, pur costrette dalla crisi a ristrutturazioni aziendali, hanno privilegiato politiche il più possibile condivise e, quando realizzabili, di ricollocazione”.
Un altra tendenza da seguire, della quale parla Sobrero nel suo blog ‘Csr e dintorni’, è inoltre quella del  ‘reshoring’, fenomeno partito dagli Usa grazie alle politiche del Presidente Barack Obama, che vede alcune aziende riportare ‘a casa’ la produzione dopo aver negli anni passati delocalizzato per risparmiare sui costi della manodopera. Un segnale, questo, di una rinata considerazione per il territorio. Di come la responsabilità sociale abbia cambiato i processi produttivi e le modalità di consumo e di quali siano le prospettive future si parlerà al ‘Salone della Csr e dell’innovazione sociale’ in programma all’Università Bocconi di Milano il 7 e l’8 ottobre prossimi.
Durante l’evento, promosso dall’Università Bocconi, Alleanza delle Cooperative Italiane, CSR Manager Network, Fondazione Sodalitas, Unioncamere e Koinètica, verrà inoltre tracciato un bilancio sui primi 15 anni della Csr per verificare, tra le altre cose, se l’Europa, su questo fronte, sia diventata davvero un Polo di eccellenza, obiettivo indicato dalla Ue durante il vertice di Lisbona del 2000, e per analizzare, anche alla luce della crisi, le opportunità e le criticità del settore.
Un ruolo importante sul fronte della diffusione della cultura della Csr gioca, naturalmente,la comunicazione. E a questo aspetto sono dedicate alcune iniziative come, ad esempio, ilPremio Areté (in greco percorso virtuoso di pensiero, sentimento ed azione), il primo del genere, nato per segnalare alla business community in particolare e all’opinione pubblica in generale, i soggetti che si sono distinti per l’efficacia della comunicazione nel rispetto delle regole della responsabilità.
“Aziende pubbliche e private, editoriali e finanziarie, enti e associazioni, agenzie di pubblicità, chiunque e a qualsiasi titolo si relazioni con i consumatori/utenti attraverso tecniche e tecnologie di comunicazione, di informazione, di intrattenimento ha l’opportunità di proporre forme e contenuti che abbiano una reale funzione educativa e che contribuiscano alla definizione di nuovi format”, spiega Enzo Argante, presidente di Nuvolaverde e ideatore del Premio. “Perché l’elemento strategico chiave della comunicazione – informazione – intrattenimento non può più essere unicamente l’aspetto creativo fine a stesso, ma la capacità di rendere responsabile il messaggio.  La comunicazione responsabile non è solo una comunicazione di solidarietà o di funzione sociale, ma si ascrive anche alle attività correnti di una azienda che veicola informazioni chiare, concrete e di valore, sia nell’ambito delle iniziative editoriali e di intrattenimento sia sui prodotti e sui servizi che vende. L’azienda che comunica in modo responsabile contribuisce ad accrescere il proprio valore economico, rafforza il rapporto con i portatori di interesse, svolge un ruolo diretto nella formazione della coscienza collettiva per un futuro sostenibile”.
Il Premio, giunto quest’anno all’undicesima edizione, è promosso da Nuvolaverde  conConfindustria,  Abi (Associazione Bancaria italiana) e Gruppo 24 Ore grazie ad associazioni, fondazioni e istituzioni, tra i quali  Sodalitas, Anima, Ascai, Legambiente, Manageritalia,Fondazione Pubblicità Progresso, Altis Università Cattolica di Milano, Transparency International, ed è in programma per il 21 novembre prossimo nell’ambito della Settimana della Cultura d’Impresa di Confindistria e ComunicaBanca di Abi. Prima ancora, Areté sarà presente al Salone della Csr  con la tappa milanese di Knowledge, un progetto dedicato alle scuole superiori, dove, nell’ambito di un workshop  sulla nuova normativa Ue sul Bilancio Sociale per le aziende quotate in borsa, verranno anche selezionati i bilanci che concorreranno alla nuova sezione dedicata al tema del Premio.




