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"No ai brevetti". Ecco la Csr secondo Guna

Una volta si pensava che l’essere mancini, destri o ambidestri fosse una prerogativa tipica degli umani, ma così non è: studi scientifici hanno dimostrato che anche altri mammiferi, nonché uccelli, pesci e persino invertebrati presentano questa peculiarità, detta “lateralizzazione”…
Come dimostrano anche gli studi di Maria Magat e Culum Brown, la lateralizzazione consente al cervello di incanalare le informazioni, elaborando i compiti assegnati in modo quasi separato, e quindi più rapido: ciò genera un vantaggio cognitivo generale per l’individuo.
Perché allora ci sono esemplari “stravaganti”, programmati in modo diverso dalla popolazione generale?
Stefano Ghirlanda, un docente italiano che lavora all’Università di Stoccolma, utilizzando la Teoria dei Giochi ha costruito un modello matematico che dimostra come un soggetto riesce ad aumentare ulteriormente le proprie chance di sopravvivenza in un gruppo di suoi simili caratterizzati dalla medesima lateralizzazione, se si comporta in modo “anomalo” e “bizzarro” rispetto alla massa.
Il modello matematico dimostra che il raggruppamento in grado di resistere meglio alle pressioni evolutive è quello la cui maggioranza è lateralizzata nella stessa direzione, ma che include anche una piccola minoranza di soggetti che si oppone alla tendenza generale e percorre strade inedite.
Da sempre, la natura è di modello all’uomo. Sarebbe quindi assai interessante applicare i modelli elaborati dagli etologi sia alla Corporate Social Responsibility – che è la più evoluta disciplina per la creazione di contesti di comunicazione ad alto valore aggiunto – che alle strategie di comunicazione in generale.
Sono convinto da sempre dell’opportunità di adottare un modello di business e di comunicazione flessibile, che preveda il vantaggio di agire in maniera armonica in una certa fase di cooperazione, ma anche la capacità di andare controcorrente, scombinando le aspettative della controparte.
Un esempio di quanto affermato è il progetto “No Patent” di Guna Spa (www.guna.it/nopatent). Guna è l’azienda leader italiana nella produzione e distribuzione di farmaci di origine biologica, nonchè best-in-class nella CSR del suo settore grazie a un paniere assai articolato di iniziative, inclusa l’innovativa e controcorrente  scelta di rinunciare alla protezione brevettuale di ogni sua attuale e futura scoperta scientifica e innovazione di prodotto e di processo, strategia elaborata grazie a un’intuizione del suo fondatore e attuale Presidente, Alessandro Pizzoccaro. L’azienda ha inoltre rinunciato al copyright per tutte le pubblicazioni e ricerche scientifiche edite dalla propria divisione editoriale.
Esempio di pensiero lateralizzato in forma non convenzionale, Guna rappresenta “la minoranza” che sceglie di viaggiare in senso contrario alla massa, in un settore come quello farmaceutico sempre impegnato in una difesa a oltranza della proprietà intellettuale.
Guna ha fatto una scelta differente rispetto al gruppo: l’abbandono dell’asfissiante strategia di difesa brevettuale ha infatti liberato risorse finanziarie e professionali, ampliando i budget per la ricerca & sviluppo; inoltre la scelta di non brevettare prodotti, processi e scoperte, ha proiettato l’azienda verso una forma-mentis ancor più innovation-oriented, partendo dal presupposto che concentrarsi sui brevetti significa difendere il passato, mentre investire in ricerca equivale a “creare futuro”. Infine, questo criterio di tipo “copyleft” è decisamente più in linea con l’attuale sensibilità del web “2.0”, e con la crescente necessità di rapida veicolazione delle informazioni tipica del fluido mondo di internet nel nuovo millennio.
Di fatto, Guna non ha solo stimolato un dibattito in un settore “conservativo” come quello farmaceutico, ma ha ristrutturato il proprio modello di business in modo assai “lateralizzato”, e le performances dell’azienda, in costante crescita di fatturato e quota di mercato, sembrano premiare anche quest’iniziativa.




