Infocommerce, mai più senza prima di un acquisto

Utenti sempre più informati con la rete: nove su dieci cercano online informazioni prima di un acquisto. I giovanissimi lo fanno da mobile, quasi sette acquirenti online su dieci usano i motori di comparazione prezzi. Ecco come orientarsi nella scelta di un prodotto.
Ricerca di informazioni online prima di un acquisto, anche se l’operazione verrà poi conclusa in un negozio tradizionale; consultazioni serrate di informazioni tramite mobile, soprattutto tra i più giovani; utilizzo dei motori di comparazione dei prezzi a scopo informativo. Sono le abitudini ormai consolidate degli utenti Internet italiani che sul web si orientano prima di fare acquisti. È quanto rileva uno studio inedito firmato ContactLab (qui disponibile gratuitamente http://www.contactlab.com/infocommerce-raccolta-info-preacquisto-online), basato sui risultati dell’ultimo E-commerce Consumer Behaviour Report condotto su un campione di 25.000 utenti rappresentativi della popolazione Internet italiana.
Nello specifico è emerso che quasi tutti gli utenti Internet italiani (94%), soprattutto gli uomini (più della metà, 52%) si informano online prima di fare un acquisto in un negozio tradizionale. Una pratica, quella dell’infocommerce, che sta ormai delineando il nuovo profilo tipo dell’utente Internet italiano: costui infatti, anche se non ha mai fatto un acquisto online, è ormai stabilmente presente in rete e naviga alla ricerca di informazioni che lo aiutino a orientarsi nella scelta di un prodotto.
In aggiunta a questi dati va considerato che tre utenti su dieci (28%) tra coloro che hanno già acquistato online s’informano da mobile, numero che cresce sino a toccare il 38% degli intervistati se guardiamo alla fascia dei giovanissimi 15-24.
Se l’uso del web per consultare dati e offerte è diventato comune tra coloro che ancora non si sono affacciati all’e-commerce, è ovviamente pratica consolidata anche per gli acquirenti online, che nella maggioranza dei casi cercano informazioni visitando il sito ufficiale (69%) o informandosi sui portali o i siti web (59%). Ma c’è anche un buon 12% che cerca informazioni o scambia opinioni sui social network. In generale sono gli uomini più delle donne a cercare informazioni sul web prima di un acquisto online.
Oltre alle fonti già segnalate, è molto comune tra tutti gli utenti Internet italiani la consultazione di blog e forum, data come preferenza dal 34% dei rispondenti.
“I dati raccolti ci restituiscono senza ombra di dubbio il profilo di un consumatore sempre più consapevole e attento, che prima di effettuare un acquisto, sia esso in un negozio tradizionale od online, si informa accuratamente sul quel prodotto o servizio – spiega Massimo Fubini, fondatore e amministratore delegato di ContactLab. Quasi nessun acquisto viene ormai fatto ‘a caso’, lo shopping diventa ragionato e passa senza dubbio dalla fiducia che l’utente ripone nel merchant o nel retailer scelto di volta in volta. Il consumatore è alla ricerca costante del ‘migliore acquisto’, in una sintesi che unisce la qualità del prodotto e il prezzo più favorevole. È necessario quindi che tanto i produttori quanto i rivenditori siano pronti a soddisfare un consumatore sempre più esigente fornendogli con la massima trasparenza tutte le informazioni necessarie dall’inizio alla fine del processo di acquisto. Solo così il merchant potrà guadagnarsi la fiducia dell’utente: offrendo il prodotto migliore al prezzo migliore e supportandolo con la massima trasparenza e con la dovuta attenzione alle sue esigenze”.
Tra gli strumenti utilizzati dagli utenti Internet italiani per informarsi vanno senza dubbio segnalati i metacomparatori, new entry degli ultimi mesi. Dai voli aerei agli hotel, dalle tariffe telefoniche alle assicurazioni, in quasi sette casi su dieci (66%) gli acquirenti hanno già fatto uso di questi motori di ricerca che comparano i prezzi dei retailer presenti online per trovare l’offerta migliore. Non sempre però all’utilizzo informativo di questo strumento corrisponde una finalizzazione dell’acquisto sul motore stesso: tra chi li usa solo la metà decide di completarlo cliccando sui risultati della ricerca.


