Tutti siamo la storia

La storia è nota. In un’antica favola africana si narra di una foresta in fiamme e degli animali che fuggono spaventati. L’unico che non scappa, ma torna addirittura indietro con una goccia d’acqua nel becco è un piccolo colibrì. Il leone, che della foresta è il re, gli chiede sarcastico: «Ma cosa credi di fare, non vedi che la foresta sta bruciando?». Risponde serio il colibrì: «Faccio la mia parte».
E partito da qui, dalla «strategia del colibrì», il primo incontro del ciclo «Fede, orizzonte per vivere» organizzato giovedì scorso a Torino dalla Cattedra del dialogo, l’iniziativa culturale promossa dalla pastorale per la Cultura e comunicazioni sociali dei vescovi del Piemonte. A confronto la piccola sorella Maria Ida e il giornalista Luca Poma. Un’occasione davvero speciale, perché le piccole sorelle di Gesù vivono aiutando il prossimo nel silenzio ed è raro che accettino di partecipare ad un incontro pubblico. «Una testimonianza laica e una testimonianza religiosa», ha spiegato mons. Luciano Pacomio, vescovo di Mondovì e delegato Cep per le comunicazioni sociali, «unite nella ricerca di possibili itinerari di fede incarnati nella vita di tutti i giorni. Due protagonisti con esperienze molto diverse che hanno scelto però di spendere la propria vita mettendo al centro la persona». «Due strade diverse», recita il titolo dell’incontro, unite nella ricerca di «obiettivi comuni» che si coniugano nelle parole «accoglienza» e «relazione».
Al centro dell’incontro la domanda: è possibile cambiare il mondo a partire dalle scelte del nostro quotidiano? E’ possibile che i piccoli gesti di ogni giorno – a casa, sul lavoro, tra amici – possano influire sul corso della storia? La Storia, quella con la «s» maiuscola, è fatta da tutti o da pochi? E un vecchio dilemma, lo sappiamo. Che nessuno ha risolto e che forse nessuno risolverà mai. Diceva Pascal: se il naso di Cleopatra fossa stato più corto, l’intera faccia della terra sarebbe cambiata. E scriveva Bertrand Russell: «Lascia perdere, quel che accade nel mondo non dipende da te…». Che dipenda da noi è invece convinto Luca Poma, giornalista esperto in Crisis management e consulente del ministro degli Esteri per le strategie di comunicazione.
«Pochi sanno», ha esordito Poma, «che ogni 5 minuti nel mondo viene ucciso un cristiano. Negli anni Sessanta del Novecento a Betlemme i cristiani residenti erano il 60 per cento della popolazione, oggi sono appena il 20 per cento. In Bosnia-Erzegovina in vent’anni si sono dimezzati: dagli 800 mila cristiani residenti del 1981 si è passati ai 440 mila del 2011. Milioni i cristiani uccisi per motivi religiosi o politici nei secoli passati». Di fronte a questi dati Poma si è chiesto: «Cosa si può fare per difendere la libertà religiosa? E soprattutto cosa può fare il mio Paese, tenuto conto del capitale di credibilità di cui gode la Farnesina all’estero?».
La risposta è arrivata da sola: si può tentare di orientare il lavoro del ministero «anche» su questi problemi, nonostante la difesa della libertà religiosa non sia la mission di un’istituzione pubblica. Così come sono arrivati subito anche i primi risultati: su proposta dell’Italia è partita una task force a livello di Unione europea sul tema delle libertà religiose. Poi è stato aperto a Roma un Osservatorio, quindi è stato steso un Rapporto e infine sono stati stanziati dei fondi da destinare a quei paesi dove la libertà religiosa è più a rischio. Stesso discorso in tema di diritti civili, ha spiegato Poma. Risultato? L’Italia ha stanziato in Siria sconvolta dalla guerra civile 6 milioni di euro per attrezzare ospedali da campo per la popolazione, e in particolare per i bambini colpiti dai bombardamenti.
Luca Poma ha poi ricordato l’esempio (famoso) di Rafael de la Rubia, che insieme a un gruppo di sei amici, complice un meeting sulla pace, hanno ideato e poi organizzato quella che è passata alla storia come la più grande manifestazione del mondo: la Marcia mondiale per la pace e la nonviolenza partita il 2 ottobre 2009 da Wellington (Nuova Zelanda) e conclusasi il 2 gennaio 2010 ai piedi del monte Aconcagua, il tetto dell’Occidente, a Punta de Vacas (Argentina). Due milioni di persone (25 milioni quelli che l’hanno seguita sul web) hanno percorso oltre 200 mila chilometri attraverso 98 paesi, dal Giappone al Sudamerica, attraverso tutti i continenti, e oltre 300 città. A Milano 11 mila persone si sono riunite in piazza Duomo in un karaoke entrato nel Guinnes dei primati. Il messaggio della Marcia, iniziata il 2 ottobre, ricorrenza della nascita di Gandhi, è chiaro: «Non è necessario essere il Mahatma, ognuno nel suo piccolo può fare qualcosa per cambiare il mondo».
E l’impegno dei piccoli gesti quotidiani, quello che ci fa alzare al mattino chiedendoci, «Cosa possiamo fare oggi per gli altri?», è lo stesso che ha guidato Maria Ida, piccola sorella di Gesù, nella sua vita di dedizione al Signore. La sua è stata una testimonianza davvero toccante, perché come fratel Charles de Foucauld, monaco trappista nel silenzio del deserto, al quale si ispira la congregazione, «coniuga la fede come relazione, testimonia l’unità tra l’amore per Dio e l’amore per gli altri. Come Gesù a Nazaret».
La congregazione fondata dalla piccola sorella Magdeleine, che aveva una «fede folle nel Signore padrone dell’impossibile», chiede alle sorelle di vivere come Gesù a Betlemme e a Nazaret, povere tra i poveri, in piccole comunità, che chiamano «le fraternità», spesso ai margini della società, in appartamenti popolari, tende o roulottes, condividendo nella quotidianità la fatica ma anche le speranze degli ultimi fra gli ultimi. La Fraternità fondata in Algeria nel 1939 e consacrata all’islam, con il tempo si estende al mondo intero: nascono fraternità operaie (1946), fraternità orientali (1948), fraternità gitane (1949), fraternità consacrate ai lebbrosi, fraternità sotto le tende con i nomadi. Ogni fraternità, spiega la piccola sorella Maria Ida, «cerca di dare una testimonianza dell’incarnazione di Gesù a Nazareth per raggiungere l’uomo nella sua quotidianità, per mettersi alla scuola dell’altro, in amicizia, unità e fraternità, come ha insegnato fratel de Foucauld».
