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Quest’anno sotto l’albero di Natale? Un nuovo psicofarmaco per bambini

Natale è alle porte, e pare che anche quest’anno la tentazione di alcune aziende di inventare a tavolino nuove malattie, come se non ci bastassero quelle già esistenti, non riesca a venir meno. È il “disease mongering”.Il “disease mongering” è la “mercificazione delle malattie”. Rappresenta l’espressione più estrema del marketing farmaceutico, e consiste nella pubblicizzazione sistematica di un farmaco, anche attraverso il massiccio finanziamento di convegni scientifici atti a promuoverne l’uso, abbinata alla modifica surrettizia dei “confini” della diagnosi della patologia che il farmaco dovrebbe curare. In poche parole, per semplificare, se una casa farmaceutica riuscisse ad ottenere l’assenso di parte della comunità scientifica sul fatto che è possibile diagnosticare l’ipertensione a 135/85 invece che ha 140/90 com’è normale fare oggi, il giorno dopo a milioni e milioni di nuovi pazienti verranno prescritti farmaci ipertensivi, con forte incremento degli utili delle aziende produttrici.
È illegale tutto ciò? L’abuso di farmaci non necessari può causare effetti avversi e iatrogeni pericolosi per la salute, ma nessuna legge in grado di avere un serio impatto internazionale è mai stata approvata, e quindi di fatto non vi sono sanzioni: si continua a fare, per molte patologie, come dimostra l’illuminante documentario prodotto da Rai 3 “Inventori di Malattie”.
Quand’è promosso sulla testa dei più deboli tra noi, i bambini e gli adolescenti, questo comportamento orientato al profitto è particolarmente odioso. L’ADHD è un tipico caso di disease mongering: una discussa sindrome da iperattività e deficit di attenzione dell’infanzia, “curata” con psicofarmaci, utili per “fissare l’attenzione” di bambini troppo agitati e distratti. Sono derivati dell’anfetamina, somministrati ogni giorno a milioni di bambini nel mondo, Italia compresa, tra l’indifferenza generale, che non risolvono il problema di comportamento – smettendo di somministrarli tornano infatti dal primo all’ultimo tutti i sintomi precedenti alla cura! – ma risolvono benissimo la necessità di Novartis (produttrice del contestatissimo Ritalin®, la metanfetamina per bambini troppo agitati e distratti), Eli Lilly e altri giganti del big pharma di distribuire ricchi dividendi a fine anno.
Per inquadrare meglio il problema, è utile ricordare come un’altra multinazionale del settore farmaceutico, la Glaxo, venne inquisita quando emerse che non aveva pubblicato due ricerche scientifiche che dimo­­stravano che il Paxil, un loro psicofarmaco per la depressione a base di paroxetina, “poteva indurre al suicidio bimbi e adolescenti”, in quanto la pubblicazione dei risultati negativi “avrebbe nuociuto al profilo commerciale del farmaco”. La multa poi pagata dall’azienda fu però infinitamente inferiore agli incassi complessivi delle vendite, con buona pace per i danni eventualmente creati da quella molecola.
Sempre per restare in tema di antidepressivi, quando – grazie al Freedom Information Act – il professor Irving Kirsch ha potuto avere accesso a tutti i dati di ricerca, mettendo le mani sui report riservati delle aziende che producono queste molecole psicoattive, ha scoperto che esse non sono più efficaci di una pillola di zucchero. Kirsch ha costretto il Ministero della Salute USA a tirare fuori dai cassetti ciò che altrimenti non sarebbe mai diventato di dominio pubblico: 47 studi clinici controllati che hanno confermato che solo il 10-20% dei pazienti avverte un beneficio dovuto effettivamente all’azione farmacologica della molecola, mentre l’80-90% dei depressi si sente meglio, ma solo grazie all’effetto “placebo”. “Tutti lo sanno – ha dichiarato Kirsch – ma continuano a tacere per interesse”.