Csr, c’è un benchmark nella griffe Puma

LA SOSTENIBILITÀ DIVENTA LUSSO. VA BEN OLTRE L’EFFETTO COOP
Quando, la scorsa settimana, un marchio della grande distribuzione italiana, la Coop, ha lanciato una linea di abbigliamento sostenibile, qualche spazio sulla stampa se l’è guadagnato. E i titoli non lanciavano il messaggio: magliette e jeans accanto a salumi e formaggi. Bensì, sono parsi piuttosto centrati all’argomento: «La Coop si lancia nella moda (solidale)», riportava il Corsera, seppur la parentesi si presti a doppia interpretazione (elemento sminuente dal punto di vista della grammatica, ma evidenziante come risultato grafico).Questo porta in evidenza ancora una volta il paradosso in cui sembra rimasto intrappolato il lusso italiano, il quale rappresenta forse il caso più eclatante al mondo (per dimensioni e notorietà dei protagonisti) di ritardo sulle strategie di Csr (vedi articolo Made in Italy, sfilate senza sostenibilità).
Il mercato, viceversa, ormai da qualche stagione, è senza dubbio proiettato – o almeno sempre più ben disposto – verso la sostenibilità. Ed è francamente impossibile ritenere che, per quanto statico e arroccato, il sistema delle griffe nazionali abbia peccato di miopia al punto da non rendersene conto. È assai verosimile, invece, che questo trend “sociale” sia interpretato come un fenomeno di massa, inteso come di largo consumo. Da Coop, appunto. Magliette, salumi e formaggi.Quanto questa impostazione mentale sia errata, invece, lo dimostra un marchio di abbigliamento sportivo: Puma. Un brand, dunque, che per concetto di partenza è in effetti rivolto a un mercato “vasto, di fascia generica, non elitario”. Ma è proprio perché appartenente a questo segmento dell’abbigliamento, che rappresenta un ottimo esempio di upgrade sostenibile.
Puma, come altri marchi non elitari (vedi articoli su Zara ed H&M), ha compreso che la componente Csr gioca un ruolo importante nell’immaginario del (grande) pubblico. Il gruppo tedesco aveva probabilmente strada facile nel mantenere a livello minimo le proprie politiche di compliance agli standard internazionali. Questo, se avesse nel contempo mantenuto l’impostazione di marchio “vasto, di fascia generica, non elitario”. Al contrario, Puma ha intrapreso, da almeno un decennio, una politica di qualità e differenziazione che ne ha fatto una sorta di brand, sportivo sì, ma di lusso. Al punto da finire preda dell’acquisizione da 5,3 miliardi di euro, nel 2007, del colosso mondiale Ppr (lo stesso, per intendersi, che controlla Gucci).
Per l’azienda tedesca, uno dei punti cruciali al fine di scalare la fascia del lusso, era inevitabilmente la qualità del prodotto. E poiché Puma è costretta a misurarsi con catene di fornitori localizzate in Paesi a forte rischio sostenibilità (sociale, ambientale, lavorativa), il controllo su questa catena era il punto debole. Si parla di decine se non centinaia di fornitori. A ognuno dei quali, è necessario sottoporre liste di compliance spesso differenti tra loro.«Dopo dieci anni di tentativi, Puma ha chiesto aiuto», ha raccontato alla fine di gennaio Nelmara Arbex, deputy chief executive di Global Reporting Initiative (Gri), la principale organizzazione internazionale che promuove modelli di misurazione della sostenibilità delle aziende. Arbex ha parlato in occasione del Forum Abi Csr 2012, raccontando come «l’azienda tedesca si sia trovata nel paradosso di scoprire ogni anno, e per ogni Paese, la necessità di allungare la lista delle varibili specifiche da sottoporre a quel fornitore o quell’altro. Serviva uno standard. Abbiamo lavorato assieme quattro anni. Adesso, ce l’hanno».
Nel maggio del 2010, dopo 10 anni di tentativi, Puma ha annunciato di aver raggiunto un accordo con venti fornitori chiave, concentrati soprattutto nel Far East (Vietnam, Cina, Cambogia), per avviare, a partire dal 2011, la redazione e la pubblicazione di bilanci di sostenibilità secondo i parametri Gri G3. Nello stesso anno, ha creato la Global Action Network in the Supply Chain, il cui obiettivo è fornire supporto alle grandi aziende nella gestione della Csr lungo la propria catena di fornitura, attraverso training basati sempre sui principi Gri. In questo ambito, nel 2011 Puma è stata in grado, per la prima volta, di pubblicare un “Bilancio dei profitti e delle perdite ambientali”, dando un valore monetario agli impatti sull’ambiente (il 94% dei quali arriva lungo la catena dei fornitori).Particolare non secondario: il report in questione è all’interno del primo bilancio integrato, realizzato unendo il bilancio fianziario con quello di sostenibilità.
