1

Emilio Del Giudice

“…Muoversi con le oscillazioni del cosmo è il vero segreto della bellezza…”
Emilio Del Giudice
Emilio Del Giudice – Napoli, 1º gennaio 1940, Milano, 31 gennaio 2014 – è stato un Fisico che ha lavorato nel campo della materia condensata. Pioniere della teoria delle stringhe nei primi anni settanta, insieme a Sergio Fubini, Paolo Di Vecchia e Gabriele Veneziano è stato uno dei cardini di un’attiva scuola di fisica teorica italiana. Noto a livello internazionale anche per i suoi studi con Giuliano Preparata all’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN), il suo interesse scientifico preminente è stato soprattutto nella ricerca sul ruolo dell’acqua nella fisica degli organismi viventi. Straordinario divulgatore scientifico, in particolare sui temi della meccanica quantistica, approfondì le Sue teorie al MIT – Massachusset Institute of Technology (USA), e lavorò al Niels Bohr Institute di Copenhagen e all’ International Institute of Biophotonics di Neuss, in Germania.
Oltre a numerosissime pubblicazioni scientifiche, ha scritto il libro “Il segreto delle tre pallottole”, e ha ricevuto la Medaglia Prigogine, prestigioso premio istituito dal Wessex Institute of Technology per celebrare la memoria del premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine, che viene assegnato ogni anno ad uno studioso d’eccellenza che si è distinto per i risultati della ricerca scientifica nell’ambito delle scienze evolutive. In questo video – tratto da un’intervista rilasciata dal Prof. Del Giudice a Luca Poma, giornalista e socio UNAMSI (Unione Nazionale Medico-Scientifica di Informazione) – il Professore tratteggia in chiave divulgativa alcuni aspetti dei Suoi studi sulla fisica delle “basse energie”. Il colloquio avvenne pochi giorni prima dell’inaspettato decesso del Prof. Del Giudice, e rappresenta di fatto una sorta di “testamento scientifico” sulle piste di ricerca più promettenti in questo settore.
Le teorie di Del Giudice – e le loro applicazioni concrete – proseguono oltre Lui: il team di ricerca è composto da Almut Beige (Leeds), Marco Bischof (Berlino), Massimo Blasone (Salerno), Larissa Brizhik (Kiev), Antonio Capolupo (Salerno), Antonella De Ninno (Roma), Vittorio Elia (Napoli), Luca Gamberale (Milano), Roberto Germano (Napoli), Mae-Wan Ho (Londra), Alfredo Iorio (Praga), Pierre Madl (Salisburgo), Nadia Marchettini (Siena), Luc Montagnier (Parigi), Elena Napoli (Napoli), Massimo Piattelli-Palmarini (Tucson), Gerald H. Pollack (Seattle), Patrizia Stefanini (Milano), Alberto Tedeschi (Milano), Carlo Ventura (Bologna), Giuseppe Vitiello (Salerno), Vladimir Voeikov (Mosca).




3 domande a Luca Poma

Intervista a Luca Poma sui temi della CSR, di Rossella Sobrero – blog “CSR e dintorni”