In un convegno organizzato dal Comitato indipendente per la farmacovigilanza “Giù le Mani dai Bambini”®, per il quale chi scrive fa volontariato, il dottor Bobbio diede una definizione estremamente accurata di “disease mongering”: “Il termine venne usato per la prima volta nel 1992 da Lynn Payer quando, nel suo articolo “Disease mongers: how doctors, drug companies, and insurers are making you feel sick”, denunciò come venisse aumentata la richiesta di servizi, prestazioni, prodotti, attraverso la ‘dilatazione’ dei criteri diagnostici di alcune malattie.Payer individuò, in particolare, tre meccanismi: trasformare comuni disturbi in problemi medici, farli apparire pericolosi, proporre terapie delle quali si esaltano i benefici e si sottostimano i rischi. “In inglese”, continuò Bobbio “to monger, corrisponde a un’accezione dispregiativa del termine vendere: il fishmonger è il pescivendolo, il warmonger il guerrafondaio”.
Giusto per dimostrare che queste pratiche riguardano moltissimi farmaci di uso quotidiano e comune, e non solo i più pericolosi psicofarmaci, un ulteriore esempio di disease mongering lo presenta sempre il Dott. Bobbio, e riguarda “la campagna informativo-propagandistica per sensibilizzare i medici sulla necessità di curare la stitichezza, in previsione della commercializzazione di un farmaco, il Tegaserod, che avrebbe permesso al 13% dei pazienti di avere un’evacuazione in più alla settimana. In Italia per tre anni è stata organizzata la “Settimana Nazionale per la Diagnosi e la Cura della Stitichezza” fino a quando il farmaco, per il rischio d’incidenti cerebrovascolari, è stato ritirato dal commercio. L’anno successivo, la “Settimana” non è stata più organizzata, dimostrando che il grande interesse “scientifico” per la stitichezza era in realtà mosso da meri interessi commerciali.
Come denunciava un collega giornalista in un articolo di commento a questo fenomeno, sulla rivista AboutPharma, “la manipolazione avviene attraverso un concerto ben combinato di convegni scientifici, editoriali, siti Internet e riviste divulgative che insistono in modo univoco sul medesimo tema. Inoltre, i leader d’opinione internazionali, i cosiddetti “influenti”, hanno spesso contratti milionari con i produttori e, di fatto, influenzano tutta la comunità scientifica, mentre le riviste di settore vivono grazie alle inserzioni pubblicitarie delle farmaceutiche, e i mass-media generalisti sono semplicemente a caccia di sensazionalismi, limitandosi a fare copia-incolla dei comunicati degli uffici stampa delle case farmaceutiche”.
Manipolare l’informazione è – purtroppo, aggiungo io – molto facile, anche perché i vari Ministeri della Salute e le agenzie di controllo sanitario come la nostra AIFA – Agenzia Italiana del Farmaco stanno a guardare e tollerano: in Italia, come in molti altri paesi occidentali, che io ricordi non è mai stata lanciata una campagna informativa contro il disease-mongering. Il perché – chiudendo il cerchio – lo spiega la professoressa Emilia Costa, psichiatra di chiara fama con un imponente curriculum scientifico: “Spesso la maggior parte degli esperti dei comitati tecnico-scientifici delle istituzioni sanitarie di controllo sono anche consulenti delle farmaceutiche. Se pensiamo all’FDA, che è l’agenzia che “detta la linea” da seguire anche al di fuori degli USA vediamo che incassa dai produttori 500.000 dollari per ogni autorizzazione al commercio di un nuovo farmaco che rilascia, ovvio che sia incentivata a rilasciarne il più possibile. Non sarebbe meglio – propone la Costa – un sistema che prevedesse un “fondo” sempre alimentato dalle farmaceutiche, ma non vincolato al ‘numero’ di autorizzazioni rilasciate”?
Ci sono anche altri modi per condizionare la ricerca scientifica, costantemente utilizzati dalle multinazionali farmaceutiche: non registrare correttamente uno studio in fase di avviso sulle bacche dati ufficiali, così da poter poi “adattare” meglio i risultati finali rispetto alle attese iniziali, oppure anche escludere dallo studio in corso d”opera i pazienti “refrattari”, cioè che non hanno risposto come si deve, così da distorcere i risultati in senso più favorevole al farmaco.