Unità nell’amore. E’ questo il segreto della piccola sorella Maria Ida. Come de Foucauld ha gridato il Vangelo in mezzo al deserto del Sahara ai più lontani dal Signore, persuaso che musulmani, ebrei e idolatri potessero guardarlo come un fratello, convinto – e qui sta la sua straordinaria intuizione – che la vita di Gesù a Nazaret potesse essere condotta in ogni luogo e in ogni tempo, così Maria Ida vive nella piccola fraternità condividendo con i più poveri ciò che ha e ciò che è, con fiducia e amicizia.
«Il Gesù di Nazaret è già piena rivelazione di Dio che si mostra dal basso», spiega, «umile e pieno di amore per l’umanità. Noi piccole sorelle viviamo nelle Fraternità cercando di dare nel nostro piccolo, attraverso la vita di tutti i giorni, in un tempo percorso da una crisi senza precedenti, testimonianza dell’amore di Dio. Credo davvero che il mondo abbia bisogno di testimoni, di apostoli, di piccole sorelle che vivano il rispetto e l’accoglienza nel quotidiano. Esempi dal basso del grande amore del Signore».


Dai rapporti riservati a Twitter. Com'è cambiata la comunicazione diplomatica

Rimango sempre sorpreso quando i miei colleghi mi chiedono perché uso Twitter. La vera domanda sarebbe: “perché voi non lo usate?”. Parola di Tom Fletcher, ambasciatore britannico in Libano, che in una recente conferenza a Beirut ha sottolineato l’inedito, e per certi versi singolare, rapporto tra la diplomazia e i social media e ha esortato i colleghi a vedere il proprio lavoro alla luce delle nuove tecnologie digitali: “la migliore espressione della diplomazia è sempre stata un binomio tra interpretare il mondo e cercare di definirne le sorti. I diplomatici che svolgono solo la prima attività dovrebbero lavorare nelle accademie. Quelli che si dedicano solo alla seconda dovrebbero stare solo in politica. Quelli che fanno entrambe dovrebbero essere su Twitter”. Tom Fletcher, insieme a numerosi diplomatici di tutto il mondo  sta cavalcando con impeto l’onda digitale che ha investito una delle professioni più antiche e meno permeabile ai cambiamenti. Se nella diplomazia tradizionale ambasciatori avevano il principale compito di mantenere i legami con i governi dei Paesi ospitanti, oggi questo rapporto bi-direzionale si è tramutato in una sfera più ambia e articolata di relazioni che coinvolge molteplici attori. “Gli Stati sono ancora importanti, ma il palcoscenico è sempre più affollato… Così lo studioso Joseph Nye, il padre del concetto di “Soft Power” in politica estera, ha sintetizzato questo nuovo ecosistema in cui i diplomatici sono chiamati a inserirsi per monitorare l’opinione pubblica e diffondere i messaggi ai diversi pubblici di riferimento cercando di estendere la sfera di influenza e di promuovere la reputazione e gli interessi del proprio Paese. Usando i mezzi più efficaci a loro disposizione compresi i social media. Il Presidente del Consiglio Europeo che Twitta durante le riunioni a porte chiuse, il Segretario Generali dell’Onu che dialoga con i cittadini cinesi su Sina Weibo, il rappresentante britannico presso la Santa Sede che racconta senza remore la sua attività su un blog, l’ambasciatore americano in Russi che si presenta con un video su YouTube. Sono alcuni esempi di questo rapporto tra due mondi all’apparenza così lontani: da una parte la diplomazia, paradigma di discrezione e riservatezza, e dall’altra parte il web, simbolo di apertura e partecipazione. La diplomazia digitale è un affascinante fenomeno di comunicazione che coinvolge sempre più nazioni e dà vita a una sorta di risiko online in cui lo scopo finale non è la conquista del territorio, ma dell’opinione pubblica internazionale. La conseguenza più evidente di questo fenomeno è inaspettata e quasi paradossale: i diplomatici sono attualmente i più all’avanguardia in tutto l’arco istituzionale nell’uso dei social media. Negli ultimi mesi anche il nostro Ministero degli Esteri ha cominciato a muoversi con dinamismo in questo nuovo terreno digitale che lascia ancora disorientate molte feluche abitate a tessere relazioni dietro le quinte dei palazzi e non tramite tweet da 140 caratteri. Dopo il deciso impulso dato dal ministro Giulio Terzi affiancato da un Consigliere la Digital Strategy, la Farnesina ha avviato un percorso che ha un obbiettivo ambizioso: portare la rivoluzione digitale nel cuore del ministero. Le tappe di questo percorso cominciano già a intravederci con chiarezza: il profilo Twitter del ministro in poco tempo ha raggiunto quasi 25.000 follower; Terzi è l’unico della compagine governativa ad avere una pagina su FaceBook, che in poco tempo è diventata un interessante spazio di dialogo con i cittadini (quasi 300.000 interazioni a settimana); lo studio dell’Agence France Presse sulla e-diplomacy ha inserito il capo della nostra diplomazia nella top ten degli influencer italiani; l’ufficio stampa ha creato un nuovo account Twitter@farnesinapress, che diffonde notizie direttamente ai giornalisti e ai cittadini; il sito web del Ministero ha ora una nuova veste e prevede anche l’uso di strumenti di storyelling multimediale: l’organizzazione da parte della Farnesina di due conferenze sulla “Twiplomacy” a Torino e Washington ha posto in primo piano il dibattito sulla diplomazia digitale; l’ambasciata italiana negli Usa ha da poco inaugurato la piattaforma online “Social Media Hub”, che può diventare un modello anche per altre missioni; l’Istituto Diplomatico infine, sta dedicando una crescente attenzione alla formazione tecnologica dei funzionari. Il prossimo tassello sarà l’ufficializzazione del nuovo Maecom, il piano di comunicazione della Farnesina per il 2013, attualmente in valutazione alla Presidenza del Consiglio. Il documento dedica ampio spazio alla comunicazione online, ponendo l’accento sulla necessità di comunicazione in modo non convenzionale e più informale, di stabilire un vero dialogo online con gli utenti e di snellire la catena di comando. Il Maecom rappresenta un punto di partenza fondamentale per l’innovazione della diplomazia italiana. Innanzitutto politico dell’importanza dei nuovi strumenti digitali e in secondo luogo perché offre un quadro strategico di riferimento che finora mancava, all’interno del quale si potranno sviluppare le future iniziative di comunicazione online per promuovere l’immagine e gli interessi del nostro Paese all’estero.