Secondo alcuni la CSR è principalmente uno strumento utile alle imprese per prevenire danni reputazionali mentre per altri un modo diverso di operare. In quale di queste due correnti di pensiero ti riconosci?
Nessuna delle due. La CSR è semplicemente – o dovrebbe essere – parte delle strategie di impresa, in quanto aumenta il valore per gli azionisti attraverso la valorizzazione delle relazioni esistenti con i vari pubblici dell’azienda, e lo dimostrano gli inequivoci risultati di autorevoli ricerche universitarie. I manager che non implementano politiche efficaci di CSR non hanno a cuore gli interessi dei proprio azionisti, che – è bene ricordarlo – sono quelli che pagano i loro stipendi, e gli imprenditori che trascurano questo aspetto importante di valorizzazione del DNA aziendale dimostrano di non aver alcuna vision a lungo termine.
In un tuo recente articolo sul blog www.creatoridifuturo.it affermi che i clienti oggi si sentono sempre più liberi di manifestare la propria opinione o, perlomeno, hanno la piena consapevolezza di essere parte dell’equazione globale: quale consiglio daresti a un’impresa che voglia intraprendere seriamente un percorso per migliorare il rapporto con i propri clienti?
Innanzitutto “mappare” i propri pubblici, dividendoli per categorie: un “esercizio” apparentemente banale, ma che in effetti non fanno tutti. E stimolante scoprire l’inaspettata quantità di organizzazioni e gruppi – spesso trascurate/i – che hanno “potere” sull’azienda. Cosa stiamo inconsapevolmente comunicando, ogni giorno, a questi stakeholder…? E in che modo? Quali canali – magari digitali – stiamo colpevolmente trascurando? In quali luoghi del web questi pubblici stanno parlando di noi – bene? male? – senza che noi ce ne accorgiamo? Quali attenzioni e “cure” stiamo garantendo a chi sta per perfezionare il proprio comportamento d’acquisto in senso favorevole – oppure no! – alla nostra azienda…?
Per concludere, una domanda relativa al bilancio integrato di Guna, diventato quasi un caso da manuale. Mi ha colpito in particolare un’affermazione di Alessandro Pizzoccaro: “…Il capitolo al quale teniamo di più? Quello con gli obiettivi che non siamo riusciti a raggiungere”. Ci puoi anticipare su quali innovazioni state lavorando per la prossima edizione?
Grazie per le tue belle parole, è un progetto al quale abbiamo lavorato – perfezionandolo man mano – per sette lunghi anni, e del quale siamo orgogliosi per il suo forte carattere d’innovazione, un progetto che ha dato buoni frutti non a caso in un’azienda d’avanguardia e un po’ “visionaria” qual’è Guna. Non è un “prodotto” (un bilancio sociale/integrato di fine anno), bensì un “processo”, ovvero un flusso di rendicontazione continuo, aggiornato on-line 365 giorni all’anno, alimentato dai vari reparti aziendali, in modo trasparente dai dipendenti, senza “mediazione” da parte di manager o azionisti. Peccato che – ad oggi, perlomeno – non stia ancora venendo “compreso” appieno da chi queste esperienze innovative dovrebbe valorizzarle, come ad esempio la giuria dell’Oscar di Bilancio.
Ma non disperiamo, perchè la nostra speranza è che questo tipo di Report possa realmente diventare uno “standard”, magari liberamente reinterpretato da ogni azienda a modo suo, ma sempre seguendo lo spirito che contraddistingue il nostro “Social Hub”: raccontare tutto all’utente finale, incluse le zone d’ombra e gli obiettivi mancati, perché nella vita non c’è niente di più appagante che fare un errore, imparare da esso, migliorarsi, tirare il fiato, rilanciare la sfida, e finalmente vincere.
Luca Poma è giornalista, autore del Gruppo Sole 24 Ore e Docente in Digital Strategy. Socio Professionista FERPI, è membro del Direttivo del Club della Comunicazione dell’Unione Industriale di Torino. Già Consigliere del Ministro per gli Affari Esteri e membro del team per le policy di Comunicazione strategica del Ministero della Difesa, svolge attività di consulente per le strategie di comunicazione per multinazionali italiane ed estere. Ha pubblicato 9 libri ed oltre 150 tra articoli e saggi, e per i suoi progetti di comunicazione multistakeholder ha ritirato la “Targa d’Argento” del Presidente della Repubblica Italiana (2009) e il premio “Public Affair Awards” per l’eccellenza nella comunicazione, conferitogli nella Sala Capitolare del Senato della Repubblica (2011)




Michele Ferrero: “Il segreto del successo? Pensare diverso dagli altri e non tradire il cliente”

Il colloquio con il patron: tutti facevano cioccolato solido, io lo feci cremoso. “Lavoro per le Valerie, le donne che decidono. Se non ti comprano loro sei finito”