Tumori: malato mette online le analisi per cura 'open source'

“Ho un tumore al cervello. Ieri sono andato a ritirare la mia cartella clinica digitale: devo farla vedere a molti dottori. Purtroppo era in formato chiuso e proprietario e, quindi, non potevo aprirla ne’ con il mio computer, ne’ potevo mandarla in quel formato a tutti coloro che avrebbero potuto salvarmi la vita. L’ho craccata”. Si presenta cosi’, sul suo sito artisopensource.net, Salvatore Iaconesi, ingegnere, artista, espetto di new media. Iaconesi ha scoperto da pochissimo di avere un tumore al cervello, e ha ideato un’iniziativa senza precedenti: mettere online sul sito, intitolato ‘La cura’, tutti i risultati dei suoi esami, dalle cartelle cliniche alle tac, per condividerli con piu’ persone (medici in primis) possibile, e arrivare a una vera e propria cura “open source”. “Solo oggi – scrive Iaconesi – sono gia’ riuscito a condividere i dati sul mio stato di salute (sul mio tumore al cervello) con 3 dottori. 2 mi hanno gia’ risposto.  Sono riuscito a farlo solo perche’ i dati erano in formato aperto e accessibile: loro hanno potuto aprire i file dal loro computer, dal loro tablet. Mi hanno potuto rispondere anche da casa. Progressivamente, rendero’ disponibili tutte le risposte che ricevero’, sempre in formati aperti, cosi’ che chiunque abbia il mio stesso male possa beneficiare delle soluzioni che ho trovato. Questa e’ una CURA. E’ la mia CURA OPEN SOURCE.  Questo e’ un invito a prendere parte alla CURA. CURA, in diverse culture, vuol dire diverse cose. Ci sono cure per il corpo, per lo spirito, per la comunicazione”. Infine l’appello: “Prendete le informazioni sul mio male, se ne avete voglia, e datemi una CURA: fateci un video, un’opera d’arte, una mappa, un testo, una poesia, un gioco, oppure provate a capire come risolvere il mio problema di salute. Artisti, designer, hacker, scienziati, dottori, fotografi, videomaker, musicisti, scrittori. Tutti possono darmi una CURA. Create la vostra CURA usando i contenuti che trovate in DATI/DATA qui in questo sito, e inviatela a info@artisopensource.net”.


Sostenibilita, Csr. No ai 'minerali insanguinati', primi segnali da parte dell'industria Ict