Una case history di eccezione: il SocialHub di GUNA

Un progetto di CSR sviluppato in sette anni di intenso lavoro, che ha fatto di una azienda italiana del settore farmaceutico una “best in class” nel panorama internazionale delle PMI.Scarica qui le slides descrittive presentate al recente meeting del NIBR – Network Italiano Business Reporting – presso PriceWaterhouseCooper a Milano.




Quando l'impresa è un affare di tutti

Fabio Guenza* incontra Robert Edward Freeman:
Conciliare etica, sostenibilità e affari è un bel dire! È il fare che è un po’ più complicato! Dopo anni di lavoro in azienda ero convinto che le imprese fossero destinate a seguire un’etica scollegata, quando non in conflitto, con quella del mio mondo ideale: se le imprese hanno fine di lucro e “il fine giustifica i mezzi”, come poteva non essere così?
Praticando il Buddismo di Nichiren Daishonin la mia sofferenza è diventata una sfida. Ho acquisito una chiave di lettura diversa, che mi ha fatto comprendere tante cose, a partire dal fatto che il profitto non è il fine dell’impresa ma il mezzo e il risultato della sua attività (com’è facile confondere l’obiettivo con il beneficio!). E ho finito per decidere di cambiare vita e lavoro, dedicandomi professionalmente alla Responsabilità Sociale d’Impresa.
Quante probabilità ha una persona comune di stringere un rapporto personale con il luminare della propria disciplina? Eppure questo ci insegna a fare Sensei: stringere legami di amicizia con tutti.
«Aiuto, come reagirà se gli rivolgo la parola?» fu il primo pensiero quando incrociai Edward Freeman a un convegno nel 2005. Oggi sono le sue lodi per l’intervista che gli ho fatto – la prima della mia vita, di cui nelle pagine che seguono viene riportato un estratto – e la sua pubblicazione in un libro l’esito più recente della mia decisione di allora di fare come il maestro, superando il mio timore reverenziale.
Nel mezzo tante piccole vittorie, che compongono la vivida trama dei ricordi di questo divertente capitolo dell’avventura che è diventata la mia vita, praticando.
 
L’INTERVISTA
Come in ogni relazione umana, anche in quelle economiche le persone – gli imprenditori, i lavoratori, i consumatori… – possono avere interessi diversi, anche contrapposti (Cfr. Daisaku Ikeda, Proposta di pace 2009, BS, 134, 31 e seguenti), ma che non necessariamente devono confliggere. Se dall’incontro si crea o si distrugge valore dipende dallo stato vitale e dall’atteggiamento delle persone stesse, dalla consapevolezza della loro interdipendenza.
Ma la conoscenza del principio di origine dipendente non basta a spingere il sistema economico verso la sostenibilità: occorre un cambiamento generalizzato nella mentalità delle persone, che sta alla base del modo di agire diffuso. Di fronte a un potenziale conflitto d’interessi (per esempio tra gli utili degli azionisti e i salari dei lavoratori, o tra i prezzi e le regole) occorre sviluppare la capacità di vivere in quel modo che Tsunesaburo Makiguchi definiva “contributivo” superando la logica del compromesso e realizzando il massimo interesse comune. Se tra l’impresa e le parti interessate si creano ottime relazioni, e si mantengono nel tempo, la tensione all’immediata massimizzazione del profitto può far posto alla creazione di valore durevole, nell’interesse di tutti.
Perciò il dialogo che serve è responsabilità condivisa.
Professor Freeman, è possibile immaginare un’impresa che riesca a conciliare i propri profitti con tutte le altre esigenze (impatto ambientale, rapporti con i dipendenti,
soddisfazione del pubblico…)?
Una visione diffusa è che il fine dell’impresa e più in generale degli affari in un’economia di mercato sia la massimizzazione dei profitti degli azionisti, che è soggetta ad alcuni vincoli quali: come si trattano clienti e lavoratori, cosa si fa in materia d’ambiente, ecc. Ritengo che questo modo di pensare sia completamente sbagliato e che invece un’impresa abbia successo se crea grandi prodotti amati dai clienti.