Michele Ferrero, il papà della Nutella, l’uomo che ha portato una pasticceria di Alba a diventare una multinazionale del settore dolciario da oltre 8 miliardi di fatturato, è morto ieri a Montecarlo. Aveva 89 anni. Per oltre mezzo secolo ha seguito e indirizzato i consumi degli italiani con i suoi prodotti, dai Mon Chéri agli Ovetti Kinder. Legatissimo alla sua terra ha trasformato gli stabilimenti Ferrero in un modello anche sociale. Alla guida dell’impero di famiglia ci sarà adesso il figlio cinquantunenne Giovanni.  
«Il mio segreto? Fare sempre diverso dagli altri, avere fede, tenere duro e mettere ogni giorno al centro la Valeria». La Valeria? «La Valeria è la padrona di tutto, l’amministratore delegato, colei che può decidere del tuo successo o della tua fine, quella che devi rispettare, che non devi mai tradire ma capire fino in fondo». Lo guardo stupito e ripeto la domanda: «Mi scusi signor Michele, ma chi è la Valeria?». «La Valeria è la mamma che fa la spesa, la nonna, la zia, è il consumatore che decide cosa si compra ogni giorno. È lei che decide che Wal-Mart sia il più grande supermercato del mondo, che decreta il successo di un’idea e di un prodotto e se un giorno cambia idea e non viene più da te e non ti compra più, allora sei rovinato. Sei finito senza preavviso, perché non ti manda una lettera dell’avvocato per avvisare che taglia il contratto, semplicemente ha deciso di andare da un’altra parte, di non comprarti più».Michele Ferrero parla con voce allegra, squillante, gli piace tantissimo ricordare. Ha sempre gli occhiali da sole, fatica a sentire ma non interrompe mai gli altri, soprattutto la moglie. Non è mai andato in pensione e mai ci andrà finché avrà un soffio di vita. E fino all’ultimo non ha smesso di occuparsi dei suoi prodotti, della sua azienda, fedele alla sua regola di una vita, il rispetto dei consumatori: «La Valeria è sacra, devi studiarla a fondo, con attenzione e non improvvisare mai. Bisogna avere fiuto ma anche fare tante ricerche motivazionali».
Ho incontrato Michele Ferrero cinque anni fa, in una mattina d’agosto, nel suo stabilimento di Alba. Non parlava mai con i giornalisti e non si ricordano interviste o conferenze stampa, la riservatezza, con la fede religiosa e l’amore per la qualità sono state le cifre della sua esistenza. Mi aveva detto chiaramente che mi avrebbe parlato volentieri della sua vita e del suo lavoro ma a patto di non vederla pubblicata sul giornale la mattina dopo. Oggi penso che le parole del suo racconto siano il modo migliore per ricordarlo, per ricordare un genio del «fare» italiano.
Il genio e la modestia  
Esordisce con modestia, immagino che strizzi gli occhi sotto le lenti scure: «Quando dicono “Michele è un genio”, rispondo facendo finta di aver capito altro: “Sì è vero di secondo nome faccio Eugenio, la mia mamma mi chiamò Michele Eugenio”. Meglio fare così, altrimenti finirei per crederci e per montarmi la testa». Gli faccio l’elenco dei suoi prodotti, di tutto ciò che ha inventato, lui sta un po’ in silenzio poi mi risponde: «Quello che amo di più? Certo la Nutella, ma il Mon Chéri è il prodotto degli inizi, quello che mi emoziona ricordare. Era l’inizio degli Anni Cinquanta e andammo in Germania, perché avevo pensato che il mercato del cioccolato dovesse guardare a Nord, dove lo consumano tutto l’anno». Si ferma un attimo, come se si fosse distratto: «Pensi che ancora oggi noi ritiriamo tutto il nostro prodotto di cioccolato all’inizio dell’estate, per evitare che si sciolga, per evitare che la Valeria resti delusa e trovi qualcosa che non è all’altezza. Per evitare che ci associ con qualcosa di sciolto, di rovinato, con qualcosa che non vale la pena comprare. Per questo il trimestre estivo è il nostro periodo peggiore e per questo la missione che tanti anni fa ho dato ai miei figli miei figli è quella di colmare il vallo estivo, di inventare prodotti che diano alla nostra produzione e al nostro fatturato un’uniformità tutto l’anno».
Cioccolato e liquore  
«Ma dicevo della Germania: quando siamo arrivati era il dopoguerra, un Paese ancora pieno di macerie con i segni del conflitto, triste, depresso, in cui gli italiani erano visti malissimo. Ci consideravano traditori, malfattori e infidi, convincerli a comprare qualcosa da noi era una missione quasi impossibile. Cominciai ad andare dai distributori con l’idea di vendere cioccolatini in pezzo singolo, con dentro il liquore e la ciliegia. Mi dicevano che bisognava fare delle scatole, non degli incarti singoli, perché solo quelle si potevano mettere sugli scaffali dei negozi e quelle si vendevano. Io rispondevo che stavano mesi sugli scaffali e le persone le compravano solo per le grandi occasioni, per fare regali. Io invece pensavo a qualcosa che risollevasse il morale, che addolcisse ogni giorno la vita dei tedeschi: c’era il cioccolato, la ciliegia e c’era il liquore che scaldava in quell’epoca fredda e con scarsi riscaldamenti. Qualcosa che avesse una