Quest'anno vincono i dati

Dopo la lezione americana di Obama, anche la politica di casa nostra studia i social network. Ecco chi sono gli italiani che sanno interpretare il vero sentiment della rete. Gli abbiamo chiesto: chi ha davvero i numero per vincere?
Stefano Iacus è uno statistico. Ha 44 anni e uno dei suoi sogni è cambiare la politica.
Non è però l’ennesimo volto della società civile che ha deciso di (provare a) entrare in Parlamento: lui la politica la vuole cambiare da fuori. Grazie alla matematica di una formula (<<E molto lavoro>>) Stefano potrebbe essere infatti determinante alle prossime elezioni politiche del 24 e 25 febbraio. Quella che avete appena letto è la base del lavoro di Iacus. Per capire come questa formula possa essere decisiva per la politica Italiana (al pari dello Spread o della riduzione delle tasse) è necessario tornare indietro nel tempo, alla fine del 2010, e volare in Giappone. Stefano, ricercatore dell’università Statale di Milano, è a Tokyo per lavoro. Per caso, in quegli stessi giorni, in città c’è un altro protagonista di questa stessa storia: il politico quarantenne Luigi Curini, anche lui della statale grande e anche lui della capitale giapponese perché collabora con l’università di Tokyo. I due si conoscono ma non hanno mai lavorato insieme. Così, una sera, si ritrovano in un bar a scambiare quattro chiacchiere sui progetti a cui vorrebbero dedicarsi nei mesi successivi. Scoprono così che stanno pensando alla stessa cosa. L’idea è usare la grande mole di dati che si trova su blog e social media (soprattutto FACEBOOK e TWITTER) per condurre analisi del sentiment (cioè dell’umore delle persone) su qualsiasi tema. Insomma, mettere a punto un sistema che riesca a interpretare e a sintetizzare tutto quello che si dice in rete.
Tornati in Italia, Stefano e Luigi si mettono in contatto con un altro collega: l’economista Giuseppe Porro, 49 anni. Bisognava costituire un gruppo di lavoro per portare avanti il progetto che avevano in mente. “Ormai erano diversi gli stufi scientifici che dimostravano come fosse possibile analizzare il sentiment su un determinato argomento a partire dai social media”, mi racconta Luigi mentre siamo seduti in una delle stanze dell’università dove è nato Voices from the Blog (VfB), il progetto di ricerca che i tre accademici hanno messo in piedi nel 2011.
Nei primi mesi c’è la fase preparatoria. “Avevamo deciso di puntare su un algoritmo realizzato da due scienziati statunitensi dell’università di Harvard, Daniel J. Hopkins e Gary King”, spiega Stefano. L’equazione è questa: P(S) = P(S|D). “Dovevamo solo adattare alle nostre esigenze questa formula, sulla quale i due ricercatori americani hanno fondato una società di consulenza aziendale che analizza il gradimento online di prodotti e servizi”, prosegue lo statistico.
L’obbiettivo del team milanese era quello di cimentarsi pria di tutto con la politica. E il primo banco di prova arriva nella primavera del 2012 con le elezioni presidenziali francesi. Al primo turno le cose vanno abbastanza bene, ma non perfettamente. Per Sarkozy la differenza tra il dato reale e quello previsto è dell’1%, mentre per Hollande è del 5%, in meno rispetto ai risultati delle urne. Molto meglio al secondo turno: la vittoria del presidente socialista viene giustamente prevista, anche se con uno scarto di 3 punti a favore di Hollande. In un report lo stesso staff di VFB leggo che questo errore sarebbe stato causato dal sottovalutazione del tasso di astensione.
I ricercatori si rimboccano le maniche per “aggiustare” l’algoritmo e si preparano al successivo grande appuntamento elettorale: le presidenziali americane del 6 novembre 2012. E’ un evento importante per il lavoro della squadra di Iacus. Per la prima volta si confronta con i matematici d’oltreoceano che, per i candidati o da indipendente, hanno seguito la campagna elettorale. Barack Obama e Mitt Romney, infatti, hanno nei loro staff ingegneri, matematici e statistici che studiano ogni dato (provenire dalla rete e non solo) per definire scientificamente le mosse politiche durante la campagna.
Dall’ideale duella a distanza VfB ne esce bene. Grazie all’analisi di diversi milioni di tweet, il team milanese predice esattamente i risultati degli stati chiave, quelli in bilico, dove Romney e Obama si giocavano la partita. E’ sorprendente anche il risultato delle percentuali generali: la differenza reale tra i due candidati è del 2,2%, mentre quella pronosticata da VfB è appena superiore: 3,5%. La stessa performance si registra qualche settimana più tardi con le primarie del centrosinistra in Italia: l’errore medio nei risultati dei cinque candidati è di 1,96%.
“Di solito l’errore medio con la formula di Hopkins e King è del 2%, con gli ultimi lavori siamo riusciti a tenerci sotto”, commenta Iacus mentre Curini mi spiega nel dettaglio come vengono fatte le rilevazione: “Inizialmente analizzavamo solo i blog su un determinato tema: scaricavamo tutti i post e iniziava l’indagine. Ora ci siamo resi conto che lo strumento migliore è Twitter: ci sono molte più voci e, soprattutto, li trovi le reazioni immediate, fondamentali per capire in tempi brevi l’umore delle persone. Ci agevola anche la crescita costante del numero di utenti che sua Twitter dallo smartphone”.
Grazie alle Api di Twitter, lo staf di Vfb riesce a scaricare in maniera automatizzata tutti i tweet relativi a un argomento.  Successivamente si mette al lavoro una squadra di persone in carne e ossa che fa un’analisi semantica di un campione dei contenuti scaricati. “Per risultare affidabile il campione deve essere di un migliaio di tweet”, dice Iacus. “A questo punto i altri esperti di codifica dividono tutti i post in categorie e a ogni categoria associano delle parole chiave”. Successivamente estendono questa categorizzazione a tutto il resto dei tweet scaricati. Ed è qui che entra in gioco la formula P(S|D)-1 x P(S) = P(D).