Il primo obiettivo è offrire ai clienti i prodotti che desiderano e per riuscirci occorrono: dipendenti che hanno idee, vogliono far crescere l’impresa e desiderano produrre ciò che i clienti amano; fornitori impegnati a mettere in grado l’impresa di realizzare al meglio gli obiettivi; infine capitali/finanziatori interessati a sostenerla. Clienti, dipendenti, fornitori e finanziatori sono tutti necessari per portare avanti un’impresa di successo, che deve avere il sostegno delle comunità in cui opera: se questo viene a mancare, presto o tardi la stessa comunità arriverà a porre vincoli all’attività dell’impresa, che non avrà più la stessa libertà di innovare e creare.
In breve: se l’impresa vuole avere successo deve creare valore per tutti i suoi stakeholder1: i clienti, i fornitori, i dipendenti, i finanziatori, le comunità, le persone.
Molti vedono tutti questi interessi in perenne conflitto.
Infatti. Normalmente si pensa che se si servono meglio i clienti restano meno soldi agli azionisti; che pagando un po’ più i lavoratori c’è meno denaro per i clienti e i fornitori; che spremendo i fornitori si possono distribuire più profitti agli azionisti, che disinteressandosi della comunità si facciano più soldi. Ma pensarla in questi termini è un errore. Ciò che è interessante nell’idea della gestione centrata sugli stakeholder è la comunanza degli interessi: migliorare la vita dei clienti e quella dei dipendenti è un guadagno anche per gli azionisti. Riconoscere che esiste una comunanza tra gli interessi degli stakeholder ribalta il modo di pensare secondo il quale essi rappresentino un vincolo agli affari. La visione di un mondo di persone avide in feroce concorrenza non ci porta molto lontano.
Ma il profitto?
Io credo che la nozione di profitto come fine ultimo di ogni impresa sia una delle idee più fraintese. Mi spiego con una metafora: un organismo per vivere ha bisogno di sangue e globuli rossi, ma da ciò non consegue che il suo fine sia la produzione di sangue.
Allo stesso modo, un’impresa ha bisogno dei profitti, ma ciò non vuol dire che il suo fine sia produrre profitti. Io sono un fan delle imprese che producono profitti, ma penso che i profitti siano il risultato, non lo scopo dell’attività di un’impresa.
Questo ci porta alla domanda: come si fanno i profitti? La risposta è tanto semplice da sembrarmi ovvia: realizzando ottimi prodotti che i clienti desiderano; a questo scopo servono lavoratori coinvolti, fornitori che collaborano nel migliorare il prodotto, cittadini che guardano di buon occhio. Se un’impresa fa tutto questo, inevitabilmente il risultato saranno buoni profitti.
Jack Welch, già amministratore delegato della General Electric, lo ha detto in modo chiaro: «L’idea di massimizzare i profitti è un’idea stupida: i profitti sono un risultato, non qualcosa che cerchi di fare». Anche i guru del business management della Harvard Business School, come Michael Porter o Michael Jensen, ormai riconoscono che «la responsabilità d’impresa e la gestione degli stakeholder sono importanti: se vuoi massimizzare i profitti, devi tener conto degli stakeholder».
Io mi spingo ancora oltre: la stessa ragion d’essere di un’impresa è creare valore per gli stakeholder, questo è tutto ciò che conta. Anche Adam Smith diceva che «i mercati non funzionano senza uomini giusti». Dunque, l’interesse personale e la dimensione etica coesistono.
Immaginare che una strategia si segua “o per il business, o per l’etica”, ma non per entrambi contemporaneamente, è un esempio di ciò che io chiamo “fallacia della separazione”. Invece, quasi sempre i due elementi propulsori sono congiunti. Pensare secondo un modello puramente altruistico o un modello puramente egoistico è un esercizio superato e ormai privo di significato.