carta invogliante, elegante, lussuosa, di un rosso fiammante, che desse l’idea di una piccola festa ad un prezzo accessibile a tutti. Insistetti finché non trovai un uomo intelligente che si fece conquistare dalla mia idea. La Valeria tedesca aveva bisogno di essere confortata, di sentirsi bene ogni giorno, di potersi fare un piccolo regalo: poteva funzionare tra fidanzati, tra marito e moglie e non c’era bisogno di aspettare feste o ricorrenze. Poi in inverno feci mettere enormi cartelloni pubblicitari in ogni grande stazione della Germania, con un immenso mazzo di fiori che non sfioriva mai. Per Natale mi misi d’accordo con la Fiat e al centro delle dieci maggiori stazioni piazzai in bella mostra una topolino rossa che avrebbe premiato i vincitori di un concorso legato al Mon Chéri. Fu un successo travolgente e l’anno dopo facemmo le cose ancora più in grande e mettemmo in palio dei diamanti». Il suo racconto è pieno di entusiasmo, anche se è passato più di mezzo secolo, e di quel periodo ricorda l’entusiasmo insieme al freddo e alla fatica: «Pensi che la fabbrica era in una serie di bunker bombardati…».
Pasqua tutti i giorni  
Gli chiedo allora quale è stata l’intuizione che è sembrata più pazza ma che gli ha dato più soddisfazione: «È successo anni dopo, in Italia, quando pensai che l’uovo di cioccolato non poteva essere una cosa che si vendeva e si mangiava una volta all’anno, a Pasqua. Però ci voleva qualcosa di più piccolo, che si potesse comprare ogni giorno a poco prezzo, ma doveva ripetere quell’esperienza e allora ci voleva anche la sorpresa, ma in miniatura. Pensai alla Valeria mamma, che così poteva premiare il suo bambino perché aveva preso un bel voto a scuola, alla Valeria nonna che lo regalava per sentirsi dire: “Sei la più bella nonna del mondo” o alla Valeria zia che riusciva così a strappare al nipotino quel bacio e quell’abbraccio che faticavano sempre a conquistare. Ma così tanto cioccolato poteva preoccupare le mamme, allora pensai di rovesciare l’assunto tradizionale pubblicizzando che c’era “più latte e meno cacao”, quale miglior sensazione per una mamma di dare più latte al suo bambino? Così mi decisi e ordinai venti macchine per produrre ovetti, ma in azienda pensarono di aver capito male o che fossi diventato matto e non fecero partire l’ordine. Poi chiesero a mia moglie Maria Franca se la firma sull’ordine era davvero mia, lei confermò, ma per far partire la cosa dovetti intervenire di persona. Le obiezioni erano fortissime, dicevano che sarebbe stato un flop, che le uova si vendevano solo a Pasqua e allora io sbottai e dissi: “Da domani sarà Pasqua tutti i giorni”». Questo fu il 1968 di Michele Ferrero, la sua rivoluzione, quell’anno partì insieme all’ovetto la linea di prodotti per bambini che conosciamo come Kinder Ferrero.
Primo: innovare  
«Ecco cosa significa fare diverso da tutti gli altri. Tutti facevano il cioccolato solido e io l’ho fatto cremoso ed è nata la Nutella; tutti facevano le scatole di cioccolatini e noi cominciammo a venderli uno per uno, ma incartati da festa; tutti pensavano che noi italiani non potessimo pensare di andare in Germania a vendere cioccolato e oggi quello è il nostro primo mercato; tutti facevano l’uovo per Pasqua e io ho pensato che si potesse fare l’ovetto piccolo ma tutti i giorni; tutti volevano il cioccolato scuro e io ho detto che c’era più latte e meno cacao; tutti pensavano che il tè potesse essere solo quello con la bustina e caldo e io l’ho fatto freddo e senza bustina. L’Estathè per dieci anni non è esploso, ma io non mi sono scoraggiato, perché ero convinto che ci voleva tempo ma che l’intuizione era giusta e che la Valeria non sapeva ancora che era quello che aveva bisogno. Ma poi se ne è resa conto ed è stato un grande successo. Un unico rammarico: averlo lanciato solo in Italia, ma mi spaventavano con le indagini di mercato e non vollero portarlo in Francia e così oggi il mercato estero è già pieno di concorrenti. E poi ci inventammo uno scatolino morbido e leggerissimo che era una novità assoluta e la cannuccia…».
«Sa perché ho potuto fare tutto questo? Per il fatto di essere una famiglia e di non essere quotati in Borsa: questo ha permesso di crescere con serenità, di avere piani di lungo periodo, di saper aspettare e non farsi prendere dalla frenesia dei su e giù quotidiani». Parliamo ormai da più di due ore, nello stabilimento c’è un profumo fortissimo di caffè, mi spiega che stanno facendo i pocket coffee. Il tempo sta per finire ma vuole ricordarmi una cosa a cui tiene più di tutto, la sua fede religiosa: «Tutto quello che ho fatto lo devo alla Madonna, a Maria, mi sono sempre messo nelle sue mani e lei devo ringraziare. La prego ogni mattina e questo mi dà una grande forza».
La sua stretta di mano e la sua energia, in quel giorno d’estate nel pieno dei suoi 85 anni, erano forti e invidiabili. Ora stava per compierne novanta, ma era rimasto lucido e fedele alle sue regole e ai suoi principi.