Per citare fatti più recenti, il 9 settembre 2014 un blog di analisti finanziari ha pubblicato un’entusiastica recensione di un nuovo psicofarmaco per bambini, la Metadoxina, prodotto dalla farmaceutica statunitense Alcobra, in grado di agire sulle modalità di funzionamento dei neurotrasmettitori migliorando l’attenzione dei bambini.Anche in questo caso, siamo dinnanzi all’ennesimo caso di “riciclo” di una molecola il cui brevetto è ormai scaduto: si tratta infatti di un farmaco utilizzato da oltre trent’anni per il trattamento dei postumi da sbronza, del quale – si dichiara candidamente – non si conosce il meccanismo che lo renderebbe efficace verso i sintomi della disattenzione infantile. Farebbe sorridere, se non fosse drammaticamente vera, la pretesa di utilizzare quindi questa molecola per trattamento sui bimbi basandosi su un solo studio, sponsorizzato dallo stesso produttore, della durata di appena 7 settimane su poco più di cento pazienti, peraltro adulti, che ha dimostrato un’efficacia nella riduzione dei sintomi di disattenzione pari a circa il 70%, laddove nello stesso studio il gruppo di controllo ha fatto registrare un miglioramento nel 50% dei casi utilizzando una semplice pastiglia di zucchero. Ma gli analisti finanziari non la finivano più di tessere elogi…
Intanto un’altra multinazionale farmaceutica ultimamente molto “aggressiva” nel marketing degli psicofarmaci per bambini, la Shire, sta testando in una struttura di ricerca di Pisa coordinata dal Prof. Masi, non certamente ostile alla somministrazione di molecole psicoattive ai bambini, un vecchio anti-ipertensivo mai autorizzato al commercio a causa dei troppi effetti collaterali: la guanfacina, questo il nome della “molecola apolide” in cerca di una patologia da “curare”, che dovrebbe aprire alla Shire il business sulla psichiatria dell’infanzia in Italia, a oggi sottosfruttato – l’Italia è il 5° mercato farmaceutico al mondo, ma di psicofarmaci per minori se ne vendono ancora pochi – al punto che, violando qualunque tipo di norma di carattere deontologico e di legge, questa azienda aveva commissionato a una nota agenzia di Pubbliche Relazioni azioni di promozione della patologia – e quindi del farmaco che deve curarla – nel nostro paese, ancor prima che il farmaco stesso venisse approvato, come dimostrano i contratti d’incarico rinvenuti durante un ispezione dei Carabinieri dei NAS presso la sede dell’agenzia di PR. Ecco quindi cosa troveranno alcuni bambini sotto l’albero di Natale, se la guanfacina verrà approvata per il commercio contro ogni possibile prudenza: un nuovo psicofarmaco che i bambini stessi potranno ingurgitare per “essere come i grandi vogliono”, soddisfare il desiderio di normalità di noi adulti, e ingrossare ancor più i bilanci miliardari dei produttori.
Tutto questo è realtà, dimostrata – sempre grazie alla scienza – da alcune coraggiose ricerche indipendenti, sempre più rare, nonché dall’attività di giornalisti d’inchiesta coraggiosi. Una realtà che condiziona quotidianamente la nostra vita e la nostra salute, ingrassando i portafogli delle case farmaceutiche e dei loro azionisti, tra i quali – è bene dirlo – anche i cittadini “disattenti” che raramente verificano dove vengono investiti i loro risparmi dalla banca di fiducia.
Scoccia citare i defunti, ma l’allora Direttore Generale di Merck, Henry Gadsen dichiarò: “Il nostro sogno è inventare farmaci per gente sana”. Questa frase è ben rappresentativa dell’avidità di certi individui e di certe aziende, che – quasi vittime di una coazione a ripetere – non riescono a uscire dal labirinto mentale che li porta invariabilmente al profitto a qualunque costo. Chissà se un giorno inventeranno qualcosa per curare la loro stessa bulimia da denaro…? Un farmaco, ad esempio, ma mi raccomando: redditizio.




Next – una nuova economia è possibile

E’ uscito di recente il nuovo libro dell’economista Leonardo Bocchetti: “Next – una nuova economia è possibile”, la proposta per un nuovo modello di economia sostenibile che oggi tutti, nel mondo, stanno cercando.