Ebbene, cosa ha ottenuto Puma, oltre al pieno controllo sulla catena di produzione? In primo luogo, ha fidelizzato e sdoganato i propri fornitori. Diventa più difficile affermare, sprezzantemente: è fatto in Cina. Per contro, ha fatto un benchmark del proprio brand. Le scarpe da tennis rosse non saranno più unicamente quelle che indossa il testimonial del marchio. Saranno anche un’idea di sostenibilità. Un’idea di sostenibilità che viene indicata come esempio e presa come termine di raffronto quando si parla di Csr. Non solo nel Forum Abi di Roma (dove, per inciso, non c’erano rappresentanti del lusso nazionale). Ma a livello mondiale. Quando, in febbraio, la Città di New York e i suoi fondi pensionehanno di fatto sfiduciato i grandi gruppi di tecnologia (Dell, Intel e Motorola), imponendo loro di adeguare i propri standard di sostenibilità nella catena di fornitura, hanno citato come esempio possibile quello di un gruppo di abbigliamento: Puma. Non è un messaggio da poco.Insomma, tutto questo è il contrario dell’interpretazione: sostenibilità = prodotto di massa. La moda sostenibile non necessariamente deve rilegarsi tra piedine e parmigiano. Anzi. Puma dimostra che anche un concetto da grande pubblico può essere interpretato per fare selezione, per raggiungere la dimensione di élitè. Paradossalmente chi, come le griffe italiane, già parte da una situazione di élitè, dovrebbe essere il primo a comprenderlo.




Le imprese investono in Csr, ma i bilanci sono troppo autoreferenziali

Moltiplicano le iniziative a favore dei dipendenti, rendicontano attraverso il bilancio sociale, si impegnano per il territorio, l’ambiente, l’arte e la cultura. Sono le imprese socialmente responsabili che in Italia nel 2011 hanno investito in media 210mila euro (nel 2009 la cifra media investita era di 161mila euro). Insomma, oggi le aziende non si preoccupano più solo di comunicare informazioni finanziarie ma anche di raccontare cosa fanno per l’ambiente e la società ma i bilanci di sostenibilità sono ancora troppo autoreferenziali.
I dati parlano chiaro: secondo il rapporto biennale Swg per Osservatorio Socialis condotto su 823 aziende con più di 100 dipendenti, nonostante la crisi, nel 2011 il 64% delle aziende in Italia ha investito in Csr e per il 67% è uno strumento che serve a rafforzare il rapporto con i dipendenti. Sorprendente quindi il fatto che c’è un 27% di imprese che fa Csr ma non lo comunica ai propri dipendenti.
Eppure la legittimazione della dimensione sociale dell’impresa passa proprio attraverso la comunicazione e lo strumento per eccellenza è il bilancio di sostenibilità che serve per valutare le performance sociali, ambientali ed economiche dell’impresa e apportare i miglioramenti. Dall’inizio degli anni 2000 ad oggi spiega all’Adnkronos, Andrea Casadei, direttore della ricerca di Bilanciarsi, network che opera in merito alle tematiche inerenti la Csr, ”il fenomeno della rendicontazione non finanziaria è andato aumentando in maniera incrementale”.
Il 37% delle aziende dichiara di redigere il bilancio sociale che si focalizza solo sui risultati dell’attività aziendale nella loro dimensione sociale, ambientale ed etica. Il 28%, invece, redige il bilancio di sostenibilità che è più completo in quanto comprende non solo la dimensione ambientale e sociale ma anche quella economica. Il 23% li redige entrambi. Nonostante l’impegno, non mancano le critiche relative all’effettiva utilità delle informazioni presentate. I bilanci di sostenibilità, infatti, vengono giudicati ancora troppo autoreferenziali.
Ognuno fa per sè e questo non permette una comparabilità dei contenuti. Nella rendicontazione di sostenibilità, infatti, non c’è una uniformità degli indicatori presi in considerazione e questo, spiega Casadei, ”determina una compresenza di livelli di approfondimento molto diversi a seconda dell’ambito trattato e dell’impresa in oggetto”. Per questo un progetto dell’Istat e del Csr manager network ha individuato 10 indicatori di sostenibilità da riportare nei bilanci volontari delle imprese che, se adottati potrebbe consentire per la prima volta di misurare e comparare le performance ambientali, sociali e di governance delle aziende italiane.
Questi indicatori vanno dal valore economico diretto complessivamente generato al consumo diretto di energia, agli investimenti per la tutela dell’ambiente, fino alle iniziative a favore dei dipendenti. Per soddisfare la richiesta di informazioni da parte dei mercati, dei regolatori e della società civile, secondo Casadei, “c’è, infatti, bisogno di un framework che supporti il futuro sviluppo della rendicontazione, riflettendo questa complessità crescente”.