In questa equazione il risultato P(D) – cioè la distribuzione delle preferenza in un insieme ( nel nostro caso di tweet) – deriva dalla moltiplicazione tra il reciproco di P (S|D) – cioè la probabilità che venga utilizzata una certa successione di parole tenuto conti che si vuole esprimente un determinato contenuto semantico, un opzione – e P(S), ovvero la frequenza delle parole delle persone stesse. Così, estendendo questa formula dal campione al resto del database si ottiene il risultato complessivo, che può comprendere l’analisi di milioni di tweet.
Il sistema di VfB non è completamente automatizzato, ma passa per un esame “umano” dei contenuti, perché secondo i ricercatori milanesi i dizionari ontologici informatici non sempre dosi o in grado di interpretare correttamente un testo. Per spiegare meglio il concetto fanno un esempio: la frase “una bella fregatura” contiene al suo interno una parola solitamente positiva (bella) e una negativa (fregatura), me è chiaro che il suo senso complessivo sia da considerarsi esclusivamente negativo.
Lavorando così, quindi, il tempo di VfB è riuscito a prevedere l’esito di tutte le ultime elezioni importanti, sia all’estero sia in Italia. Non mi stupisce affatto che l’impresa politico degli elettori statunitensi possa emergere anche da Twitter, ma mi domando come questo sia possibile nel nostro paese, dove poco più della metà degli italiani si collega abitualmente alla rete e (secondo i dati Audiweb/Neielsen di settembre 2012) ci sono appena 3,64 milioni di utenti iscritti alla piattaforma microblogging. Mi risponde Iacus, che è anche tra gli sviluppatori del linguaggio di programmazione R sul quale gira il tool open source con cui VfB esegue tutti i suoi calcoli: “Un tempo la distanza tra chi frequentava o meno la rete era molto grande. Oggi non è più così. In questi mesi stiamo proprio lavorando a una ricerca che dimostri come le opinioni che si esprimono online si formino fuori da internet e quindi chi è sul web è solo un portavoce di quello che avviene in tutta la società, sia essa analogica o digitale. In questo modo si spiega come mai le nostre analisi, che si basano su Twitter, rispecchino gli umori e il giudizio che si sono anche offline”.
I risultati di Iacus e del suo team hanno colpito molti. Per questo (anche grazie a una collaborazione con il sito del corriere della sera che gli ha dato visibilità) diversi politici, di tutti gli schieramenti, sono entrati in contatto con VfB e gli stanno commissionando analisi per capire come muoversi durante la campagna elettorale. “Le richieste, però, vanno anche oltre la politica”, sottolinea Curini. “In questi mesi sono arrivate da noi anche banche e aziende che operano nei settori della cosmetica e del beverage”. Ecco perché il gruppo VfB (che nel corso degli anni si è arricchito anche nel politologo 29 Andrea Ceron) ha deciso di trasformarsi in un’azienda. “Abbiamo costituito una Srl, uno spinotto dell’università di Milano che mantiene una piccola quota azionaria. Per qualche anni ci sarà consentito di fare sia gli accademici sia gli imprenditori, poi dovremmo decidere se diventare una società completamente indipendente oppure uscire dall’azienda”, spiegano.
L’offerta commerciale di VfB è ancora agli inizi. Una proposta più complessa è invece in grado di farla BlogMeter, una società nata nel 2006 con sedi a Milano, Torino e Roma. Inizialmente ha sviluppato in motore per le analisi semantica delle conversazioni italiane in internet che esplorava soprattutto blog, focus e newsgroup. Nell’ ultimo anno, però, i principali territori di osservazione sono ovviamente diventati social media, in particolare Facebook e Twitter. A mostra i quello che sono in grado di fare gli strumenti di BlogMeter è Vincenzo Cosenza, social media strategist e responsabile della sede romana, che in rete è diventato famoso per il suo osservatorio social media in Italia e Facebook e per la Mappa mondiale dei social network le cui edizioni vengono pubblicate dai principali giornali internazionali.
I dati e i grafici (con un interfaccia facilmente comprensibile) che mi fa vedere Cosenza riguardo i principali leader politico di questa campagna elettorale: “L’analisi su Facebook, per esempio, non solo mostra in tempo reale il numero di like alla pagina o al profilo del politico ma anche ( e questo è uno dei dati più importanti, ndr) il numero di persone che interagiscono con una pagina o un singolo contenuto, per esempio status o foto”, spiega. La stessa cosa avviene su Twitter e in entrambi i social media è possibile monitorare anche il tempo medio in cui un politico risponde alle sollecitazioni degli utenti. Oggi tutti questi dati vengono utilizzati insieme ai classici sondaggi elettorali ma per alcuni aspetti sono migliori. Strumenti come quelli di BlogMeter o VfB ascoltano quello che si dice in rete (quindi nella società) e il dato non è alterato dalla sollecitazioni esterne come la domanda di un sondaggista. Qualche mese fa, per esempio, nessuno avrebbe preparato un sondaggio elettorale in cui fosse prevista la possibilità di votare il Movimento 5 stelle, rischiando di sottovalutare un fenomeno fondamentale per cercare di prevedere l’esito delle votazioni.
Il team di lavoro di BlogMeter è un vero e concentrato di profili scientifici: “C’è chi si occupa di capire le funzionalità che devono avere i nostri crawler (i software che analizzano i contenuti di una rete, ndr) e intelligence, sviluppatori e sistemisti che realizzano questi tool e gestiscono gli aspetti tecnologici, linguistici computerazionali che insegnano alle macchine come interpretare i messaggi raccolti e identificarne i sentimenti, analisi che estraggono indicazioni quanti-qualitative utili dai dati raccolti”, racconta Cosenza.