Da tempo penso che non si agisce solo per interesse individuale, ma che a questo si associa contemporaneamente l’interesse per gli altri. Ogni genitore lo sa bene: naturalmente le persone vogliono il meglio per sé, ma desiderano anche il meglio per i loro figli, le loro famiglie e le loro comunità. La base dei loro interessi è molto più ampia di quella dell’interesse individuale. Allo stesso modo, domandarsi se un’impresa sia guidata dall’interesse individuale o dall’altruismo è irrilevante o fuorviante; così come lo è chiedersi se il green business sia guidato dall’opportunità o dalla preoccupazione per l’ambiente che viene lasciato in eredità alle future generazioni.
E la concorrenza?
Penso che il vero meccanismo propulsore del capitalismo non sia la concorrenza ma la cooperazione, per produrre insieme ciò che nessuno potrebbe fare individualmente. La concorrenza in una società libera è importante, accresce le opportunità di scelta, ma il vero motore è il nostro desiderio di esseri umani di cooperare per creare qualcosa. Il capitalismo è basato sul nostro desiderio di creare ciò che ci fa vivere meglio, dunque la concorrenza, come il profitto, non si trova al primo posto. Un’impresa ha successo quando scopre come realizzare qualcosa di nuovo che nessun altro ha fatto o può fare, perciò sostengo che il capitalismo sia il più grande sistema di cooperazione sociale esistente. Collaborare per produrre, che non è facile, può anzi essere molto difficile.
Come cambiano l’organizzazione aziendale e il ruolo del management quando si adotta il principio della gestione per gli stakeholder?
Per rispondere a questa domanda vorrei attirare l’attenzione dei lettori sulle “imprese guidate da uno scopo” (purpose driven companies). Spesso hanno avuto fondatori carismatici che le hanno create, possiamo dire con passione, avendo in mente un chiaro scopo che andava al di là del puro profitto. Sono imprese differenti: i loro lavoratori non hanno bisogno di tanti manager che dicano loro cosa devono fare perché è il raggiungimento dello scopo, la passione, che guida le loro azioni.
In queste imprese si riduce o viene meno il bisogno della burocrazia manageriale basata sul modello di comando e controllo che caratterizza invece la gran parte delle imprese. Non intendo dire che quest’ultimo possa sparire del tutto, ciò che voglio dire è che maggiore è l’ispirazione comune verso lo scopo, maggiore è l’efficacia dell’impresa nel raggiungerlo.
Non si tratta di un nuovo modello, è un’idea che ha origini lontane, la si ritrova nei teorici americani (parlo di quelli che conosco meglio) di inizio Novecento, ad esempio in Peter Drucker e nel libro del 1938 di Chester Barnard, The Functions of Executives.
Idee che chiariscono che esiste una relazione tra una gestione dell’impresa che valorizza il coinvolgimento dei lavoratori e l’obiettivo di mantenere fedeli i clienti all’impresa tenendo fede allo scopo e ai valori che l’impresa incorpora nei propri prodotti, come dimostrano gli studi pubblicati da alcuni miei colleghi nel libro Firms of Endearment [gioco di parole tra terms of endearment, “parole affettuose” e firms, imprese, traducibile come “imprese affettuose”, n.d.r.].
Queste imprese hanno margini lordi più bassi della media, salari più alti e probabilmente spremono meno i fornitori, ma i margini netti sono molto più alti grazie a minori spese di marketing per mantenere i clienti fedeli al marchio. Non è una questione di dimensioni: vedo imprese piccole, medie e grandi che hanno questa caratteristica. Si assomigliano tutte, riescono a fidelizzare i clienti, c’è passione e amore più per il prodotto che per il marketing. In un’impresa del
genere il management ama quello che fa, ed è convinto che migliori le vite dei clienti.
Che relazione esiste tra gestione per gli stakeholder e sostenibilità?