Sul futuro dei bilanci di sostenibilità, Casadei non ha dubbi: “reporting integrato e il webreporting. Mezzi che permettano l’interconnessione e la comparabilità di tutte le informazioni economiche, ambientali, sociali e di governo”. La rendicontazione integrata, spiega il direttore della ricerca di Bilanciarsi, “porta ad una spiegazione più completa delle performance rispetto alla rendicontazione tradizionale. Rende visibile l’uso che un’organizzazione fa delle risorse, e la sua dipendenza da queste, che sono i ‘capitali’ (finanziario, umano, intellettuale, naturale e sociale) e l’accesso dell’organizzazione a queste risorse e l’impatto che ha su di loro”.
Recentemente i ministeri del Lavoro e delle politiche sociali e dello Sviluppo economico hanno attuato il piano d’azione nazionale sulla Responsabilità sociale d’impresa (Rsi) 2012-2014 che mira a fornire orientamenti condivisi per le azioni future. Il piano, oltre a porsi l’obiettivo di aumentare la cultura della responsabilità, vuole contribuire al rafforzamento degli ‘incentivi di mercato’ che vanno dalla defiscalizzazione di alcune spese ad albi che premiano le aziende responsabili, fino ad attribuire punteggi aggiuntivi nelle gare di appalti pubblici alle imprese che si sono distinte in questo campo.




Green Globe Banking: come le banche potrebbero spingere l’economia verde

In tempo di crisi, tra criticità nell’accesso al credito e sviluppo dei mercati della green economy, quali sono le soluzioni per “fare banca” correttamente?
Banche e imprese hanno compreso che la green economy rappresenta una concreta opportunità di business e viaggiano alla stessa velocità o restano sfasate? Le imprese hanno a disposizione gli strumenti finanziari per trasformare queste opportunità in risultati concreti? Le banche si sono interrogate sul vantaggio di aggiornare il loro modello di valutazione del merito creditizio al mondo “green”? Quali aspetti, in definitiva, limitano un dialogo efficiente tra mondo bancario e aziende della green economy? Sono alcune delle domande emerse nella conferenza di Green Globe Banking della giornata di giovedì 13 giugno all’hotel NH President di Milano.
Valore ambientale e valore economico si presentano, del resto, come due facce della stessa medaglia. E la banca, volendo, è in grado di orientare i comportamenti, ad esempio attraverso lo sviluppo di prodotti e servizi bancari che possano favorire consumi intelligenti ed ecocompatibili. Oggi la banca ha l’opportunità di sviluppare un percorso strategico in cui al profit della stessa si sovrappone il profit per il consumatore, le comunità e i territori in termini di una maggior qualità del contesto ambientale di cui fanno parte. È una logica di scambio in cui all’utilizzo dei servizi della banca, coinvolta nella tutela dell’ambiente, corrisponde la prospettiva per il consumatore di un vantaggio non solo finanziario e non solo nel breve periodo. “Per questo nella nostra idea il Green Banking non è un mero progetto di responsabilità sociale d’impresa“, precisano gli organizzatori dell’incontro milanese.
“Il green banking diventa dunque un frame concettuale, il fondamento teorico, il punto d’aggancio di una cultura d’impresa entro cui si formano le strategie e le attività di business d’impresa”, racconta Marco Fedeli il fondatore dell’iniziativa. “Siamo alla settima edizione della Conference – spiega – eppure nessuno ci avrebbe scommesso qualche anno fa. Il nostro target sono le famiglie. L’80% degli italiani pensano che la problematica ambientale sia una priorità, quindi sbaglia chi pensa che ci rivolgiamo a una élite”. Tanto più che il giro d’affari della green economy è 8 miliardi, non briciole, uno spazio enorme per il business. “Dobbiamo poi tenere sempre presente che la green economy non è solo energia, ma smart city, agroalimentare, turismo sostenibile ed edilizia ecoefficiente“, ricorda Fedeli. “Pensiamo che il mondo della green economy e delle banche debba trovare il modo di dialogare e rispetto agli inizi qualcosa è cambiato”. L’apertura arriva da Giuseppe Bonini, della Direzione Marketing Imprese, Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, che accetta la sfida: ”cosa può dunque fare una banca?”. E’infatti evidente che al di là del dialogo e del confronto serve definire azioni e strumenti precisi, per essere incisivi. “Un nuovo approccio di marketing in cui la logica economica si coniughi con l’attenzione e il rispetto dell’ambiente è il nostro obiettivo”, interviene Bonini. “Il sistema bancario può e deve assumere oggi un ruolo fondamentale nell’incentivare l’adozione di pratiche virtuose in campo ambientale, promuovendo temi della “finanza ecocompatibile”. Ormai siamo consapevoli che un’impresa orientata allo sviluppo sostenibile, sulla base di una visione di lungo termine, acquisisce una maggiore potenzialità di innovazione e di gestione del cambiamento. Anche la Commissione Europea gioca un ruolo importante, finanziando progetti di sensibilizzazione a queste tematiche. Infine, l’Unione Europea ha anche la possibilità di sviluppare azioni rivolte specificamente al settore bancario. Il progetto Green Banking For Life, per esempio”.