“Il nostro motore semantico” dice la linguista computerazionale di BlogMeter Vanessa Nardone, “segue gli sbalzi di umore attraverso tecnologie di interpretazione automatica del linguaggio e di classificazione delle opinioni espresse in rete, fa sentiment analyis. Il processo di comprensione automatica dell’opinioni si articola in tre fasi: l’esame di porzioni di testo e di indicatori testuali come la punteggiatura;  l’estrazione del mood positivo e negativo dei messaggi mediante la previa analisi del testo; la classificazione dei documenti secondo una polarità positiva, negativa o mista. Al calcolo della polarità il motore High, medium, low; alto, medio o basso – che descrive l’intensità con cui l’opinione è espressa nel documento”.
Questi strumenti vengono usati per esempio dall’Udc che ha preparato la campagna elettorale anche a partire dai dati che gli forniscono BlogMeter. “Prima di iniziare la campagna abbiamo condotto un’analisi sulle conversazioni e le parole più rilevanti in rete e cos’ abbiamo tirato fuori gli argomenti di maggiore interesse”, racconta Marco Tosi, consulente Udc per la comunicazione sui media digitali. Grazie a questa indagine è stato possibile sia elaborare un programma che coinvolgesse almeno l’80% dell’elettorato italiano (punto su lavoro, Sud – perché Monti è troppo visto come un uomo del Nord – e donne) sia preparare i discorsi dei leader Udc, per esempio stilando una lista di possibili risposte nei talk show. Con i dati di BlogMeter lo staff del partito di Casini è riuscito anche ad affinare la strategia di comunicazione. Per esempio, si è deciso di non puntare su famiglia e pensioni nella campagna online , perché si è osservato che gli elettori interessati a questi temi non stanno su internet.
“In Italia si sta facendo qualcosa sulla scorta di quanto accade negli USA, dove la rete fondamentale nella vittoria alle elezione. Ma siamo ancora all’inizio”, dice Dino Amenduni, responsabile nuovi media e consulente di comunicazione politica di Proforma, l’agenzia che ha seguito le campagne elettorali del sindaco di Bari Michele Emiliano, nel 2009, e del governatore della Puglia Nichi Vendola, nel 2010: “In entrambi i casi abbiamo usato internet e un analisi delle conversazioni online per contribuire a stilare parte del programma. Ma c’è ancora bisogno di un salto culturale: i politici devono imparare a non considerare una sorta di lesa maestà il ricorso figure come quello dello spin doctor”.
Un salto che in molte aziende italiane è stato già fatto. Poste mobile è l’operatore del Gruppo Poste Italiane: è presente sul mercato dal 2007, ha oltre 2 milioni di clienti e usa il sistema di monitoraggio di BlogMeter. “Questo strumento ci permette di capire qual è il grado di soddisfazione dei nostri clienti, in quanto tempo siamo in grado di rispondere alle domande che ci arrivano sui social media e dove possiamo migliorare”, spiega Carlo Cortesi, responsabile new media e web di Poste Mobile. I report vengono discussi anche nelle riunioni in cui si stabiliscono le offerte commerciali; e il pannello di controllo è accessibile ai team del marketing, del servizio clienti e della comunicazione. Non vengono comunque monitorate solo le discussioni su Poste Mobile, ma quelle sull’intero mercato della telefonia, concorrenza compresa.
Chi lavora con grandi brand è anche Tweetminster, la terza protagonista di questa storia che, a differenza di VfB e BlogMeter non opera in Italia, ma in Inghilterra. A fondarla nel 2008 a Londra è stato però il romano Alberto Nardelli (oggi 32 anni). “c’erano appena 4 parlamentari inglesi su Twitter – ora sono più di 400 – e anche i giornalisti erano pochissimi. Abbiamo però scommesso che la piattaforma sarebbe cresciuta e già a metà del 2009 i politici erano diventati 100 mentre i media incominciarono a interessarsi al fenomeno”, ricorda Nardelli.  “Per noi la svolta è arrivata nel 2010, quando ci sono state le elezioni politiche in Inghilterra (vinte dal conservatore David Cameron, ndr): abbiamo incominciato a realizzare delle mappe per vedere dove i candidati stavano facendo campagna elettorale, a monitorare i trend nelle discussioni politiche e anche a ricostruire i network di relazioni tra i politici”.
In questo modo l’azienda di Nardelli (“Siamo in 5: io mi occupo di prodotto e strategia; gli altri sono designer e sviluppatori”) si è fatta notare ed è stata assoldata da Reuters, BBC, diversi governi, ambasciate e Unione Europea per analizzare le conversazioni che nascono attorno a determinati temi o a decisioni politiche.
Il cuore della tecnologia – interamente sviluppata in casa – si basa su analisi di trend all’interno di comunità molto specifiche e selezionate ( nel caso della politica: ci sono politici, giornalisti, analisti, Think Tank, apparati di partito). Guardando dentro questa comunità si scoprono il link più condivisi, le questioni più dibattute. Gli argomenti a cui gli esperti, i media e l’opinione pubblica danno più peso. “Il nostro punto di partenza sono quindi i Tweet dentro una comunità”, racconta Nardelli “Costruiamo la rete, identifichiamo i trend, estraiamo i link per aggregarli e misurarne la popolarità. Poi selezioniamo gli individui che sono più attivi e menzionati. In oltre abbiamo messo appunto un sistema che cerca di capire quando qualcosa sta succedendo e attiva alert. Lo proporremo ai nostri clienti nella prima parte di quest’anno come servizio a sé. Lo chiamiamo Pre Breking News: vuol dire catturare notizie prima che arrivino sulle agenzie”.
Una grossa fetta dei clienti dell’agenzia britannica è rappresentata da società finanziarie per le quali avere una notizia anche pochi secondi prima può essere cruciale. “ Già oggi Dow Jones paga 300mila dollari all’anno per un servizio che gli offre notizie esclusive 60 secondi prima che arrivino sui canali normali delle agenzie”, dice Nardelli. “Noi vogliamo fare la stessa cosa per altri ambiti, per esempio quello politico”.
Le analisi dei dati nei social media (e le scelte e le previsioni che non derivano) trovano infatti nella politica solo una parte delle proprie applicazioni. Ci sono già diversi studi scientifici che dimostrano come l’osservazione di Twitter e simili può anticipare gli andamenti in Borsa o aiutare a comprendere la grandezza di un’area colpita da un terremoto o la propagazione di un epidemia. Tutte le informazioni raccolte in rete servono per accorciare i tempi di reazione di una determinata situazione. Negli Usa, per esempio, le grani case di produzione hollywoodiane stanno usando una ricerca condotta agli Hp Lbs di Palo Alto, California, che dimostra come sia possibile anticipare gli andamenti del botteghino di un film partendo dai commenti che vengono espressi su Twitter. Insomma, le tecnologie come quelle di VfB, BlogMeter e Tweetminster verranno usate sempre di più e sempre più spesso per comprendere la società. E non c’è bisogno di un analisi sui social media per sapere che la probabilità che aziende come queste avranno successo è davvero molto alta.