E' donna il manager della sostenibilità

E’ donna il manager della sostenibilità, ha un elevato livello di formazione, di stampo più economico e guadagna tra i 70 mila e gli 80 mila euro l’anno.A fare un punto della situazione della professione è il Csr manager network, l’associazione che riunisce i responsabili delle politiche di sostenibilità o Csr (Corporate social responsibility), in collaborazione con Altis (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica di Milano) e Isvi (Istituto per i valori d’impresa). L’indagine dunque rileva una prevalenza di donne tra i professionisti della Csr: su 116 gli iscritti 63 sono donne, più del 54%.
E’ donna anche la maggior parte dei collaboratori della Csr (62,5%) e il 34,4% ha un’età compresa trai 31 e 40 anni. Si tratta di professionisti che mostrano un curriculum studi molto elevato, con la maggior parte che ha conseguito una laurea specialistica (54,1%) o un master (29,7%). Dal punto di vista retributivo, la gestione degli aspetti sociali e ambientali all’interno di un’azienda è in linea con i ruoli manageriali delle più tradizionali funzioni aziendali: le retribuzioni annuali lorde e variabili dei professionisti della Csr paiono allineate.
I responsabili della sostenibilità raggiungono nel 45,9% dei casi il livello di dirigente e hanno retribuzioni annuali lorde che si attestano attorno ai 79mila euro, anche se in una quota significativa sono superiori ai 120mila euro (22,6%). beneficiano inoltre di una quota di retribuzione variabile legata agli obiettivi pari al 15,7%. Le responsabilità attribuite ai Csr manager portano alla gestione di un budget medio annuale di 192.720 euro e il coordinamento di un’unità organizzativa in media composta da 3,9 persone.