La giornata si è chiusa infatti con la cerimonia di premiazione del 6° Green Globe Banking Award. Il premio per le best practices del sistema bancario e finanziario in tema di impatti ambientali, si è svolto alla presenza di Marco Flavio Cirillo, Sottosegretario del Ministero dell’Ambiente. Lo scettro va ogni anno alla banca in grado di presentare la miglior iniziativa attraverso esperienze concrete, prodotti, progetti, servizi finanziari e politiche aziendali dedicate al “green”. Per l’edizione 2013 sul podio Banca Intesa Sanpaolo con il progetto “Filiale ad energia quasi 0″.
Quest’anno, invece, il Premio Speciale per gli Impatti Diretti, riservato alla Banca che meglio di tutte ottimizza i propri consumi interni, è stato vinto dalla Banca di Credito Cooperativo di Castagneto Carducci con il progetto “Tu, la tua Banca e il Territorio – Green Deposit”.
Il Premio Ad Honorem dell’organizzazione è assegnato, in questa edizione, alla Global Alliance for Banking on Values, un network indipendente di banche “innovative” con sede in Olanda che raggruppa 25 istituti bancari in Asia, Africa, Australia, America Latina,Nord America e Europa leader in fatto di sostenibilità ed etica. Tra gli associati a più spiccata vocazione ambientale, l’inglese Ecology Building Society, la statunitense First GreenBank, la Clean Energy Development Bank in Nepal, la californiana New Resource Bank e l’italiana Banca Popolare Etica, rappresentata dal direttore generale Mario Crosta, che ritira il premio per il network.




Capitalismo da reinventare?

IL CAPITALISMO È SOTTO ASSEDIO E OCCORRE REINVENTARLO.
Lo sostiene, nell’ampio saggio che caratterizza il numero di gennaio 2011 di Harvard Business Review, quello che oggi può essere a buona ragione considerato il maggiore pensatore contemporaneo di business e management: Michael Porter (con Mark Kramer). Ma è vero che il capitalismo è sotto assedio? E, se lo è, cosa significa “reinventare il capitalismo”?
Non c’è dubbio che la crisi finanziaria del 2008-9 abbia scatenato un’ondata di critiche su un certo modo di gestire le imprese, le istituzioni economico-finanziarie e i mercati, ma è forse più appropriato dire che la grande maggioranza delle critiche si sono appuntate più su un capitalismo selvaggio e senza scrupoli che sul capitalismo in quanto tale. Se non altro perché, almeno in questo frangente storico, alternative al modo di produzione capitalistico non ne esistono, dato che la vera opzione alternativa dell’economia centralizzata e pianificata è tramontata vent’anni fa e che gli indirizzi intra-capitalistici di stampo dirigista vengono perseguiti in modo essenzialmente strumentale al contenimento delle emergenze.
È più vero, come infatti sostiene Porter, che il mondo delle imprese sia stato investito da una valanga di critiche e che di questo abbiano sofferto, e stiano tuttora soffrendo, sia le imprese colpevoli di comportamenti deviati, sia quelle incolpevoli. Nei fatti, l’opinione pubblica opera poche distinzioni e mette nello stesso barile banche e società finanziarie, imprese di produzione e di servizi, aziende di grande e di piccola dimensione. La critica è principalmente una ed è quella di realizzare spesso, anche se non sempre, profitti a spese della collettività. Questo sentimento è molto diffuso e accoglie sia spinte razionali sia impulsi irrazionali, ma il risultato è comunqueche il mondo del business ha perso legittimità e la conseguenza è spesso che i politici cavalcano l’onda emotiva e tendono a stringere i freni della libertà economica e di iniziativa. Il che è bene quando si concentra sulle pratiche illecite, ma è molto male quando impastoia quelle legittime e lecite. Così le imprese, sottolinea Porter, si trovano ingabbiate in un circolo vizioso.