Primi segnali da parte dell’industria Ict per dire no ai ‘conflict minerals’, minerali largamente utilizzati dalle industrie, soprattutto dell’high-tech, spesso estratti e venduti nell’illegalità e con continue violazioni dei diritti umani. A fronte di un’opinione pubblica sempre più sensibile all’argomento, alcune aziende hanno infatti deciso di cambiare rotta e di intraprendere politiche atte a garantire un prodotto che sia ‘conflict-free’. I minerali ‘sporchi di sangue’ sono l’oro, la cassiterite, la wolframite e la columbite-tantalite, spesso prodotti tra gli abusi e letteralmente sottratti alle comunita’ locali per finanziare i conflitti. Succede nel Congo, in particolare nella regione orientale, che possiede l’80% delle riserve mondiali di coltan, il minerale da cui si estrae il tantalio, indispensabile per l’industria high-tech. Una ricchezza che invece di andare alle comunità per lo sviluppo dell’economia locale, finisce per finanziare la guerra civile con pesanti impatti ambientali, sociali e continue violazioni dei diritti delle persone. A due anni dalla prima edizione, l’organizzazione non profit Enough Project torna a pubbicare la classifica dei “buoni e dei cattivi”, cioè delle aziende che stanno (o non stanno) organizzandosi per sviluppare una catena conflict-free’, rifornendosi da miniere e fonderie certificate, ovvero legali e quindi controllate. Secondo lo studio dell’organizazzione, “Taking conflict out of consumer gadgets”, le aziende indicate come ‘pioniere del progresso’ e che hanno scelto di utilizzare materiali di origine certa, certificata e ‘conflit free’, sono Intel, Hp, Apple e Motorola; anche SanDisk, Philips, Sony, Panasonic, Rim e Amd hanno significativamente implementato i propri sforzi in questa direzione. Sharp, Htc, Nikon e Canon stanno muovendo i primi passi, ma restano nella parte più bassa della classifica, mentre la Nintendo si ‘guadagna’ l’ultimo posto per non aver ancora compiuto nessuno sforzo noto nella direzione del conflict-free. Rispetto alla classifica precedente (dicembre 2010), secondo l’organizzazione la maggior parte delle aziende si è mossa per eliminare i materiali incriminati, complice la crescente consapevolezza del pubblico sul tema, ma ce ne sono troppe che non stanno ancora facendo niente. Le azioni messe in campo dalle aziende riguardano in particolare la mappatura delle miniere coinvolte nell’approvvigionamento, scegliendo quelle conflict-free tra quelle aderenti all’Allenza per il Commercio Responsabile dei minerali o Ppa (Public Private Alliance), partenrship tra Stati Uniti, Ong e aziende a sostegno dello sviluppo di una catena ‘pulita’ dei minerali congolesi. Un’iniziativa che, secondo Enough Project, ha già avuto un effetto sul conflitto in corso in Congo, dove i gruppi armati ora sono in grado di produrre appena il 35% dello stagno, del tantalio e dello tungsteno di due anni fa. Per aiutare il Paese, secondo Enough Project, è importante che le aziende continuino ad acquistare dal Congo le materie prime, perché – fa sapere l’organizzazione – non comprarle più significa sicuramente mettere in difficoltà i gruppi armati, ma anche danneggiare lo sviluppo dell’economia locale. Meglio, quindi, aderire alla Ppa (Public Private Alliance) investendo in progetti ‘puliti’ che aiutano le comunità e sostengono le miniere del Congo orientale. Stando a quanto rileva il Cdca, il Centro documentazione sui conflitti ambientali, il valore del coltan durante il conflitto è aumentato del 600% in 3 anni. Le concessioni e le miniere abusive di coltan si moltiplicano cosi’ come il mercato nero del minerale, rubato dai guerriglieri e poi rivenduto. Secondo i dati dell’Onu, circa 1.500 tonnellate del prezioso materiale sono state esportate illegalmente dall’Africa tra la fine del 1998 e l’estate 1999: un traffico che, unito a quello di oro e diamanti, avrebbe fruttato ai guerriglieri del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd) circa un milione di dollari al mese. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha istituito una commissione di inchiesta sul traffico illegale di materie prime dal Congo e un primo rapporto ha rivelato che “le attività commerciali delle imprese straniere presenti in Congo non possono essere qualificate come sfruttamento illegale, integrando già gli estremi di un vero e proprio saccheggio sistematico delle ricchezze del Paese”. Il coltan serve ad ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione, ad esempio nei telefonini, nelle videocamere e nei computer portatili. I condensatori al tantalio permettono un notevole risparmio energetico e quindi una maggiore efficienza dell’apparecchio. Il materiale è utilizzato anche per la costruzione di condensatori elettrici, air bag, visori notturni, materiali chirurgici, fibre ottiche e consolle per i videogiochi.