Non sono un sostenitore della separazione tra i due concetti. Prendiamo un’impresa in cui la gestione per gli stakeholder sia il principio guida: i prodotti sono amati dai clienti; i dipendenti lavorano volentieri perché sono trattati in modo rispettoso per la loro dignità; i fornitori sono contenti perché il rapporto con quell’impresa è vantaggioso; le comunità apprezzano l’impresa e la sostengono perché non produce danni all’ambiente e alla società locale, agisce cioè da buon cittadino; gli azionisti sono soddisfatti. Quest’impresa non sta facendo business in modo sostenibile? Secondo me la sostenibilità è semplicemente il risultato della considerazione degli interessi di tutti gli stakeholder.
All’epoca della globalizzazione quello di comunità è un concetto sfuggente. Ognuno oggi può essere considerato parte di diverse comunità contemporaneamente: è difficile avere una chiara definizione di quale sia la comunità di cui l’impresa fa parte. Alcune comunità sono virtuali, altre globali, altre ancora sono comunità di luogo, dove vivono i lavoratori e dove si trovano anche molti clienti. L’impresa può contribuire a rafforzare la comunità di luogo, a renderla migliore e più attrattiva, creando così valore per chi vi appartiene, inclusi i clienti, i fornitori e i lavoratori.
Se un particolare prodotto è radicato in una comunità di luogo – in Italia un buon esempio è il parmigiano reggiano (sorride indicando il pezzo che avevo portato per mettere a suo agio il mio ospite, n.d.r.) – quel prodotto e il business che lo produce contribuiscono a mantenere forte e ricca la comunità, a creare valore. La sostenibilità emerge come un risultato profondamente collegato all’orizzonte che un’azienda si dà in relazione alle proprie comunità. Fa una grande differenza se un’azienda ha una visione globale o parziale e di breve o di lungo termine di queste relazioni. Non si deve però pensare alle relazioni di lungo termine in astratto: sarà perché sto invecchiando, ma tendo a pensare sempre di più al breve termine (ride, n.d.r.).
In definitiva, ritengo che una relazione positiva di lungo termine si costruisca sviluppando ottime relazioni nel breve termine e mantenendole nel tempo.
Oggi i consumatori domandano sostenibilità, è una tendenza di lungo periodo o solo un altro “ultimo grido della moda”?
I consumatori stanno spingendo le aziende nella giusta direzione, non ho mai visto un momento migliore per mettere al centro la creazione di valore per gli stakeholder! Abbiamo oggi molti consumatori smart (svegli) che hanno voce e riescono a trainare le imprese. Ciò che è difficile per le imprese è come tradurre le loro richieste in un valore, innovare realmente. È dallo sforzo d’inventare un modo di colmare il divario tra risorse disponibili e aspirazioni che nasce la tensione creativa che sta alla base di ogni innovazione.
L’innovazione è la vera sfida, e scaturisce più facilmente se le imprese sono guidate da uno scopo che vada oltre il profitto, cioè dalla passione per il prodotto che accomuna gli stakeholder.
Se un’impresa ritiene che il cambiamento è impossibile, che i lavoratori non cambiano, che i clienti non cambiano, che i manager non cambiano, allora l’innovazione è impossibile e l’impresa nel lungo termine è morta!
Nei corsi sulla leadership che tengo, ai miei studenti non parlo solo dei casi aziendali di successo, ma anche di letteratura e musica, perché la leadership è un atto creativo. La comprensione di come gruppi di persone possano impegnarsi intorno a uno scopo solo per la passione di realizzarlo ha molto più a che vedere con un tipo leadership creativa – pensiamo a un direttore d’orchestra, al leader di un gruppo jazz o a un regista teatrale – che con l’organizzazione di rigide gerarchie di controllo.
Molto di ciò di cui abbiamo parlato ha a che fare con le connessioni tra tutti coloro che hanno un qualche ruolo nel business. È un elemento che le imprese spesso dimenticano quando agiscono come se il profitto fosse l’unico o il principale fine, con il risultato che considerano i mercati come se fossero fuori dal mondo, persi nello spazio. Il principio delle connessioni è incredibilmente importante: gli interessi degli stakeholder sono connessi con le imprese, le comunità sono collegate tra loro, gli individui sono collegati con gli altri. Abbiamo bisogno, le imprese hanno bisogno, di un dialogo tra tutti questi soggetti.