Una parte “sostanziale” della responsabilità della situazione pesa, secondo l’autore, proprio sulle imprese, «intrappolate in un approccio superato alla creazione del valore» che si è imposto negli ultimi trent’anni. Un approccio miope, focalizzato sul breve termine, incurante dei veri bisogni dei clienti e dei fattori di più ampia portata che possono garantire un successo di lungo termine. Quali fattori? L’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali, la trascuratezza rispetto all’ambiente fisico, l’indifferenza per la salute finanziaria dei fornitori-chiave e per il disagio delle comunità ospitanti, e altro ancora. Ma non è solo responsabilità delle imprese: amministrazioni pubbliche e società civile hanno esacerbato il problema, chiedendo spesso al mondo del business di risolvere le questioni sociali a proprie spese. In questo senso il capitalismo è sotto assedio; in questo senso le imprese vengono messe in mora e, almeno in parte, delegittimate. Ed è per questo che, sostiene Porter, occorre“reinventare il capitalismo”. Qual è dunque la possibile via d’uscita?
Le aziende, afferma Porter, devono attivarsi per riconciliare business e società e la strada da percorrere è quella di “creare valore condiviso”. L’espressione non è immediatamente chiara e va certamente spiegata per evitare che venga bollata come puramente utopistica. Di illusorio, nella visione porteriana, non c’è infatti nulla, anzi, è la concretezza che domina la scena. La soluzione del valore condiviso comporta che la creazione di valore economico avvenga in modalità tali da creare valore per l’azienda ma anche per la società, rispondendo a un tempo alle necessità dell’azienda e alle esigenze di tipo sociale.
La creazione di valore condiviso riconosce che non sono i bisogni economici convenzionali a definire i mercati, bensì i bisogni della società. Riconosce che i danni o i problemi sociali che un’azienda crea all’esterno si ribaltano inesorabilmente all’interno: il deterioramento dell’ambiente fisico o sociale fuori dall’azienda la rendono meno capace di creare valore e competere; al contrario, realizzare i fini dell’impresa in coerenza con l’esterno garantisce risultati migliori e più sostenibili all’interno.
E non è una questione di tipo redistributivo. L’impresa non deve proporsi di distribuire più valore all’esterno, ad esempio intaccando i profitti o compromettendo gli investimenti, poiché questa è una strada che porta diritti al suicidio. Al contrario, creare valore condiviso significa, per esempio, non rendersi disponibili ad accettare prezzi più alti da fornitori deboli e inefficienti, ma aiutarli a investire e a diventare più competitivi e profittevoli, creando assieme maggiore valore per tutti.
In buona sostanza, è la tesi coraggiosa di Porter, la competitività di un’impresa e il benessere della comunità circostante sono strettamente interconnessi. Così come l’azienda necessita di una comunità in buona salute per poter usufruire di un personale competente, di un ambiente in grado di investire e innovare e di una domanda effettiva per i suoi prodotti, allo stesso modo la comunità ha bisogno di imprese di successo per mettere a disposizione dei suoi componenti posti di lavoro e opportunità per creare ricchezza e benessere. E ambedue necessitano di politiche pubbliche che regolino in modo adeguato, incentivando e non frenando le interconnessioni globali nel mercato.
Questa la visione di Porter, che va forse considerata più una rivisitazione che una reinvenzione del capitalismo. Si pongono, a questo punto alcune domande ineludibili: il mondo è pronto per questa nuova visione dei ruoli rispettivi di imprese, pubbliche amministrazioni e società civile? Ciò che alcune imprese più consapevoli, alcune amministrazioni più illuminate e alcuni ambiti territoriali più avanzati stanno realizzando rientra in una prospettiva come quella tracciata? E nell’ambito del mondo delle imprese e del sistema politico italiano esistono le premesse per accogliere – o almeno iniziare a considerare – la proposta porteriana della creazione di valore condiviso?
L’articolo di Porter apre una discussione indispensabile nel mondo attuale che cerca di trovare, all’indomani della crisi più grave della storia economica, le forze e i motivi di una ripresa e Harvard Business Review si propone di stimolare su questi temi un dibattito allargato che possa contribuire a rendere attuale e concreta la visione di creazione di valore condiviso, nelle forme e nelle metodologie che appariranno più adatte allo scopo.