Michele Ferrero: “Il segreto del successo? Pensare diverso dagli altri e non tradire il cliente”

Michele Ferrero: “Il segreto del successo? Pensare diverso dagli altri e non tradire il cliente”

Il colloquio con il patron: tutti facevano cioccolato solido, io lo feci cremoso. “Lavoro per le Valerie, le donne che decidono. Se non ti comprano loro sei finito”

Michele Ferrero, il papà della Nutella, l’uomo che ha portato una pasticceria di Alba a diventare una multinazionale del settore dolciario da oltre 8 miliardi di fatturato, è morto ieri a Montecarlo. Aveva 89 anni. Per oltre mezzo secolo ha seguito e indirizzato i consumi degli italiani con i suoi prodotti, dai Mon Chéri agli Ovetti Kinder. Legatissimo alla sua terra ha trasformato gli stabilimenti Ferrero in un modello anche sociale. Alla guida dell’impero di famiglia ci sarà adesso il figlio cinquantunenne Giovanni.

«Il mio segreto? Fare sempre diverso dagli altri, avere fede, tenere duro e mettere ogni giorno al centro la Valeria». La Valeria? «La Valeria è la padrona di tutto, l’amministratore delegato, colei che può decidere del tuo successo o della tua fine, quella che devi rispettare, che non devi mai tradire ma capire fino in fondo». Lo guardo stupito e ripeto la domanda: «Mi scusi signor Michele, ma chi è la Valeria?». «La Valeria è la mamma che fa la spesa, la nonna, la zia, è il consumatore che decide cosa si compra ogni giorno. È lei che decide che Wal-Mart sia il più grande supermercato del mondo, che decreta il successo di un’idea e di un prodotto e se un giorno cambia idea e non viene più da te e non ti compra più, allora sei rovinato. Sei finito senza preavviso, perché non ti manda una lettera dell’avvocato per avvisare che taglia il contratto, semplicemente ha deciso di andare da un’altra parte, di non comprarti più». Michele Ferrero parla con voce allegra, squillante, gli piace tantissimo ricordare. Ha sempre gli occhiali da sole, fatica a sentire ma non interrompe mai gli altri, soprattutto la moglie. Non è mai andato in pensione e mai ci andrà finché avrà un soffio di vita. E fino all’ultimo non ha smesso di occuparsi dei suoi prodotti, della sua azienda, fedele alla sua regola di una vita, il rispetto dei consumatori: «La Valeria è sacra, devi studiarla a fondo, con attenzione e non improvvisare mai. Bisogna avere fiuto ma anche fare tante ricerche motivazionali».

Ho incontrato Michele Ferrero cinque anni fa, in una mattina d’agosto, nel suo stabilimento di Alba. Non parlava mai con i giornalisti e non si ricordano interviste o conferenze stampa, la riservatezza, con la fede religiosa e l’amore per la qualità sono state le cifre della sua esistenza. Mi aveva detto chiaramente che mi avrebbe parlato volentieri della sua vita e del suo lavoro ma a patto di non vederla pubblicata sul giornale la mattina dopo. Oggi penso che le parole del suo racconto siano il modo migliore per ricordarlo, per ricordare un genio del «fare» italiano.

