La Facebook diplomacy con the e pasticcini

Il Ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi ha annunciato nei giorni scorsi un’interessante iniziativa per coinvolgere i propri fan di Facebook. Inviterà sei cosiddetti “top poster”, tre persone che sono intervenute di più sulla sua pagina e altre tre che hanno pubblicato contenuti che hanno colpito il ministro, a prendere un the insieme alla Farnesina. “In quell’occasione – scrive Terzi – mi impegno a rispondere con completezza a qualunque loro domanda sui temi della politica estera nazionale, nella certezza anche di ricevere utili stimoli”.

La pagina Facebook del Ministro Terzi

Con questa proposta Terzi conferma l’attenzione verso il mondo dei social media: oltre ad avere un account molto seguito su Twitter, il capo della nostra diplomazia è l’unico ministro dell’attuale compagine governativa a usare Facebook e in poco tempo la sua pagina ha raggiunto quasi 300.000 mila interazioni a settimana.
Invitare alcuni dei suoi fan a un incontro è un’eccellente idea per dimostrare come il dialogo sui social network possa portare anche a forme di coinvolgimento più diretto, che possono a loro volta stimolare ancor di più la partecipazione futura degli utenti online.
Finora la maggior parte dei commenti sono stati positivi, soprattutto perché iniziative del genere in Italia non sono affatto comuni, come ha sottolineato anche un utente per stigmatizzare alcune critiche: “Che pochezza puntualizzare e fare battute su the e pasticcini. Il ministro ci offre il suo tempo! Citatemi un membro di un dicastero così impegnativo, che si dedica con tanta umiltà e partecipazione ai suoi cittadini!”


La Casa Bianca e la Morte Nera. Tre ottime lezioni di comunicazione online.

“Procurare le risorse e i finanziamenti e iniziare la costruzione entro il 2016 di una Morte Nera” (ndr: la stazione spaziale del film Guerre Stellari, capace di distruggere interi pianeti).
E’ l’originale proposta comparsa poco tempo fa su “We the people”, la piattaforma online della Casa Bianca che permette ai cittadini di proporre e votare petizioni indirizzate all’amministrazione americana. L’idea della Morte Nera piace e supera ampiamente le 25.000 firme di sostegno che obbligano il governo a rispondere. Nei giorni scorsi la Casa Bianca ha pubblicato la replicaUn vero capolavoro di comunicazione.

L’Amministrazione condivide il vostro desiderio di creare posti di lavoro e avere una solida difesa nazionale, ma la realizzazione di una Morte Nera non è in programma. Ecco alcune ragioni:
È stato stimato che la costruzione della Morte Nera costerebbe oltre $850.000.000.000.000.000. Stiamo lavorando duramente per ridurre il disavanzo, non per aumentarlo.
L’Amministrazione non è favorevole all’idea di far saltare in aria altri pianeti.
Perché dovremmo spendere un’enorme mole di dollari dei contribuenti per una Morte Nera che ha un difetto fondamentale, ovvero può essere distrutta da una piccola astronave monoposto? (ndr: il protagonista del film Harrison Ford riesce a distruggerla da solo).

La risposta prosegue elencando con scrupolo diverse iniziative nell’ambito del programma spaziale dell’amministrazione: dalla Stazione Internazionale già in orbita alle nuove astronavi capaci di uscire dal sistema solare, dai laboratori robotici su Marte alla sonda che raggiungerà gli strati esterni del Sole. L’attenzione del Presidente Obama verso questo ambito tecnologico viene inoltre sottolineata ironicamente con una foto che lo ritrae mentre brandisce la spada laser di Guerre Stellari.
Infine, la chiusura della lettera, un’esortazione ai giovani a studiare le materie tecnologiche, è molto efficace da un punto di vista di comunicazione.Prevedendo la viralità online che l’episodio avrebbe innescato, la Casa Bianca ne ha approfittato per indirizzare l’attenzione su un messaggio forte che il Presidente Obama sta da tempo promuovendo.