LE IMPRESE AL SERVIZIO DEL BENE COMUNE

C’era una volta l’impresa che faceva l’impresa e lo Stato sociale che faceva lo Stato sociale. Poi venne l’epoca dello Stato sociale che faceva l’impresa (si veda a titolo di esempio l’impostazione della politica sanitaria della Regione Lombardia) e dell’impresa che faceva lo Stato sociale (dalla contrattazione aziendale di Luxottica al referendum Fiat per la deroga al CCNLL). Infine, fu il tempo dell’impresa sociale, non solo nella forma giuridica, quanto nell’approccio al business. Sociale, nel senso etimologico del termine: ciò che concerne la società, ovvero la persona. L’assunto di base è semplice, talmente banale da essersi perso nei meandri della Storia, ed essere stato riscoperto solo grazie ad un processo di nemesi (ovvero la finanza che finanzia la finanza): è l’economia al servizio dell’individuo, e non l’individuo al servizio dell’economia.Un’affermazione talmente banale da divenire il tema cardine del dibattito che alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile di Rio vedrà impegnate tutte le principali istituzioni del mondo. L’obiettivo finale del consesso che avrà luogo nei prossimi giorni sarà infatti quello di “rafforzare l’impegno politico per lo sviluppo sostenibile con l’identificazione di un nuovo paradigma di crescita economica, socialmente equa e ambientalmente sostenibile”. Obiettivo ambizioso, che può passare solo da un’unica via: la cooperazione tra attori economici (tra cui le imprese), istituzioni di governo, società. E la domanda è: come?Nel novembre 2011, Harvard Business Review in un noto articolo denominato “The good Company”, sentenziava che “companies that perform best over time build a social purpose into their operations that is as important as their economic purpose”. In sintesi, è tempo di superare la dicotomia tra capitale e lavoro, per giungere a considerare l’impresa come un vero attore sociale (che dunque deve comportarsi come tale, ovvero “responsabilmente”) al pari dell’individuo, del nucleo familiare, delle istituzioni, eccetera.Come coniugare il paradigma di un mercato capitalistico con il concetto di bene comune? Per usare le parole di Stefano Zamagni (2007), ai suoi inizi l’economia di mercato si caratterizzava come economia dal valore civile, in cui ai principi di scambio di valore e redistributivo si associava il principio di reciprocità. Fu con l’avvento dell’economia capitalistica che il principio di reciprocità venne abbandonato e con esso cadde anche l’interesse verso il bene comune. “Nel bene comune – scrive Zamagni – il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una certa comunità non può essere scisso dal vantaggio che pure altri ne traggono. L’interesse di ognuno si realizza assieme a quello degli altri non contro né a prescindere”. Zamagni apre la strada allo sviluppo dell’economia del bene comune, in cui l’impresa ha senza dubbio un ruolo rilevante.Lo scorso anno, Christian Felber compie un ulteriore passo avanti con la pubblicazione del saggio “Nuovi valori per l’economia”, che dà il passo a una piccola rivoluzione. Felber, che nei primi giorni di giugno è stato ospite al Festival Dell’Economia di Trento, teorizza un nuovo modello economico, denominato Gemeinwohl-Oekonomie, ovvero “economia del bene comune”, che supera il capitalismo e tenta di indicare un nuovo paradigma che passi attraverso due attori chiave: le istituzioni e le imprese. Il modello proposto da Felber, sintetizzato in diciassette “azioni”, è idealmente suddividibile in due macro ambiti: una nuova concezione di economia e una nuova concezione di democrazia.Concentriamoci sul primo. L’economia del bene comune si basa sui valori fondamentali che portano alla riuscita delle relazioni interpersonali degli individui. Tradotto in termini di etica d’impresa: la corporate social responsibility non è altro che una “personal social responsibility” trasferita ad un soggetto organizzativamente più ampio: l’impresa, appunto. L’atteggiamento della stessa sul mercato non è più di concorrenza con  i peers, ma di cooperazione e partnership, per una crescita organica e omogenea. La rendicontazione di impresa non è solo economico finanziaria ma diviene volta alla misurazione del bilancio del bene comune (per l’impresa) e del prodotto interno del bene comune (per il sistema). Il profitto si trasforma da fine a mezzo ed è diretto soltanto al raggiungimento della nuova mission sociale. Attraverso un sistema di rating, le imprese virtuose vengono facilitate dallo Stato sul piano giuridico e fiscale, sia per avvantaggiare realtà che attuano best practice di sostenibilità (contestualmente penalizzando le aziende socialmente irresponsabili), sia al fine di agevolare l’ingresso nel mercato di start up e nuovi prodotti coerenti con tale visione, ovvero intrinsecamente a valore ambientale e sociale. Proprio perché il profitto è solo un mezzo, le imprese possono mirare al raggiungimento delle loro dimensioni ottimali, trascurando il mito della crescita costante. Nel caso di grandi imprese, deve essere ampliata la base decisionale (governance) ad attori attualmente esclusi, come dipendenti o altri stakeholder rilevanti, e viene ridotto l’orario di lavoro per liberare tempo alle attività relazionali e assistenziali delle persone, in tal modo sgravando il compito al sistema di welfare statale.Felber si spinge ancora oltre e arriva a teorizzare proprietà comuni democratiche, al servizio del bene comune e controllate dalla collettività, ovvero aziende a gestione comune nell’ambito dei servizi di base e della “previdenza esistenziale”, alcuni limiti alle differenze di reddito tra cittadini, e la Banca Democratica, controllata dalla collettività e non dal governo, che metta a disposizione solo servizi fondamentali. Il tutto, inserito in un sistema democratico partecipativo che prevede strumenti di democrazia diretta.Questa la visione dell’economia del bene comune di Felber, un mix tra buon senso, equità ed efficienza, etica d’impresa e utopia. Un modello visionario? Forse sì. Ma ci sono alcuni numeri che parlano chiaro. In un solo anno, oltre 700 aziende (prevalentemente di dimensioni piccole o medie) di 15 differenti Paesi hanno aderito al manifesto (oltre a 120 organizzazioni pubbliche e a 50 esponenti politici, per lo più con incarichi locali, ça va sans dire). Aderire al progetto comporta per ciascuna impresa la presentazione di un bilancio del bene comune, secondo le linee guida messe a punto dal gruppo di lavoro di Gemeinwohl-Oekonomie nella Matrice del Bene Comune. Una matrice che parte dai framework di reporting più comuni (come ad esempio il GRI) e si spinge fino a richiedere informazioni ad oggi estranee ai rapporti di sostenibilità, come ad esempio l’inclusione di criteri sociali ed ambientali nella scelta dei servizi finanziari/di investimento, la solidarietà con imprese partner attraverso la condivisione di know how per favorire una crescita del sistema, la cogestione dell’azienda con gli stakeholder. La matrice richiede trasparenza anche relativamente a “criteri negativi”, come ad esempio la produzione di prodotti ad obsolescenza programmata, la disparità salariale tra uomo e donna, i processi di delocalizzazione nonostante bilanci in attivo, la presenza di società figlie in paradisi fiscali.In conclusione, il modello di Felber è in sé per certi versi interessante (per quanto per alcuni aspetti attualmente inapplicabile) ma è soprattutto uno strumento utile a spostare il centro della riflessione che concerne l’etica d’impresa verso le opportunità offerte dalla congiuntura di questi anni (opportunità che Rio+20 potrà contribuire a consolidare): identificare un nuovo paradigma economico (e dunque nuovi modelli di business e di management delle imprese) che sappia rimettere al centro dell’attenzione il bene comune.