Il genio e la modestia

Esordisce con modestia, immagino che strizzi gli occhi sotto le lenti scure: «Quando dicono “Michele è un genio”, rispondo facendo finta di aver capito altro: “Sì è vero di secondo nome faccio Eugenio, la mia mamma mi chiamò Michele Eugenio”. Meglio fare così, altrimenti finirei per crederci e per montarmi la testa». Gli faccio l’elenco dei suoi prodotti, di tutto ciò che ha inventato, lui sta un po’ in silenzio poi mi risponde: «Quello che amo di più? Certo la Nutella, ma il Mon Chéri è il prodotto degli inizi, quello che mi emoziona ricordare. Era l’inizio degli Anni Cinquanta e andammo in Germania, perché avevo pensato che il mercato del cioccolato dovesse guardare a Nord, dove lo consumano tutto l’anno». Si ferma un attimo, come se si fosse distratto: «Pensi che ancora oggi noi ritiriamo tutto il nostro prodotto di cioccolato all’inizio dell’estate, per evitare che si sciolga, per evitare che la Valeria resti delusa e trovi qualcosa che non è all’altezza. Per evitare che ci associ con qualcosa di sciolto, di rovinato, con qualcosa che non vale la pena comprare. Per questo il trimestre estivo è il nostro periodo peggiore e per questo la missione che tanti anni fa ho dato ai miei figli miei figli è quella di colmare il vallo estivo, di inventare prodotti che diano alla nostra produzione e al nostro fatturato un’uniformità tutto l’anno».

Cioccolato e liquore

«Ma dicevo della Germania: quando siamo arrivati era il dopoguerra, un Paese ancora pieno di macerie con i segni del conflitto, triste, depresso, in cui gli italiani erano visti malissimo. Ci consideravano traditori, malfattori e infidi, convincerli a comprare qualcosa da noi era una missione quasi impossibile. Cominciai ad andare dai distributori con l’idea di vendere cioccolatini in pezzo singolo, con dentro il liquore e la ciliegia. Mi dicevano che bisognava fare delle scatole, non degli incarti singoli, perché solo quelle si potevano mettere sugli scaffali dei negozi e quelle si vendevano. Io rispondevo che stavano mesi sugli scaffali e le persone le compravano solo per le grandi occasioni, per fare regali. Io invece pensavo a qualcosa che risollevasse il morale, che addolcisse ogni giorno la vita dei tedeschi: c’era il cioccolato, la ciliegia e c’era il liquore che scaldava in quell’epoca fredda e con scarsi riscaldamenti. Qualcosa che avesse una carta invogliante, elegante, lussuosa, di un rosso fiammante, che desse l’idea di una piccola festa ad un prezzo accessibile a tutti. Insistetti finché non trovai un uomo intelligente che si fece conquistare dalla mia idea. La Valeria tedesca aveva bisogno di essere confortata, di sentirsi bene ogni giorno, di potersi fare un piccolo regalo: poteva funzionare tra fidanzati, tra marito e moglie e non c’era bisogno di aspettare feste o ricorrenze. Poi in inverno feci mettere enormi cartelloni pubblicitari in ogni grande stazione della Germania, con un immenso mazzo di fiori che non sfioriva mai. Per Natale mi misi d’accordo con la Fiat e al centro delle dieci maggiori stazioni piazzai in bella mostra una topolino rossa che avrebbe premiato i vincitori di un concorso legato al Mon Chéri. Fu un successo travolgente e l’anno dopo facemmo le cose ancora più in grande e mettemmo in palio dei diamanti». Il suo racconto è pieno di entusiasmo, anche se è passato più di mezzo secolo, e di quel periodo ricorda l’entusiasmo insieme al freddo e alla fatica: «Pensi che la fabbrica era in una serie di bunker bombardati…».