Stiamo vivendo nel futuro! Godetevelo. Meglio ancora, aiutate a costruirlo intraprendendo una carriera in un campo legato alla scienza, alla tecnologia, all’ingegneria o alla matematica…

Il “caso Morte Nera” è un ottimo esempio di comunicazione istituzionale e richiama tre importanti lezioni:

  1. La Rete è imprevedibile. Anche le iniziative più lodevoli, come dare la possibilità ai cittadini di fare proposte, possono nascondere delle insidie. Preparazione e flessibilità di reazione sono determinanti.
  2. L’ironia è quasi sempre la carta vincente per spegnere polemiche o per tirarsi fuori da situazioni imbarazzanti.
  3. Se ben gestiti, i momenti di difficoltà possono trasformarsi in buone opportunità per valorizzare i propri messaggi.

 


McDonald's mette il dito nella piaga e Ikea tace. Esempi (sbagliati) di comunicazione aziendale

McDonald’s? Altissima brand awareness e bassissima brand reputation che tradotto suona, più o meno, che tutti conoscono il marchio di fast food ma pochi lo giudicano bene. Lo sanno anche nelle stanze del marketing e comunicazione della multinazionale americana e hanno deciso di mettere in piedi una campagna istituzionale che mirasse non tanto a ripulire l’immagine di panini e patatine, quanto a sottolineare il ruolo che un’azienda da 16.000 dipendenti (in Italia) svolge nell’economia di un Paese. La logica di comunicazione è semplice: il lavoro, soprattutto quello giovanile, è ormai un tema ad altissima sensibilità sociale. Puntare su questo per una campagna di comunicazione istituzionale non potrà che far presa e ottenere il risultato di far guardare la catena di fast food con occhi diversi da parte del pubblico, insomma, risollevarne un po’ la reputazione. Tutto giusto, teoricamente. In pratica, gli spot di McDonalds on air questi giorni, stanno sollevando un vespaio e non sembra che il risultato sia quello auspicato.
Innanzitutto c’è un aspetto di strumentalizzazione di un tema così sensibile che è stato percepito in maniera netta. La scelta appare maliziosa e un tentativo scoperto di far vestire all’azienda una casacca “buonista”, che mal si addice alla sua immagine. Non parliamo di panini e patatine ma proprio delle condizioni di lavoro nei ristoranti della catena. Che sia vero o meno, lavorare nei McDonalds è considerata la cosa più vicina al lavorare in un call center. Un fianco scoperto, prontamente, e facilmente, attaccato dai sindacati, con il rischio che per la multinazionale possa aprirsi anche un fronte critico proprio su questi temi.
Dall’altra parte c’è un aspetto puramente tecnico. Quando si lanciano campagne di comunicazione su temi così sensibili, è fondamentale che l’azienda sia certa come del sole che sorge, di non essere attaccabile. Numeri alla mano, McDonalds, non sembra così blindata, soprattutto riguardo la forma contrattuale dei prossimi “3.000 assunti”. Contratti a tempo determinato e non indeterminato. Un’over promise evidente che ha reso l’azienda vulnerabile e l’ha avvicinata a un ambito, per così dire culturale, ovvero quello del lavoro con maggiore mobilità e meno tutele, in perfetto stile americano ma che, in Italia, spacca ancora il Paese. Non sorprende l’intervento del ministro Fornero a questo riguardo (“meglio un contratto a termine che disoccupati”) ma quanto conviene a un’azienda schierarsi o farsi posizionare “politicamente” su temi così delicati?
In conclusione la campagna non sembra un grande successo, anzi rischia di rivelarsi un boomerang. E’ il prezzo che si paga quando si cerca di sfruttare temi ad altissima sensibilità sociale per promuovere l’immagine aziendale. Al netto delle valutazioni di opportunità, vanno valutati e messi sui due piatti della bilancia i pro e i contro. Il problema è che troppo spesso i contro pesano decisamente di più.Va infine sottolineato, come ha fatto notare con acume Giorgio Cattaneo, che il tema “lavoro” sta entrando prepotentemente nella comunicazione.
Nel caso di McDonald’s si è probabilmente scoperchiato il vaso di Pandora. Un’altra azienda, Ikea, ha vissuto, non per scelta, una crisi sempre su questo tema. Una società appaltatrice della multinazionale svedese ha innescato una vertenza sindacale durissima con alcune cooperative di facchini nel polo logistico di Piacenza. Ikea non c’entrava assolutamente nulla ma, per inesperienza del sindacalismo italiano (lo sostengono alcuni esponenti delle coop piacentine) o per distrazione, si è trovata impallinata dalle stesse rappresentanze dei lavoratori che sono riusciti, usando il Web come una clava mediatica, a coinvolgere Ikea.
Il risultato finale è stato che le persone hanno percepito il colosso dei mobili come l’attore principale (e lo sfruttatore) dei lavoratori in lotta e hanno attaccato violentemente l’azienda sui suoi luoghi Web, in particolare su un sito creato per una campagna che, invece, con intelligenza e delicatezza, usava la voglia di guardare a un futuro migliore.
Presa di sorpresa, Ikea, non ha saputo far di meglio che chiudere il sito, senza rispondere o spiegare le proprie ragioni. Un danno evidente d’immagine e di reputazione, soprattutto online, che ha dimostrato quanto l’azienda svedese debba ancora crescere in termini di comunicazione.
Ed è proprio la crescita in termini di tecniche di comunicazione l’insegnamento che da questi due casi si può trarre. Non si “piegano” temi socialmente sensibili a scopi promozionali, o comunque ci vuole grande eleganza ed estrema attenzione. Secondo, poi il “lavoro”, sta diventando “IL” tema sensibile e quindi un vero capo minato e fonte di pesanti crisi di comunicazione per le aziende.
E’ necessario quindi attrezzarsi, in questo senso, con efficacia ed efficienza ma senza dimenticare che la comunicazione è innanzitutto responsabilità e rispetto per l’interlocutore, rispetto che passa innanzitutto dal rispondere ai propri stakeholders (vero Ikea?) ma anche da non mettere il dito in una piaga (vero McDonald’s?).