 


Harper Reed La Rock star dei dati

Parla l’uomo che ha trasformato la rete nel fattore vincente delle ultime elezioni presidenziali americane
Il giorno in cui Harper Reed ha messo piede nel quartier generale di Obama for America, il grande capo della campagna elettorale Jim Messina lo ha accolto dicendo: “Ben venuto nel Team, non mandare tutto al diavolo!”. Così, con un mesaggio di benvenuto perfetto per un giocoliere con la passione per il death metal,  cominciata l’avventura del 34enne chief technology officer per la rielezione del presidente degli Stati Uniti d’America. Nato in Colorado, cresciuto senza tv tra libri di sci-fi e birilli, Reed i definisce con orgoglio un nerd. Prima di dirigere la più grande operazione di data mining della storia al servizio del presidente Obama, questo ragazzone con i piercing e gli occhiali da hipster, che sul suo sito (harperreed.org) si definisce come “l’uomo più cool del mondo”, ha collezionato decine di progetti innovativi: da Treadless comunity dove utenti e designer producono insieme T-shirt a edizione limitata, a Proximity Checking, un’App di geo localizzazione pensata per “migliorare” Foursquare, passando per Ct Alerts, un database personalizzato di tutti gli orari dei trasporti pubblici di Chicago (nato per facilitare la mobilità urbana della sua fidanzata Hiromi). Quando si è trattato di scegliere il nome giusto di Obama, Micheal Slaby, chief innovation officer della campagna elettorale, non ha avuto dubbi: il nome era quello di Herper Reed. Lo abbiamo raggiunto al telefono alla fine di una vacanza con la famiglia: un settimana detocs tecnologico per riprendersi dai 583 giorni di iper connessione della campagna elettorale.
Com’è andata?
”stare offline è più difficile da immaginare che da fare… sono stato benissimo senza ricevere continue sollecitazioni dall’estero. Ho letto, passeggiando, pensato, ascoltato: attività che avevo un po’ messo da parte negli ultimi tempi”.
La mail con cui ti proponevano di unirti al team di Obama diceva: “Non verrai pagato tanto e l’orario di lavoro è massacrante”. È stato davvero così?
“il lavoro è stato duro: 7 giorni su 7, disponibilità 24 su 24. Ma non mi sono mai sentito un prigioniero avevo scelto di mettere in stand by la mia vita per la campagna elettorale. Certo, il livello di stresso era alto ma non ho mai avuto un giorno in cui mi sono pentito di aver accettato. Credo che dipendesse dal fatto di lavorare con un team di professionisti straordinari per un obbiettivo nobile: la rielezione di Obama. Mi sono completamente identificato con il mio gruppo: non esistevano gerarchie, differenze, tensioni. E non perché molti di noi avessero già collaborato, è stato questo specifico lavoro a renderci una squadra perfetta”.
Una start up elettorale?
“in parte si: eravamo tutti professionisti della tecnologia e l’ambiente era estremamente stimolante. Ma gli errori e gli stop- and- go tipici di una start up erano vietati: non potevi sbagliare”
Puoi spiegare in cosa consiste il progetto Narwhal? E il tuo ruolo?
“Narwhal è il sistema che h connesso le app designate per la campagna, le informazioni provenienti da BarakObama.com e da Dashboard- la piattaforma per il 700mila volontari- con i conseguenti flussi di dati. Di questo enorme database il 99% era ospitato sugli Amazon Web Service. Per darvi un idea solo le app erano 200 e il call tool, lo strumento per fare le telefonate gratuite via web, negli ultimi 4 giorni di campagna elettorale è stato usato da 7mila volontari per 2milioni di chiamate. Affidate al cloud un tesoro del genere 4 anni fa era impensabile. Solo uno staff “smart” come quello di Obama poteva assumersi il rischio ed evitare cosi di fare ricorso a service e licenze di software. Io ero responsabile dell’efficienza del progetto, dovevo fare in modo che tutto funzionasse: dalla nuvola alle singole app. non ho inventato io il call tool ma lo ho adattato perché si adeguasse alle esigenze dei singoli volontari”.
La scelta di utilizzare strumenti open source come il sistema operativo Linux ha permesso a Obama di spendere in tecnologia meno della metà di Mitt Romney: 11,3 milioni di dollari. Non avevi paura che il sistema potesse crashare da un momento all’altro?
“Tra giugno e novembre 2012 in effetti, è andato giù diverse volte. Il 22 ottobre ho davvero tremato … il giorno prima c’era stata una “prova apocalittica” elaborata dal team DevOps per stressare il più possibile Narwhal: il sistema è collassato per mezza giornata ma siamo sopravvissuti. Pensa che la settimana dopo è arrivato l’uragano Sandy. Senza quei test probabilmente ci avrebbe travolto”
Test è stato la parola d’ordine del vostro progetto. Solo la pagina per le donazioni è stata testa 240 volte. L’elettorato veniva contattato una volta ogni 3 settimane, negli ultimi due mesi addirittura 2 volta a settimana: perché?
“Abbiamo scelto un modello veramente dinamico di micro-targeting (tecnica che permette di personalizzare messaggi su un gruppo molto profilato, ndr) è utilizzato variabili multiple per valutare le oscillazioni elettorali dei gruppi; tra queste, il tempo e l’idea che alcuni elettori possono cambiare idea anche in bravi intervalli di tempo”
Hai dichiarato che “non esistono gli elettori, gli utenti e i cittadini” ma che ogni elettore è diverso dall’altro e che solo con questa consapevolezza si e riesce a intercettarlo. Come si traduce concretamente questa affermazione?