A questo link puoi scaricare e leggere il comunicato stampa con tutti i dettagli del libro stesso.




A che punto è la Csr nell'Ict italiana

Una ricerca del ClubTI ha rivelato interesse sulle iniziative di responsabilità sociale di impresa. Si applicano le regole, esistono belle testimonianze, ma l’It può fare di più
La Responsabilità Sociale di Impresa (Csr – Corporate Social Responsibility) abbraccia un ambito ampio e copre aspetti legati all’impresa e alla sua immagine, ai dipendenti e alla loro motivazione e alla gestione di variabili più strettamente economiche.
Il ClubTI ha condotto tra il 2012 e il 2013 una ricerca per sondare il terreno della Csr in ambito Ict in Italia e ha presentato i risultati in un recente incontro.
La ricerca ha messo in evidenza come nel settore Ict non ci sia ancora una spinta verso iniziative sociali o nell’utilizzo dell’It come strumento per cambiare la società in cui viviamo. Tuttavia i manager dell’It hanno dimostrato attenzione e interesse verso il coinvolgimento sociale.
I principali risultati della ricerca evidenziano che tutte le aziende applicano le norme e regole obbligatorie e che buona parte di quelle opzionali in Italia.
C’è attenzione verso le categorie protette, verso i disabili (con progetti di ristrutturazione degli spazi) verso le donne con iniziative legate ai tempi ridotti di lavoro (part time) o alla creazione di asili.
Le attività di Csr rappresentano ancora iniziative parallele al core business, sono pochissimi i casi di Csr manager, tuttavia le iniziative anche a livello italiano sono degne di attenzione.
Le testimonianze
Luca Lepore, Program Manager per iniziative Csr, ha raccontato come, dopo il successo di Cisco Networking Academy, un programma di formazione digitale che coinvolge 165 paesi e circa 4 milioni di studenti, Cisco Italia ha attivato il Civic Council che promuove, favorisce e realizza attività di Csr grazie a un gruppo molto esteso di colleghi-volontari.
Il progetto ha permesso la realizzazione di iniziative come “A scuola di Internet”, lezioni di web sicuro per le scuole elementari e medie, a genitori e insegnanti con l’obiettivo di diffondere la cultura d’uso della rete in modo prudente o la costituzione della Donation Bay Band”: una rock band che si esibisce per beneficenza fondata da dipendenti di Cisco.
È sulla stessa linea di pensiero anche Bt. Anche in questo caso lo slancio è stato dato da un programma oltreconfine, Better Future. “La filosofia di Bt – ha sostenuto Carlo Ridolfi, Bt Volunteering Ambassador – è basata sull’impegno di gruppi di volontari, il 13% del personale Bt, che dedicano alcune giornate all’anno, riconosciute dall’azienda e a livello personale, per attività benefiche nei confronti di associazioni/ organizzazioni”.
In Italia dal dicembre 2011 si è costituito un team di Volontariato aziendale, che promuove iniziative di It education nelle scuole, a favore di Onlus, e nel Carcere di Bollat.  Non solo: collabora con diverse associazioni come l’Associazione Neuroblastoma, la Comunità San Patrignano e la Croce Rossa Italiana.
Denis Nalon, Marketing Manager ha illustrato l’esperienza che NetApp Italia ha fatto con la “creazione e rimodellazione dello spazio ambientale dove i bambini apprendono” realizzato per la scuola di un paesino, San Felice sul Panaro, fortemente colpito dal terremoto del 2012.
Dunque impegno e sostanza, ma anche “individuazione dei progetti e delle aziende giuste con cui lavorare a medio termine” come ha sottolineato Giuliano Pozza, Direttore Organizzazione e Sistemi Informativi della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus.




I buoni propositi di Coca-Cola e PepsiCo svaniscono in America Latina dove trionfa il junk food: cronache dal Venezuela

Come per ciascuno di noi a inizio anno, anche i grandi gruppi industriali elencano una serie di buoni propositi assunti o da portare avanti nei confronti dell’ambiente e della salute. I voluminosi rapporti sulla Corporate Social Responsibility (CSR) presentano proprio questa lista degli impegni, ma a volte qualcosa non funziona,  come emerge da un breve reportage dal Venezuela.