La primavera verde del crowdsourcing

Era il 2006 quando per la prima volta, sulla rivista Wired, compariva il termine ‘crowdsourcing’. Nell’articolo “The rise of crowdsourcing”, infatti, Jeff Howe coniava questo neologismo dall’unione di: crowd (folla) e source (fonte). La folla si converte in fonte grazie alle tecnologie digitali, che agevolano un nuovo modo di lavorare e tendono a modificare i comportamenti in direzione di modelli d’interazione sempre più dinamici e flessibili, che giungono poi alla risoluzione di problemi e alla generazione di nuovi business.In un’ottica di business, il crowdsourcing si pone come metodologia di collaborazione vincente con la quale le imprese chiedono un contributo attivo agli utenti, che si aggregano attorno a una piattaforma web, lo sviluppo di un progetto o più semplicemente un’idea.Fondamentali in questo caso gli user generated content, i contenuti generati dagli utenti: il contributo attivo è proprio quello delle persone che decidono di partecipare attivamente.Il ’prosumer’ è sempre più presente, la cooperazione creativa tra cliente-consumatore e azienda si basa su un nuovo pensiero di collaborazione e condivisione dei propri saperi con un click. Tra i primi lungimiranti esempi di crowdsourcing si può citare Wikipedia: ogni singolo utente, possedendo una conoscenza unica e personale, crea un piccolo tassello di un’opera complessiva, per esempio scrivendo parte di una voce ‘wiki’.Nel 2011, secondo il rapporto SMI-Wizness Sustainability Index Social Media, questa forma di collaborazione è in crescita in ambito aziendale per trovare le migliori idee utili ad affrontare temi sostenibili e piattaforme social per comunicare le iniziative di sostenibilità.Multimedialità e interattività sono infatti condizioni che guidano le aziende verso una crescita sostenibile e un numero sempre maggiore di imprese sta sfruttando il potere dell’intelligenza collettiva per raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile.Questo trend è visibile nelle start up, nelle imprese di recente costituzione e nei ‘vecchi giganti’ che si stanno aprendo a queste filosofie, comprendendo come queste rappresentino un’occasione per aumentare il proprio valore e condividerlo con gli stakeholder e la società in genere.Per esempio, Pepsi ha sfruttato le potenzialità dell’Open Innovation per realizzare progetti sul territorio. Per ‘Migliora il tuo mondo’, il brand ha chiesto ai giovani italiani di proporre idee per rendere il mondo un posto migliore; le proposte più interessanti sono state finanziate e trasformate in progetti concreti. Questa iniziativa non solo esprime in maniera semplice ed efficace i paradigmi del crowdsourcing, ma soprattutto premia la fiducia e la creatività dei giovani italiani.Unilever invece per la prima volta ha condiviso i propri progetti di ricerca e sviluppo in modo pubblico con un open forum e con un nuovo modello di sviluppo strategico delle informazioni per sensibilizzare sull’adozione di soluzioni sostenibili.Unilever è convinta che, per il raggiungimento del traguardo prefissato con il Sustainable Living Plan (dimezzare entro il 2020 l’impronta ambientale