Gli studenti protestano su Facebook

“A tutti gli amici di Fb, l’appuntamento è per martedì alle ore 9 con l’okkupazione dei luoghi simbolo”. Che il linguaggio dei giovani fosse rapidamente cambiato non è una notizia. Lo è invece il fatto che la nuova generazione usi la Rete e i social network per unirsi e rivendicare i proprio diritti. Le occupazioni di piazze, stazioni e aeroporti in tutta Italia, avvenute contemporaneamente durante l’ultimo mese, in contrasto con la riforma dell’università, non sono state casuali. Ma il mezzo di comunicazione che ha legato i manifesti non è più l’sms come ai tempi dell’Onda, ma il web usato dai ragazzi per coordinare le loro proteste. Non le e-mail, giudicate troppo lente, ma la comunicazione in tempo reale dei social network. Facebook è il più importante, ma non l’unico strumento impiegato. Lo hanno usato i ricercatori della “Rete 29 aprile” saliti sul tetto della facoltà di architettura di Roma (quello dove sono arrivati politici di destra e sinistra aprendo di fatto una campagna elettorale). Il loro profilo Fb “piace” a più di 3 mila persone, e molti giovani li hanno raggiunti in piazza Fontanella Borghese dopo aver letto il loro diario su internet. “Ci siamo tenuti in contatto col mondo grazie agli smartphone che ci permettevano di essere on line anche dal tetto”, racconta Massimo Tabusi, uno dei coordinati della protesta. E un piano sotto all’interno della facoltà occupi, il collegamento con gli altri ricercatori mobilitati avveniva via Skype. L’unione degli studenti ha esaurito i 5 mila amici del proprio profilo e ha aperto una pagina fan che piace a più di 6 mila persone. Altri 4 mila contatti sono quelli della pagina Facebook di “Link, coordinamento universitario”. Con un post , gli animatori delle proteste riescono a raggiungere in un batter di ciglia più di 20 mila persone in tutto il Paese. E anche all’estero dove è nato un gruppo di sostenitori che hanno diffuso video di solidarietà ai giovani rimasti in Italia. Il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, ha capito attraverso quali canali stava passando la comunicazione degli studenti e ha usato YouTube per rispondere alla protesta, con un video che ha ottenuto più di 150mila visualizzazione. Durante le manifestazioni, il coordinamento che ha tenuto unite le proteste è passato di nuovo da internet. Ma questa volta attraverso le web radio degli atenei, che si sono unite in un unico network. Radio Bue, emittente dell’università di Padova, è stata la capofila. “Avevamo fatto un’esperienza simile dopo il terremoto dell’Aquila e anche un’iniziativa contro le mafie”, racconta Gioia Lovison, responsabile della stazione padovana che prende nome da Palazzo Bo’ dove ha sede l’ateneo. “Il giorno dei cortei nazionali, che hanno portato i manifestanti fino davanti alla Camera, abbiamo fatto una diretta collegati con 16 manifestazioni da nord a sud del Paese. Nel corteo romani, per Radio Sapienza, c’era Claudia Vivo. “Siamo quasi 10 mila”, ha raccontato Claudia ai microfoni di Radio Bue, “e altri ne arriveranno”. Soprattutto grazie al tam tam, che per la prima volta dal 1968 avviene in tempo reale, in Rete.
 


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