Pasqua tutti i giorni

Gli chiedo allora quale è stata l’intuizione che è sembrata più pazza ma che gli ha dato più soddisfazione: «È successo anni dopo, in Italia, quando pensai che l’uovo di cioccolato non poteva essere una cosa che si vendeva e si mangiava una volta all’anno, a Pasqua. Però ci voleva qualcosa di più piccolo, che si potesse comprare ogni giorno a poco prezzo, ma doveva ripetere quell’esperienza e allora ci voleva anche la sorpresa, ma in miniatura. Pensai alla Valeria mamma, che così poteva premiare il suo bambino perché aveva preso un bel voto a scuola, alla Valeria nonna che lo regalava per sentirsi dire: “Sei la più bella nonna del mondo” o alla Valeria zia che riusciva così a strappare al nipotino quel bacio e quell’abbraccio che faticavano sempre a conquistare. Ma così tanto cioccolato poteva preoccupare le mamme, allora pensai di rovesciare l’assunto tradizionale pubblicizzando che c’era “più latte e meno cacao”, quale miglior sensazione per una mamma di dare più latte al suo bambino? Così mi decisi e ordinai venti macchine per produrre ovetti, ma in azienda pensarono di aver capito male o che fossi diventato matto e non fecero partire l’ordine. Poi chiesero a mia moglie Maria Franca se la firma sull’ordine era davvero mia, lei confermò, ma per far partire la cosa dovetti intervenire di persona. Le obiezioni erano fortissime, dicevano che sarebbe stato un flop, che le uova si vendevano solo a Pasqua e allora io sbottai e dissi: “Da domani sarà Pasqua tutti i giorni”». Questo fu il 1968 di Michele Ferrero, la sua rivoluzione, quell’anno partì insieme all’ovetto la linea di prodotti per bambini che conosciamo come Kinder Ferrero.

Primo: innovare

«Ecco cosa significa fare diverso da tutti gli altri. Tutti facevano il cioccolato solido e io l’ho fatto cremoso ed è nata la Nutella; tutti facevano le scatole di cioccolatini e noi cominciammo a venderli uno per uno, ma incartati da festa; tutti pensavano che noi italiani non potessimo pensare di andare in Germania a vendere cioccolato e oggi quello è il nostro primo mercato; tutti facevano l’uovo per Pasqua e io ho pensato che si potesse fare l’ovetto piccolo ma tutti i giorni; tutti volevano il cioccolato scuro e io ho detto che c’era più latte e meno cacao; tutti pensavano che il tè potesse essere solo quello con la bustina e caldo e io l’ho fatto freddo e senza bustina. L’Estathè per dieci anni non è esploso, ma io non mi sono scoraggiato, perché ero convinto che ci voleva tempo ma che l’intuizione era giusta e che la Valeria non sapeva ancora che era quello che aveva bisogno. Ma poi se ne è resa conto ed è stato un grande successo. Un unico rammarico: averlo lanciato solo in Italia, ma mi spaventavano con le indagini di mercato e non vollero portarlo in Francia e così oggi il mercato estero è già pieno di concorrenti. E poi ci inventammo uno scatolino morbido e leggerissimo che era una novità assoluta e la cannuccia…».

«Sa perché ho potuto fare tutto questo? Per il fatto di essere una famiglia e di non essere quotati in Borsa: questo ha permesso di crescere con serenità, di avere piani di lungo periodo, di saper aspettare e non farsi prendere dalla frenesia dei su e giù quotidiani». Parliamo ormai da più di due ore, nello stabilimento c’è un profumo fortissimo di caffè, mi spiega che stanno facendo i pocket coffee. Il tempo sta per finire ma vuole ricordarmi una cosa a cui tiene più di tutto, la sua fede religiosa: «Tutto quello che ho fatto lo devo alla Madonna, a Maria, mi sono sempre messo nelle sue mani e lei devo ringraziare. La prego ogni mattina e questo mi dà una grande forza».

La sua stretta di mano e la sua energia, in quel giorno d’estate nel pieno dei suoi 85 anni, erano forti e invidiabili. Ora stava per compierne novanta, ma era rimasto lucido e fedele alle sue regole e ai suoi principi.