dell’azienda) sia necessario collaborare con tutti gli stakeholder. Per questo scopo ha lanciato Open Innovation Submission Portal, per sviluppare nuove idee e tecnologie di prodotto. La piattaforma è aperta a tutti coloro che vogliano proporre un’innovazione che possa contribuire alla strategia di crescita sostenibile dalla multinazionale anglo-olandese. Più di 2 miliardi di persone nel mondo utilizzano ogni giorno un prodotto Unilever, questo significa che migliorare i prodotti fa una differenza in positivo per la vita di milioni di persone. Ma l’idea davvero innovativa di Unilever è stata l’Unilever Sustainable Living Lab: un laboratorio pensato per l’approfondimento e lo scambio di idee sui temi chiave per lo sviluppo della sostenibilità in azienda. Vi hanno partecipato 2.200 leader ed esperti di sostenibilità facenti parte del settore distributivo, produttivo, istituzionale, accademico e mediatico, provenienti da 77 nazioni in tutto il mondo, che si sono riuniti intorno a un tavolo virtuale per creare insieme idee all’avanguardia e innovative, condividere buone prassi con l’obiettivo di aiutare sia l’azienda che gli altri partecipanti al Lab a trovare soluzioni alle loro sfide di sostenibilità.La collaborazione di molte menti diverse è il punto di forza dei metodi progettuali crowd: la casualità delle relazioni e il valore della differenza sono le risorse su cui puntare per un concreto avviamento verso una sostenibilità economica, sociale e ambientale.Inoltre, grazie alla combinazione di una serie sempre più ampia di informazioni e alla loro diffusione capillare attraverso i mezzi digitali, si raggiunge una maggiore trasparenza tra gli attori in campo, suscitando una maggiore responsabilità da parte delle imprese che si pongono all’ascolto della vastissima community online.


Nasce l'enciclopedia della Csr

Attiva e tutta da inventare con il contributo degli utenti la piattaforma in stile wikipedia per le imprese che fanno responsabilità sociale d’impresa
Una nuova piattaforma a costo zero, tutta da sviluppare, per conoscere i momenti e gli appuntamenti più significativi degli ultimi 10 anni a livello di sostenibilità e comunicazione sociale nel mondo imprenditoriale italiano. Il suo futuro è in mano agli utenti, privati o aziende, che intendano dare il loro controbuto alla formazione di WikiCsr, nelle aspirazioni del gruppo che le ha dato vita (Koinetica) una Wikipedia del responsabilità sociale d’impresa, la cosiddetta Csr. Già previste nel sistema, le possibilità di aggiungere notizie di interesse collettivo e di inviare commenti, riflessioni, articoli e racconti di esperienze che siano di (buon esempio) per gli altri. Wikicsr vorrebbe diventare un punto di incontro privilegiato per tutti coloro che attraversano questo mondo: da un lato, le imprese, possono condividere i loro comportamenti virtuosi, dall’altro gli esperti, che possono cogliere trend in evoluzione e farli diventare oggetti di studio, e infine, proprio i giovani che per la prima volta si affacciano alla finestra di questa realtà. Un altro modo per “fare Rete” nei canali che contano.


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