Il Fatto Alimentare fa tappa a Caracas. All’aeroporto internazionale, le “vending machines” a marchio Coca-Cola offrono diverse bevande zuccherate ricche di bollicine, ma nemmeno una bottiglietta di  acqua minerale. Rassegnati al rubinetto, cerchiamo qualcosa da sgranocchiare. Basta un attimo per accorgersi che nella macchina si trova un vasto assortimento di prodotti a marchio FritoLay, azienda del gruppo PepsiCo, abbastanza imbarazzante. “Ruffles” sembra lo snack più semplice: è “preparato con patate selezionate” e formaggio, come si vede dalla grande fetta di groviera proposta sulla confezione.  Uno sguardo alla tabella nutrizionale evidenzia valori da record: 550 kcal e 13 g di grassi saturi per 100 g di prodotto, i “grassi vegetali” occupano il secondo posto della lista ingredienti, mentre non c’è traccia del formaggio.
Un altro prodotto che attira l’attenzione è “De Todito Mix”, un insieme di snack fritti di varia forma.  In questo caso la tabella nutrizionale è riferita a una porzione anche se il contenuto della busta corrisponde in grammi a una razione e mezza. Rinunciamo alla calcolatrice per valutare le quantità del copioso elenco degli ingredienti che comprende di tutto e di più, tra cui glutammato monosodico e una serie di additivi. I “Doritos”, a prima vista, esprimono la tradizione latino-americana dei triangolini di mais fritti conditi con del formaggio, raffigurato sulla  confezione e affiancato dalla dicitura “Mega-queso” (mega-formaggio). In realtà nell’elenco degli ingredienti troviamo  grassi vegetali, maltodestrine sale, burro e solo in fondo la dicitura di imprecisati “quesos”.
L’elemento più sorprendente è la tabella nutrizionale riferita a 22g, pari alla metà del contenuto della busta. L’ultima chicca è “Cheese tris” uno snack con tanto di super-eroe in copertina. In questo caso la razione consigliata è di 20 g anche se la confezione contiene quasi tre porzioni. Inoltre il valore calorico riferito a 100 g è molto alto e pari a 500 kcal, con 25 g di grassi e 0,6 g di sodio oltre a consistenti dosi di glutammato.
In America Latina – come abbiamo mostrato di recente –  le malattie legate a obesità e sovrappeso hanno incidenza endemica e crescente a ritmo vertiginoso. Le cause sono molteplici, e tuttavia trovano un denominatore comune nella prevalenza delle bevande zuccherate gassate rispetto al consumo di acqua potabile, nell’ampia diffusione di “junk-food” e nella vita sempre più sedentaria. Le industrie del “food & drink”, come quelle del “retail” e del “food service”, non si possono chiamare fuori. E proprio a partire dall’Europa i grandi attori della produzione e distribuzione del cibo hanno iniziato ad assumere vari impegni. L’intento è offrire ai consumatori la possibilità di scegliere alimenti e bevande più o meno compatibili con diete equilibrate di cui tutti hanno bisogno. Inizia a delinearsi il concetto di responsabilità nutrizionale, come capitolo essenziale della Corporate Social Responsibility. Ma evidentemente le scelte di marketing in altre zone del pianeta da parte di alcune multinazionali  non sono proprio omegenee.
“Il mondo è piccolo, e la gente mormora”, ribadiva Enrico Braschi in tempi ormai lontani.  È giunta l’ora di gridare, anziché mormorare, contro le politiche incoerenti di questi gruppi.




CSR: le 10 aziende più green e sostenibili del mondo

Il rapporto tra aziende e sostenibilità è da sempre piuttosto complesso e sfaccettato, tra promesse spesso non mantenute, impegni concreti e una buona dose di greenwashing. Tuttavia, alcune società sono riuscite nell’intento di far coesistere i propri obiettivi di profitto con una riduzione della propria impronta e con l’adozione di comportamenti responsabili: CSR Wire ne ha selezionate 10, a cui ha attribuito l’ambito titolo di aziende più sostenibili del mondo.