“Ti faccio due esempi. Sapevamo che il 25% de traffico on line degli elettori di Obama 2008 veniva da connessione mobile per formare questa percentuale di elettori in possibili donatori abbiamo creato un’applicazione che ha avuto 1,5 milioni di download e raccolto 115 milioni di dollari. In oltre, metà degli elettori che volevano conquistare- quelli tra i 18 e i 29 anni- non erano reperibili al telefono ma l’85% di loro era amico di Obama su Facebook. Dunque abbiamo trasformato Facebook da piatta forma di promozione a piattaforma di targeting: lì 600 mila persone hanno racimolato 5 milioni di voti. In generale i social media hanno avuto un grande ruolo: il presidente ha 34 milioni di fan sulla sua pagina personale Facebook e 24 milioni di Follower su Twitter. Un bacino incredibile di informazioni i Facebook e i Twitter blaster ci hanno permesso d mandare milioni di messaggi personalizzati agli utenti, puntando sugli influencer. Nella fase finale della campagna è partito un programma che individuava i simpatizzanti indecisi e chiedeva con un messaggio privato agli “amici” di convincerli”.
Come si conciliano la raccolta e l’analisi di miliardi di dati con la tutela della privacy?
“è vero. Abbiamo fatto un uso massiccio di dati tutta via le informazioni sono state fornite dagli stessi cittadini che si registravano alle nostre piattaforme o scaricavano le nostre app. Esiste un problema di trasparenza legato al data mining ma più che preoccuparmi dell’utilizzo che viene fatto in campagna elettorale, mi concentrerei su colossi come Facebook che mettono le informazioni dagli utenti al servizio del marketing delle aziende. Due genitori di Minneapolis hanno scoperto che la figlia adolescente era in cinta perché hanno ricevuto a casa dei buoni per l’acquisto di abbigliamento Prè-maman… a spedire i buoni di acquisto erano stati i grandi magazzini Target: il loro statistico Handrew Pole era riuscito a creare un modello per prevedere le gravidanze. Sono questi gli aneddoti che mi preoccupano”.
Che progetti hai ora?
“Con Dylan Richard, director of engineering di Obama for America, stiamo lavorando a un progetto che aiuterà le aziende a rendere i loro business più veloci ed efficienti”.
Riprenderai anche la tua passione per la giocoleria?
“Per sei anni ho atto parte del collettivo Jugglers against Homophobia  (“giocolieri contro l’omofobia). Ora mi cimento raramente cin i birilli, e solo per gli amici, comunque tanti ingegneri amano la giocoleria. Non so perché ma è decisamente una cosa nerd…”
Nel 2013 ti definisci ancora un nerd?
“Certo…! Sono cresciuto parlando di matematica, informatica, scrivendo codici e giocando ai videogiochi. Parte della mia identità è costituita dalla cultura nerd, mi piacciono le cose nerd, tipo i memi, i videogiochi… ed è così bello sapere che ci sono persone che apprezzano esattamente le stesse cose che ami tu. Siamo una comunità, una parte di scuola superiore che ti porti sempre dietro”.


Ma i social media possono vendere anche sapone?

Piano con l’entusiasmo. Il data mining non fa miracoli, ma il futuro della pubblicità passa di li
Una mattina, a metà di dicembre 2012, papa Benedetto XVI ha abbassato lo sguardo su un iPad e ha composto il suo primo tweet. Dal punto di vista del marketing, i tempi erano ormai maturi. Mentre il pontefice si limitava a mettere online le sue tradizionali encicliche, il Dalai Lama, per esempio, stava già diffondendo la sua saggezza in pacchetti da 140 caratteri a oltre cinque milioni si seguaci. E poichè la gente ritwittava i suoi post, i messaggi del Dalai Lama volavano attraverso i social media. Come avrebbe potuto resistere, il Vaticano, a questa magia del marketing?
Legioni sempre più numerose di consulenti del marketing stanno promuovendo i social media come il futuro che non si può non cogliere. Sostengono che gli assist hanno maggiori possibilità di andare a segno se vengono dai nostri amici di Facebook, Twitter, Tumblr o Google+. E’ la nuova forma del passaparola, che a lungo è stato il sistema aureo del marketing. E i fiumi di dati che si riversano in questi network alimentano la visione della pubblicità mirata, nella quale le inserzioni sono così tempestive e pertinenti che tu le accogli a braccio aperte. Le speranze riposte in una rivoluzione del genere hanno innescato una frenesia di mercato attorno ai social network; ma hanno anche aperto la strada a una loro caduta.
Il dramma ruota attorno ai dati. Nel ritratto di un’agenzia pubblicitaria degli anni ’60 offerto dalla serie televisiva Mad Men, le grandi star non si danno l’anima sui numeri. Vanno a istinto. Don Draper si versa due dita al whisky e si staccava su un divano nel suo prestigioso ufficio. Lui pensa. Quale slogan pubblicitario potrebbe intrifare l’arcigno dirigente di una compagnia aerea, o i compratori della pappa per il cane? I colleghi umanisti dominano il mondo rarefatto di Don Darper, mentre la gente dei numeri, in uffici più scalcinati, è alle prese con i report e i profili dei consumatori della Nielsen.
Negli ultimi dieci anni, tuttavia, questa gente dei numeri è schizzata in cima alla piramide. Questa gente costringe e fa funzionare i motori di ricerca. Flette i suoi muscoli quantitativi, mostrandoli alle agenzie, e ne fonda di nuove. E l’ascesa dei social network, che riversa nei server un’adunata globale di chiacchieroni, proietta ancora più in alto questi “quantificatori”. I loro lanci più potenti non sono le idee, sono invece gli algoritmi. E questo manda in pensione anticipata molti dei Don Draper di oggi.
Eppure l’anno passato ha portato agli umanisti rinnovate speranze, o almeno il gusto delle sventure altrui. Facebook in maggio ha lanciato la sua offerta pubblica partendo da una valutazione di 104 miliardi di dollari, solo per veder precipitare il prezzo delle azioni mentre molti cominciavano a dubitare del potenziale del network come medium per le inserzioni a pagamento. Ai social network è andato solo un modesto 14% dei budget online degli inserzionisti. Secondo comScore, un’azienda che studia e registra le attività online, l’ecommerce nel 2012 è cresciuto del 16% ripetto all’anno precedente, e nel periodo natalizio è arrivato quasi a 39 miliardi di dollari. Ma gli annunci pubblicitari sui social network a quanto pare hanno avuto solo un ruolo secondario. Ricercatori Ibm hanno scoperto che nel giorno di apertura della stagione, il cruciale Black Friday successivo al Thanksgiving, direttamente da Facebook è arrivato soltanto lo 0.68% degli acquisti online. Il numero di quelli provenienti da Twitter è rimasto oscuro. Non è che magari la gente non è in vena di acquisti, quando chatta con gli amici?