 
Nota
1) Il termine stakeholder definisce un soggetto – una “parte” – che può influenzare e/o essere influenzato dalle azioni dell’impresa. L’uso della nozione di stakeholder con questo significato si fa risalire a un memorandum dello Stanford Research Institute del 1963. Sembra che la parola sia stata mutuata da un’antica espressione scozzese che identificava una persona che regge uno stake – un pezzo di legno, solitamente lungo e sottile e appuntito da un lato, tale da poter essere facilmente piantato per terra – mentre qualcun altro lo colpisce con una mazza. Questo concetto, dopo essere stato utilizzato da Robert Edward Freeman nel 1984 per istituire una teoria innovativa di gestione d’impresa, è stato largamente accolto.
Stakeholder primari sono considerati coloro che s’impegnano direttamente in transazioni economiche con l’impresa: finanziatori (azionisti, obbligazionisti, creditori, ecc.), clienti, consumatori, lavoratori, fornitori. Secondari, coloro che possono influenzare le azioni dell’impresa o essere influenzati da esse dal punto di vista economico, ambientale, sociale ed etico: le comunità, le future generazioni, la Pubblica Amministrazione, i gruppi di consumatori o di ambientalisti, le associazioni d’imprenditori, ecc. In italiano il termine può essere tradotto “portatore” o “detentore” d’interesse.
 
Bibliografia di riferimento

  1. E. Freeman, S. R. Velamuri, B. Moriarty, Company Stakeholder Responsibility: A New Approach to CSR, Business Roundtable Institute for Corporate Ethics, 2006, www.corporateethics. org.
  2. Barnard, The Functions of Executives, Harvard (Mass.), 2005 [ed. or. 1938].
  3. Smith, The Theory of Moral Sentiments, Amherst (NY), 2000 [ed. or. 1759].
  4. S. Sisodia, D. Wolfe, J. Sheth, Firms of Endearment: How World-Class Companies Profit from Passion and Purpose, Wharton (Penn.), 2007. Si veda anche il blog Firms of Endearment, http://firmsofendearment.typepad.com.
  5. R. Freeman, P. H. Werhane (a cura di), Business ethics, Malden, Oxford, 2005.
  6. R. Freeman, G. Rusconi, Teoria degli stakeholder, Milano, 2007.
  7. R. Freeman, J. S. Harrison, A. C. Wicks, Managing for stakeholders: survival, reputation, and success, New Haven, Londra, 2007.

 
* Fabio Guenza, economista, è consulente strategico e organizzativo ed esperto di competitività e responsabilità d’impresa. Svolge attività di ricerca e di formazione sui temi dello sviluppo sostenibile, in particolare ma non esclusivamente nella moda, e realizza attività di dialogo sociale e diffusione della cultura della sostenibilità.
Robert Edward Freeman è professore di Business Administration presso la Darden School of Business dell’Università della Virginia, dove insegna anche Studi religiosi, Capitalismo creativo e Leadership e teatro. È autore e curatore di più di venti volumi nell’area delle strategie d’impresa e dell’etica degli affari, che vertono sullo sviluppo dell’abilità di gestire con successo le relazioni dell’impresa con gli stakeholder (il termine definisce un soggetto – una “parte” – che può influenzare e/o essere influenzato dalle azioni di un’impresa). Freeman è forse più noto per il suo pluripremiato libro Strategic Management: A Stakeholder Approach (Gestione strategica: un approccio centrato sugli stakeholder), originariamente pubblicato nel 1984, nel quale sostiene che le imprese costruiscono le loro strategie sulle relazioni con gli stakeholder chiave. Il recente Il bello e il buono. Le ragioni della moda sostenibile (a cura di M. Ricchetti e M. L. Frisa, Marsilio, 2011) si apre con un
capitolo/intervista a cura di Fabio Guenza.