Fino a qualche tempo fa, le azienda potevano scegliere di aderire a comportamenti cosiddetti green occasionalmente, a seconda della convenienza del momento, scegliendo di volta in volta se promuovere il riciclo al proprio interno o ridurre la propria produzione di rifiuti o impegnarsi a piantare alberi, e così via.

Oggi, tra consumatori sempre più informati e un mercato spietato che progredisce e cambia a vista d’occhio, essere occasionalmente green non è più sufficiente: bisogna essere sostenibili, e cioè trovare un equilibrio tra il profitto aziendale, le politiche ambientali (quali ad esempio la riduzione della propria impronta e una gestione oculata delle risorse) e la responsabilità sociale. In parole povere, un business davvero sostenibile, che voglia anche essere competitivo sul mercato, deve avere tre focus principali: le persone, ilprofitto e il pianeta.
Ecco le 10 aziende che, secondo CSR Wire, hanno compreso questa nuova filosofia e la mettono quotidianamente in pratica, contribuendo a diffonderla:
1. Banco di Santander
La banca spagnola ha scelto la sostenibilità aderendo, insieme ad altri istituti di credito, ad Equator Principles, una serie di regole e principi che impongono l’analisi di determinati criteri sociali e ambientali prima di dare il via a qualsiasi opera di finanziamento. In questo modo, il colosso bancario ha dato il buon esempio, promuovendo le buone pratiche di sostenibilità anche tra i propri partner.
2. Gerding-Edlen
L’azienda americana, che si occupa di edilizia e riqualificazione ambientale, è da anni specializzata nel creare progetti il più possibile sostenibili ed efficienti dal punto di vista energetico, a prezzi il più possibile competitivi e abbordabili.
3. IBM
La multinazionale ha aderito a diversi progetti studiati per rendere i propri prodotti più sostenibili, sia da un punto di vista ambientale che nel rispetto dei diritti umani. In particolare, ha bandito dalla propria catena di approvvigionamento i cosiddetti conflict mineral, materie prime provenienti da zone in guerra, soprattutto dal Congo, e partecipa alla lotta ai cambiamenti climatici sia attraverso investimenti più corposi nel cloud computing che attraverso dei programmi interni per la riduzione delle emissioni
4. Life Technologies
L’azienda, che crea prodotti per l’analisi scientifica, le scienze applicate e la ricerca genetica, si è impegnata attivamente nel miglioramento della qualità di acqua e cibo e nelle protezione della biodiversità.
5. Munich Reinsurance Group
La compagnia di assicurazioni tedesca partecipa alla lotta contro cambiamenti climatici e le emissioni attraverso l’adozione di particolari politiche interne che dovrebbero condurre tutte le sue operazioni a diventare carbon neutral entro il 2015.
6. National Australia Bank
La banca australiana da tempo cerca di promuovere la sostenibilità presso i propri fornitori, richiedendo loro particolari requisiti oltre che l’adesione ad una serie di principi prima di stipulare un qualsiasi accordo o rapporto di partnership.
7. Toyota
La casa automobilistica giapponese si è impegnata sia sul fronte della ricerca collegata alla realizzazione di veicoli ibridi, sia nella promozione di uno stile di vita sostenibile tra i più giovani, attraverso la Toyota Green Initiative, che coinvolge soprattutto gli studenti universitari.
8. Verizon
Il colosso americano delle telecomunicazioni e della fornitura di banda larga utilizza energia proveniente da fonti rinnovabili, si è impegnato sul fronte delle nuove tecnologie e ha promosso un programma di recupero e riciclo delle vecchie apparecchiature, in modo da diminuire la quantità di rifiuti che finisce nelle discariche.
9. Wipro
La multinazionale indiana dell’ICT ha messo al bando dal proprio business sostanze pericolose o di dubbia fama, si è impegnata a risolvere il problema della gestione dell’acqua e dei rifiuti e ha stipulato un accordo con il WWF India, con l’obiettivo di tutelare la biodiversità.
10. Intel
La multinazionale americana, leader nel mercato dei processori, ha all’attivo sia dei programmi per la riduzione delle emissioni e la conservazione dell’acqua che delle iniziative per favorire l’utilizzo di energia solare nelle proprie sedi.