Una risposta più attendibile è la seguente: quando si presentano sulla scena fenomeni nuovi e imponenti, è difficile capire cosa bisogna conteggiare. E’ una situazione già vista. Ai tempi della bolla del dot-com, alla fine degli anni ’90, gli investitori avevano rovesciato miliardi di dollari sulle start up internet che promettevano di far avere annunci mirati a milioni di navigatori, definiti come “bulbi oculari”. ma i bulbi oculari non avevano dedotto con soddisfazione che internet si era rivelato un fallimento.
Eppure mentre questi cyberscettici gongolavano, un’azienda, la Overture Services, provava un’innovativa applicazione di advertising studiata per la rete. E si è scoperto che mentre i navigatori del web facevano le loro ricerche, accoglievano con favore gli annunci correlati. E se il navigatore cliccava su un annuncio, l’inserzionista pagava il motore di ricerca. Google non ha perso tempo e ha applicato questo sistema su scala gigantesca, trasformando i clic in dollari. Gli inserzionisti potevano calcolare al centesimo il ritorno dei loro investimenti. In questo regno le intuizioni di un Mad Man non contavano un fico secco. La ricerca correva sui numeri. Hanno fatto irruzione sulla scena i quantificatori.
L’ascesa della riceva ha ridotto a mal partito gli umanisti, ma al tempo stesso ha preparato una trappola in cui adesso stanno cadendo i quantificatori. Ha portato a credere che, disponendo di dati a sufficienza, tutto l’advertising potesse trasformarsi in una scienza misurabile. E questo ha eliminato la fede dell’equazione delle inserzioni. Per generazioni, i Mad Men avevano potuto prosperare grazie alla fiducia, largamente diffusa, che i loro jingle e i loro slogan incidessero sui comportamenti dei consumatori. Pochi dati potevano dimostrare il contrario. Ma in un’industria spietatamente  dominata dai numeri, le aspettative si sono ribaltate. Le agenzie pubblicitarie ora sono sotto pressione, gli viene chiesto di fornire prove statistiche del loro successo. Se mancano di farlo, offrendo aneddoti al posto dei numeri, i mercati li puniscono. La fede ha ceduto il passo al dubbio.
Questo conduce all’esasperazione, perchè in una server farm piena zeppa di social data è difficile sapere quel che va contato. Qual è il valore di un “like” di Facebook o di un follower su Twitter? Che cosa si pensa di scoprire? In questo modo, il marketing assomiglia ad altri hot spot della ricerca dati, come la scienza del cervello o la genomica in ogniuno di questi capi, gli scienziati stanno passando al vaglio petabyte di dati, cercando di capire se determinati geni o gruppi di neuroni provocano una certa cosa, o semplicemente vi sono sistemi enormemente complessi, con milioni di variabilità e una forte somiglianza con i nostri social network.
E mentre i ricercatori nuotano in mezzo a dati che avrebbero mandato in estasi le generazioni passate, faticano a rispondere a questioni cruciali circa causa ed effetto. Che azioni posso intraprendere per ottenere le reazioni che desidero?
Il dibattito infuria perchè i quantificatori si accusano reciprocamente di contare le cose sbagliate. Prendiamo lo studio dell’Ibm sul Black Friday. Mentre i numeri indicano che pochi compratori hanno cliccato direttamente da un social network per comprare un laptop o un frigorifero, non è escluso che qualcuno possa aver visto inserzioni che hanno portato all’acquisto di un secondo tempo. Se così fosse, non sarebbe stata misurata un’influenza rilevante. “Ibm considera un singolo aspetto, in un determinato momento”, spiega Dan Neely, amministrazionedelegato di Networked Insights, azienda di anali del marketing. La squadra di Neely ha seguito su Twitter la campagna di Macy per il Black Frday, iniziata settimane prima; secondo Neely ha generato un movimento virale sulla rete. Molti grandi inserzionisti non hanno perso la fiducia: la settimana scorsa le azioni di Facebook hanno avuto un’impennata, dopo che si era saputo che Walmart, Samsung e altri coraggiosi avevano aumentato, in tempi recenti, gli investimenti destinati alle inserzioni sui social media.
Tuttavia resta difficile misurare l’efficacia di queste inserzioni. “L’influenza non è misurabile facilemente”, dice Steve Canepa, responsabile Media and Entertainment di Ibm. Potrebbe essere la lezione definitiva che si riesce a trarre dal mercato miracolo di marketing di social media. L’impatto delle nuove tecnologie viene invariabilmente valutato in modo erroneo perchè misurino il futuro usando strumenti del passato.
Dave Morgan, pioniere delle inserzioni internet e fondatore di Simulmedia, network pubblicitario per la tv, ci invita a ripensare ai primi anni dell’elettricità. Alla fine del 1800, la stragrande maggioranza delle persone associava la nuova industria a un solo servizio, estremamente prezioso: l’illuminazione. questo era ciò che il mercato capiva. L’elettricità avrebbe soppiantato il cherosene e le candele e sarebbe diventata un gigante dell’illuminazione. Alla gente sfuggiva che l’elettricità poteva essere la piattaforma per una schiera di nuove industrie. Negli anni a venire, gli imprenditori se ne sarebbero usciti con i loro dispositivi – oggi li potremmo chiamare “app” – per aspirare la polvere, lavare la biancheria, e finalmente con gli apparecchi radio e i televisori. Sulla piattaforma dell’elettricità crebbero grandi industrie. Se pensiamo ad Apple in questo contesto, è un’azienda da 496 miliardi di dollari che produce l’ultima generazione di app per l’elettricità.
I social network, che ci piaccia o no, stanno creando rapidamente una nuova griglia di connessioni personali. Anche se questa matrice di umanità balbetta in fatto di inserzioni e marketing, è destinata a dare vita a nuove industrie nel campo della consulenza, dell’istruzione, del design collaborativo, delle ricerche di mercato, dei media, oltre a una seria di prodotti e servizi che ancora devono essere immaginati. Forse, e dico solo forse, saranno perfino in grado di vendere sapone.


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